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1 INTRODUZIONE «Chiedo una grazia che, temo, non mi verrà concessa: di non giudicare, cioè, un lavoro di vent’anni dalla lettura di un momento»

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INTRODUZIONE

«Chiedo una grazia che, temo, non mi verrà concessa: di non giudicare, cioè, un lavoro di vent’anni dalla lettura di un momento»1 è ciò che ci chiede Montesquieu in

apertura alla sua più grande e importante opera: lo Spirito delle leggi. Ed è questa l’esatta indicazione che ci siamo proposti di seguire e assecondare da quando la nostra attenzione si è portata sul pensiero di questo autore. L’interesse per Montesquieu ci ha condotti a domandarci, all’interno di un ambito critico in pieno sviluppo e ancora lontano dall’esaurirsi, se fosse possibile individuare, nel suo pensiero in generale, ma principalmente all’interno dello Spirito delle leggi, una traccia di analisi che dalla ricerca filologica sul testo conducesse verso la costruzione di una teoria generale. Nel nostro caso, abbiamo cercato tracce, dimostrazioni e prove di una teoria generale che riguardasse la storia e il suo cambiamento.

La domanda è sorta spontaneamente dal momento che abbiamo constatato che la classificazione del pensiero di Montesquieu è potenzialmente equivoca: nel migliore dei casi, gli si attribuisce la proprietà di un pensiero irrisolto e incompiuto, nel peggiore, invece, quella di un pensiero caotico, confuso e disorganico. È indubbio che lo Spirito delle leggi sia un’opera complessa, eterogenea e di difficile classificazione a causa delle innumerevoli tematiche che in essa vengono affrontate, ma l’obiettivo che ci siamo posti è quello di contraddire per quanto possibile queste tesi, forti della convinzione che un lavoro di ricerche, studi e rielaborazioni lungo vent’anni sia difficilmente frutto della combinazione casuale e disorganizzata di teorie semplicemente giustapposte senza un preciso criterio d’ordine. La critica specializzata è ormai concorde nel conferire al pensiero dell’autore una propria coerenza interna; le differenze tra le diverse interpretazioni, però, si manifestano quando l’oggetto in analisi non è la coerenza interna di un pensiero, ma la sua compiutezza. Non si discute se il pensiero di Montesquieu sia o meno razionale e frutto di un meticoloso lavoro di ricerca, ma si mette in discussione la possibilità di considerarlo in qualità di pensiero sistematico e risolto.

L’oggetto del contendere si anima intorno al presupposto che lo Spirito delle leggi sia un’opera la cui primaria caratteristica e qualità distintiva sia la complessità. Dunque, proprio intorno al concetto di complessità, la critica di Montesquieu si divide: da un lato, si

1 EL, Prefazione, p. 897. Si consideri da questo momento come edizione di riferimento D. Felice (a cura di), Montesquieu. Opere complete (1721-1754), Bompiani, Milano 2014.

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pensa che un pensiero tanto complesso e articolato nelle sue parti e così eterogeneo nelle sue tematiche non possa mai per sua natura considerarsi compiuto; dall’altro, si ritiene, invece, che, quantomeno, sia possibile procedere per tentativi di generalizzazione, universalizzazione e risoluzione della complessità che caratterizza questo pensiero. La nostra prospettiva si vuole situare in una sede intermedia tra queste due opposte alternative, condividendo con la seconda lo spirito sistematico che la connota, ma non sottovalutando l’attenzione filologica suggerita dalla prima.

Il lavoro è stato suddiviso in quattro capitoli, ognuno caratterizzato da un diverso nucleo tematico. Ogni nucleo è stato individuato seguendo come linea guida l’andamento naturale dell’opera stessa; non abbiamo riorganizzato e riordinato la sua struttura originale, ne abbiamo voluto rispettare l’ordine. Riteniamo che rispettare l’ordine naturale degli oggetti così come vengono presentati da Montesquieu risponda esattamente alla doppia esigenza di rispettare, da un lato, la volontà stessa dell’autore, e dall’altro, di presentare un lavoro di tesi magistrale quanto più coerente e ordinato possibile. Soltanto in sede di conclusione ci siamo spinti, attraverso una chiave di lettura trasversale, da una primaria destrutturazione dell’opera verso una conseguente rielaborazione dei concetti secondo la logica individuata per mezzo della scelta di una particolare chiave di lettura: quella della storia. Nonostante la scelta di seguire lo sviluppo progressivo e naturale dell’opera, abbiamo in ogni caso predisposto che ogni capitolo trattasse solo di quelle parti dello Spirito delle leggi che sono specifiche e utili al nostro lavoro. Ogni capitolo, dunque, oltre a rappresentare uno stadio dello sviluppo progressivo degli argomenti affrontati nell’Esprit des lois, contiene anche nodi concettuali che trascendono il contenuto particolare del tema specifico e percorrono trasversalmente, appunto, l’intera opera.

Ognuno dei temi presentati nei capitoli viene affrontato, dunque, seguendo un doppio criterio: il primo, un criterio che potremmo definire d’ordine, presenta il materiale della trattazione di Montesquieu secondo la logica prescelta dall’autore stesso e senza particolari riferimenti esterni, il secondo, invece, un criterio per così dire di oggettività, con cui ci si propone di rielaborare il materiale di ricerca afferente al testo in una chiave teorica.

Il capitolo primo, allora, presenterà i temi della natura e del principio dei governi, due temi fondamentali del pensiero politico di Montesquieu, prima nella loro specificità e differenza di ognuno rispetto all’altro, poi, invece, nell’influenza reciproca che hanno l’uno sull’altro; individuando, dunque, un rapporto di articolazione complesso ma conoscibile che, a nostro giudizio, è capace di riflettere un generale movimento interno proprio di ogni società, a prescindere dalle caratteristiche specifiche del suo governo.

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Il secondo capitolo si sviluppa intorno a quelli che abbiamo individuato come gli “altri fattori” che, oltre a natura e principio di un governo, determinano allo stesso tempo, e forse in maniera ancora più determinante, la conformazione particolare e specifica di ogni Stato; il primo paragrafo tratta del primario e fondamentale fattore determinante individuato da Montesquieu, il clima, ricostruendo le sue specifiche influenze in quella che abbiamo indicato come teoria del clima. Il secondo paragrafo, invece, prende in esame il concetto montesquiviano di spirito generale della nazione, considerandolo come la risultante storica complessiva di tutti i fattori, sia fisici sia morali, che determinano la formazione di ogni singola società. Designiamo come storico lo spirito generale della nazione in forza della sua completa aderenza alle condizioni materiali e storiche sotto le quali esso si forma e si esprime; se ne metteranno in evidenza i tratti particolari e decisivi che lo differenziano dal concetto in parte simile di principio del governo, causa motrice della nazione.

Il capitolo terzo affronta i libri finali dello Spirito delle leggi, che comunemente vengono indicati come i “libri storici”. Dal Libro XXVII al XXXI, infatti, il tema della trattazione si sposta sull’analisi della storia delle istituzioni occidentali, così come si sono avvicendate a partire nello specifico dall’epoca della Roma arcaica fino al passaggio alla caduta dell’Impero Romano d’occidente e il conseguente passaggio nel cosiddetto periodo feudale. Il fuoco dell’argomentazione si situa al livello delle leggi e dei codici istituzionali che svolgono, nei confronti della conformazione particolare e tipica di ogni nazione e del suo relativo spirito generale, la funzione di segni superficiali e di cristallizzatori di qualcosa che, senza di essi, sarebbe ancora più complesso far emergere. Il secondo paragrafo di questo capitolo, che tratta delle istituzioni feudali e nello specifico di quelle francesi, oltre alla loro semplice storia, affronta questioni di natura prettamente storiografica. Montesquieu, infatti, si inserisce qui nel contesto del dibattito a lui contemporaneo sulle diverse possibilità di interpretare il fenomeno del passaggio dall’età della Roma imperiale al nuovo assetto dell’Europa feudale. In una prospettiva mediana tra le posizioni dell’abate Dubos e di Boulainvilliers, Montesquieu si inserisce nel dibattito storiografico analizzando l’arrivo nei territori romani delle popolazioni barbariche allo stesso tempo in termini sia di scontro violento sia di miglioramento storico rispetto a un’epoca passata in fase di rovina.

Il quarto capitolo di questo elaborato, infine, si presenta come un capitolo essenzialmente diverso da quelli che lo hanno preceduto. Con il capitolo terzo, infatti, si è conclusa l’analisi testuale e più propriamente filologica dello Spirito delle leggi utile al nostro tema. Vedremo, allora, che questo capitolo svolgerà una duplice e necessaria funzione: la prima, come il luogo in cui la speculazione teorica e il rigore filologico del testo

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cercano un punto di contatto attraverso l’analisi di categorie concettuali notevoli, la seconda, in qualità di conclusione di una tesi la cui coerenza interna, al momento del terzo capitolo, non emerge ancora del tutto. Attraverso le categorie di libertà, conservazione e corruzione e, infine, di moderazione, si giunge, secondo il nostro giudizio, alla possibile strutturazione e realizzazione di una teoria della storia originale e propria del pensiero di Montesquieu. Una storicità che si presenta, infine, come articolazione tra i momenti in cui le forme di governo resistono al divenire e gli avvenimenti che ne determinano la trasformazione.

Ringrazio il Professor Giovanni Paoletti e il Professor Alfonso Maurizio Iacono per la direzione attenta e il sostegno nel corso di questa ricerca.

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CAPITOLO PRIMO

Natura e principio del governo. L’articolazione di un rapporto

Nella Préface all’Esprit des lois, Montesquieu invita i lettori a trattare la sua opera come un intero organico, come un tutto che si può comprendere solo se abbracciato completamente, evitando giudizi affrettati e conclusioni parziali. Nell’economia di un lavoro di ricerca su una possibile teoria della storia nel pensiero di Montesquieu, questo invito, che si presenta sia come consiglio sia come monito, risulta utile e produttivo, ma, contemporaneamente, rende l’atto di inizio più complesso e mette a rischio proprio quella imparzialità che l’autore reclama.

A un così grande esempio di razionalità applicata ai fenomeni sociali e politici quale è lo Spirito delle leggi ci si può approcciare solo gradualmente; non anticipando i giudizi e non presupponendo nulla perché l’Esprit des lois, e lo dice Montesquieu stesso, è un’opera che si legge necessariamente dal principio alla fine, se vogliamo coglierne quello che egli chiamerebbe propriamente lo “spirito”. È un’opera che cresce, che cambia, ma che torna anche su se stessa, che affronta gli argomenti da ogni punto di vista, di volta in volta scelto e isolato dagli altri, ma che mantiene questo distacco solo momentaneamente, in quanto si riscoprono mai del tutto separabili dagli altri. Allora forse sarà proprio l’ordine degli argomenti così come sono presentati dal filosofo bordolese2 nella sua opera a darci il motivo

e il pretesto per cominciare questo lavoro, le cui finalità più profonde emergeranno nel corso del suo svolgimento.

I temi della natura e del principio del governo si presentano al lettore rispettivamente nel Libro II e nel Libro III e vengono trattati in tutti i capitoli che compongono questi libri dal punto di vista del rapporto che essi hanno con le leggi particolari che caratterizzano ogni differente tipologia di governo proposta. Dal posizionamento nella struttura dell’opera di questi argomenti si può dedurre sicuramente l’importanza che si vuole attribuire loro, ma si vedrà in che misura questa posizione di preminenza dei concetti di natura e principio del governo sarà in parte mantenuta ma in parte anche superata. Alla supposta preminenza dei concetti di natura e principio del governo, si impone alla mente del lettore almeno un concetto sugli altri, ed è la nozione di legge.

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È proprio alle leggi e a quello che dovrebbe rappresentare il loro spirito che Montesquieu dedica il lavoro più grande di tutta la sua vita, che lo tiene impegnato almeno dal 1736 fino al 1748, anno di pubblicazione della prima edizione, alla quale seguirono aggiornamenti continui che Montesquieu portò avanti fino alla morte avvenuta a Parigi nel 1755. Di fondamentale importanza quindi si rivela essere il Libro I dello Spirito delle leggi, dedicato interamente alla definizione del concetto di legge in generale e ai rapporti che le leggi hanno, o devono avere, con i diversi esseri. La definizione vera e propria di legge è assai nota ma merita di essere citata e spiegata adeguatamente, in quanto nozione imprescindibile forse per comprendere tutto ciò di cui verrà discusso in seguito.

Nel Libro I, capitolo primo, in apertura dell’opera, si legge: «le leggi, nel loro più ampio significato, sono i rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose»3. E

Montesquieu prosegue: «e, in questo senso, tutti gli esseri hanno le loro leggi: la Divinità ha le sue leggi, il mondo materiale ha le sue leggi, le intelligenze superiori all’uomo hanno le loro leggi, le bestie hanno le loro leggi, l’uomo ha le sue leggi»4. Su queste poche righe si

sono confrontati tutti gli studiosi di Montesquieu, sia filosofi, sia letterati, sia giuristi. Dire che le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose, e che sono tali nel loro significato generale, comporta due diverse conseguenze che aprono differenti tipi di questioni: la prima pone il problema di stabilire su quale termine è, per così dire, indispensabile porre l’accento per poterne comprendere il senso; su rapporti, su necessari, o sull’espressione singolare che è la natura delle cose, la seconda questione, invece, si allontana dal merito della definizione in sé e porta a considerare l’espressione “nel loro significato generale” come una dichiarazione ben più importante di una semplice espressione di specificazione, ma che sta a precisare fin dal principio l’esistenza di diversi ordini di leggi. Del secondo problema si parlerà in seguito; in questo contesto, invece, l’attenzione è tutta sui termini che compongono la definizione e sul compito necessario di definire anch’essi, se il fine è quello di comprenderla.

Infatti, come sostiene Domenico Felice5, la critica si è sempre divisa, e tutt’oggi si

divide, su quale sia il termine della definizione che la caratterizza; ovvero su come stabilire tra i termini una sorta di gerarchia in modo da affinare l’analisi dell’opera da un unico punto di vista così stabilito. Ed è vero che, in base a quale termine si decide di privilegiare, il senso profondo della definizione intera cambia insieme a esso. Se si decide di porre l’accento sul termine rapporto, ad esempio, si mette in evidenza l’inversione di tendenza di

3 EL, I, 1, p. 905. 4 Ibid.

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Montesquieu rispetto alle discussioni in merito alla definizione di legge fino ad allora esistenti che vedevano nelle leggi una componente coercitiva e violenta. Definire la legge come un rapporto, infatti, presuppone immediatamente la compresenza di elementi diversi che, per sussistere, devono necessariamente legarsi gli uni con gli altri. Da questo punto di vista, il termine “necessario” riferito ai rapporti assume un significato meno pregnante; starebbe, per così dire, a significare che non esiste legge al di fuori del rapporto.

Sul versante opposto della critica, invece, è possibile porre l’accento non sul termine rapporto, bensì proprio sul termine necessario. Domenico Felice, sempre nella suddetta Introduzione, risulta essere molto severo nei confronti di chi si avvale di questa seconda chiave di lettura. Il problema maggiore risultante da tale interpretazione, infatti, secondo Felice, è che, facendo leva sulla preminenza del concetto di necessità nella definizione dei rapporti che compongono le leggi, ci si espone al rischio di portare il pensiero di Montesquieu alla deriva di un mero principio di determinismo o, cosa peggiore, di finalismo, che comporterebbe il completo appiattimento del suo pensiero su quello di un altro grande filosofo della modernità da cui Montesquieu è stato sicuramente influenzato: Baruch Spinoza. Ora, si vedrà nel corso di questo lavoro come, di fatto, a parere nostro, questa perentoria critica da parte di Felice della possibilità teorica di interpretare la definizione di legge in Montesquieu anche alla luce di una sottolineatura del concetto di necessità, possa essere in parte e moderatamente rivista a favore proprio di questo secondo filone interpretativo che vede forse nel lavoro di Louis Althusser Montesquieu: la politica e la storia6, un contributo determinante, sebbene fortemente interpretativo e difficilmente

inscrivibile nel novero dei contributi più accademici e specialistici della critica su Montesquieu.

Tuttavia, la propensione di Felice a considerare primariamente la legge in qualità di rapporto piuttosto che la legge come un dover essere necessario, è giustificata non solo dalle innumerevoli emergenze di questo concetto in tutto il corso dello Spirito delle leggi, ma anche, e soprattutto, dal Libro I, capitolo primo stesso, dal luogo in cui Montesquieu completa la definizione di legge affermando che tutti gli esseri sono soggetti a leggi. Questo dato di specificazione, apparentemente banale, ci fornisce invece tutti gli strumenti per comprendere il vero significato di legge-rapporto che fa da conduttore nelle diverse argomentazioni dell’autore. Affermare, infatti, che tutti gli esseri elencati, ossia la Divinità, il mondo materiale, le intelligenze superiori, gli animali e, infine, l’uomo, sono soggetti tutti a leggi proprie e a leggi che sono leggi-rapporto, significa di fatto affermare che ogni

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essenza, ogni termine della serie, non rappresenta un nucleo a sé stante, ma ha valore, ha una sua specifica funzione, solo quando lo si considera in relazione agli altri termini della serie. Quindi, più che al termine “necessario”, al quale comunque non si vuole negare importanza, guardare con più interesse al termine “rapporto” e alla serie di oggetti compongono la “natura delle cose”, ci proietta già nell’ottica dell’impossibilità, sia pratica sia teorica, di considerare qualche essenza al di fuori della relazione che la connette strettamente agli altri fattori, alle altre essenze, come le abbiamo chiamate.

Chiamiamo essenza ciò che di fatto nel lessico proprio di Montesquieu non può dirsi realmente un’essenza nel senso di un concetto astratto, eterno e immutabile. Piuttosto il termine che si confà maggiormente al significato che Montesquieu vuole conferirgli è esseri, in quanto elementi che sono materialmente costitutivi della realtà. Tra questi esseri soggetti alle leggi Montesquieu non solo inserisce l’uomo, che, di per sé, è un’operazione già portata avanti nelle filosofie precedenti a quella di Montesquieu, basti pensare al giusnaturalismo di Ugo Grozio e Pufendorf o alle filosofie di Thomas Hobbes e Spinoza, ad esempio, ma vi annovera anche la divinità stessa, e questo, in effetti, costituisce un problema di più complessa risoluzione. Ammettere, infatti, che la divinità sottostà a delle leggi, vuol dire sostenere che esiste qualcosa in rapporto con i diversi esseri che è logicamente preminente rispetto alla divinità. Significa inscrivere la divinità nella stessa catena di causalità e di relazione che investe gli altri esseri che ad essa sono sottomessi. Non è un caso che questo libro sia stato, insieme ad altri, oggetto delle più aspre critiche e censure da parte principalmente dal giornale giansenista Nouvelles ecclésiastiques, che accusavano Montesquieu, a causa di questa definizione, di “spinozismo”, accusa che era equivalente a quella di ateismo.

Nella Défense de L’esprit des lois (1750)7 Montesquieu respinge con forza tali

accuse e rinnega esplicitamente qualsiasi tipo di adesione alla filosofia di Spinoza, soprattutto nelle sue conseguenze sulla dottrina cristiana. Egli, infatti, rivendica tutti i passaggi dello stesso Libro I in cui specifica la sua contrarietà ai principi spinoziani che presuppongono una cosmologia anti-cristiana: primo tra tutti il principio secondo cui sarebbe stata una “fatalità cieca”, il caso quindi e non un agente regolatore, a produrre esseri

7 «[…] Ciò nonostante, in due numeri di un periodico usciti a breve distanza l’uno dall’altro, gli sono state

mosse [a Montesquieu] le più terribili accuse. Si tratta nientedimeno che di stabilire se egli sia spinoziano e deista; e, sebbene queste due accuse siano di per sé contraddittorie, lo si sottopone continuamente ora all’una ora all’altra. Tutte e due insieme, essendo incompatibili, non possono renderlo più colpevole di quanto non possa farlo una sola, ma tutte e due insieme possono renderlo più odioso. Sarebbe dunque spinoziano lui che […].» DEL, I, p. 2283.

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intelligenti8. In questo modo fondamentalmente Montesquieu si appella alla principale prova

cartesiana dell’esistenza di Dio, ossia alla prova per cui soltanto un essere intelligente, una ragione primitiva, avrebbe potuto creare esseri allo stesso modo intelligenti9.

La più importante conseguenza di ciò è che sul piano proprio delle leggi, non esiste un unico significato ad esse attribuibile, ma che esse si differenziano sulla base di due punti di vista differenti: uno che può essere chiamato normativo, l’altro, invece, descrittivo. Ed è questo il secondo punto che ancora ci resta da trattare sulle conseguenze che derivano dalla particolare definizione di legge proposta da Montesquieu.

Il tratto di originalità di Montesquieu, sta nel fatto che questi due piani, formalmente distinti, in realtà dialogano tra di loro dal momento che gli esseri di cui fanno parte le serie di rapporti non sono essenze che trascendono la realtà, ma elementi che restano a comporre il piano immanente alla realtà stessa. Infatti, dal punto di vista normativo, la divinità, precisa il filosofo bordolese proseguendo nella trattazione del Libro I, capitolo primo, è necessariamente sia creatrice sia garante della conservazione delle leggi della realtà. Allo stesso tempo, però, sul piano che abbiamo chiamato descrittivo, ma che può configurarsi come il piano proprio dell’immanenza, la stessa divinità non è separata dagli altri esseri e quindi sottostà anch’essa alle leggi che lei per prima crea.

L’essere intelligente della divinità, ossia della divinità nella sua veste di ragione primitiva che ordina il mondo, è per Montesquieu, sempre secondo i principi della dottrina cartesiana, garanzia del suo agire con saggezza e consapevolezza delle cause, quindi di un agire secondo delle leggi che lei stessa si è data, ma che, nel momento stesso in cui si danno, vengono a rappresentare il suo modello di riferimento, in un certo senso stabilito e immodificabile. È questo il carattere normativo delle leggi generali che vuole definire Montesquieu. Il piano descrittivo, invece, è come se si realizzasse a partire dalle caratteristiche di regolarità e di necessità tipiche del dato normativo e poi si esprimesse nella particolarità delle forme che assumono i diversi esseri in rapporto tra loro.

I seguenti passi del libro I che esprimono questi concetti sono densi e, per di più, sono scritti in un linguaggio non somigliante a quello che userà Montesquieu nel seguito dell’opera:

8 «Coloro i quali hanno affermato che “una cieca fatalità ha prodotto tutti gli effetti che noi vediamo nel

mondo”, hanno detto una grossa assurdità; infatti, quale più grossa assurdità di una fatalità cieca che avrebbe prodotto esseri intelligenti?» EL, I,1, p. 905.

9 Si tratta della prova negativa cartesiana presentata nelle Meditazioni Metafisiche, nello specifico nella Terza

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«Dio è in rapporto con l’universo, come creatore e come conservatore; le leggi secondo le quali Egli ha creato sono quelle secondo le quali conserva. Egli agisce secondo queste regole perché le conosce; le conosce perché le ha fatte; le ha fatte perché sono in rapporto con la Sua saggezza e la Sua potenza. […] Queste regole sono un rapporto stabilito perennemente. Tra un corpo in moto e un altro corpo in moto, tutti i movimenti vengono ricevuti, si accrescono, diminuiscono o si perdono, secondo i rapporti della massa e della velocità: ogni diversità è uniformità, ogni cambiamento è

costanza»10.

Il concetto di costanza, posto qui a coronamento del ragionamento che stiamo portando avanti, si lega quasi indissolubilmente a quello di conservazione. L’azione creatrice di Dio, infatti, è la stessa che comporta anche la conservazione della materia e degli ordini creati, quindi è la stessa che garantisce l’ordine e la regolarità nelle cose del mondo. Per questo il mondo, nonostante le sue particolarità, partecipando delle stesse forze e delle stesse leggi di cui partecipa la divinità, presenta di riflesso delle leggi di creazione e conservazioni costanti. La costanza sul piano dell’immanenza del mondo, però, si ha, afferma Montesquieu, nella diversità e nel cambiamento, così come rimangono costanti le leggi della fisica, nonostante la possibilità di modificazioni dei valori delle variabili che la compongono. Ciò che ogni volta permane è la formula generale astratta della legge che ne costituisce, appunto, la garanzia della sua costanza.

Abbiamo visto che l’elenco degli esseri che sottostanno a leggi necessarie e stabilite comprende, oltre alla divinità e al mondo materiale, anche l’uomo. La costanza, però, che Montesquieu attribuiva in misura uguale alla divinità e al mondo, non la attribuisce all’uomo. Infatti, nella seconda parte del capitolo primo del Libro I vengono introdotte delle altre classi di leggi. Oltre alle leggi fisiche, di cui abbiamo detto prima, che, ripetiamo, sono uniformi e costanti, esistono delle leggi possibili che, non essendo ancora propriamente delle leggi positive, artificiali, si trovano in una condizione intermedia e partecipano in uguale misura sia alle leggi necessarie sia alle leggi non necessarie che sono quelle che l’uomo si dà. L’uomo sarebbe, quindi, l’essere intelligente a cui propriamente appartiene questa particolare classe di leggi. Le leggi possibili sono, infatti, quei “rapporti di giustizia”, così li chiama Montesquieu, esistenti prima che l’uomo si desse da solo delle leggi di altro tipo, che sono poi le leggi positive. Questi rapporti di giustizia, detti anche rapporti di equità, erano possibili e quindi esistenti solo potenzialmente prima della loro effettiva esistenza, per cui in questo genere di rapporti non può valere la coincidenza tra essenza ed esistenza, che invece valeva per le leggi fisiche create dalla divinità.

10 EL, I, 1, p. 907.

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Il ricorso dunque a questa classe di leggi ha essenzialmente una doppia finalità: la prima è senza dubbio quella di contestare polemicamente la tesi di Thomas Hobbes secondo cui non esisterebbero leggi possibili al di fuori dell’atto istitutivo, contrattualistico, delle leggi positive che gli uomini si danno per un unico fine ben determinato che è quello notissimo di mettere un argine allo stato permanente di bellum omnium contra omnes11; il

secondo scopo, invece, riguarda lo statuto per così dire ontologico dell’uomo in generale. Infatti, nell’affermare che ogni essere ha le proprie leggi, Montesquieu propone successivamente, e lo abbiamo visto, un elenco di esseri che però, bisogna aggiungere, si articola non in maniera gerarchica, ossia partendo dall’essere con lo statuto ontologico più alto (la divinità) fino agli esseri che ne hanno di meno (il mondo materiale), ma si articola piuttosto in maniera concentrica, ossia con un ordine che, pur partendo dalla divinità, alterna sempre le essenze maggiori a quelle minori in ordine da una parte decrescente e dall’altra crescente. E il nodo centrale della serie concentrica risulta essere proprio l’uomo, che quindi occupa anche idealmente un posto di centralità, di equidistanza dai poli opposti.

Affermare che sono esistiti rapporti di equità possibili prima dell’istituzione delle leggi positive, significa dire che esistevano delle idee possibili di giusto e di ingiusto anche prima che si istituissero delle leggi positive nella realtà concreta in cui i gruppi di uomini vivono. In un certo senso questo tipo di leggi possono sembrare coincidenti con il tipo di leggi che il giusnaturalismo considera le leggi di natura. In realtà in Montesquieu l’obiettivo non è mai dichiaratamente quello di indagare le leggi che l’uomo si dà autonomamente nel loro adeguarsi o meno alle leggi che gli dà la natura, ma è invece quello di confrontare le infinite differenze tra i costumi e le leggi dei diversi paesi con le ragioni per cui si danno in quel dato modo, come dichiarato nella Préface. Quindi, per quando riguarda le leggi possibili, a Montesquieu interessa come esse siano pertinenti alla particolare natura dell’uomo in qualità di essere intelligente oltre che essere fisico. Per la sua natura anfibia l’uomo è limitato ed è soggetto a errori; esso è, come essere fisico, soggetto alle stesse leggi fisiche invariabili e costanti, come essere intelligente, invece, egli, con le parole di Montesquieu, «viola costantemente le leggi che Dio ha stabilito, e muta quelle che lui stesso stabilisce»12.

11 «Da ciò, appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in

soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata […]» T. Hobbes, Leviatano, Laterza, Roma-Bari 2008.

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Bisogna sottolineare, però, che nel discorso di Montesquieu non emerge soltanto l’aspetto negativo e fallace della natura dell’uomo, ma esiste una sorta di capacità compensativa, sempre tipica dell’uomo, che al massimo grado di irregolarità affianca un alto grado di regolarità che gli deriva da Dio e che lo mantiene sotto il dominio delle leggi. Le leggi (a questo punto sì, positive) riempiono quello spazio che l’incostanza dell’uomo lascia vuoto quando si tratta di agire secondo un ordine. Rispetto, quindi, al piano delle leggi-rapporto che sono necessarie e prese a modello positivo di funzionamento perfetto, l’uomo è incoerente e incostante ed è attraverso le leggi positive che viene dato un argine a quel grado di imperfezione e di fallibilità che gli è propria. Allora, tra le leggi nel loro significato più ampio e le leggi positive viene ad esserci un rapporto di complementarietà e, vedremo in seguito, anche uno stretto legame di reciprocità.

Tra il primo e il terzo capitolo, che trattano rispettivamente dei primordiali rapporti di giustizia esistenti, o altrimenti delle leggi nel loro significato più ampio, e delle leggi positive, vi è nel Libro I un secondo capitolo dedicato interamente alle leggi di natura. È noto che Montesquieu non è un teorico del cosiddetto stato di natura o un esteta del mito dell’origine13, egli crede, infatti, che all’origine presupposta dell’umanità gli uomini si

trovassero in una forma di associazione sì diversa da quella caratteristica della vita in società, che quindi possiamo chiamare pre-sociale, ma che presupponeva comunque una tendenza a unirsi piuttosto che a separarsi.

Il senso di questa breve digressione che porta a considerare le leggi preesistenti a quelle prettamente civili e politiche è, ancora una volta, il tentativo di scoprire la generale e uniforme “costituzione dell’essere” uomo rispetto alle forme di società particolari che si sono date nel corso della storia. Le leggi di natura, infatti, sono quelle che l’uomo avrebbe se lo si volesse considerare in una condizione simile a quella dello stato di natura. Come prima legge naturale Montesquieu annovera quella del sentimento religioso che ci rende consapevoli di avere in noi l’idea di un creatore, ma specifica che questa legge è decisamente prima per importanza, ma non prima per ordine di apparizione nel sentimento dell’uomo, laddove sentimento è per l’uomo ciò che caratterizza il suo essere animale. La prima in questo senso, infatti, risulta essere piuttosto la tendenza alla pace, che deriverebbe dal sentimento che l’uomo ha della propria debolezza e della propria timidezza.

13 È decisivo il passo delle Lettres Persanes in cui Montesquieu manifesta, attraverso le parole del personaggio

Usbek, tutte le sue perplessità su questa teoria: «Non ho mai inteso parlare di diritto pubblico senza che si cominciasse col ricercare accuratamente quale sia stata l’origine della società, cosa che mi pare ridicola. Se gli uomini non ne formassero, se si allontanassero e fuggissero l’un l’altro, bisognerebbe domandarsene la ragione e indagare perché se ne stiano separati; ma essi nascono tutti legati gli uni con gli altri; un figlio nasce accanto a suo padre, e ci resta: ecco la società e la causa della società.» LP, XCI [XCIV], p. 257.

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Montesquieu, a riprova di questo particolare stato di animalità tipico di un uomo originario, porta l’esempio dei «selvaggi che sono stati trovati nelle foreste» per cui «tutto li fa tremare, tutto li fa fuggire». La seconda legge naturale, invece, sempre secondo l’ordine in cui si manifestano, è quella che deriva dal sentimento che l’uomo ha dei propri bisogni che, unito al sentimento che esso ha della propria debolezza, lo spinge naturalmente a seguire quella legge che lo porta a procacciarsi il cibo. Infine, sebbene la paura porti a fuggire le occasioni di contatto con i simili, avvertire il sentimento di paura reciproco porta invece al processo di avvicinamento, per cui dal sentimento di attrazione reciproca che l’uomo ha verso i membri della propria specie, derivano conseguentemente le leggi della riproduzione, con cui si chiude l’insieme delle leggi che formano il cosiddetto primo legame, quello animale, tra gli uomini in un presunto stato di natura. A ciò si aggiunge solo un’ultima legge di natura, che però Montesquieu fa rientrare in una forma di legame secondario che non deriva più dal sentimento, caratteristico appunto dell’animalità dell’uomo, ma che deriva dalla sua intelligenza, e, nello specifico, dall’intelligenza per cui gli uomini sono capaci di riconoscersi come simili; tale è il desiderio di vivere in società.

Il fatto che il capitolo sulle leggi di natura si concluda proprio con il riferimento al desiderio dell’uomo di vivere in società permette di legare insieme non solo, banalmente, i capitoli costituivi del Libro I dell’Esprit des lois, ma anche, e soprattutto, le diverse forme di leggi che fino ad ora abbiamo visto. In particolare, questa tesi della socialità umana come presupposto umano e naturale per il processo stesso di socializzazione, di evidente retaggio aristotelico, si risolve nel pensiero di Montesquieu in maniera originale, in quanto la naturale socialità umana viene a rappresentare non solo il punto di arrivo, ma anche quello di partenza di uno stato di natura che evidentemente tende verso qualcos’altro. Con la determinazione della naturale socialità dell’uomo, da un lato si chiude il modello dello stato di natura, dall’altro si apre invece un ponte verso la più complessa cornice delle forme di vita degli uomini riuniti in società particolari. Il terzo capitolo, dedicato alle leggi positive, segna il momento di questo passaggio e da ora in avanti l’attenzione del filosofo di La Brède sarà sempre rivolta a questo modello.

Il passaggio alla vita aggregata in società è caratterizzato principalmente dalla perdita progressiva di quel primo sentimento di debolezza che gli uomini percepivano per natura e che garantiva il mantenimento della pace e il conseguente subentro dello stato di guerra. È sorprendente, in questo caso più che altrove, il ribaltamento esatto della teoria di Hobbes sulla formazione della società. È noto, infatti, che per Hobbes, fosse proprio lo stato di guerra permanente, tipico della condizione umana nello stato di natura, la condizione

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necessaria per l’instaurazione della società attraverso il contratto. Per Montesquieu, invece, avviene il contrario; lo stato di guerra che deriva dal fatto che gli uomini, unendosi in società, perdono il senso della loro debolezza e diventano quindi più aggressivi in quanto si sentono più forti, ha bisogno di essere limitato da leggi che regolino sia i rapporti tra i cittadini all’interno della società stessa, sia i rapporti tra società diverse. In questo modo si costituiscono le cosiddette leggi positive le quali vengono distinte in due tiplogie diverse, in base al genere di conflitto da cui derivano. Se ad essere conflittuale è il rapporto tra nazioni, allora si seguono i codici del cosiddetto diritto delle genti (moderno diritto internazionale), se, invece, ad essere in conflitto sono i privati cittadini nel contesto intra sociale, allora si seguono o il diritto civile (diritto privato) o il diritto politico, a seconda che il rapporto sia rispettivamente tra pari o gerarchico, ad esempio in caso di contrasti tra governanti e governati.

L’istituzione della legge quindi, nell’ottica di Montesquieu, non è un atto che compensa una mancanza della natura, come nella prospettiva hobbesiana, ma è un atto compensativo della mancanza inscritta nella formazione della società, cioè diventa necessaria solo successivamente alla nascita delle società, dal momento in cui subentra, lo abbiamo visto, lo stato di guerra.

Da queste considerazioni ultime emerge infine un problema che riguarda il tema che di fatto interesserà l’intera opera del bordolese, ossia l’articolazione e il rapporto che si delinea tra la natura generale delle disposizioni che riguardano i diversi popoli e la “disposizione particolare” che ogni governo assume. L’armonia, o meglio, la conformità tra la natura generale delle leggi nel loro significato ampio e le disposizioni particolari, le leggi particolari, che via via si danno in ogni governo, diventa per Montesquieu il punto di avvio della sua ricerca. L’introduzione di questo nuovo concetto di conformità chiama a sé anche una nuova definizione di legge per cui, in generale:

«La legge, in generale, è la ragione umana in quanto governa tutti i popoli della Terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono essere altro che i casi particolari in cui questa ragione umana si applica.

Esse devono essere talmente adatte al popolo per il quale son fatte che è un caso assai raro che le leggi di una nazione possano convenire a un’altra»14.

La definizione di legge così enunciata presenta contemporaneamente dei caratteri di universalità (il riferimento alla ragione) e altri di particolarità (il riferimento alla condizione concreta). Ogni caso particolare, quindi, ha la sua ragione d’essere e questa ragione deve

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essere spiegabile universalmente. Allora le leggi positive, particolari, risulteranno, continua Montesquieu, in conformità con la natura e col principio del governo costituito e in relazione con una serie di fattori la cui trattazione scandirà il ritmo dell’opera intera. Tali fattori sono: il carattere fisico del paese, il clima, la qualità del terreno, il genere di vita dei popoli, il grado di libertà che la costituzione è in grado di sopportare, la religione, la ricchezza, la demografia, il commercio, i costumi e le maniere, la loro origine, lo scopo del legislatore e in generale il genere di cose sulle quasi esse sono chiamate a pronunciarsi. L’insieme di tutti questi fattori presi in relazione l’uno con l’altro, oggetto che si propone di studiare qui l’autore, va a comporre quello che viene propriamente chiamato, appunto, lo spirito delle leggi.

Ciò è sufficiente per passare al fulcro di questo primo capitolo, ossia alla celebre teoria della natura e del principio del governo nel rapporto che hanno con lo spirito delle leggi e con la loro reciproca articolazione e determinazione.

1.1 La natura del governo

L’intero Libro II dell’Esprit des lois è dedicato al tema della natura del governo. Montesquieu inizia il suo secondo libro per così dire in medias res, distinguendo i governi in tre specie differenti: repubblicano, monarchico e dispotico. E prosegue in questo modo:

«Per scoprirne la natura, basta l’idea che ne hanno gli uomini meno istruiti. Io presuppongo tre definizioni, o meglio tre fatti: che il governo repubblicano è quello nel

quale tutto il popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il potere sovrano; il [governo] monarchico, quello nel quale uno solo governa, ma tramite leggi fisse e stabilite; nel governo dispotico, invece, uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci.

Ecco ciò che io chiamo la natura di ogni governo»15.

Come la quasi totalità degli studiosi di Montesquieu sostiene, la presente enunciazione delle diverse forme di governo e della natura che appartiene a ogni particolare forma può essere letta secondo due classificazioni differenti: la prima descrittiva, l’altra assiologica16. Secondo il criterio descrittivo o avalutativo, come precisa Casadei, si

considera la forma di governo dal punto di vista del numero di persone che detengono il

15 EL, II, 1, p. 923. Corsivo nostro.

16 Come spiega con chiarezza Thomas Casadei nel suo saggio dedicato alla forma di governo repubblicana

nell’Esprit des Lois. Cfr. Th. Casadei, La Repubblica in D. Felice (a cura di), Leggere lo Spirito delle Leggi di Montesquieu, Mimesis, 2010 Milano-Udine, voll. II, pp. 19-66.

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potere, quindi del chi governa. La natura del governo repubblicano si caratterizza quindi per il fatto che a detenere il potere è tutto il popolo (costituendo una repubblica democratica) o soltanto una parte di esso (dando vita a una repubblica aristocratica); quella del governo monarchico e del governo dispotico si distinguono dalla natura della forma di governo repubblicana perché a detenere il potere supremo non è più tutto il popolo o un gruppo ristretto, ma un solo individuo. Il fatto che a detenere il potere sia un solo individuo, quindi, è ciò che accomuna la natura dei governi monarchico e dispotico e che li differenzia dalla repubblica.

Il secondo criterio, quello assiologico, allora, è quello che ci permette di distinguere a loro volta anche la natura dei governi monarchico e dispotico. Infatti, secondo questa seconda tassonomia, non si risponde più alla domanda del chi governa, ma si indaga piuttosto come chi detiene il potere eserciti le proprie funzioni e le modalità con cui lo fa. In una repubblica si ha quindi un governo di molti che opera per mezzo di leggi stabilite, lo stesso si ha anche in una monarchia, per cui il solo che detiene il potere lo esercita comunque al di sotto di leggi stabilite, nel governo dispotico, invece (ed è la caratteristica discriminante che lo contraddistingue dalle altre due forme di governo, e soprattutto dalla forma monarchica), l’individuo che detiene il potere lo esercita “senza legge e senza regola”, per citare le stesse parole di Montesquieu. Seguendo quest’ultimo criterio si distinguono quindi i governi moderati da quelli non moderati e il metro di giudizio valutativo per questo tipo di classificazione è la presenza o meno dell’azione regolatrice delle leggi.

Nonostante il giudizio di Montesquieu sulle forme di governo non moderate, in questo caso della forma di governo dispotica, sia estremamente negativo, si nota che, rispetto ai teorici della politica suoi contemporanei tra cui, in qualità di avversario critico, spicca indiscutibilmente Thomas Hobbes, il bordolese non è interessato a definire l’essenza del governo o, in altre parole, a definire che cosa significhi nella sostanza detenere il potere, né tantomeno è interessato, almeno in un primo momento, a stabilire quale sia la forma migliore o peggiore di governo. La sua attenzione, piuttosto, va alle modalità in cui il potere viene esercitato e, in particolare, posta la preferenza per i governi moderati su quelli non moderati, capire quali siano nelle forme di governo moderate i punti di resistenza a un potere completamente arbitrario. In altre parole, si capisce che l’obiettivo di Montesquieu è quello di cercare all’interno delle diverse forme di governo quegli elementi costitutivi che ne determinano la stabilità e, di conseguenza, anche l’instabilità.

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La natura del governo, quindi, non è equivalente all’essenza del governo perché la categoria dell’essenza rimanda direttamente a un principio di fissità e immobilismo che, invece, non appartiene alla categoria espressa da Montesquieu. Infatti, la natura del governo, seppur costitutiva della particolare forma di governo, non è immobile, ma è soggetta a cambiamenti e, nel suo evolversi, si evolve anche il governo a cui dà forma. I suoi mutamenti, si vedrà, sono conseguenze generali di una serie di cause particolari che il filosofo di La Brède intende analizzare nel corso di tutta l’opera.

Ma procediamo con ordine. La tripartizione delle forme naturali di governo in repubblicano, monarchico e dispotico è già di per sé un elemento di forte originalità di Montesquieu. Rispetto ai teorici della politica classici che hanno proposto delle distinzioni analoghe riguardo alle differenti forme di governo, Montesquieu apporta delle novità considerevoli, infatti, alle note tripartizioni dei governi in repubblica/politeia, aristocrazia e monarchia, proprie del pensiero politico di Aristotele e, ancora una volta, di Hobbes. Spicca nell’elenco di Montesquieu il fatto che, tra le forme naturali di governo, venga menzionato il dispotismo. Risulta, quindi, decisamente contrapposto alla teoria di Aristotele, ad esempio, secondo cui il governo dispotico sarebbe stata una forma degenerata della forma, sana, di governo monarchico.

Annoverare il governo dispotico tra le forme di governo naturali implica degli effetti teorici decisivi per il pensiero del filosofo bordolese, ma sarà possibile ricostruire l’impianto epistemologico montesquiviano solo alla luce dei capitoli e dei libri seguenti, in particolare alla luce del Libro III dedicato a quelli che Montesquieu chiama i principi del governo.

Proseguendo dalla prima enumerazione delle principali forme di governo che abbiamo riportato e commentato precedentemente, Montesquieu costruisce un ponte che dal capitolo primo al capitolo secondo del Libro II funge da ulteriore categoria concettuale per tenere in relazione la natura del governo e le cosiddette leggi positive, legame che in questa prima formulazione si determina esclusivamente in un senso, ossia dalle forme tipiche della natura di ogni governo all’instaurazione di leggi positive conformi. Tra le leggi positive che derivano direttamente dalla natura del governo, Montesquieu annovera per prime le cosiddette leggi fondamentali, ossia quelle leggi positive che sono costitutive del governo per cui sono fatte, simili alle leggi della costituzione, quindi, perché sanciscono le norme fondamentali del vivere in una data società.

Dal secondo capitolo del Libro II al quinto capitolo, conclusivo del libro, Montesquieu tratta per ognuna delle forme di governo precedentemente esposta il merito delle leggi fondamentali che le caratterizzano. Ripercorriamo in breve i passi sostanziali. Le

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leggi fondamentali della repubblica sono quelle che stabiliscono le regole del suffragio e il diritto al suffragio, ossia regolano il modo in cui il popolo esprime la sua volontà; se tutto il popolo è chiamato a votare allora si ha una repubblica di tipo democratico; se, invece, solo una parte del popolo possiede questo diritto allora la repubblica è di tipo aristocratico. Per quanto riguarda la monarchia, le sue leggi fondamentali interessano la necessaria presenza al suo interno di poteri intermedi, i cosiddetti “corpi intermedi” nel linguaggio di Montesquieu, a cui segue la celebre espressione per cui senza il monarca non può esservi nobiltà e, viceversa, senza nobiltà non può esservi un monarca. Ciò avviene perché, se non ci fosse da parte di questi poteri intermedi, interposti tra il re e il popolo, un’azione regolatrice, si creerebbero degli squilibri di potere. Il rischio più grande consisterebbe nell’impossibilità di limitare i poteri del re, rendendo impossibile distinguere il suo ruolo da quello di un despota. La presenza dei corpi intermedi, come quella delle leggi, garantisce questo genere ideale di equilibrio tra forze. Sull’importanza dei corpi intermedi nel pensiero politico di Montesquieu si tornerà spesso in seguito, per il momento interessa distinguere, in seno alle cosiddette leggi fondamentali, quelle che caratterizzano la monarchia da quelle che appartengono alla forma di governo dispotica. Il dispotismo, infatti, come legge fondamentale annovera un’unica legge che prevede la cessione intera del potere del despota (che, ricordiamo, detiene tutto il potere e governa senza l’ausilio di leggi) a un suo funzionario, il gran visir, a cui delega appunto tutti i suoi poteri e, di conseguenza, le sue responsabilità.

Ora, nel corso di questi quattro capitoli conclusivi del Libro II, oltre a elencare quali siano le leggi fondamentali di ogni forma di governo, Montesquieu si sofferma lungamente su quale sia anche il modo con cui la tale legge fondamentale viene attuata, ossia sull’azione con cui concretamente si esercitano i poteri. Nel capitolo secondo del Libro II, ad esempio, capitolo dedicato al governo repubblicano e alle leggi relative alla democrazia, leggiamo queste parole:

«Come nella repubblica la divisione di coloro i quali hanno diritto di voto è una legge fondamentale, così lo è pure il modo in cui viene dato questo voto.

Il suffragio mediante la sorte è proprio della natura della democrazia; quello a scelta, dell’aristocrazia»17.

Quindi le modalità con cui si stabilisce il suffragio diventano ulteriori condizioni che, se rispettate, costituiscono a loro volta delle leggi fondamentali della repubblica. Rispetto alle condizioni precedenti, però, queste non rappresentano le basi essenziali su cui

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è necessario che si fondi ognuno dei tre governi, esse delineano piuttosto delle condizioni di possibilità per un dato governo. Nello specifico, queste ulteriori leggi creano i presupposti affinché quel dato governo non solo si formi, ma sia capace di mantenersi e conservarsi. Leggiamo, infatti, nel lessico ricorrente di Montesquieu, fin dai primi capitoli dell’opera, termini come “disgrazia”, “rovina” e “corruzione”, a riprova proprio di questa continua possibilità di cambiamento inscritta in ogni forma di governo. Il cambiamento allora, seppur solamente possibile, nel suo essere costantemente presente in quanto tale, non resta legato alla sua condizione di sola possibilità, ma la sua presenza risulta costitutiva anch’essa dell’essenza del governo. Comprenderemo meglio questo passaggio interpretativo nel corso del capitolo, in particolare quando completeremo la teoria del governo di Montesquieu con il ricorso al concetto di principio del governo.

La fonte dell’azione nel governo monarchico risiede in un unico centro che è quello del re, ma le sue diramazioni sono molteplici, e questa, oltre ad essere la modalità con cui il potere viene effettivamente esercitato, risulta anche essere la condizione necessaria per il buon funzionamento e la conservazione stessa di questo governo. Infatti, la presenza di corpi intermedi separati sia dal controllo regio sia dall’influenza popolare in quanto membri della nobiltà, garantisce, all’interno di un governo che tenderebbe, senza di essi, all’accentramento di tutto il potere nelle mani del singolo sovrano, i benefici del pluralismo attraverso le azioni regolatrici in prima istanza delle leggi e secondariamente della classe nobiliare. Anche su questa importanza che i corpi intermedi ricoprono nel pensiero di Montesquieu torneremo in seguito. Per il momento di rinnovato e particolare interesse risulta la trattazione della terza e ultima forma di governo proposta da filosofo di La Brède; quella dispotica.

In merito al tema del dispotismo nello Spirito delle leggi e nel pensiero di Montesquieu in generale, ci affidiamo agli studi di Domenico Felice18 per un primo

tentativo di ricerca su questo argomento. La tesi sostenuta da Felice è che il concetto di dispotismo, in quanto forma di governo considerata da Montesquieu separatamente dalle altre, ha una sua autonomia nel suo discorso politico-sociale come concetto “prioritariamente analitico e scientifico”. Questa tesi si impone con forza in contrasto con un’altra importante linea interpretativa le cui origini affondano nel Settecento e che è stata rilanciata in epoca contemporanea da Louis Althusser, che abbiamo già precedentemente

18 Si vedano di questo autore riguardo il dispotismo: D. Felice, Il dispotismo in D. Felice (a cura di), Leggere,

cit., pp. 125-198; nonché l’intera raccolta di saggi da lui curata sul concetto di dispotismo nel pensiero politico moderno, D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, Liguori, Napoli 2000; D. Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit des lois di Montesquieu, Olschki, Firenze 2005.

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annoverato tra i maggiori lettori e interpreti dello Spirito delle leggi di Montesquieu del Novecento. Secondo tale ipotesi il dispotismo teorizzato nel contesto di quest’opera sarebbe niente più che un “concetto polemico”, dice Felice, in sostanza una sorta di caricatura estrema dei rischi e delle conseguenze delle derive assolutistiche a cui assisteva Montesquieu nel suo tempo (specialmente quella di Luigi XIV in Francia). In altre parole, secondo questa interpretazione, il concetto di dispotismo non sarebbe stato utilizzato dal bordolese con scopi epistemologici, in funzione della fondazione di una scienza universale dei sistemi politico-sociali, ma sarebbe stato utilizzato solo esclusivamente allo scopo di mettere in guardia i monarchi europei a lui contemporanei da questa rischiosa possibilità degenerativa.

Ora, è naturale per noi rifiutare quest’ultima ipotesi nella misura in cui si osserva che, nell’economia dell’opera, il dispotismo resta comunque una forma di governo autonoma, a sé stante e apparentemente esistente in natura, nello specifico in oriente19. Essa

non è, come nella prospettiva di Aristotele o di Machiavelli20, e in generale dei pensatori

classici della filosofia politica, soltanto una forma degenerata della forma di governo monarchico. Montesquieu lo configura come un “genere distinto di governo” rispetto al “genere repubblica” e, per l’appunto, al “genere monarchia”, quindi non è possibile che la sua funzione sia strettamente strumentale alla critica, che pure esiste nel pensiero di Montesquieu, delle derive assolutistiche che stavano minacciando l’Europa a lui contemporanea.

Abbiamo già visto che, limitatamente alla natura del governo, tra il governo monarchico e quello dispotico c’è una differenza assiologica, per cui non differiscono dal punto di vista di chi detiene il potere, ma differiscono per le modalità con cui lo esercitano, rispettivamente con l’ausilio di leggi o arbitrariamente, secondo il proprio capriccio, caratteristica che contraddistingue il monarca dal despota. Per questo diventa determinante la categoria politico-sociale di azione, e di azione intesa nel suo senso eminentemente

19 Montesquieu viene a buon diritto considerato un fermo sostenitore della teoria del cosiddetto dispotismo

orientale. La stessa teoria dei climi, argomento assai celebre del pensiero di Montesquieu, esposta nella terza parte dell’opera (Libri XIV-XVII), ne è un chiaro esempio e modello interpretativo.

20 Si veda, ad esempio, la tesi machiavelliana, sviluppata nel capitolo quarto de Il Principe, secondo cui, di uno

stesso genere di governo, in questo caso il principato, esistono due specie differenti: una in cui uno solo è principe e tutti gli altri sono servi (modello dell’Impero turco-ottomano) e l’altra, invece, in cui il principe governa con l’intermediazione della nobiltà (modello francese). È evidente in Montesquieu l’influenza che Machiavelli ha esercitato sul suo pensiero; i modelli di riferimento sono i medesimi e Montesquieu, al pari di Machiavelli, localizza nel territorio orientale la presenza di un governo puramente arbitrario, non controbilanciato da nessuna forza, né da leggi, né da corpi intermedi nobiliari. La differenza fondamentale tra i due pensatori, però, risiede proprio nel fatto che Montesquieu non inscrive questa forma di governo assoluta nel genere della monarchia, ma le conferisce una sua autonomia sostanziale separata dalle altre forme di governo, costruendo di fatto un modello assiologico di classificazione dei governi: quelli moderati (repubblica e monarchia) da quelli non moderati (dispotismo).

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politico, come capacità di agire conformemente a un fine, che dovrebbe normalmente identificarsi nel mantenimento e nella conservazione del governo che a sua volta è espressione naturale di determinate condizioni sociali che lo predispongono. È curioso che proprio nel governo dispotico, quello che tra tutti permetterebbe la più grande libertà di azione a chi detiene il potere, è paradossalmente il sistema in cui si riscontra la minore capacità di azione e di governo da parte del despota; infatti egli la delega a un suo funzionario, il primo ministro, mentre lui, in prima persona, non agisce in nessun modo se non ritirandosi nel suo serraglio e occupandosi esclusivamente di se stesso e dei suoi piaceri. Un governo di siffatta specie non è banalmente una forma degenerata o malata di un’altra forma di governo, ma esso si «corrompe continuamente, perché è corrotto per sua stessa natura»21.

In ciò si può riscontrare un ulteriore tratto di originalità che contraddistingue il pensiero di Montesquieu da quello dei teorici della politica e della società classici. In particolare, rispetto al pensiero politico di Aristotele, che della categoria concettuale di degenerazione dei governi aveva fatto uno dei capisaldi della sua teoria politica, Montesquieu insiste piuttosto sulle categorie di corruzione e di cambiamento perché decisamente più allusive a un percorso naturale di sviluppo e di fine dei governi appartenente al loro essere organico. Secondo Montesquieu, infatti, i governi non subiscono dei cambiamenti dalla loro forma sana alla forma patologica corrispondente, ma subiscono delle variazioni sulla base di un processo che vede responsabili sia agenti interni al governo stesso, sia agenti esterni, e che trovano con il tempo una nuova configurazione, la quale è sempre frutto di un adattamento progressivo delle condizioni materiali di possibilità che si realizzano nel corso della storia a una forma istituzionale (e “fissa”) di governo. Tracciare le fasi e le cause di questo sviluppo attraverso le categorie concettuali storiche di corruzione e conservazione è l’obiettivo di questo lavoro, in cui ci proponiamo, inoltre, di far emergere una vera e propria teoria della storia nel capolavoro di Montesquieu.

Se poniamo la nostra attenzione proprio sull’attributo di fissità e di permanenza tipico del processo di istituzionalizzazione compiuta nelle leggi, notiamo che nel discorso di Montesquieu tale attributo appartiene alle leggi dei governi moderati, mentre nel governo dispotico esse sono soltanto espressione della «volontà momentanea e capricciosa di uno

21 EL, VIII, 10, p. 1147. Si anticipa uno dei temi fondamentali che costituirà uno dei capisaldi del Libro VIII

dello Spirito delle leggi, un libro determinante per quello che riguarda il tema di questo capitolo, ma anche dell’intero lavoro, ossia il tema della corruzione dei principi dei governi. Ancora una volta, mostreremo come Montesquieu ricorra costantemente al tema del dispotismo come espediente metodologico che permette di comprendere gli attributi positivi dei governi moderati attraverso il negativo; un negativo, quello del dispotismo, che rappresenta il lato oscuro, in ombra, della parte “in chiaro” rappresentata, invece, dalle altre forme di governo.

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solo»22, ma lo stesso attributo non appartiene ai governi moderati per quanto riguarda la loro

forma costituzionale interna, potremmo dire la loro natura, mentre appartiene alla forma del governo dispotico ed è, anzi, una condizione necessaria per la sua esistenza. Il pensiero di Montesquieu in merito al concetto di fissità in senso ampio, si articola, secondo il nostro giudizio, attraverso una struttura che possiamo definire a chiasmo, in quanto, se sviluppata secondo due lenti di lettura, ossia quella delle leggi positive e quella della natura del governo, dà forma a uno schema strutturato a X. Il dispotismo è fisso e immobile se considerato sotto il filtro della sua essenza, ma è mobile e variabile se considerato dal punto di vista delle sue leggi. Così vale anche per i governi moderati, solo a variabili inverse: la repubblica e la monarchia hanno leggi fisse e stabilite, ma la loro natura interna è plurale e mobile. In merito a ciò riportiamo un passo di questo Libro II dello Spirito delle leggi in cui emerge, seppure ancora velatamente, questa struttura. Il passo riguarda il motivo per cui bisogna assegnare la massima importanza, specificamente nelle monarchie, al compito di custodire e far rispettare le leggi positive, al quale Montesquieu fa seguire, come spesso accade, un giudizio “in negativo” dello stato dispotico riguardo allo stesso argomento:

«Non è sufficiente che in una monarchia esistano ordini intermedi; occorre anche un deposito di leggi. Questo deposito non può essere che nei corpi politici, i quali annunciano le leggi quando vengono fatte e le richiamano alla mente quando vengono dimenticate […]. Il Consiglio del principe non è un deposito conveniente. Esso è, per sua natura, il deposito della volontà momentanea del principe che ha il potere esecutivo, non già il deposito delle leggi fondamentali. Inoltre, il Consiglio del monarca cambia di continuo; non è permanente; non potrebbe essere numeroso; non gode a un grado abbastanza elevato della fiducia del popolo […].

Negli stati dispotici, dove non vi sono leggi fondamentali, non v’è nemmeno un deposito di leggi. Da ciò deriva che in quei paesi la religione ha, di solito, tanta forza, poiché essa forma una specie di deposito e di permanenza; e, se non è la religione, sono le consuetudini che vi sono venerate, in luogo delle leggi»23.

Per il momento trascureremo gli innumerevoli e importanti spunti di riflessione che il tema emerso in conclusione della citazione porta alla luce, per riprenderlo quando avremo affrontato l’argomento del principio del governo, il quale servirà da strumento metodologico per comprendere anche queste prime speculazioni su ciò che riguarda il concetto qui analizzato di natura del governo, concentrando l’attenzione su ciò che questo passo comunica al di là dei suoi contenuti. La cosa interessante, invece, per quello che riguarda la tesi precedentemente espressa sulla struttura che emerge dal pensiero di Montesquieu, è il passo della citazione in cui si fa riferimento alla fluidità e mutevolezza del

22 EL, II, 4, p. 939. 23 EL, II,3, p. 943.

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Consiglio a cui Montesquieu non ritiene opportuno, proprio per questa sua tendenza al cambiamento continuo, affidare il compito di custode delle leggi. Lo schema a X quindi si sviluppa così: dal punto di vista della forma del governo, il dispotismo risulta immobile e rigidamente fisso al suo interno, le forme di governo moderate risultano, al contrario, estremamente fluide e mutevoli; invece, se si guarda dal punto di vista delle leggi costitutive del governo, i governi moderati possiedono un sistema di leggi fisso e stabilito, la forma di governo dispotico, al contrario, non ne possiede uno e, quando lo possiede, è caratterizzato dalla massima transitorietà e dal maggior grado di contingenza in quanto espressione della volontà momentanea e arbitraria del despota.

Riteniamo a questo punto di particolare interesse far notare che, al netto del Libro II dello Spirito delle leggi, destinato interamente, come abbiamo visto, alla nozione di natura del governo, la completa definizione di che cosa essa sia la si incontra soltanto nel Libro III dell’opera, libro dedicato, invece, al concetto di principio del governo. Leggiamo dal capitolo primo del Libro III, dedicato alle differenze tra natura e principio del governo, un’argomentazione che chiarisce il motivo per cui a queste due nozioni sono dedicati due libri separati:

«Dopo aver esaminato quali siano le leggi relative alla natura di ciascun governo, occorre vedere ora quelle che sono relative al suo principio.

Fra la natura del governo e il suo principio vi è questa differenza: che la sua natura è ciò che lo fa essere quello che è, e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere»24.

Il motivo di questa scelta, a nostro giudizio, può essere colto nell’impegno di considerare sempre strettamente connessi questi due elementi costitutivi del governo. È vero che nel Libro II la natura del governo è stata di fatto definita attraverso la sua concreta applicazione e quindi ascritta alle diverse forme di governo secondo un doppio criterio; uno descrittivo e l’altro valutativo/assiologico, ma in questa circostanza, essendo così intimamente legato alla nozione di principio del governo, la sua doppia valenza viene momentaneamente messa da parte. Così essa, la natura, rispetto al principio, rappresenta unitamente l’essenza del governo, ossia quell’insieme di condizioni particolari che lo fanno essere ciò che è; quindi o una repubblica, o una monarchia o uno stato dispotico. Date certe condizioni si avrà una determinata forma di governo. Se queste condizioni non si danno, non si avrà quella particolare forma, ma un’altra.

24 EL, III,1, p. 947. corsivo nostro.

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