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Gli Stati Uniti e la Conferenza di Ginevra del 1954: il significato di una dissociazione

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Academic year: 2021

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e-ISSN 2280-8949

DOI 10.1285/i22808949a1n2p207

http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento

Giovanni Calò

Gli Stati Uniti e la Conferenza di Ginevra del 1954:

il significato di una dissociazione

Abstract: The Geneva Conference of 1954 marked an important passage for the destiny of

Indochina. The United States decision not to associate itself to the Final Agreements and the issue of a unilateral declaration represented a milestone toward the future American involvement in the Vietnam War. This work explains the reactions to the conference in the United States and analyzes how a combination of domestic and foreign political reasons induced the Eisenhower administration to dissociate itself from a series of agreements that stopped a bloody war – avoiding a possibly internationalization of the conflict – but had the faults to recognize a Communist partial success and to imply a multilateral cooperation with the Red China about the future definition of the political map of Asia. The anticommunist rhetorical propaganda of the Republican administration would not permit the acceptance of a compromise with the enemy without having internal political repercussions, therefore the U.S. delegations at Geneva was instructed to keep a low-profile and to dissociate itself from the Final Agreements. Such a choice allowed to the Usa to have a free hand to commit itself on the future of the area, without any tie to the results of the Geneva Conference.

Keywords: 1954 Geneva Conference; Cold War; Vietnam.

1. Gli accordi di Ginevra (luglio 1954) e la dissociazione americana Sarebbe fuorviante e semplicistico datare l’inizio dell’avventura americana in Vietnam dall’incidente nel Golfo del Tonchino nell’agosto 1964 o dallo sbarco dei primi battaglioni di marines a Da Nang nel marzo 1965. Il lungo percorso che portò gli Stati Uniti a rimanere impantanati nelle vicende del Sud-Est asiatico affonda le proprie radici nel ventennio precedente, nel corso della seconda guerra mondiale, quando l’avanzata giapponese in Indocina portò al collasso dell’impero francese e alla riscrittura della mappa strategica e geopolitica dell’area.1

1

Cfr. E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, 1918-1999, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 754, 818; G. FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 225-227; S. GUARRACINO, Storia degli ultimi sessant’anni: dalla guerra mondiale al conflitto globale, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 46-48.

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statunitensi fu costellato da numerose tappe intermedie e snodi cruciali, che spinsero lentamente, ma inesorabilmente, gli Stati Uniti verso quella che sarebbe stata la prima sconfitta politico-militare della loro storia.2

Un passaggio fondamentale e intriso di conseguenze per il futuro dell’area fu l’esito fallimentare della Conferenza di Ginevra del 1954 e la scelta degli Stati Uniti di dissociarsi dai termini finali degli accordi. Dopo due mesi di discussioni, i lavori si conclusero con la stipula di tre accordi di cessate-il-fuoco (sottoscritti dai rappresentanti militari di Francia, Vietnam del Nord, Laos e Cambogia) e con l’emanazione di una Final Declaration, diretta a porre le basi per una soluzione politica da raggiungersi tramite

2

Nonostante gli Stati Uniti avessero iniziato a monitorare con preoccupazione l’evolversi della situazione indocinese sin dai tempi dell’avanzata giapponese agli inizi degli anni Quaranta, dopo l’attacco a Pearl Harbour, Washington decise di concentrare la lotta ai nipponici nel Pacifico, lasciando agli alleati l’incombenza di combattere nel Sud-Est asiatico (gli americani provvidero, comunque, ad inviare numerosi agenti dell’OSS nell’area a collaborare con la resistenza locale e con le forze europee, ma non inviarono truppe da combattimento). La politica statunitense del secondo dopoguerra per l’Indocina oscillò inizialmente tra anti-colonialismo e neutralismo, finché l’estensione della guerra fredda all’Asia e la nascita di un regime comunista nel Vietnam del Nord non indussero Washington ad una decisa virata verso l’anti-comunismo e l’appoggio ai francesi, i quali, nel frattempo, si erano reinsediati al Sud ed erano entrati in rotta di collisione col governo di Hanoi. Il timore che Ho Chi Minh agisse per conto di un disegno orchestrato a Mosca o Pechino indusse Truman a muovere un primo passo concreto verso il coinvolgimento statunitense in Vietnam, annunciando, il 1° maggio 1950, lo stanziamento di 15 milioni di dollari a sostegno dello sforzo bellico francese in Indocina e l’invio di consiglieri americani nel paese con l’incarico di coordinare e supervisionare la distribuzione e l’impiego degli aiuti economici e militari. Cfr. K.C. STATLER, Replacing France: The Origins of American Intervention in Vietnam, Lexington, KY, University Press of Kentucky, 2007, p. 5. L’invio di aiuti alle forze francesi impegnate in Indocina era da tempo oggetto di discussione in seno all’establishment statunitense, ma la decisione finale fu presa da Truman contestualmente all’invasione effettuata dalle forze anfibie cinesi del generale Lin Piao ai danni dell’isola di Hainan. I timori di ripercussioni strategiche per la sicurezza di Taiwan e della stessa Indocina – l’isola era stata fino a quel momento un’importante testa di ponte per le truppe nazionaliste di Chiang Kai-Shek – e la sensazione che la Cina stesse sondando il terreno con l’intento di muovere un attacco contro uno dei due obiettivi indussero Truman a rompere gli indugi e a muovere il primo passo deciso verso il sostegno allo sforzo bellico francese. Cfr. U.S. Aid to Indochina, in The Pentagon Papers: The Defense Department History of United States Decision-Making on Vietnam, (d’ora in avanti, Pentagon Papers), “Senator Gravel

Edition”, Boston, Beacon Press, vol. I, 1971, p. 65, in

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209 elezioni nel 1956, nei confronti della quale tutti i paesi partecipanti alla conferenza furono chiamati a formulare il loro assenso verbale.3

3

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210

Quando, in occasione dell’ultima sessione plenaria del 21 luglio, Anthony Eden, presidente in carica della Conferenza, interpellò il sottosegretario di Stato americano Bedell Smith, questi pronunciò una dichiarazione unilaterale che dissociava gli Stati Uniti dai termini conclusivi degli accordi e precisava la posizione del governo di Washington sulla questione. Tale iniziativa non colse di sorpresa nessuna delegazione presente a Ginevra, poiché, durante le varie fasi della conferenza, gli Stati Uniti avevano già indicato sia in pubblico, sia in privato, che non sarebbero stati cofirmatari di alcun accordo con i comunisti e che, nella migliore delle ipotesi, si sarebbero limitati ad impegnarsi a rispettare gli accordi finali.4

Malgrado i termini conclusivi degli accordi fossero pressoché in linea con il documento dei Seven Points, sottoscritto il 29 giugno, di concerto con Londra, erano in pochi a credere che gli Stati Uniti avrebbero accettato di associarsi ad una serie di accordi che avrebbero implicato un cedimento di terreno ai comunisti e il riconoscimento de facto di una compartecipazione cinese nella gestione degli affari dell’Asia.5Sono diversi i passaggi della dichiarazione di Smith che meritano di essere evidenziati: per bocca del sottosegretario di Stato, il governo degli Stati Uniti

«[took] note of the Agreements concluded at Geneva on July 20 and 21, 1954, between (a) the Franco-Laotian Command and the Command of the

discorsi pronunciati dalle varie delegazioni presenti a Ginevra, si rimanda a K.T. YOUNG, ed., The 1954 Geneva Conference: Indo-China and Korea, New York, Greenwood Press, 1968.

4

Cfr. Dissenting Views: The American and Vietnamese Positions, in Pentagon Papers, cit., pp. 160-161, in https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent8.htm.

5

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211 People’s Army of Vietnam; (b) the Royal Khmer Army Command and the Command of the People’s Army of Vietnam; (c) Franco-Vietnamese Command and the Command of the People’s Army of Vietnam, and the paragraphs 1 to 12 of the Declaration presented to the Geneva Conference on July 21, 1954».6

Gli Stati Uniti, dunque, pur rifiutando di associarsi ai documenti conclusivi, presero atto dei tre accordi di armistizio stipulati tra la Francia e i rappresentanti di Laos, Cambogia e Vietnam del Nord, e dei primi dodici paragrafi della Final Declaration, omettendo di menzionare o di avanzare alcun riferimento al paragrafo 13 del documento. Sebbene l’orientamento di base della delegazione statunitense fosse stato già delineato in precedenza, la posizione finale degli Stati Uniti in rapporto alla Dichiarazione Finale fu dibattuta ampiamente in concomitanza con l’ultima settimana dei lavori. Mentre, da Washington, il segretario di Stato Dulles spingeva per una linea ferma e intransigente nei riguardi dei comunisti, il sottosegretario Bedell Smith (esposto a forti pressioni da parte di Francia e Inghilterra) sembrava orientato verso un atteggiamento più flessibile nei riguardi della controparte, arrivando al punto di esigere e ottenere da Dulles il via libera per una parziale accettazione del documento.7

Quando la bozza della Final Declaration fu sottoposta al segretario di Stato Dulles, questi decise di accogliere le istanze di Smith, obiettando, però, sulla seconda parte del paragrafo 9, il quale sarebbe divenuto poi il paragrafo 13 nel testo finale, poiché, a suo dire, quel passaggio avrebbe implicato due conseguenze inaccettabili per Washington: il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in caso di eventuali violazioni degli accordi di pace

6

U.S. Unilateral Declaration on Indochina, Statement by Under Secretary of State Bedell Smith at the Concluding Plenary Session on Indochina, July 21, 1954, in Foreign Relations of the United States, [d'ora in avanti, FRUS], 1952-1954, The Geneva Conference, vol. XVI, pp. 1500-1501, in http://digicoll.library.wisc.edu/cgi-bin/FRUS/FRUS-idx?type=goto&id= FRUS.FRUS195254v16&isize=M&submit=Go+to+page&page=1485.

7

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ad opera dei governi di Hanoi e Saigon; l'accettazione implicita di una sorta di cooperazione multilaterale con i comunisti cinesi (incompatibile – come si vedrà più avanti – con la dichiarata ostilità dell’amministrazione repubblicana nei confronti della Repubblica Popolare).8

Un altro passaggio degno di nota della dichiarazione di Smith recitava che

«the Government of the United States declares with regard to the aforesaid Agreements and paragraphs that (i) it will refrain from the threat or the use of force to disturb them, in accordance with Article 2 (Section4) of the Charter of the United Nations dealing with the obligation of Members to refrain in their international relations from the threat or use of force; and (2) it would view any renewal of the aggression in violation of the aforesaid Agreements with grave concern and as seriously threatening international peace and security»9

Affermando la volontà di astenersi dall’uso della forza, gli Stati Uniti implicitamente manifestarono la propria insoddisfazione nei riguardi di una serie di accordi che, a loro dire, non rispondevano appieno ai principi di autodeterminazione e libertà dei popoli, in ottemperanza ai quali Washington si impegnava a non intervenire militarmente nell’area. Tale orientamento fu ulteriormente precisato, menzionando un passaggio del comunicato congiunto anglo-americano del 29 giugno, secondo cui,

«in the case of nations now divided against their will, we shall continue to seek to achieve unity through free elections, supervised by the United nations to ensure that they are conducted fairly»,

e ribadito nuovamente in tali termini: 8

In un memorandum del 19 luglio, inviato da Dulles alla delegazione statunitense presente a Ginevra, il segretario di Stato sostenne che «[I] have no objection to including first portion of paragraph 9 of proposed Conference Declaration but am concerned to as to effect of including second portion of paragraph 9 as this seems to imply a multilateral engagement with Communists which would be inconsistent with our basic approach and which subsequently might enable Communist China to charge us with alleged violations of agreement to which it might claim both governments become parties». Telegram from Secretary of State Dulles on the Conference Declaration, July 19, 1954, [Doc. 91], in Pentagon Papers, vol. I, pp. 568-569, in https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/doc91.htm.

9

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213 «With respect to the statement made by the Representatives of the State of Vietnam, the United States reiterates its traditional position that peoples are entitled to determine their own future and that it will not join in an arrangement which would hinder this. Nothing in its declaration just made is intended to or does indicate any departure from its traditional position».10

Facendo riferimento al diritto di autodeterminazione dei popoli e invocando con insistenza il ruolo di garante delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti rivelarono il loro disappunto per la decisione di non affidare all'ONU un ruolo di supervisione relativamente all’osservanza degli accordi di armistizio e all’espletamento della fase di transizione post-bellica, la quale sarebbe culminata con una tornata elettorale prevista per il 1956.11 Il passaggio in cui il sottosegretario di Stato ammoniva il Vietnam del Nord e affermava che gli Stati Uniti avrebbero inteso una recrudescenza delle azioni militari di Hanoi come una grave minaccia alla pace e alla stabilità internazionale merita di essere menzionato, poiché fu citato da Kennedy come base per giustificare l’impegno statunitense nella difesa del Vietnam, in occasione di una lettera inviata a Diem il 14 dicembre 1961, con la quale Washington annunciò un pesante incremento degli aiuti americani al governo di Saigon, marcando un nuovo passo verso il pieno coinvolgimento statunitense.12

In realtà, analizzate nel contesto della conferenza, le parole di Smith non sembravano implicare un impegno a lungo termine degli Stati Uniti nella difesa del Vietnam del Sud, bensì una sorta di monito nei confronti dei vertici di Hanoi per scoraggiarli dal promuovere o intraprendere iniziative di sovversione e destabilizzazione dell’area nel periodo compreso tra il 1954 e il 1956 (data delle future elezioni politiche e della riunificazione del

10

Ibid.

11

Sebbene il disaccordo attorno al ruolo da attribuire all’ONU nella supervisione del processo di transizione post-bellica avesse caratterizzato sia le discussioni sulla Corea, che quelle sull’Indocina, completamente opposti furono gli esiti finali. Mentre, nel primo caso, le parti in causa poterono permettersi di restare ferme sulle proprie posizioni, rischiando il fallimento delle trattative (come, poi, effettivamente avvenne, poiché lo status quo e i confini erano ormai stabilizzati militarmente al punto da far ritenere improbabile una ripresa delle ostilità), nel secondo caso, il mancato raggiungimento di un accordo avrebbe portato ad una certa ripresa dei combattimenti e ad una probabile internazionalizzazione del conflitto, motivo per il quale i due blocchi ritennero indispensabile giungere ad un compromesso, che rimandasse al futuro una soluzione politica e delegasse ai vietnamiti la risoluzione delle proprie controversie interne.

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paese).13 La posizione statunitense sarebbe stata, poi, nuovamente ribadita da Eisenhower, in occasione di un discorso pronunciato il 21 luglio.14 2. Le ragioni della dissociazione: la politica asiatica degli Stati Uniti tra

containment, roll-back e domino theory

Una domanda sorge spontanea: perché la più grande democrazia del mondo rifiutò di associarsi ai termini di un cessate-il-fuoco e di una dichiarazione finale che, seppur in maniera imperfetta, ponevano fine ad un conflitto locale, che, se fosse proseguito, avrebbe potuto trascinare i due blocchi in un conflitto su vasta scala? A determinare la scelta statunitense di dissociarsi dai termini finali degli accordi non intervennero esclusivamente considerazioni relative alla situazione sul campo, ma anche ragioni riconducibili alla politica interna e all’evolversi della guerra fredda nel quadro internazionale.

Per comprendere appieno il background della dissociazione statunitense occorre risalire al biennio 1949-1950, periodo in cui la guerra fredda travalicò i confini europei in cui era sorta, estendendosi al continente asiatico. L’avanzare del comunismo in Asia, legato alla vittoria delle forze di Mao Tse Tung in Cina, all’esplosione della prima bomba atomica sovietica, al trattato sino-sovietico e allo scoppio della guerra di Corea impose una revisione della prima strategia di containment delineata da George Kennan nel 1946.15

13

Cfr. Dissenting Views: The American and Vietnamese Positions, in Pentagon Papers, cit., vol. I, pp. 160-161, in http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent8.htm.

A sancire una virata nella politica estera statunitense intervenne la direttiva National Security Council Report 68 del 14 aprile 1950, meglio nota come NSC-68, la quale implicava una nuova versione globale di contenimento:

14

Cfr. News Press by President Eisenhower, July 21, 1954, in «The Department of State Bulletin», XXXI, 788, August 2, 1954, p. 163.

15

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215 «The assault on free institutions is world-wide now, and in the context of the present polarization of power a defeat of free institutions anywhere is a defeat everywhere».16

Con essa, veniva meno l’originaria distinzione tra aree centrali e aree periferiche; per l’Occidente, non si trattava più di difendere punti strategici lungo un perimetro difensivo, bensì di intraprendere una sfida globale di natura politica, economica, ideologica e, se necessario, militare nei confronti del comunismo. Questo nuovo concetto di contenimento si legava, quindi, ad un’antitesi inconciliabile e ad un’opposizione manichea tra il “mondo libero” e la “società della schiavitù”.17 Inoltre, tale documento accentuava l’interesse statunitense verso l’emancipazione dei paesi sottoposti a regimi coloniali, sottolineando la necessità di stabilizzare tali società, orientandone i processi di transizione in senso filo-occidentale.18

Fino a quel momento, le attenzioni di Truman si erano concentrate principalmente sul fronte europeo, relegando l’Asia in un ruolo di secondo piano, ma ormai l’estensione della guerra fredda all’Asia e i fatti avvenuti in Corea esigevano una nuova attenzione verso quell’area senza correre il rischio di sguarnire il fronte europeo. A complicare ulteriormente la situazione, vi era la consapevolezza che le risorse economiche e militari americane non fossero illimitate, ragion per cui la strategia del containment andava sostanzialmente ampliata e rivista, ma con un occhio di riguardo al perseguimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio.

Alla luce delle recenti vittorie del comunismo in Asia e dei nuovi dettami imposti dall’NSC-68, gli Stati Uniti erano tenuti ad agire in Indocina per contrastare una nuova avanzata del comunismo. Tra l’altro, il periodo che vide Washington rivolgere pesantemente le proprie attenzioni al continente asiatico registrò il passaggio di consegne dall’amministrazione democratica a guida Truman all’amministrazione Eisenhower a guida repubblicana.

19

Se normalmente, a seguito di un avvicendamento elettorale alla

16

A Report to the National Security Council - NSC 68, April 12, 1950, President's Secretary's File, Truman Papers, in http://www.trumanlibrary.org/whistlestop/study_collections/ coldwar/documents/pdf/10-1.pdf.

17

Cfr. R. CROCKATT, Cinquant’anni di guerra fredda, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 121-124; F. ROMERO, Storia della guerra fredda: l’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009, pp. 78-81.

18

Cfr. ibid.

19

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216

presidenza, ci si attendeva importanti cambiamenti in politica interna, mentre in politica estera era di norma assicurata una certa continuità tra l’amministrazione entrante e quella uscente, nel caso dell’elezione di Eisenhower la prassi fu rovesciata (perlomeno sul piano retorico), poiché il presidente interpretò la sua elezione come un mandato per un significativo cambiamento in politica estera.20 La stessa scelta di nominare John Foster Dulles come segretario di Stato è emblematica per comprendere gli orientamenti della nuova amministrazione. Il documento programmatico che aveva riportato il Grand Old Party alla Casa Bianca portava proprio la firma di Dulles: era un testo molto significativo, che proponeva, almeno nelle intenzioni, il ripudio della politica del contenimento, che aveva guidato la politica estera americana dal 1946.21 I repubblicani ritenevano il containment una politica difensiva, passiva, che aveva costretto gli Stati Uniti ad accontentarsi del mantenimento dello status quo; lo stesso neutralismo non era considerato opzione valida, poiché, in una competizione manichea, bisognava schierarsi pro o contro il mondo libero. In base a queste convinzioni, Dulles aveva attaccato duramente la prospettiva Asia last, ripudiando gli accordi di Yalta e il sacrificio dei popoli dell’Europa orientale, annunciando la volontà americana di respingere l’avversario, riprendere l’iniziativa, privare il comunismo della sua forza politico-militare e cacciare indietro l’Unione Sovietica nell’orbita pre-bellica.22 Dal semplice contenimento si passava, quindi, al roll-back, cioè ad una politica mirante al respingimento del comunismo. Dulles riteneva che la scelta dell’amministrazione Truman di attuare azioni di contenimento limitate avesse permesso all’Unione Sovietica di scegliere modi, tempi e luoghi per affrontare gli Stati Uniti, motivo per cui auspicava un rovesciamento di tale indirizzo.23

A testimonianza di quanto l’amministrazione repubblicana avesse fatto proprio tale orientamento, il 7 aprile, nel corso di una conferenza stampa, il presidente Eisenhower enunciò la prima formulazione organica della cosiddetta “Domino Theory”, la quale avrebbe condizionato la politica

20

Cfr. BATOR, Vietnam: A Diplomatic Tragedy, cit., pp. xii-xiii.

21

Il testo del documento è consultabile all’indirizzo web http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=25837#axzz1nidkD5vt.

22

Cfr. R. PETRIGNANI, L’era americana: gli Stati Uniti da Franklin D. Roosevelt a George W. Bush, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 160-165.

23

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217 statunitense in Asia per tutto il ventennio successivo.24 Gli americani pensavano fosse vitale impedire un avanzamento dei comunisti in Vietnam quanto lo era stato bloccare i nord-coreani, poiché era forte il timore che la perdita dell’Indocina avrebbe innescato una reazione a catena, portando alla caduta dell’intero Sud-Est asiatico e delle aree circostanti (includendo, quindi, anche Giappone, Australia e Nuova Zelanda) nelle mani del blocco socialista.25

Ma i propositi dell’establishment presidenziale si scontravano con la realtà di una situazione sfavorevole sul campo. L’idea di una conferenza di pace, che ponesse fine alla guerra franco-indocinese, era stata argomento di intensi scambi e aperture diplomatiche già dalla seconda metà del 1953 (subito dopo l’armistizio di Panmunjon), ma, tra i vari paesi interessati, gli Stati Uniti erano certamente i meno entusiasti di sedersi al tavolo dei negoziati. La contrarietà americana partiva da lontano ed era riconducibile a due motivi: la consapevolezza della posizione di forza sul campo dei guerriglieri Vietminh, posizione che si sarebbe probabilmente tradotta in un vantaggio per i comunisti al tavolo delle trattative; la pressoché certa presenza di rappresentanti cinesi in sede negoziale. Washington cercò di indurre Parigi a intensificare lo sforzo bellico e a posticipare l’apertura di un negoziato, solo quando i francesi si fossero trovati in posizione di forza. Dulles cercò in tutti i modi di dissuadere Bidault, asserendo che sarebbe stato immorale trattare con i comunisti e ventilando che ciò avrebbe minato il morale delle truppe sul campo, ma la posizione di estrema precarietà del corpo di spedizione francese e l’instabilità del governo in carica non consentiva all’esecutivo un rinvio della questione.

I proclami e la retorica della nuova amministrazione imponevano, quindi, a Washington un atteggiamento di fermezza e di dura opposizione verso qualunque tipo di concessione o accomodamento nei riguardi dei comunisti.

26

24

President Dwight Eisenhower’s News Conference, April 7, 1954, in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=10202. Dal momento che tali argomentazioni erano state già affrontate dall’establishment statunitense verso la fine degli anni Quaranta, la “teoria del domino” non costituiva una novità assoluta. Tuttavia, fu solo in occasione del famoso discorso del 7 aprile che essa fu formulata e annunciata organicamente per la prima volta al popolo americano.

25

Cfr. DEVILLERS -LACOUTURE, End of a War, cit., p. 111; RANDLE, Geneva 1954, cit., p. 108.

26

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Di conseguenza, gli Stati Uniti si trovavano con le spalle al muro, poiché le alternative alla conferenza internazionale erano tre: 1) rifiutare di negoziare, e ciò avrebbe comportato perdite che la Francia non avrebbe mai accettato; 2) trattare direttamente con Ho Chi Minh, ma ciò avrebbe comportato il riconoscimento della RDV e la perdita certa di una parte del territorio del Vietnam; 3) rimandare i negoziati a data da destinarsi, in attesa di un miglioramento sul campo, ma in sette anni di guerra miglioramenti non se ne erano visti. Alla luce di queste considerazioni, l’establishment statunitense decise che la conferenza multilaterale sarebbe stata, in ogni caso, l’opzione più accettabile, anche perché il taglio delle spese militari, la riduzione del 10% degli effettivi delle forze armate e la volontà di non inviare truppe di terra a combattere in Indocina restrinsero di molto le possibilità di scelta degli Stati Uniti.

Tra l’altro, i delegati statunitensi sapevano che un rinvio della questione a data da destinarsi avrebbe dato ai comunisti l’idea di un Occidente diviso e avrebbe certamente indebolito il governo Laniel, aprendo la strada ad una nuova crisi di governo. Il verificarsi di tale eventualità avrebbe minato la ratifica dell’EDC e portato al potere il partito anti-guerra, il quale avrebbe immediatamente trovato un accordo col Vietminh, ritirando le truppe dal paese e facendo scivolare sugli americani la responsabilità dell’Indocina.27 Inoltre, respingendo le avances di pace di Mosca, gli Stati Uniti avrebbero concesso ai sovietici un indubbio successo in termini di propaganda e avrebbero indispettito l’opinione pubblica francese (la quale avrebbe ritenuto che gli statunitensi preferissero sacrificare le truppe francesi, anziché negoziare con la CPR) e la Gran Bretagna, che, avendo già riconosciuto il governo di Pechino, non vedeva motivi ragionevoli che giustificassero la condotta americana.28

effetti, diverse voci all’interno dell’amministrazione Eisenhower consigliavano di fare il possibile per evitare il linkage, e di tenere, quindi, separate le due questioni. Nonostante le raccomandazioni, l’establishment statunitense fallì tale obiettivo e la storiografia ha indicato il segretario di Stato Dulles come il principale responsabile della débâcle. Cfr. STATLER, Replacing France, cit., p. 105.

Gli Stati Uniti, quindi, messi alle strette dalle pressioni di Parigi e Londra, dovettero accettare la convocazione della conferenza di pace e la partecipazione della Cina alle

27

Cfr. French Leverage on the United States, in Pentagon Papers, cit., vol. I, pp. 78-80, in https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent6.htm. A questo proposito, la delegazione americana era costretta a portare avanti con grande cautela le proprie rivendicazioni, per non dare all’opinione pubblica francese l’impressione di voler sovvertire lo sforzo negoziale del premier Laniel. Cfr. ANDERSON, Trapped by Success, cit., p. 55.

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219 future discussioni. Ma, una volta appurata l’impossibilità di chiamarsi fuori dalla conferenza o di impedirla, per Washington restava un problema importante a cui far fronte: la presenza dei delegati cinesi e la necessità di scongiurare il riconoscimento diplomatico della Repubblica Popolare. Dulles era consapevole che l’imminente conferenza su Corea e Indocina sarebbe stata molto diversa rispetto ai negoziati di Panmunjon: se, in quella circostanza, le trattative avevano visto due potenze belligeranti discutere in merito ad una singola questione nella quale erano direttamente implicate, a Ginevra si sarebbe tenuta una conferenza internazionale tra grandi potenze chiamate a discutere sui problemi dell’Asia, in occasione della quale Pechino avrebbe potuto dare prova di poter essere ammessa nel club delle superpotenze e ricevere un importante ritorno in termini di popolarità.29 Già il 26 gennaio, il segretario di Stato americano si era espresso in termini negativi circa la partecipazione cinese ad una conferenza internazionale, asserendo che Washington avrebbe respinto l’idea che la Cina facesse parte di una conferenza a cinque i cui partecipanti avrebbero avuto il compito di determinare il destino del Sud-Est asiatico:

«I would like to state plainly and unequivocally what the Soviet Foreign Minister already knows – the United States will not agree to join in a five power conference with the Chinese Communist aggressor for the purpose of dealing generally with the peace of the world. The United States refuses not because, as it suggested, it denies that the regime exists or that it has power. We in the United States know that it exists and has power, because its aggressive armies joined with the North Korean aggressor to kill and wound 150.000 Americans who went to Korea with British, French, and other United Nations forces to resist that aggression […] We do not refuse to deal with it where occasion requires. We did deal with it in making the Korean armistice. We deal with it today at Panmunjom in our effort to bring about a Korean peace conference. It is, However, one thing to recognize evil as a fact. It is another thing to take evil to one’s breast and call it good. Moreover, the United States rejects the Soviet concept that any so-called “five great powers” have a right to rule the world and to determine the destinies of our nations».30

Tuttavia, a distanza di due giorni, Dulles riferì che avrebbe accettato di discutere su questioni specifiche con Pechino, a patto che fossero stati

29

Cfr. ibid., p. 47.

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presenti anche altri Stati interessati, ma precisò pure che l’amministrazione Eisenhower non avrebbe mai acconsentito a discutere con la Cina su questioni generali di sicurezza mondiale e di riduzione delle tensioni in Asia o in qualsiasi altro posto nel mondo:31 in merito alla necessità di scongiurare il riconoscimento diplomatico di Pechino, Dulles si era già adoperato in occasione del summit di Berlino. Il segretario di Stato era a conoscenza delle leggi internazionali che regolamentavano il riconoscimento degli Stati e dei governi e sapeva che, sia nei casi di de jure recognition (riconoscimento di un governo legalmente costituito), sia nei casi di de facto recognition (riconoscimento di un governo che controlla di fatto un territorio o una popolazione), sarebbe stato necessario un atto o un’esplicita dichiarazione di un soggetto politico nei riguardi della controparte interessata. Il consenso di un governo affinché un altro partecipasse ad un negoziato non ne implicava necessariamente il riconoscimento; tuttavia, esisteva una consuetudine, secondo cui un atto tra un governo X e un governo Y, come ad esempio la stipula di un accordo commerciale o politico (o anche la partecipazione ad una conferenza multilaterale, in forma di “riconoscimento presunto”), avrebbe potuto essere rigettata da un'esplicita dichiarazione di rifiuto al riguardo. Ed è proprio ciò che Dulles chiese con insistenza e che, alla fine, ottenne.32

Gli Stati Uniti riuscirono a resistere alle forti pressioni di Molotov, il quale, a poche ora dalla chiusura del summit, dovette cedere alle richieste americane, accettando che, nel comunicato finale del 18 febbraio 1954, fosse inserito un punto in cui si specificava che

«it is understood that neither the invitation to, nor the holding of, the above-mentioned Conference shall be deemed to imply diplomatic recognition in any case where it has not already been accorded».33

Tale aspetto fu nuovamente ribadito da Dulles subito dopo la chiusura del summit, quando precisò alla stampa che, per Washington, il regime

31

Cfr. RANDLE, Geneva 1954, cit., pp. 20-23.

32

Cfr. ibid., pp. 46-47.

33

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221 comunista avrebbe continuato a non essere riconosciuto:

«[…] The Communist regime from the U.S. standpoint remains unrecognized […]. We maintain our refusal to give it [China] any position of preferment, or to contribute to the enhancement of its authority and prestige».34

Quindi, ancora prima che la conferenza fosse indetta, Washington aveva già tracciato una linea politica fermamente orientata a neutralizzare qualunque pretesa di riconoscimento diplomatico del governo di Pechino, e la scelta finale di non associarsi ai termini della Final Declaration e di ignorare completamente il paragrafo 13 è da intendere proprio come prosecuzione di tale orientamento, poiché l’accettazione di esso avrebbe comportato una sorta di riconoscimento de facto del ruolo e del prestigio internazionale della Repubblica Popolare. La delegazione statunitense non avrebbe potuto assolutamente permettersi di associarsi ai termini degli accordi senza che questo comportasse contraccolpi interni per l’esecutivo: l’amministrazione americana era già sotto il fuoco incrociato degli attacchi provenienti da una parte della stampa e dall’ala più estrema del G.O.P, solo per il fatto di essersi seduta ad una conferenza con i cinesi; di conseguenza, non avrebbe potuto permettersi di sottoscrivere degli accordi che implicavano un cedimento di terreno ai comunisti.

Consapevoli della complessità della situazione, nelle settimane che precedettero l’apertura dei lavori, gli Stati Uniti si avvicinavano all’apertura della conferenza con un misto di scetticismo, incertezza e distacco. Nell’approssimarsi l'appuntamento di Ginevra, gli Stati Uniti perseguivano un duplice approccio: preservare l’armonia e l’unità dell’alleanza occidentale (per quanto possibile, l’amministrazione Eisenhower cercò di non interferire nelle trattative “dietro le quinte” tra i diplomatici francesi e comunisti); guardare oltre la conferenza, alla ricerca di un modo per aiutare i nazionalisti vietnamiti a prevenire la caduta dell’Indocina nelle mani comuniste.35

34

Telegram by Secretary of State to the Department of State, February 18, 1954, in FRUS, 1952-1954, The Geneva Conference, vol. XVI, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 1952-1954, pp. 15-18, in http://digicoll.library.wisc.edu/cgi-bin/FRUS/FRUS-idx?type=turn&entity=FRUS.FRUS195254v16.p0041&id=FRUS.FRUS195254v16&isize=M.

Ma, data la proibitiva situazione sul campo, Washington decise che l’America avrebbe tenuto un basso profilo e si sarebbe dissociata dai

35

(16)

222

termini finali nell’eventualità, tutt’altro che remota, di un accordo sfavorevole agli interessi statunitensi.36

Prima della partenza per Ginevra, i delegati statunitensi ricevettero l’ordine di ignorare i cinesi, poiché temevano che un semplice gesto potesse essere inteso come un segno implicito di riconoscimento. In occasione dell’apertura dei lavori, Dulles rifiutò di stringere la mano a Chou En Lai e dichiarò alla stampa che non si sarebbe mai incontrato con il leader cinese, a meno che le loro auto non si fossero scontrate.37 La speranza dell’amministrazione americana era che la Francia combattesse ancora per un anno o due – il tempo necessario ad addestrare un forte esercito sud-vietnamita in grado di sconfiggere le forze del Vietminh – e che l'Unione Sovietica e Cina avanzassero richieste talmente esorbitanti da far saltare la conferenza e impedire un accordo.38

Sebbene Dulles e Eisenhower sperassero che la conferenza sarebbe arrivata alla scadenza senza il conseguimento di un’intesa, non fecero alcun tentativo attivo di scongiurare un accordo, piuttosto cercarono di tenere la porta aperta per un’americanizzazione dello sforzo anti-comunista dopo Ginevra.39 Ma la posizione americana era difficile: se l’opinione pubblica storceva il naso dinanzi all’eventualità di negoziare con i comunisti e giungere ad un’intesa con loro, nello stesso tempo si opponeva all’invio di truppe.40

36

A riprova di quanto gli Stati Uniti si accostassero con distacco alla fase indocinese, basti pensare che l’8 maggio, poco prima dell’apertura delle discussioni sull’Indocina, Dulles ritornò a Washington, lasciando come capo-delegazione statunitense Bedell Smith, e minacciando di ritirare anche quest’ultimo e di relegare ad un funzionario di rango inferiore il compito di presenziare alla conferenza, se gli eventi avessero preso una piega inaccettabile per gli Stati Uniti. Tra l’altro, lo stesso Bedell Smith fu richiamato in patria per qualche giorno, salvo poi essere rispedito a Ginevra dopo le pressioni degli alleati e dopo aver ricevuto rassicurazioni in merito alla condotta francese. Cfr. The Franco-American Understanding, in Pentagon Papers, cit., pp. 149-152, in http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent8.htm; D.D. EISENHOWER, Mandate for Change, 1953-1956: The White House Years, New York, New American Library, 1965, p. 432; DEVILLERS-LACOUTURE, End of a War, cit., pp. 272-274; RANDLE, Geneva 1954, cit., pp. 319-324.

Dulles, dal canto suo, sembrava molto propenso a minacciare l’uso

37

Cfr. The Communication Gaps, in Pentagon Papers, cit., vol. I, p. 112-113, in http://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent7.htm.

38

Cfr. ibid.

39

Cfr. ANDERSON, Trapped by Success, cit., p. 42; L.C. GARDNER, Approaching Vietnam: From World War II through Dienbienphu, 1941-1954, New York, Norton, 1998, pp. 248-256; G.C. HERRING, America's Longest War: The United States and Vietnam, 1950-1975, New York, Knopf, 1986, pp. 37-40.

40

(17)

223 della forza, ma poco incline ad usarla realmente.41 La questione di un eventuale intervento americano in Indocina fu dibattuta prima, durante e dopo la conferenza, e fu oggetto di continui scambi di vedute all’interno dell’amministrazione americana e tra gli alleati del blocco occidentale. Washington decise che sarebbe intervenuta in Vietnam solo se i partners occidentali (Gran Bretagna in primis) si fossero uniti all’azione, ma, dinanzi al diniego di Londra, gli Stati Uniti decisero di temporeggiare e aspettare l’esito della conferenza, impegnandosi, nel contempo, per la creazione di un sistema di difesa integrato nel Sud-Est asiatico sul modello della Nato.42 In quel momento, l’appoggio e il sostegno al regime di Saigon sembravano, quindi, l’unica carta in mano a Washington, tanto che gli statunitensi si videro costretti ad appoggiare costantemente le sproporzionate e irrealistiche pretese della delegazione sud-vietnamita al tavolo dei negoziati, poiché temevano che se il governo di Saigon fosse stato privato del sostegno americano, avrebbe optato per un ritiro dalle trattative e per la riapertura delle ostilità, col conseguente rischio di una internazionalizzazione del conflitto. Malgrado vi fosse consapevolezza dei limiti e della scarsa presa del gruppo dirigente sud-vietnamita in termini di consenso popolare, gli Stati Uniti non avevano altre alternative, anche perché, sebbene in molti all’interno dell’amministrazione americana auspicassero la nascita di una “terza forza” in Vietnam, alternativa sia al

41

Cfr. RANDLE, Geneva 1954, cit., p. 110.

42

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224

colonialismo, sia al comunismo, non esistevano gruppi organizzati in tal senso.43

A testimonianza di quanto fosse complessa la gestione della questione per Washington, è emblematico un memorandum inviato dal segretario di Stato, Dulles, alla delegazione statunitense presente a Ginevra:

«I am aware of the disabilities ascribed to Bao Dai and believe him to be to be an ally of uncertain value for the long push […]. In any event, we do not seem to have on this side of the lines an immediately available substitute. […] Accordingly, it would seem advisable not to attempt to find a substitute for Bao Dai, but to avail ourselves of what he has to offer, meanwhile remaining alert to minimize his power to do harm if he should evince tendency to revert to his old habits or to adopt new ones contrary to our interests».44

Tuttavia, la posizione americana rimaneva vaga e incerta, tanto che sarebbe fuorviante attribuirle un obiettivo preciso da conseguire in sede di negoziato; era evidente che le intenzioni e l’agire degli Stati Uniti nel corso della conferenza sarebbero mutati in base all’incalzare degli eventi in Indocina e all’atteggiamento degli altri paesi partecipanti.

Nel definire la propria linea di condotta nei riguardi della questione indocinese, la diplomazia americana fu influenzata pesantemente dall’esperienza di Panmunjon e dal fallimento della conferenza coreana: questi due eventi convinsero l’amministrazione Eisenhower dell’assunto che negoziare con i comunisti fosse vano; motivo per cui, nonostante fosse chiaro a tutti che, data la situazione sul campo, sarebbe stato imprescindibile cercare un compromesso con il Vietminh, Washington scelse, fin dalle prime battute della conferenza, la via del distacco e della dissociazione.45

43

Cfr. ANDERSON, Trapped by Success, cit., pp. 44-45. Tale orientamento fu riportato dallo scrittore Graham Greene nel romanzo The Quiet American. Il protagonista, Alden Pyle (un agente segreto americano di stanza in Vietnam), si esprime in questi termini in merito alla questione: «There were always a Third Force to be found free from Communism and the taint of colonialism – national democracy […] you only had to find a leader and keep him safe from the old colonial powers». G. GREENE, The Quiet American, London, Heinemann, 1969, p. 48

44

The Secretary of State to the United States Delegation, May 22, 1954, in FRUS, 1952-1954, The Geneva Conference, vol. XVI, Washington D.C, U.S., Government Printing Office, 1952-1954, pp. 892-894, in http://digicoll.library.wisc.edu/cgi-bin/FRUS/FRUS-idx?type=turn&entity=FRUS.FRUS195254v16.p0918&id=FRUS.FRUS195254v16&isize=M.

45

(19)

225 La dissociazione dai termini finali degli accordi permise all’establishment repubblicano di salvare la faccia dinanzi all’opinione pubblica interna e dinanzi all’alleato sud-vietnamita, scaricando su altri le responsabilità per la stipula di un accordo ritenuto sfavorevole all’Occidente e mantenendo fede alla linea dichiaratamente anti-comunista dell’amministrazione, mentre gli americani, coerenti con il principio di autodeterminazione, si dissociavano da un accordo che sembrava non conforme ad esso. La dichiarazione unilaterale di Smith, essendo una semplice espressione di un orientamento o attitudine, aveva il pregio di lasciare gli Stati Uniti svincolati da qualunque obbligo e pienamente liberi di stabilire il futuro corso d’azione da intraprendere nell’area, senza, peraltro, costituire alcuna violazione degli obblighi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite.46

Data la situazione sul campo, è possibile sostenere che l’Occidente ottenne il meglio possibile: riuscì a limitare le pretese dei comunisti (che, data la situazione delle forze sul campo, avrebbero potuto assumere una posizione molto più ferma di quanto non fecero) e crearono i presupposti affinché Washington potesse prendere tempo e provvedesse al rafforzamento del governo di Saigon, in modo da farne un bastione anti-comunista nel Sud-Est asiatico.47

3. Le reazioni negli Stati Uniti

Nonostante ciò, l’esito della conferenza e la dissociazione americana furono accolti con sentimenti contrastanti negli Stati Uniti: da un lato, i termini dell’accordo si erano rivelati piuttosto vicini a quelli definiti con Francia e

46

Cfr. RANDLE, Geneva 1954, cit., pp. 415-417.

47

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226

Gran Bretagna nel documento dei Seven Points, in virtù del quale l’establishment statunitense era riuscito a impedire una guerra in Asia in anno di elezioni, la politica strategica del New Look era stata salvaguardata, e Washington non si era compromessa in un’operazione militare a favore della Francia, allontanando così l’accusa di imperialismo neo-coloniale;48 dall’altro lato, però, leggendo il risultato dalla lente speciale dell’amministrazione Eisenhower, era chiaro che l'aver ceduto nuovo terreno al blocco comunista dopo la perdita della Cina e la crescita del prestigio internazionale di CPR e Unione Sovietica come fautori della coesistenza pacifica, rappresentavano serie sconfitte per gli Stati Uniti.49 Diversi esponenti del G.O.P (il senatore Knowland in primis) lo intesero come uno smacco per la democrazia e il mondo libero, mentre una parte della stampa accusò Dulles e Eisenhower di essersi resi responsabili di un nuovo “patto di Monaco” e di una nuova “perdita della Cina”, arrivando a definire la Conferenza di Ginevra come la “Yalta del Sud-Est asiatico”.50 La posizione ufficiale dell’amministrazione americana in merito all’accordo fu espressa dal presidente Eisenhower in una conferenza stampa del 21 luglio, in occasione della quale manifestò soddisfazione per l’interruzione del bagno di sangue in Indocina, specificando, nel contempo, che gli Stati Uniti non avevano avuto parte negli accordi, prendendo le

48

Cfr. RANDLE, Geneva 1954, cit., pp. 355-356 e 555. Tra l’altro, sebbene criticata da più parti, la stessa strategia di deterrenza applicata da Dulles nei confronti di Unione Sovietica e Cina sembrò almeno in parte funzionare. Sebbene le concessioni accordate dai comunisti non siano interamente attribuibili ai moniti americani, è ipotizzabile che la minaccia di internazionalizzare la guerra possa avere indotto i comunisti ad un atteggiamento più prudente e conciliante.

49

Cfr. Objectives of the Participants: The Western Big Three. The Americans, in Pentagon Papers, cit., vol. I, p. 173, in https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pentagon/pent8.htm.

50

(21)

227 distanze dai termini sottoscritti e riferendo dei colloqui per l’organizzazione della SEATO:

«I am glad, of course, that agreement has been reached at Geneva to stop the bloodshed in Indochina. The United States has not been a belligerent in the war. The primary responsibility for the settlement in Indochina rested those nations which participated in the fighting. Our role at Geneva has been at all times to try to be helpful where desired and to aid France and Cambodia, Laos and Vietnam to obtain a just and honorable settlement which will take into account the needs of the interested people. Accordingly, the United States has not itself been party to or bound by the decision taken by the Conference, but is our hope that it will lead to the establishment of peace consistent with the rights and the needs of the countries concerned. The agreement contains features which we do not like, but a great deal depends on how they work in practice. […] The United States is actively pursuing discussion with other free nations with a view to the rapid organization of a collective defense in Southeast Asia in order to prevent further direct or indirect Communist aggression in that general area».51

Due giorni dopo, ad una domanda postagli da un corrispondente del «New York Times», il quale chiedeva se l’accordo potesse essere definito una sorta di appeasement, Eisenhower rispose:

«This agreement […] was not what we would have liked to have had. But I don’t know, if I were put up against it at this moment [whether I would be able] to find an alternative, to say what I would or could do.[Since I] […] had no better plan, I am not going to criticize what they [at Geneva] had done».52

Una conferenza stampa, tenuta due giorni dopo da Dulles, precisò ulteriormente le posizioni espresse dal presidente; dopo aver ribadito ancora una volta che gli Stati Uniti non avevano avuto parte nella stipula degli accordi, Dulles affermò:

«The Geneva negotiations reflected the military developments in Indochina. After nearly 8 years of war the forces of the French Union had lost control of nearly one-half of Vietnam, their hold on the balance was precarious, and the

51

News Conference by President Eisenhower, July 21, 1954, in «The Department of State Bulletin», XXXI, 788, August 2, 1954, p. 163.

52

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228

French people did not desire prolong the war. These basic facts inevitably dominated the Indochina phase of the Geneva Conference and led to a settlement which, as President Eisenhower said, contain many features which we do not like. Since this was so, and since the United States itself was neither a belligerent in Indochina nor subject to compulsion which applied to others, we did not become a party to the Conference results. We merely noted them and said that, in accordance with the United Nations Charter, we would not seek by force to overthrow the settlement»

e, inoltre, sottolineò alcuni aspetti positivi degli accordi di Ginevra: «One of the good aspects of the Geneva Conference is that it advances the truly independent status of Cambodia, Laos and southern Vietnam. Prime Minister Mendès France said yesterday that instructions had been given to the French representatives in Vietnam to complete by July 30 precise projects for the transfers of authority which will give reality to the independence which France had promised. This independenceis already a fact in Laos and Cambodia. The evolution from colonialism to national independence is thus about to be completed in Indochina, and the free governments of this area should from now on be able to enlist the loyalty of their people to maintain their independence as against Communist colonialism».

Ancora, Dulles sostenne che l’Occidente avrebbe dovuto trarre degli insegnamenti da quanto avvenuto in Indocina:

«The important thing from now on is not to mourn the past but to seize the future opportunity to prevent the loss in northern Vietnam from leading to the extension of communism throughout Southeast Asia and the Southwest Pacific. In this effort all of the free nations concerned should profit by the lessons of the past. One lesson is that resistance to communism needs popular support, and this in turn means that the people should fell that they are defending their own national institutions. A second lesson which should be learned is that arrangements for collective defense need to be made in advance of aggression, not after it is under way. The United States for over a year advocated united action in area, but this proved not to be practical under the conditions which existed»,

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229 «We believe, however, that now it will be practical to bring about collective arrangements to promote the security of the free people of the Southeast Asia. Prompt steps will be taken in this direction. In this connection we should bear in mind that the problem is not merely one of deterring open armed aggression, but of preventing Communist subversion which, taking advantage of economic dislocations and social injustice, might weaken and finally overthrow the non-Communist governments. If the free nations which have a stake in this area will now work together to avail of present opportunities in the light of past experience, then the loss of the present may lead to a gain for the future».53

Una volta rientrato a Washington, incalzato dai giornalisti, Bedell Smith, a sua volta, pronunciò la stessa frase formulata da Eden dopo la conferenza:

«[The cease-fire agreement was] the best which we could have possibly obtained under the circumstances. It is well to remember that diplomacy has rarely been able to gain at the conference table what cannot be gained or held on the battlefield».54

Un aspetto che merita di essere sottolineato è la discrepanza tra le dichiarazioni pubbliche e quelle private dell’establishment statunitense, poiché, malgrado la soddisfazione ostentata in pubblico, i commenti all’interno dell’amministrazione non erano altrettanto ottimistici. Tale difformità è imputabile al fatto che, mentre i principi formulati dagli alleati nei Seven Points erano stati pressoché integralmente rispettati, gli obiettivi statunitensi di più ampio respiro in Indocina (eliminazione della minaccia Vietminh, mantenimento del delta del Tonchino, arresto della minaccia politica e militare nella regione) erano invece falliti.55

53

News Conference by Secretary of State Dulles, July 23, 1954, in «The Department of State Bulletin», XXXI, 788, August 2, 1954, pp. 163-164.

Vari esponenti di punta dello staff presidenziale – tra i quali Robertson, Collins e Alexis Johnson – nutrivano scarsa fiducia nelle possibilità di successo dell’SVN

54

Under Secretary Bedell Smith Statement to the Press, July 23, 1954, in «New York Times», July 24, 1954, cit. in RANDLE, Geneva 1954, cit., p. 352.

55

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230

[State of South-Vietnam] e credevano che Diem non avrebbe avuto speranze di fronteggiare la pressione politica e militare del Nord senza un forte sostegno americano. Lo stesso Dulles, in un colloquio avuto con Collins poco dopo la conclusione della conferenza, avrebbe confidato che le chances di salvare la situazione fossero «not more than one in ten» e le sensazioni negative del segretario di Stato avrebbero trovato ulteriore conferma dopo un viaggio effettuato in Vietnam e Laos nel 1955.56

Il 1° agosto, lo stesso Smith prese parte alla trasmissione televisiva “Crossroads Asia” sulla CBS, in occasione della quale rispose alle domande avanzategli dai giornalisti John Hightower e Bill Coltello; dopo aver respinto le accuse rivolte all’amministrazione americana di essersi resa responsabile di un nuovo Patto di Monaco,

«I said when I left Geneva, when I was asked whether the Geneva agreement represented a Far Eastern Munich for the Allies, I think that those agreement were a reflection of the military situation in Indochina. They represented the best possible settlement which could be obtained in the light of that situation. I said that it’s rarely possible to gain, at the conference table, what could not be gained or held on the battlefield. Now, that was our position»,

chiarendo, ancora una volta, la posizione statunitense in rapporto alla partizione di Corea e Vietnam, e specificando che Washington non considerava tali divisioni come permanenti:

«Division of this sort are always thoroughly bad. They are very unsatisfactory, since they represent no common solution. They create points of local and of East-West friction which will presumably remain unless there is a satisfactory permanent solution. But I must say that the resultant frictions are somewhat less severe probably than those which result from inconclusive and prolonged bloody wars, and they do, for the moment at least, bring to a halt the bloodshed and disruption of actual warfare. […]. We don’t accept these divisions as permanent political solutions. We accept them as truce lines brought about as a harsh military necessity resulting from Communist aggression, and we will continue to work toward unification under conditions of freedom and independence. In Vietnam both sides have promised free elections for the purpose of establishing a unified country. So, there’s some small hope for a real solution in the present unsatisfactory partition there. It remains to be seen, however whether the Communists are acting in good faith»;

56

(25)

231 poi, spiegò che, per il futuro, gli Stati Uniti, oltre a bloccare l’aggressione militare comunista in Asia, avrebbero dovuto agire per eliminare la sovversione interna:

«That’s the most difficult of our problems, and of course you saw a perfect example of it in Vietnam. Communist subversion takes advantage of, let us say ignorance, gullibility, or – more important – economic dislocations, or social or political injustices, or corruption, or other weakness, in order to attempt to weaken and ultimately overthrow non-Communist governments. Now, by eliminating such conditions, and by determined effort to improve internal security, I believe that it is possible to block Communist subversion. […] We think that improvement in education, a greater exchange of information, intelligence, and experience among the free world allies, economic assistance, mutual assistance possibly in many forms including help for police and for local security forces, would be among the measures that might be used effectively A good many of these activities can be carried out under a proposed Southeast Asian arrangement, and such an arrangement would not necessarily, I think not even essentially be a military pact»,

ed espresse l’apertura americana ad accogliere nella SEATO tutti i paesi asiatici interessati a collaborare con gli Stati Uniti per garantire la sicurezza nell’area:

«Well, personally, I feel that every free country of the area which is interested in its own self-preservation should at least be willing to explore the advantages inherent in the concept of collective security. Now, we recognize there are certain limiting factors relative to the actual participation in such an arrangement by some of the countries in Southeast Asia There is the matter of geography, a willingness to participate, the acceptability to other participants. You know that a number of countries have already indicated willingness to meet together to discuss how best to protect their individual and common liberties through a regional arrangement».57

Il segretario alla Difesa, Wilson, un oppositore della politica statunitense in Indocina, affermò che gli accordi di Ginevra erano stati quanto di meglio si potesse ottenere in quel momento; sottolineò, però, che l’Occidente aveva sbagliato a leggere la situazione, sostenendo che lì fosse in atto qualcosa di

57

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232

più complesso di una semplice guerra tra nazionalisti e comunisti, e raccomandando, quindi, di evitare un intervento militare americano nell’area.58

Malgrado i vertici politici di Washington volessero cercare di ostentare un certo distacco e una certa tranquillità, la situazione, in realtà, era molto diversa. Un discorso pronunciato da Walter Robertson dinanzi alla Legione Americana di Richmond, il 30 luglio, sembrò tradire un certo nervosismo, svelando che l’amministrazione americana era ben più preoccupata di quanto desse a vedere:

«For its part, the United States was determined to do all it could to strengthen the French and Vietnamese position. We made clear our readiness to continue our massive support of the military effort of the French and their Vietnamese allies. We attempted to bring about united action in defense of Indochina. We indicated that we ourselves would be prepared to intervene with our own military forces on certain conditions. It might appear that these actions on our part were ineffectual. For the purposes intendedthey were, but it is probable that their effect was important and that without them an agreement even more unfavorable to the French, the Anti-Communist Vietnamese, and the free world would have resulted. It would be an understatement to say that we do not like the terms of a cease-fire agreement just concluded. However, not being a belligerent possessed of a primary responsibility, we were obviously in no position to dictate the terms under which others would or would not continue fighting. What is of first importance now is to prevent further Communist expansion – first by arousing Asia’s unwitting masses to an awareness of the ruthless enslavement which threatens them, and second by the rapid organization of a collective defense pact in Southeast Asia».59

Nelle sue memorie, Eisenhower tornò sull’esito di Ginevra, sostenendo che

«by and large, the settlement obtained by the French Union at Geneva in 1954 was the best it could get under the circumstances, It ended a bloody war and a serious drain on France’s resources. More important, it saw the beginning of development of better understanding between the Western powers and the nations of Southeast Asia. It paved the way for a system of

58

Cfr. RANDLE, Geneva 1954, cit., p. 353.

59

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233 true cooperation between both in the never-ending struggle to stem the tide of Communist expansionism»,

non tacendo, tuttavia, che l’accordo

«[led] to Communist enslavement of millions [of people] in the northern partitioned area».60

Nel mese di agosto, quando l’NSC analizzò i documenti finali, concluse che Ginevra era stata una grave sconfitta diplomatica per l’Occidente e un disastro potenziale per gli interessi americani nell’area:

«[The agreements and the Final Declaration] completed a major forward stride of communism which may lead to the loss of Southeast Asia. It therefore recorded a drastic defeat of key policies in NSC-5405 and a serious loss for the free world, thepsychological and political effects of which will be felt throughout the Far East and around the globe».61

A quel punto, agli Stati Uniti non rimase altro da fare che lavorare con ciò che era stato preservato nell’area e assistere Diem, nella speranza che egli potesse creare una valida alternativa ai comunisti.

Il governo di Washington, pur essendo probabilmente il più insoddisfatto per l’esito della conferenza, non pose in atto una strategia atta a sovvertire gli accordi, ma – facendo leva sulla propria libertà d’azione, scaturita dalla dissociazione nei confronti della Final Declaration – decise di intraprendere una politica conservatrice, finalizzata al mantenimento dello status quo, da conseguire tramite il rafforzamento e la stabilizzazione del Vietnam del Sud e la creazione di un’organizzazione di difesa collettiva per prevenire ulteriori avanzamenti del comunismo.62

60

EISENHOWER, Mandate for Change, cit., pp. 432 e 452.

Tuttavia, pur non volendo Washington agire in direzione contraria agli accordi, e, pur non comportando un coinvolgimento a tempo indeterminato nel futuro del Vietnam, l’allineamento senza riserve alle posizioni di Saigon e la volontà di prevenire nuovi successi comunisti produssero un progressivo coinvolgimento degli Stati Uniti nel cerchio di intrighi che caratterizzarono

61

Progress Report on Nsc-5405: United States Objectives and Courses of Action with Respect to the Southeast Asia, August 6, 1954, in http://www.foia.cia.gov/best-of-crest/CIA-RDP80R01731R003000040001-8.pdf.

62

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la storia del Vietnam negli anni a venire.63 Certamente, non fu l’amministrazione Eisenhower ad aprire la “crociata” americana in Vietnam, ma gli indirizzi politici assunti verso il Sud-Est asiatico in quegli anni condizionarono sicuramente l’opinione pubblica statunitense, sensibilizzandola in merito al destino dell’Indocina e orientandola verso una sostanziale accettazione dell’intervento militare diretto, che si sarebbe concretizzato a distanza di qualche anno.64 In questo senso, la doppia dissociazione statunitense a Ginevra (la prima, nei confronti degli accordi di armistizio e della Final Declaration, al fine di prendere le distanze da un accordo sfavorevole all’Occidente; e, la seconda, nei confronti del paragrafo 13, allo scopo di negare il riconoscimento di una compartecipazione cinese nella gestione degli affari dell’Asia) fu un passaggio fondamentale, al quale è necessario riproporre la dovuta attenzione storiografica.

63

Cfr. ibid.

64

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