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Verso la Neoestetica

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Academic year: 2021

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Aesthetica Preprint

Supplementa

Verso la Neoestetica

Un pellegrinaggio disciplinare

di Luigi Russo

Sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Palermo

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Il Centro Internazionale Studi di Estetica

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il perio- dico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint©

Supplementa

è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti- ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint©. Viene inviata agli stu- diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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Dicembre 2013

Centro Internazionale Studi di Estetica

Aesthetica Preprint

Supplementa

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del Miur (prin 2009, coordinatore scientifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Paler mo, Dipartimento di Scienze umanistiche.

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Luigi Russo

Verso la Neoestetica

Un pellegrinaggio disciplinare

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A Lucia senza parole

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Indice

Premessa 7

L’orbita spezzata 9

La fine dell’eternità 15

Il miraggio del bello 25

Benedetto Croce e la storia dell’estetica 35

Una vecchia questione 37

Una storia suis generis 49

Un’aberrazione prospettica 79

Una nascita travagliata 105

Postilla a mo’ di conclusione 149

Bibliografia 153

Per eccesso e per difetto: Croce e la storia dell’estetica 173

Cesare Brandi esthéticien 187

La storia dell’estetica in Italia nel secondo dopoguerra 221

Guido Morpurgo-Tagliabue: un marziano in estetica 231

Rosario Assunto e il paesaggio dell’estetica 241

Władysław Tatarkiewicz e la storia dell’estetica 249

Ermanno Migliorini e il cielo vuoto dell’estetica 263

Notte di luce. Il Settecento e la nascita dell’estetica 269

Neoestetica: un archetipo disciplinare 289

Indice dei nomi 303

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Questo libro aspira a essere testimonianza. Una testimonianza dell’essere dell’Estetica attraverso il cammino di un suo appassionato cultore.

Varcata la soglia impegnativa dei settant’anni ho provato a vedere le ragioni che hanno alimentato la mia vita scientifica in un arco più che trentennale e il filo rosso che la regge. Arco apertosi nella stagione della “crisi dell’estetica”, la quale ha imperversato per un ventennio negli anni Sessanta-Ottanta del Novecento, e che si è chiusa ai nostri giorni, col nuovo assetto polimorfico e inquietante assunto dalla disci- plina che ho chiamato Neoestetica.

Mettendo insieme questi testi sparsi, composti nelle occasioni più varie, vi ritrovo infatti una linea di forza, che ha agito come chiave di volta della progressiva conversione epistemica compiuta. Si tratta della consapevolezza che per comprendere l’estetica nel suo senso più intimo, la logica disciplinare cioè che ha fatto sorgere questa forma di sapere nella cultura occidentale e svilupparsi in tutte le sue numerose stagioni attraverso tanti scarti cognitivi, bisogna attingere al suo doppio, ossia a quel sapere parallelo e speculare offerto dalla storia dell’estetica, essenziale ed euristico per la configurazione dell’universo estetologico.

Rivolgersi alla storia dell’estetica, indagare spassionatamente le tradi- zioni storiche della disciplina e riconoscerle nella loro specificità, non significa quindi adorarne le ceneri ma rianimarne il fuoco per accendere la possibilità di nuove imprese conoscitive.

Da questa intuizione, del resto, è lievitato gran parte dell’impegno da me profuso nel Centro Internazionale Studi di Estetica, diventato per decenni luogo ideale di sperimentazione estetologica a tutto campo, culminata nei tanti volumi (finora 206) pubblicati nelle collane editoriali

“Aesthetica” e le correlate “Aesthetica Preprint” e “Aesthetica Preprint Supplementa”.

Tengo a ricordare che il travagliato percorso che qui ho cercato di documentare, compiuto con la dedizione del pellegrino, è stato sor- retto dall’esempio e il conforto di tanti maestri e amici, che sono stati mercuriali compagni di strada e di cui venero la memoria, primi fra tutti: Cesare Brandi, Rosario Assunto, Ermanno Migliorini.

Premessa

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Ho lasciato immutati i testi, tranne per l’emendazione di qualche, per altro raro, refuso; mentre non ho mancato di omogeneizzare le re- ferenze bibliografiche e di farne un discreto aggiornamento.

Naturalmente nel volume sono presenti ripetizioni e riprese, ma confido che valgano come spia di riformulazione problematica e affi- namento progressivo della ricerca.

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L’orbita spezzata

*

All’inizio di quell’aureo saggio intitolato Breviario di Estetica Bene- detto Croce scrive: «Alla domanda: – Che cosa è l’arte? – si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia» 1.

Alla data in cui Croce scrisse questa boutade – correva l’anno 1912 – tutto sommato le cose stavano, sia pure con qualche non piccola né trascurabile approssimazione, davvero così. L’arte poteva ancora sembrare, perché di fatto era ancora in larga misura, cosa identificabile un po’ da tutti; un oggetto di cui si poteva parlare con sufficiente at- tendibilità. L’arte costituiva una pratica culturale specializzata, istituita – sembrava – saldamente e completamente riconoscibile, sia a livello epistemico che socioculturale.

Dell’arte infatti esistevano gli oggetti specifici: le opere d’arte ap- punto; c’era sufficiente chiarezza oramai sugli individui designati alla sua produzione: gli artisti; non mancavano i suoi divulgatori e com- mentatori ufficiali: i critici; esistevano infine i luoghi deputati nei quali l’arte – le opere d’arte, quelle e non altre – venivano gelosamente con- servate e, a tempo e modo opportuno, fruite: cioè i musei e le gallerie.

L’arte dunque era iscritta, e nello stesso tempo regolava, una com- patta circolazione di ruoli, funzioni e istituti intimamente integrati nell’ordine societario. Tracciava un’orbita perfetta. Ecco allora come e perché nell’arte, con l’arte, attraverso l’arte la civiltà – diciamo meglio:

l’Occidente o le culture prenovecentesche, che potremmo anche chia- mare “culture storiche” – s’identificava senza residui. Grazie all’arte conosceva e riconosceva se stessa. Siccome, per altro, aveva ben capito e teorizzato già Hegel: l’arte come manifestazione sensibile dell’Idea.

In quelle che abbiamo chiamato “culture storiche”, a evidenza, la cultura esisteva come privilegio di pochi e contrassegno di classe;

otium, cioè pratica elitaria disgiunta dalla quotidianità ed esercitata, come ritualità mitica o cultuale, esclusivamente da parte di pochi ini- ziati. In questo universo socioculturale l’arte costituiva il fiore all’oc- chiello, ma anche il gradiente più perspicuo. Elemento essenziale pro- prio in ragione della sua apparente suntuarietà. L’arte era sì – come è stato giustamente criticato – appena “domenica della vita”; ma at-

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tenzione: quel modello di vita acquistava senso e spessore grazie alla domenica, all’arte come domenica.

Per questo – e tante altre ragioni, naturalmente, sulle quali non ci si può soffermare – l’arte è stata concettualizzata, in varia guisa e misura, in positivo o in negativo, come separatezza pur emblematica, specificità per eccellenza, Bene o Valore Supremo e Assoluto. Ancora per Hei- degger, un filosofo contemporaneo curiosamente in bilico fra passato e futuro, l’arte è la condizione e il fondamento (nel senso pregnan- te di «originarietà», «messa in opera della Verità», «apertura epocale dell’Essere») del Mondo. In questo giro di pensiero mi piace ricordare quello che Cesare Brandi ha fascinosamente scritto, per esempio, di un Masaccio: «Masaccio è il cielo che si apre: una nuova civiltà nasce» 2.

Ecco allora che in fondo, da un certo punto di vista, Croce non stravedeva nel considerare solo una parziale boutade il topos che l’arte tutti sanno cosa sia. Malgrado prima, durante e dopo quella disinvolta dichiarazione fossero già comparsi o stessero per comparire nel mondo artistico eventi, a dir poco, scomodi e ingombranti; malgrado fossero già pervenute a maturazione situazioni eversive irreversibili; malgrado cominciassero già a fare e parlare, sonoramente, personalità maiuscole, che possiamo senz’altro chiamare i Lenin dell’artisticità – può non stu- pire, o non stupire molto, che agli occhi compassati del filosofo, aduso a fissare i ritmi dell’eternità e non dare troppo peso alle cronache mu- tevoli della cultura militante, come anche all’occhio dell’uomo medio mitteleuropeo, diciamo: della coscienza corrente, all’occhio quasi di tutti, l’arte era stata, e poteva sembrare che fosse rimasta, cosa chiara, trasparente, appunto: «ciò che tutti sanno cosa sia».

Ma oggi, settant’anni dopo, le cose stanno ancora cosi? Sappiamo davvero cos’è l’arte? Cos’è divenuta per noi l’arte? Ci sentiamo di rispondere con tranquillità a questa, solo apparentemente ingenua, do- manda? Eppure è questa – mi pare – una domanda assolutamente pre- giudiziale anche per potere solo indagare, come suggerisce il titolo del nostro seminario, se oggi l’arte è un carcere, in che senso lo è o non lo è, e via dicendo. È, comunque, domanda pregiudiziale a ogni discorso

“filosofico” – e pronuncio la parola sommessamente, incatenandola con apice doppio e dubitativo – sull’arte. Non, per carità, alla ricerca di una ennesima, più o meno nuova e originale, plastica, aderente, più flessibile e comprensiva “definizione dell’arte”. Questione, questa della definizione dell’arte, di cui credo siamo un po’ tutti consapevoli quanto abbia poco senso, o senz’altro nessun senso, riproporre, almeno nei termini consegnatici dalla tradizione. Semmai, invece, mette conto chie- dersi cos’è l’arte per vedere se è ancora possibile, come fu in passato, dare un senso all’arte; indagare cioè se l’arte è ancora oggi, in qualche modo, una pratica sociale che continua a toccare i nostri sensi, che ci stimola e ci impegna, ci fa capire noi stessi e la realtà che ci circonda.

Oggi non è più epoca di certezze. Forse per questo ci si chiama

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tanto per nome e corre facile il “tu”; chissà: per essere sicuri di essere sicuri quando ci incontriamo. Anche sull’arte non c’è più certezza.

Adorno osservava addirittura: «È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rap- porto coll’intero, nemmeno il suo diritto a esistere» 3.

Presi da siffatte perplessità, può esserci però d’aiuto un’indicazione di Dino Formaggio, che inizia il suo noto volume intitolato Arte con l’affermazione: «L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» 4. Può sembrare designazione tautologica e prossima a quella crociana ricor- data prima; e non lo è, per ragioni che non possiamo approfondire.

Ci contenteremo del fatto che può esserci d’aiuto per tanti motivi; e anzitutto perché non si tratta di una definizione metafisica che preten- da di rivelare l’essenza dell’arte, ma propone di guardare l’arte come fatto storico mobile e scorrevole, «legato alle condizioni di sviluppo di una società e di una cultura» 5.

Dobbiamo allora domandarci quali sono, se ci sono, le condizioni di possibilità necessarie e sufficienti a praticare ancora la nozione di arte nella nostra epoca. E giacché un punto fermo e indubitabile è costituito dal fatto che l’arte è stata, almeno, il nostro passato, per ca- pire se e come essa graviti ancora nel presente, bisogna chiedersi cosa rappresenti per noi il passato.

Viviamo in un’epoca di trasformazioni profonde, radicali e univer- sali quali mai sono state nella storia. Noi stessi siamo talmente trasmu- tati che il passato ci appare remoto, come un’era geologica. Possiamo abbracciarlo con l’immaginazione e l’intelletto e farne scienza; ma non possiamo più abitarvici. Abbiamo coscienza della nostra alterità. Ab- biamo coscienza, cioè, che i nessi di continuità con ciò che cronologi- camente sta prima di noi si sono enormemente diluiti, allentati fino al punto da costituire un solco, una frattura netta e irreversibile.

Il senso complessivo di questa cesura epocale è stato recentemente ben espresso da Lyotard come «condizione postmoderna» 6. L’utilità di questa designazione, certo discutibile come un po’ ogni designazione, sta nel fatto di focalizzare una peculiarità unica della nostra congerie di cultura, che la eccettua totalmente da quelle che l’hanno preceduta.

Il postmoderno, infatti, consegue e non continua ciò che l’ha preceduto.

Fermiamoci un momento qua.

In passato, ogni cultura storica si è istituita a condizione di prose- guire e sviluppare, affermando o negando, più sovente selezionando e riplasmando, quelle che l’avevano preceduta. La cultura storica è stata sempre un accumulo lento, stratigrafico e sedimentario. Un continuum che, in qualche modo, includeva e incorporava sempre il passato: in esso si radicava e da esso veniva fondato. Proprio per questo è stato plausibile teorizzare l’evoluzione storica come dilatazione progressiva, più o meno armonica o contrastiva, di un progetto unitario. Un arco aperto all’infinito, che inanellava passato, presente e futuro.

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Oggi l’orbita si è spezzata. Il ritmo evolutivo si è iperaccelerato, la continuità si è bruscamente interrotta e siamo usciti fuori dalla sto- ria. Nel senso che il passato non è più fondativo del presente: non lo in-forma; e, per converso, il futuro è entrato in crisi contraendosi nell’oggi. Il passato dunque non ci appartiene più, mentre il futuro ci è interdetto. Possediamo solo il presente. Viviamo, cioè, entro un’orbita spezzata.

Quando l’orbita si spezza, i corpi si scontrano ed esplodono in una miriade di frammenti infuocati: trema la terra e si oscura il cielo. Scende il Caos. Ma non è il caso di preoccuparsi; almeno non di preoccuparsi troppo. Perché non esiste il Caos. Il Caos, in definitiva, è la trasforma- zione basica e continua della materia, la sua più naturale metamorfosi.

Scandisce semplicemente il passaggio da un antico assestamento a una più fresca articolazione dei fenomeni. Ed è chiaro che la nuova orbita che si determina statuisce sue nuove legalità. Ridisegna un universo non più retto, ad esempio, dalla legge della circolarità ciclica ma della ellissi vagabonda; non dal continuum ma dalle crepe del discreto; un sistema la cui programmabilità non può contare sul prevedibile ma affidarsi all’eruzione stocastica e alla deriva interna.

In altre parole, ci siamo inoltrati in un territorio vergine, che non nasce ex nihilo ma tuttavia sorge ex novo. E di cui quindi è necessario fissare una nuova mappa mundi che ne sveli le possibili, pur se insta- bili, coordinate. Occorre cioè elaborare categorie teoriche e operative capaci di decifrare la nuova conformazione assunta dalla Terra, per cercare di renderla ancora una volta vivibile.

Ora è un fatto attestato che un tempo l’arte fu tormento creativo, estasi, colloquio col dio. Ma questo canale privilegiato si è dapprima inaridito e infine dissolto. Negli ultimi decenni ciò che impropriamente si continua a chiamare arte, a fruire come arte è diventato evento dub- bioso, oggetto ansioso, silenzio. Anche questo è un fatto che ognuno può attestare. Che vuole dire ciò? Che tipo di spiegazione suggerisco- no le cose?

Sommariamente e con larga approssimazione, direi che non tanto e non solo le funzioni dell’arte sono cambiate con l’avvento della società di massa e dell’era tecnotronica, ma che questa trasformazione che ha investito intimamente il nostro modo di essere, di vivere, di pensare, trasformazione profonda e radicale come una mutazione genetica, ha de- terminato un decentramento polifunzionale dell’antica esperienza unita- ria dell’arte. Accogliamo dunque serenamente il fatto che l’arte è morta davvero, come aveva preconizzato Hegel, anche perché dalle sue ceneri sono rinate le arti. Cioè una nuova costellazione, a dominante estetica, di pratiche culturali multiple e differenziali, pur se depotenziate.

E d’altra parte perché scandalizzarsi, dov’è la ragione di stupore?

Non dimentichiamo che l’arte non è antica quanto l’uomo, ma un prodotto storico abbastanza recente. L’arte, cioè il moderno sistema

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dell’artisticità, la figura dell’artista come creatore di professione, quella del critico in quanto intellettuale specializzato, e infine le gallerie e i musei quali chiesa della teologia estetica sono infatti, tutte, istituzioni culturali costituite appena negli ultimi duecento anni. Sono l’intenso brillare e il repentino oscurarsi di una meteora.

L’arte storica, l’arte del passato, inanellava nella sua orbita omni- comprensiva ricerca e catarsi, piacere sensuale e conoscenza, testimo- nianza storica e propaganda ideologica. Tutto insomma era racchiuso, fuso e decantato in quella sfera purissima di cristallo. Sfera magica che costituiva, misteriosamente ma indubitabilmente, un equilibrio stabile e perfetto: l’ombelico del mondo. È umano, di tanta purezza perdu- ta, avere nostalgia. Ma troppo umano rimpiangere i mitici sentieri freschi, intrecciati di luce e di aria nei quali ci conduceva per mano l’ispirato sacerdote delle Muse. Al limite chi ci garantisce che la stessa proposta di Zabala, Oggi, l’arte è un carcere non possa, e forse non debba, leggersi anche in chiave ottativa? Che, in qualche modo, non sia anch’essa una manifestazione inconsapevole, anelito a uno spazio chiuso come l’universo carcerario, ma sentiero sicuro entro un recinto sacro? E però – lo stesso Heidegger lo riconosceva – ci aggiriamo in

«sentieri interrotti».

Allora quello che mi ha spiccatamente colpito in questa esperien- za di Zabala, come del resto mi pare rivelativo in tante altre ricerche estetiche contemporanee, è il tipo di spiazzamento che esse procurano.

Ossia il loro modo altamente significativo di proporsi come pratiche de-significanti, ma l’essere tuttavia “pratiche artistiche”. Se preferite, di realizzare il grado zero (valutazione questa, se mi è concesso il bisticcio, che non è “di valore”) dell’artisticità.

Che voglio dire con pratica artistica a grado zero di artisticità? Che l’operazione di Zabala, tecnicamente parlando «operazione a domi- nante metaoperativa» nell’accezione introdotta da Garroni 7, stabilisce una precisa ritualità concettiva, stimolativa, fruitiva che però cade fuori dall’ambito tradizionale del rituale realizzato dall’arte storica.

Possiamo facilmente verificare ciò visitando questa sorta di mostra, parallela al seminario, delle risposte raccolte da Zabala al suo questio- nario Oggi, l’arte è un carcere. Che non è una mostra, nel significato consegnatoci dalla tradizione, in quanto non implica il tipo di esercizio dell’arte e sull’arte richiesto da, e imposto a, l’arte storica. Si tratta, al contrario, di una operazione sostanzialmente diversa e rivelativa della ostensività integrale procurata dalle pratiche artistiche contemporanee.

Proprio in quanto “pratiche artistiche” e non più “arte”. Qui abbiamo davvero, letteralmente e soprattutto unicamente, una mostra. Nel senso di luogo fisico e percettibile, in cui si mostra il mostrabile e si vede il visibile; e però si liquida completamente l’invisibile. Si denega cioè e si vanifica la possibilità di ogni incrostazione metafisica, di quel fonda- mento magmatico e illusorio che sta alla base del rituale mitico e stava

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anche alla base dell’arte storica. O, altrimenti detto, l’aura di benjami- niana memoria. Questa è divenuta un «valore d’uso senza valore» 8.

Insomma visitando la mostra della collezione di Zabala non par- tecipiamo a nessuna funzione cultuale, non celebriamo nessun mito.

Si è invece eseguita una ritualità umana e culturale, che è simulacro, effettualità totale, rito senza mito 9.

Mi pare allora si possa concludere – naturalmente con tutta la prov- visorietà che l’argomento e l’occasione impone – che mai forse l’arte è stata così libera e liberatoria come oggi, che è diventata un carcere.

* Pubblicato nel volume Oggi l’arte è un carcere?, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 85-91.

Il volume raccoglieva gli interventi presentati nell’omonimo Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi Estetica (Palermo 15-16 marzo 1981), che aveva preso occasio- ne e mutuato titolo da una operazione di mail art realizzata nel 1976 da Horacio Zabala, dal titolo appunto Oggi l’arte è un carcere, e i cui esemplari furono presentati in mostra nell’ambito del Seminario.

L’orbita spezzata, o meglio The ]agged Orbit (trad. it., La Tribuna, Piacenza, 1976), è titolo di un importante romanzo di fantascienza scritto da John Brunner. Tale prestito non stupirà se si pone mente al fatto che sovente la science fiction degli ultimi anni ha condotto analisi estremamente illuminanti della contemporaneità.

1 B. Croce, Breviario di Estetica, in Nuovi saggi di Estetica, Bari, Laterza, 19584, p. 3.

2 C. Brandi, A passo d’uomo, Milano, Bompiani, 1970, p. 132.

3 Th. W. Adorno, Aesthetische Theorie (1970), trad. it. Teoria estetica, Torino, Einaudi, 2009, p. 3.

4 D. Formaggio, Arte, Milano, Isedi, 1973, p. 9.

5 Ibidem.

6 J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris, Minuit, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 200415.

7 Faccio un uso alquanto elastico di questa importante nozione elaborata da Emilio Garroni in Ricognizione della semiotica, Roma, Officina, 1977.

8 F. Masini, Metacritica dell’«aura», in Aa. Vv., Orizzonte e progetti dell’estetica, Parma, Pratiche, 1980, p. 213.

9 Per la nozione di “simulacro” adoperata in questo contesto rinvio a Mario Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna, 1980; con Perniola sono in obbligo anche per la problematica del “rito senza mito”, qui appena adombrata, che mi ha però portato a esiti diversi da quelli da lui propugnati.

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La fine dell’eternità

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Arte e tecnocultura alla fine del postmoderno – invitato a regolare il mio intervento interpretando liberamente il tema, dico subito che è proprio questo titolo, i termini in esso in gioco, la loro significazione e le dinamiche cognitive che innescano il loro accostamento, i per- corsi insomma di una possibile loro relazione ottimale, quello che ha calamitato il mio interesse. E sono fiducioso che questo mio interesse possa senz’altro essere da voi condiviso. Non mi pare infatti in discus- sione la constatazione che “arte”, “tecnocultura”, “postmoderno” non sono termini innocenti e trasparenti, di cui servirsi senza il rischio di gravi scotti conoscitivi. Talché non è azzardato ritenere che una loro revisione strategica, che ne analizzi l’intersezione in uno stesso campo concettuale – come mi propongo di fare – possa portare qualche utile elemento di riflessione all’economia dei nostri lavori.

Non occorre dedicare molto spazio a ribadire la problematicità della nozione di “arte”. Che è parola certo fortemente radicata nella cultura occidentale; ma per così dire alimentata al plurale. Attraverso cioè spiccatissime varianti semantiche, anzi spesso prospettive teoriche pienamente difformi, che non ne hanno consentito una codificazione pienamente omogenea. Mai insomma è stato possibile fissare una no- zione di “arte” pacificata dal consensus omnium.

Del resto, se siamo lontani dai dispositivi di pensiero che in antico portarono alla celebre condanna decretata da Platone, non siamo però più usciti fuori dall’orizzonte aperto da Hegel con il riconoscimento della “morte dell’arte”. Non può infatti consolare che quella morte va- da – correttamente – interpretata in senso ontologico: ciò che muore, o meglio ciò che è pervenuto a dissoluzione, non è l’arte come pratica culturale bensì lo statuto ontologico che l’aveva precedentemente fon- data. Confermando l’analisi hegeliana che l’arte non è più la manifesta- zione sensibile dell’Idea, il bisogno supremo dello Spirito, il modo più alto in cui la Verità si dà esistenza, noi dobbiamo conseguentemente constatare che essa da uno stato di fondazione assoluta è precipitata in una condizione – come oggi usa dire – di “sfondamento”, cioè di mancanza di fondamento. È a partire da lì che si è aperto – e tuttora permane aperto – il gravoso problema di trovare legittimità a una pra-

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tica culturale destituita, cioè deprivata dell’antico statuto metafisico. E dunque la necessità di elaborare modelli di rifondazione ad hoc, sempre problematici perché contingenti, votati a rapida obsolescenza, logorati dall’orizzonte mondano in cui insistono, dal valore di scambio acquisito dall’arte, ossia un valore d’uso senza valore, continuamente corroso dall’onda delle progressive mode culturali.

Il fatto dunque che ancora dell’arte continuino a prodursi mani- festazioni indiscutibili non pone in discussione la profetica sentenza hegeliana, questa al contrario pone le condizioni di possibilità della stessa discussione dell’arte, ma a patto di renderla teoricamente incan- descente. A condizione cioè di costituirsi come riflessione limite, aperta e flessibilissima, sì da riuscire a decifrare la nuova natura nomade con- tratta dall’arte, quelle sue profonde e ricorrenti mutazioni genetiche che la spingono in un transito incessante, privo di meta, in uno stato di consunzione protratta sine die, al di là della storia, in un tapis rou- lant che gira su stesso come entro l’orbita di un buco nero. E però questa condizione dell’arte, come entità proteiforme sempre sul punto di scomparire, traumatizza la riflessione teorica, e l’estetica si trova impossibilitata ad assumere in presa diretta la smodata fenomenologia delle manifestazioni artistiche odierne, costituendo un campo unitario d’intelligibilità. L’arte spiazza la sua teoria dal proprio livello di perti- nenza, la mette fuori gioco costringendola a una impasse metodologica.

Così la teoria dell’arte è oggi costretta a un percorso obliquo, a un duplice approccio di tipo metaforico: o appiattirsi quasi senza residui sulla cornice d’intelligibilità procurata non dall’arte ma dalla critica, e dunque divenire una “meta-critica dell’arte”; oppure scavalcare il suo sito istituzionale volgendosi alla ricerca di più comprensive signi- ficazioni, transartistiche e antropologiche generali, e divenire dunque una “meta-teoria dell’arte”. L’arte, in conclusione, tende comunque a sfuggire dal vaglio di una puntuale riflessione teorica e s’impone come scandalo gnoseologico: una conturbante atopia noetica.

Chiediamoci ora: l’accostamento dell’arte, di questa nozione storica divenuta così problematica e disperante nella nostra epoca, al recentis- simo conio “tecnocultura” è un accostamento davvero euristico, capace cioè d’illuminare la sua fantomatica natura? L’arte, l’arte storica, cioè l’arte della storia dell’arte, non è sempre stata una peculiare forma di tecnocultura? Del resto, non è insito nel concetto di arte quello di tecnica, e viceversa?

In verità, i legami fra arte e tecnica sono stati storicamente per lungo tempo molto stretti. Addirittura arte, dal latino ars, e tecnica, dal greco téchne, sono due esiti linguistici che insistono nella stessa area semantica. Per dire sbrigativamente: sono la stessa cosa. E an- che quando, nel moderno, queste due pratiche culturali hanno preso vie divergenti ciò non ha rotto l’antica solidarietà concettuale. Arte e

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tecnica poi sono state, nel nostro secolo, un’insegna dinamica, rimar- cabile anche in senso ideologico, che sovente ha assunto il valore di un dittico compiutamente reversibile.

Tuttavia si sostiene che la nozione di tecnocultura, come dimensio- ne specifica della nostra epoca, indica qualcosa di più, e di sensibil- mente diverso dal ruolo tradizionale che in epoche passate ha svolto la tecnica, per il semplice fatto che mai nella storia dell’umanità l’intera cultura, come oggi avviene, tende a identificarsi, o senz’altro s’identi- fica, con la tecnica. Così l’intera nostra epoca dovrebbe integralmente leggersi sub specie technicæ. Un fenomeno siffatto, insomma, secondo questa prospettiva, non inciderebbe in misura meramente quantitativa nell’economia dei processi socioculturali, ma donerebbe alla tecnica contemporanea il potere di comporre una configurazione epocale as- solutamente originale.

Confesso di non essere insensibile a questa prospettiva teorica; e però non mi pare che questa posizione illumini in maniera apprezza- bile il nostro tema specifico. Anche riconoscendo che la tecnica dei nostri giorni ha innescato profondi meccanismi di trasformazione – talmente radicali che l’uomo contemporaneo non è semplicemente un individuo più abbiente ma, proprio grazie al salto di potenziale assicurato dalla tecnica, un nuovo esemplare antropologico, il frutto di una vera e propria mutazione genetica dell’antica specie dell’homo sapiens – anche in una prospettiva siffatta, il nesso arte-tecnocultura non appare soddisfare appieno la nostra interrogazione sull’arte. Certo, se la tecnica ha riplasmato il nostro mondo in modo senza eguali a nessuna epoca storica, modifiche così sostanziali non possono non in- teressare anche l’arte. Se insomma la tecnocultura costituisce il nostro sfondo epocale, nel quale insieme a tutte le manifestazioni culturali s’inscrive anche l’arte, lo stretto rapporto fra arte e tecnocultura è del tutto ovvio. Meno ovvio è invece articolare questo rapporto in modo pertinente. Se infatti manteniamo alla nozione di arte una qualche va- lenza concettuale, riconoscendola un modo peculiare e inconfondibile attraverso cui si articola e si esprime l’esperienza del mondo, è chiaro che essa rappresenterà e simbolizzerà volta a volta il proprio orizzonte mondano, ma dialettizzandolo e non sciogliendosi in esso passivamen- te e senza residui. Arte e tecnocultura hanno sì un punto materiale d’intersezione in una topica intitolabile “tecnocultura dell’arte”, ma questa è una topica eteronoma, preartistica o extrartistica, che pone l’arte sul piano indistinto di qualunque altra pratica culturale. Laddove l’arte esprime la propria funzione autonoma solo letta in una topica intitolabile, esattamente all’opposto, “arte della tecnocultura”, come quella nella quale essa realizza il suo precipuo modo di essere nella nostra congerie di cultura.

Non vorrei essere frainteso. Non sto affermando che la tecnocultura non sia la sfera entro cui debbano essere formulati i modelli esegetici

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dell’arte contemporanea. Al contrario, ritengo che il riconoscimento di questa relazione sia assolutamente pregiudiziale per ogni congrua lettu- ra dell’arte. Si pensi, per fare un solo esempio trasparente, a come sia metabolizzata l’immagine artistica, trasformatosi il suo saliente formale dall’asse della rappresentazione naturalistica a quello della simulazione cibernetica. Quindi il punto non è questo. Il punto è che l’analisi delle nuove strutturazioni dei codici artistici in chiave di tecnocultura può inscriversi solamente nel tipo di semantizzazione che chiamavo prima

“metacritica dell’arte”, cioè a ridosso della fenomenologia delle forme elaborata dai linguaggi critici. In tal modo continua però a sfuggirci il significato complessivo da attribuire all’arte nella nostra episteme, significato un tempo assicurato dalla “teoria generale dell’arte”, ma che oggi, secondo quanto abbiamo detto prima, postuliamo sia indagabile solo da una “metateoria dell’arte”.

Può allora riuscire perspicuo riconsiderare questi temi in più ampio quadro metateorico, quale appunto quello intitolato al “postmoderno”.

Ma quale scenario prospetta la “fine del postmoderno”? In che senso possiamo raffigurarci la fine del postmoderno? Non rischiamo d’in- ciampare in una sterile dissonanza cognitiva? Sarà opportuno, anche qui, operare qualche chiarimento.

Il postmoderno è stato una nozione che ha largamente tenuto cam- po nel dibattito umanistico degli ultimi anni. Una nozione quanto mai polivalente, che si è insediata in ogni dove: nella critica delle arti e in filosofia, in sociologia e nel costume, ma è dilagata finanche a livello delle mode culturali. Come sappiamo, a essa ha arriso una opposta fortuna: è stata nozione che ha assunto il rango di pilota in importanti contesti analitici, ma insieme è decaduta a etichetta superficiale, sulla quale non a torto si è appuntata sovente la spilla dei critici. Nessuno può negare che il postmoderno è stato sovente forzato a veri e propri abusi concettuali e linguistici, come ad esempio è avvenuto in strava- ganti proposte di certa critica architettonica o letteraria. Ma accanto a queste utilizzazioni, ripeto sicuramente gratuite e parassitarie, il post- moderno è stato anche qualcosa di profondamente diverso.

A partire dall’iniziale proposta di Lyotard, il postmoderno ha in- fatti rappresentato un modello concettuale di non trascurabile forza speculativa. È stato infatti il modello attraverso cui si è sviluppata ne- gli ultimi anni quell’istanza di riflessione filosofica, che ha attraversato continuamente il nostro secolo assumendo volta a volta nomi diversi, come quelli di “pensiero negativo” o di “teoria critica”. E, tutto som- mato, la denominazione di postmoderno, per quanto anch’essa discu- tibile, come è per qualsiasi definizione, mi pare che qualifichi il fronte, diciamo pure “di punta”, dell’odierna ricerca teorica meglio di altre designazioni concorrenti oggi in circolazione, come per esempio quella di “pensiero debole”.

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La mia preferenza per la designazione di postmoderno discende in particolare dal fatto che essa focalizza con la massima nettezza una condizione unica della nostra congerie di cultura, che la eccettua to- talmente da tutte quelle che l’hanno preceduta. Se ha senso parlare di postmoderno, se cioè affidiamo al postmoderno una valenza stret- tamente conoscitiva e non appena consolatoria, lo è a condizione di riconoscere che il postmoderno “consegue e non continua” ciò che l’ha preceduto. Chiarisco questa definizione, osservando che in passato ogni cultura storica si è istituita a condizione di proseguire e svilup- pare, affermando o negando, più sovente selezionando e riplasmando, quelle che l’avevano preceduta. La cultura storica è stata sempre un accumulo lento, stratigrafico e sedimentario. Un continuum che, in qualche modo, includeva e incorporava sempre il passato: in esso si radicava e da esso veniva fondato. Proprio per questo è stato plausi- bile teorizzare l’evoluzione storica come dilatazione progressiva, più o meno armonica e contrastiva, di un progetto unitario. Un’arco aperto all’infinito, che inanellava passato, presente e futuro. Il postmoderno constata che l’antico ritmo evolutivo si è iperaccelerato, la continuità si è bruscamente interrotta e siamo usciti fuori dalla storia. Nel sen- so che il passato non è più fondativo del presente: non lo informa;

e, per converso, il futuro è entrato in crisi contraendosi nell’oggi. Il passato dunque non ci appartiene più, mentre il futuro ci è interdetto:

possediamo solo il presente. In altra occasione, ho indicato questa condizione ricorrendo all’immagine di “orbita spezzata”: viviamo entro un’orbita spezzata. In questo scenario metateorico, di globale revisione antropologica, mi pare che acquistino una collocazione più acconcia anche le tematiche, sia della tecnocultura che dell’arte, sulle quali an- diamo riflettendo.

Proprio la tecnocultura ci fa toccare con mano che viviamo in un’epoca di trasformazioni profonde, radicali e universali quali mai sono state prima nella storia. Ciò importa la necessità d’istituire un nuovo rapporto col passato. Noi siamo talmente trasmutati che il pas- sato ci appare remoto, come appartenere a una lontana era geologica.

Possiamo abbracciarlo con l’immaginazione e l’intelletto, farne arte e farne scienza, ma non possiamo più abitarvici. Abbiamo coscienza della nostra alterità. Abbiamo cioè coscienza che i nessi di continuità con ciò che cronologicamente sta prima di noi si sono enormemente diluiti, allentati fino al punto di costituire un solco, una soglia netta e irreversibile. E abbiamo bisogno di scoprire le nuove legalità che reggono l’ordine del mondo. Un universo, per esempio, non più retto dalla legge della circolarità ciclica bensì della ellissi vagabonda; non dal continuum ma dalle crepe del discreto; un sistema la cui program- mabilità non può contare sul ragionamento ma affidarsi al computo statistico, all’eruzione stocastica e alla deriva interna. Ci siamo inoltrati in un territorio vergine, pieno di promesse ma ricco d’insidie, che non

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nasce ex nihilo ma tuttavia sorge continuamente ex novo. Un territorio di cui è indispensabile fissare, se non una impossibile mappa compiuta e definitiva, almeno pur precarie coordinate d’orientamento. In defi- nitiva, siamo intensamente impegnati a elaborare categorie teoriche ed operative capaci di decifrare le nuove conformazioni tecnematiche assunte dalla Terra, per renderla ancora una volta vivibile a misura umana.

Sub specie imaginis anche l’arte, ovviamente, partecipa di questa nuova gravitazione antropologica. Un tempo l’arte fu tormento crea- tivo, estasi, colloquio col dio. Ma per noi quel canale privilegiato fra umano e divino si è completamente inaridito, e ne sopravvivono solo vaghissime tracce. L’arte, totalmente desacralizzatasi, lungo i decenni che arrivano sino a noi è diventata evento dubbioso, oggetto ansioso, silenzio. Le sue funzioni si sono talmente metamorfosate da porre in questione lo stesso concetto unitario di arte. Probabilmente, non tanto e non solo le funzioni dell’arte sono cambiate con l’avvento della nuova specie umana forgiata dalla tecnocultura, ma le profonde trasformazioni che hanno investito intimamente il nostro modo di essere, di vivere, di pensare, hanno determinato un decentramento polifunzionale dell’anti- ca esperienza unitaria dell’arte. Accogliamo dunque serenamente il fatto che l’arte è morta davvero, come aveva preconizzato Hegel, anche per- ché dalle sue ceneri sono rinate le arti. Cioè una nuova costellazione, a dominante estetica, di pratiche culturali multiple e differenziali, pur se depotenziate e non più sorrette dall’antica trama metafisica.

Se lo scenario che, con larghissima approssimazione e in modo com- pendiario, ho appena abbozzato possiede qualche attendibilità, inevita- bilmente incalza la domanda di come possa interpretarsi l’indicazione

“fine del postmoderno”. Se infatti il postmoderno è la presa di coscien- za della nostra condizione epocale, indizia cioè la consapevolezza dei macroprocessi strutturali di trasformazione che in atto vanno forgiando l’era della tecnocultura, e insieme costituisce il tentativo più aperto di tematizzarli con rigore concettuale, a che titolo si può parlare della sua fine? Non è asserzione prematura, o addirittura priva di senso?

Qual è la genesi del postmoderno? La risposta è pacifica: il moder- no. Specifichiamo: quella plurisecolare vicenda di autoconsapevolezza intellettuale che attraversò largamente la cultura europea dalla fine del Seicento agli inizi dell’Ottocento, portando del resto a maturazione istanze già avvertibili nel Rinascimento. Per intenderci: dalla Querelle des Anciens et des Modernes alle polemiche fra classici e romantici.

Il dibattito si concluse di fatto col Romanticismo tedesco, che riuscì a guardare al passato liberandosi dalle catene frapposte dalla pietas classicistica. Venne allora posta l’antinomia fra classico e moderno, ma attraverso una continuità funzionale fra i due poli. Anche per il teorico più radicale del problema, Friedrich von Schlegel, infatti la classicità

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dell’antico s’invera nel moderno ed è parimenti classico il divenire del moderno attraverso l’antico. Così il moderno riconosce e legitti- ma se stesso, ma solo in quanto “post-antico”. E però – si badi – qui il “post” non indica solo consecuzione cronologica ma prosecuzione effettuale. In altre parole, il riconoscimento del moderno come postan- tico partecipa di una progettualità schiettamente utopistica impegnata a recuperare il passato per costruire il futuro. È proprio la possibilità di questo movimento progressivo, globalizzante passato-presente-futuro che, come illustravo prima, decade col riconoscimento della condizione postmoderna. Ma ciò rende problematico parlare di fine, nel senso di conclusione terminale, per ognuna di queste figure: antico, moderno, postmoderno.

La consapevolezza del salto epocale, che caratterizza noi postmo- derni, si costituisce difatti attraverso un processo non di frattura tissu- lare ma di mera presa di distanza. Abbiamo la percezione dell’antico come attraverso una distanza cosmica, come di una epoca aliena di cui stentiamo a decifrare i segni. I bronzi di Riace hanno impressio- nato tutto il mondo, ma forse anche perché sono emersi dall’acqua conturbanti come astronauti marziani! Eppure, a rigori, non possiamo parlare di “fine dell’antico”. In verità sappiamo che l’antico ha pro- creato il moderno, e non è peregrino immaginare che la catena delle metabolizzazioni sia discesa fino a noi. Ma non è, propriamente, nostro possesso: appartiene forse al nostro codice genetico ma non arriva a impegnare la nostra sensibilità.

Ma anche la presa di distanza dal moderno, il disagio di ricono- scerne l’incalzante opacità, i contrassegni dell’arcaico, non ci consente di celebrarne la fine. Certi critici hanno preferito al conio di postmo- derno quello di tardomoderno. Anche questa flessione offre qualche vantaggio, perché marca il carattere di consecuzione, anche se non di prosecuzione, che il postmoderno intrattiene col moderno. Il postmo- derno è una profonda mutazione del moderno, ma ancora classifica- bile all’interno della stessa tassonomia storica. Perciò siamo entro un segmento di consecuzione, di cui avvertiamo l’esaurimento, ma non abbiamo certezza che sia anche il segmento terminale che prelude a un nuovo mondo. Chi ci garantisce che la svolta entro la quale versiamo, la nostra scomoda posizione di stallo, si sia compiuta o addirittura sia in vista di un compimento? Chi insomma ci assicura che dietro l’ombra di questa torsione traumatica già si distenda il sentiero di una nuova epoca? La tecnocultura non è anche una sirena? Le profonde, anzi le sconvolgenti contraddizioni, che crocifiggono i nostri giorni possono ben farlo dubitare. Non c’è ancora un inizio, e dunque non c’è ancora una fine. Questo è il postmoderno!

Se non mi sento di accreditare la fine del postmoderno, esiste tut- tavia un’altra entità metateorica, largamente entrata nel giro del no-

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stro discorso, di cui è opportuno evidenziarne la dissoluzione. Di cosa avvertiamo la fine nella nostra congerie di cultura? Diciamolo senza pathos: finisce l’eternità. Mi rendo conto – e me ne scuso – che si tratta di una formula a effetto, un ossimoro di sapore barocco. Ma “la fine dell’eternità” può essere uno slogan utile a calamitare l’attenzione su di un tema che ho finora sfiorato, ma che giudico centrale anche al nostro dibattito.

Pensiamo a Orazio: exegi monumentum ære perennius: ho elevato con le mie Odi un monumento più duraturo del bronzo, cioè un’ope- ra eterna. Non è una testimonianza di arroganza individuale. Davvero l’arte è stata, storicamente, una delle tre modalità assolute attraverso cui l’eternità si è temporalizzata, e il transeunte ha conquistato la soglia dell’Essere. L’arte storica inanellava nella sua orbita onnicomprensiva ri- cerca e catarsi, piacere sensuale e conoscenza, testimonianza collettiva e propaganda ideologica. Tutta l’esperienza del mondo era racchiusa, fusa e decantata in quella sfera purissima di cristallo rappresentata dall’opera d’arte. Sfera magica che costituiva, misteriosamente, un equilibrio sta- bile e perfetto: l’ombelico del mondo, lo specchio dell’Assoluto. Quel prodigioso equilibrio ai nostri giorni è svanito come un miraggio, ma per secoli è stato conosciuto e teorizzato.

La chiave fondativa dell’eternità antropologica è stata articolata in una metafisica a tre funzioni interdipendenti, quegli attributi dell’Esse- re che nel Medioevo furono chiamati trascendentalia: Verum, Pulchrum, Bonum. È proprio la nozione di Bello, il sostrato metafisico che la alimentava, ciò che ha assicurato la dimensione extratemporale, eter- nizzante dell’arte storica. È di grande interesse, a questo riguardo, stu- diare la storia dell’estetica moderna, che costituisce uno straordinario test di controllo. Mi limito a ricordare che alla bellezza è intitolata l’In- quiry di Hutcheson, che nel 1725 getta le basi del primo traliccio teo- rico di stretta pertinenza estetica; dieci anni dopo, nelle Meditationes Baumgarten conia la parola “æsthetica”, eponima di una scienza della sensibilità che trova la sua perfezione nella pulchritudo; e, per non fare un’inondazione di citazioni, mi fermerò osservando che un’altra die- cina d’anni dopo Charles Batteux può impiantare il moderno sistema delle arti, ma qualificandole “belle arti”. E così continuarono tutti i grandi filosofi tedeschi: Kant, Schelling..., fino a Hegel, che scardina l’antica comunione fra arte e bellezza. Abbiamo già visto che morte dell’arte significa per Hegel la sua deontologizzazione. Vale precisare che questo processo travolge non l’arte in generale in quanto pratica culturale, ma specificatamente “l’arte bella”, l’arte cioè come enclave terrestre dell’Eterno, il luogo in cui l’Assoluto si dà esistenza sensibile.

Proprio la fine dell’eternità, dunque; o meglio l’inizio della fine.

Già nel primo Ottocento si posero le condizioni, percorse per tappe sempre più incalzanti verso i nostri decenni, giù giù fino alle avanguar- die storiche e l’odierna dissipazione ecumenica, perché l’arte, gli artisti,

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non più officianti dei misteri del Bello, ispirati interpreti del di-vino, musageti, ma proclamatisi produttori liberi, operatori autonomi, disini- biti artefici dell’artificiale, indagatori inquieti e sovrani dei mondi delle apparenze, si emancipassero completamente dall’antica tutela metafisica.

Non ha scoraggiato che senza quell’ancestrale garanzia divenisse proble- matica la stessa possibilità di esistenza dell’arte, che venisse vaporizzata, unitamente al sostrato ontologico, anche la sua qualifica trascendentale.

La nuova arte che si è protesa fino al postmoderno, arte tout court e non più arte bella, dunque la condizione dell’arte dopo la morte dell’ar- te, è stata quella di essere mondana e secolare, fisiologica e corruttibile, nomade, scientifica e sperimentale, iscritta nei circuiti del consumo e della produzione di massa, lucidamente cosciente della sua obsolescen- za, della sua durata effimera: di appartenere alla fine dell’eternità.

Concludiamo allora da dove abbiamo iniziato, evocando la senten- za hegeliana della morte dell’arte. Riconosciamo che è stato un grave passaggio, questo, aperto dal moderno, e le cui catene di effetti si sono allargate, moltiplicandosi, fino a noi. Un grave passaggio, e forse anche gravoso: abbiamo perduto l’Infinito e rinunciato all’Assoluto. La fine dell’eternità è l’insegna del nostro orizzonte, completamente immerso nella temporalità come limite della nostra finitudine. E naufraghi, ten- tiamo la sopravvivenza elaborando strategie del naufragio, noi postmo- derni, che dall’eternità ci allontaniamo senza voltarci indietro.

* Relazione presentata al Congresso internazionale Arte y tecnocultura en el final del postmoderno promosso dall’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte e dal Centro de Arte y Comunicación (Buenos Aires, 2-8 ottobre 1988).

La fine dell’eternità (The End of Eternity, trad. it. Mondadori, 1987) è titolo di un romanzo di fantascienza di Isaac Asimov.

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Il miraggio del bello

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1. Per la nostra coscienza refrattaria, decadente, postmoderna, il Bello – l’esperienza percettiva, concettuale del Bello, il riconoscimen- to della sua valenza fondativa, predicativa, veritativa, quell’esperienza antica che sta alla base della nostra tradizione culturale e ha fonda- to l’Occidente nella sua globalità, quel sostrato talmente radicato da fungere da ombelico del mondo – il Bello per noi ha perso completa- mente significato: è svaporato come un profumo prezioso al contatto dell’aria, è precipitato al di fuori del nostro orizzonte.

Poche divinità possono vantare una teologia tanto numerosa e do- cumentata come il Bello. Del Bello possiamo agevolmente perseguire per intero la traiettoria luminosa, dalle sovrane ipostasi primitive alle sinuose epifanie esibite nel mondo moderno. Qui però, quasi all’im- provviso, questa storia gloriosa, incredibile dictu, si arrestò come ful- minata, misteriosamente intaccata da un cancro che la consunse senza scampo dall’interno. L’apparizione, l’immagine del Bello si dissolse nel regno dell’antimateria, svanì come al risveglio un’immagine onirica.

Il luogo in cui – disseccandosi repentinamente per aree progressi- ve, come il bagnato che asciuga – si era ristretta in ultimo l’onnivora planimetria del Bello, il luogo dell’estetico, dove il Bello, pur a prez- zo di drastiche limitazioni dell’antica esaustività, si era acconciato alla rappresentanza di una sola dimensione specifica, quella dell’artisticità, anche lì, da questo ambito riduttivo e residuale, il Bello è stato insi- diato, posto in causa, rovesciato, scacciato.

Così il Bello ha abbandonato la terra. Come un dio sdegnato si è precluso ai nostri occhi. E noi, non più irradiati dalla sua luce, divenuti ciechi al Bello, possiamo solo configurarcelo con un mero atto dell’im- maginazione, nella sua privatività; siamo costretti a pensarlo come un non-luogo di cui s’è persa la traccia, un sentiero il cui accesso non è più conosciuto da nessuna mappa: davvero sentiero irrimediabilmente interrotto. Alieno come una parola arcaica, flatus vocis, il Bello si pone come lontananza remota, che insiste solo nella nostra memoria preisto- rica: un rimosso che non ci appartiene più.

2. Eppure, quando si presentò alla ribalta, in quella che sareb- be stata la sua ultima magistrale performance, all’esordio del mondo

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moderno, nel Settecento, il Bello si pose con l’immutata perentorietà con cui aveva sempre governato l’esistente. È infatti il Bello, la sua privilegiata comunione con l’artistico, che presiede alla nascita dell’e- stetico. In verità il Bello informa entrambi i due versanti primari della complessa gestazione dell’estetica moderna: quello critico-militante, degli esthéticiens, suggellato da Batteux nel sistema delle arti, in quanto appunto «belle arti»; e quello concorrente, di ascendenza più stretta- mente filosofica, impersonato da Baumgarten che epistemizza l’estetica come «perfectio cognitionis sensitivæ», in quanto «pulchritudo» 1.

Può destare stupore (ma solo per chi non sia stato provato dalle prodigiose capacità metamorfiche del Bello) come da questa soglia specifica, muovendo da un sapere particolare, quindi da una situazione che umiliava le sue ubiquitarie polivalenze originarie, dribblando rigidi steccati, attraverso uno spettacolare gioco a rialzo, il Bello sia riuscito nuovamente a conseguire le sue trame di dominio, a soggiogare l’unità del mondo.

Il caso più smagliante di tale inaudito recupero fu quello di Kant.

Si sa come con giovanile insofferenza egli avesse rifiutato la malia del Bello: lo aveva relegato in un recesso soggettivo e marginale, prati- camente dichiarato fuori gioco. Ma in età matura anche Kant crollò, sedotto dalle sue avances. Surdeterminò il Bello fino al punto da assi- curargli una costituzione trascendentale: «È bello ciò che piace univer- salmente senza concetto […] La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo [...] Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario» 2.

Contemplazione pura, disinteresse e libertà, finalità senza scopo, tesaurizzando questo capitale fortunosamente ricomposto il Bello ri- guadagnò, implacabilmente, posizioni su posizioni, toccando il culmine di una rifondazione assoluta. Ricordate Schelling? «L’infinito espresso in modo finito è la bellezza. Il carattere fondamentale di ogni opera d’arte, che in sé comprende i due precedenti, è dunque la bellezza, e senza la bellezza non vi è opera d’arte» 3. Matrimonio perfetto, arte e bellezza fusi come fratelli siamesi. Ancora una volta, come in prin- cipio, il Bello ombelico del mondo. Così fino a Hegel, che riconosce

«la realtà dell’idea del bello come ideale dell’arte», che nomina il bello

«parvenza sensibile dell’Idea» 4. Apparizione dell’Assoluto, apparizione assoluta: l’estrema apparizione, l’ultima teofania del Bello.

Perché è da qui, da queste vette nuovamente conquistate e nuova- mente incommensurabili, saldamente insediata in un panopticon me- tafisico, che l’apparizione del Bello comincia a divenire lattiginosa, si opacizza e scompare in un abisso senza fondo. Ironia vuole che è proprio il nesso vitale, e rivitalizzante, del Bello con l’arte a rivelarsi mortifero. Se l’arte «è e rimane per noi un passato» 5, come proclama Hegel, quale sarà il futuro del Bello; anzi: potrà esserci futuro per il

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Bello? Il tentativo messo in atto dal Bello per assicurare la sua soprav- vivenza nel mondo moderno, quello d’incorporarsi nell’arte, dimostrò di essere un errore fatale. Travolto dalla deontologizzazione dell’arte il Bello perse quota epistemica, rimase senza copertura teorica, venne de-stituito; talché, privo di un proprio statuto, fu respinto ai margini del sapere, degradato a livello psicologico e fisiologico.

Il colpo letale fu dunque quello inferto dalla dissociazione dall’ar- te. Frattura irreversibile, che cadde nel mondo della cultura con la ultimatività di una pietra tombale. Konrad Fiedler, per esempio, con aforistica freddezza ma tempestivo realismo, ne stilò il certificato di divorzio osservando:

Il prôton pseûdos nel campo dell’estetica e della teoria dell’arte consiste nell’iden- tificazione dell’arte con la bellezza [...]; è da questo primo errore che derivano tuttigli altri equivoci. [...] Servire la bellezza, cercare la bellezza, tendere alla bellezza, pare effettivamente qualche cosa di molto elevato, mentre di fatto non si eleva di molto sopra tutte le banali consuetudini dell’uomo che si originano semplicemente dall’intento di rendere la vita piacevole. In fondo il bello e il buono si lasciano ridurre al gradevole e all’utile. Di fronte a tutto ciò, solo la verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna dell’uomo, e se si vuol assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze dello spirito, occorre indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la spinta al conoscere 6.

Non era un semplice programma, progetto teorico tutto da verifi- care, bensì una profetica presa d’atto, sanzione di tipo notarile. Che non la cogenza dei concetti ma la forza delle cose, l’inesorabile proces- sualità del reale avrebbe pienamente autenticato. L’arte stessa, infatti, gli artisti, non più officianti dei misteri del Bello, ispirati interpreti del divino, musageti, ma proclamatisi produttori in proprio, operatori autonomi, disinibiti artefici dell’artificiale, indagatori inquieti e sovrani di ogni flessione dei fenomeni, avrebbero violentemente, senza appello, respinto l’annoso zeugma di arte e bellezza. A cominciare dalla con- trapposizione di antico e moderno, ingenuo e sentimentale, classico e romantico, giù giù fino alle avanguardie storiche e l’odierna dissipazio- ne ecumenica, nessun prezzo è sembrato troppo elevato per squarciare la funesta camicia di Nesso con la quale l’apparizione del Bello aveva surrogato la vita dell’arte.

Né scoraggia che la scissione dell’arte dal Bello depotenziasse e facesse problematica la stessa possibilità di esistenza dell’arte, che ve- nisse vaporizzata, unitamente al sostrato metafisico, la sua condizione trascendentale, e non potesse che porsi all’insegna risicata della “mor- te dell’arte”. Era lo scotto lancinante ma necessario affinché l’arte si emancipasse dal plagio perpetrato su di essa dal Bello, da quella co- stante ipoteca che l’arte storica (l’arte nel suo sviluppo storico, l’arte della storia dell’arte) aveva subìto a garanzia metafisica della sua esi- stenza. La nuova arte, arte tout court e non più arte bella, liberata dai

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gravosi condizionamenti ontologici del Bello, dunque la condizione dell’arte dopo la “morte dell’arte”, sarà di essere mondana e secolare, fisiologica e corruttibile, nomade, scientifica e sperimentale, iscritta nei circuiti del consumo e della produzione di massa, consapevole, luci- damente cosciente della sua obsolescenza, della sua durata effimera.

Per contro il Bello, spiazzato da questo improvviso abbandono, sra- dicato dal fertile terreno dell’arte, minato all’interno del recinto sacro in cui si era trincerato, dopo una plurimillenaria vicenda d’ininterrotto splendore si è progressivamente contratto in se stesso, si è rarefatto sparendo dal nostro campo visivo. Come un buco nero. Così noi, oggi, nominiamo il Bello senza poterlo più esperire. Privi della sua luce, vi- viamo della sua ombra.

3. Cosa vogliono dire queste metafore: il Bello ha abbandonato la terra, viviamo all’ombra della sua luce? Quale vantaggio può procurare analizzare la condizione di tramonto del Bello, il suo collasso epocale?

Chiediamoci allora se la storia del Bello, già anche solo colta – come si è fatto qui per brevità – nel suo segmento terminale, e segnatamente l’identificazione di sparizione del Bello e scissione di arte e bellezza, non offra ulteriori elementi euristici di riflessione. E addirittura se, piut- tosto che di divorzio fra arte e bellezza, non convenga pensare a un più complesso processo di solidarietà sincronica per il quale la moder- na secolarizzazione dell’arte si sia realizzata insieme, e attraverso, una qualche laicizzazione disseminativa del Bello stesso. A questo proposito, osservava opportunamente Adorno:

L’identificazione dell’arte con il bello è insufficiente, e non solo perché troppo formale. In quel che l’arte è diventata, la categoria del bello rappresenta solo un momento, e per di più un momento che è cambiato profondamente: con l’assor- bimento del brutto, il concetto di bellezza si è in sé trasformato, benché l’esteti- ca non possa comunque farne a meno. Nell’assorbimento del brutto, la bellezza è sufficientemente forte per ampliarsi grazie alla propria contraddizione 7.

Per verificare ciò, tuffiamoci un momento all’indietro, nell’era del- l’impero del Bello. Tematizzando l’apparizione del Bello in quanto even- to fondante dell’Occidente, constatiamo che la sua olisticità agglutinante (Pulchrum-Verum-Bonum) non è ostensiva della struttura del reale, ma che invece postula una riduzione, identitaria esclusivamente a livello del sostrato metafisico, della pluralità multiforme e chiaroscurata del mondo. Se il Bello tutto illumina (e dove non penetra la sua luce è il non-essere) è solo perché tutta la realtà, negata nella sua eterogeneità costitutiva, è stata forzosamente ricondotta allo specifico potenziale radiante del Bello. Il Bello ha cioè funzionato come catalizzatore di ogni sintesi del reale, come luogo di tutti i punti, ma in quanto tutti i punti sono stati preventivamente forzati e orientati a ricevere la sua in- corruttibile luce. Laddove, se penetriamo nel nucleo della gravitazione

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concettuale del Bello e ritagliamo all’interno della sua ipostatica polise- micità identitaria un profilo formale omogeneo, cioè il Bello in quanto sorgente storica dell’estetico, ci accorgiamo che la storia del Bello, già nell’antichità, accusa il disagio di interni scompensi, di segmentazioni non pienamente suturate. Visto in caleidoscopio, il Bello appare lambito da sigle categoriali sì sinonimiche e/o vicarianti, dal Bello disciplinate e subordinate, e però mai del tutto stabilizzate, che sembrano ambire a un possesso in proprio, autonomo e concorrenziale.

Esemplare, a questo riguardo, è la vicenda del Sublime. Esempla- re, perché già in antico, nella teorizzazione dello Pseudo Longino, il Sublime, seppure si presenti alla ribalta come un potenziamento reto- rico, ossia il grado più alto del Bello, assume però la fisionomia di un limite che tende ad abolire la forza centripeta. Rimaniamo alla famosa definizione del ix capitolo: «il sublime è l’eco di una grande anima» 8. Questa definizione non ha più misura metafisica, dimostra invece che il vecchio equilibrio di rapporti micro e macro strutturali che fondava il Bello si è esaurito, e che si vada costituendo una nuova regolarità, una ulteriorità eslege, totalmente aperta all’umano. Sta proprio tutta in questo rovesciamento, in questo trapasso da ontologico ad antropologi- co, da onnivoro a polivalente, da descrittivo a funzionale, la perspicua valenza teorica – la carica di trasgressione, l’eversività – del Sublime.

Un saliente che nasce sì come flessione interna, ma al primo vagito si rivela un cuneo, un corpo estraneo che intacca la compatta struttura del Bello. Se volete: il Sublime come Differenza.

Questa Differenza – o comunque il Sublime come antagonista del Bello – si dipana come un filo rosso che attraversa tutto l’Occidente tallonando il Bello senza tregua, impegnandolo in una millenaria conte- sa. Certo, il Sublime come virus del Bello ebbe incubazione lentissima;

per lunghe epoche si eclissò tanto da far pensare alla sua completa esorcizzazione. Ma era astuta tattica di guerriglia. L’archeologia del sapere (e penso soprattutto ai recenti studi di Costa, di Mattioli 9) ce ne ha rivelato la presenza in tempi e luoghi insospettati, e molto prima di Boileau e dello stesso Robortello. Già nel primo Cinquecento, per esempio, il Sublime esce dalla fase di latenza e squinterna le simmetrie tracciate dal Bello. Oggi sappiamo che attraverso il Sublime dobbiamo rileggere il Rinascimento e il Barocco. Risultato clamoroso: ripensare Michelangelo, rivedere Caravaggio, rileggere Tasso...

Ma non è questo – che pure è tantissimo – che qui interessa. Poco importa infatti (beninteso da un punto di vista squisitamente filosofico) in nome di che o in quale terreno o sotto quale insegna o attraverso quali traccianti questa diuturna battaglia venga combattuta, ovvero quali istanze diverse, via via nel corso della storia, l’emergenza del Sublime impersoni. Poco importa a livello teorico, perché dovunque si affermi il Sublime andiamo sempre constatando l’emergenza di un Novum, la messa in crisi della sordina metafisica e compare una lace-

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razione, vorrei dire tissulare, dell’ideale umanistico del Bello. Talché, incursione dopo incursione, arrivati al Settecento la stagione era di- ventata matura per l’attacco diretto o frontale. Il Sublime esce allo scoperto e si oppone al Bello direttamente nella rivendicazione di una completa autonomia pienamente distintiva e contrastiva. Edmund Bur- ke tematizzerà con assoluta lucidità l’ormai irreversibile opposizione di Bello e Sublime. Anzi (e l’inversione è densa di significato) di Sublime and Beautiful. «Il bello e il sublime sono davvero idee di diversa natu- ra, essendo l’uno fondato sul dolore e l’altro sul piacere, e per quanto possano scostarsi in seguito dalla diretta natura delle loro cause, pure queste cause sono sempre distinte tra loro» 10.

È questo un momento (1757, il passo che ho letto compare già nella prima edizione della Philosophical Enquiry) di fondamentale importan- za nella storia del Bello. Qui per la prima volta l’estetico non è più giudicato un luogo unitario, racchiuso dal Bello in una falda liscia e continua, bensì territorio intrinsecamente discontinuo, alla cui determi- nazione concorrono categorie plurime, disgiuntive, alternative e infine annichilative del Bello. Con l’affermazione del Sublime, attraverso una radicale revisione dei fondamenti dell’estetico, viene esorcizzata la pre- tesa del Bello di una primazia assoluta sull’artistico. Il Sublime, sorto come antica gemmazione interna, si staglia ormai totalmente emancipa- to, tiene in iscacco il Bello e lo emargina fino a farlo svaporare.

Subito dopo Burke, infatti, Kant riconoscerà pienamente nel Su- blime la positività del negativo. E se per Kant il Brutto (diversamente dallo stesso Burke, che gli riconosceva «un certo rapporto con l’idea di sublime» 11) è ancora l’opposto contraddittorio sia del Bello che del Sublime, via via, da Friedrich Schlegel a Solger, a Hegel e i suoi epigo- ni, questo processo di scaglionamento progressivo procederà a ritmo accelerato 12. Se per Weisse sono le condizioni oggettive del materiale sensibile che costringono il Bello a una deformazione reale e positiva, rovesciandosi nel suo contrario, il Brutto; per Vischer, più radicalmente, non è in questione solo l’esteriorizzazione del Bello, ma il Brutto diven- ta un momento interno dello stesso Bello. È utile ribadire la funzione costante svolta dal Sublime in questa corrosione interna dell’ideale del Bello. Kuno Fischer, per esempio, intenderà il Brutto appunto come rovescio del Sublime, e ne affermerà la «verità estetica»; talché il brutto diventa il destino del sublime entro il concetto del bello e nella storia dell’umanità.

Il punto saliente è proprio la finitizzazione, la secolarizzazione, nel- la sequenza Bello-Sublime-Brutto, assunta dal principio del Bello. Il limite di guardia posto da Rosenkranz – «il Bello, come il bene, è un assoluto, e il brutto, come il male, è solo un relativo» 13 – è proprio il limite che viene colmato nella trasmigrazione dal Bello al Brutto, trasmigrazione oramai indispensabile per rendere intelligibile l’arte mo- derna. Relativismo, che altro non è se non la mutazione genetica finale,

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per la quale il Bello, da principio di radiazione unica e uniforme, è tra- passato alla funzione di campo radiante, e in quanto Sublime diventa sintonizzabile con tutte le frequenze d’onda emesse dall’arte moderna.

Al Sublime si appellerà Victor Hugo nella Préface de Cromwell per evidenziare il nuovo sfondo definitorio dell’arte moderna, rappresenta- to per lui dal Grottesco come Sublime del Sublime. Questo Sublime del moderno è ormai radicalmente diverso dal Bello dell’antichità.

Il bello, umanamente parlando, non è altro che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con il nostro organismo. Quindi ci offre sempre un insieme completo, ma limitato come noi. Ciò che invece chiamiamo il brutto è un particolare di un grande insieme che ci sfugge e che si armonizza non con l’uomo ma con l’intera creazione 14.

Non mi soffermerò, dinanzi a questo capitale manifesto dell’arte moderna, sull’estetica del Sublime come Brutto. Vorrei invece chiudere questi rilievi sulla solidarietà che intercorre fra il processo di sparizione del Bello, che si dissolve alimentando i modelli operativi delle estetiche moderne e postmoderne in nome del Sublime, con una puntualissima osservazione di Adorno:

Dopo il crollo della bellezza formale, nel corso di tutta la modernità tra le idee estetiche tradizionali è rimasta solo quella del sublime [...] L’ascendenza del sublime coincide con il costringere l’arte a non ignorare le contraddizioni principali, ma a combatterle in sé fino in fondo; la conciliazione per loro non è il risultato del conflitto; è ancora unicamente il fatto che essa trova un lin- guaggio 15.

4. Vorrei fermarmi qui. Mi pare infatti di avere adempiuto all’im- pegno di tracciare, pur a volo d’uccello, la trama metateorica che ha portato la cultura dell’Occidente dal Bello al Sublime, da un principio metafisico onnivoro e fondante a... A cosa? Voglio dire: cosa è per noi, oggi, il Sublime? Esiste ancora il Sublime? Non è domanda capziosa.

Tranne pochissime, per quanto autorevoli eccezioni – per tutte An- tonio Banfi 16 – nella cultura italiana degli ultimi decenni al Sublime non è stato più riconosciuto diritto di cittadinanza filosofica. La liqui- dazione celebratane da Benedetto Croce è suonata definitiva 17. Uno, per altro insigne, studioso, Nicola Abbagnano, ha potuto intitolare un suo articolo proprio L’eclisse del “sublime” 18.

In verità la communis opinio ritiene – ha ritenuto fino a ieri – che il Sublime sia faccenda di stampo ottocentesco, che s’impone con Kant e va declinando lungo l’arco del secolo. Giusto fino a Schopenhauer; ma già in Nietzsche il Sublime si acquatta. In realtà questo giudizio sfiora solo la superficie delle cose. Bloom, per esempio, ha riconosciuto nel saggio sul Perturbante (e soprattutto in Al di là del principio del piace- re) la teoria freudiana del Sublime 19, e non manca chi ha riportato al

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