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un ristretto in tazza grande

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Academic year: 2022

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Federico Maria Rivalta

un ristretto in tazza grande

Un ristretto in tazza grande (opera inedita)

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Copyright © 2013 Federico Maria Rivalta

Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza autorizzazione scritta da parte dell’autore.

E-mail: frivalta@libero.it

PROLOGO

Sono addressato, posizionato, per iniziare il movimento di back swing. Il bacino ruota sul suo asse verso destra, il braccio sinistro è teso e il destro asseconda il movimento, il peso del corpo è tutto sulla gamba destra. Quando arrivo all’apice del movimento come una fionda tesa al massimo c’è una frazione di secondo, un istante in cui tutto è immobile: in quell’attimo, la mente deve creare il vuoto e la percezione dei sensi deve essere annullata. È un incantesimo: nessun suono, nessun colore, nessun pensiero, tutto il corpo esiste solo come fosse lo strumento al servizio di quel movimento. Sento il bacino iniziare la rotazione verso sinistra: quel movimento costringe le braccia a scendere dirigendo la testa del ferro cinque verso la pallina. La discesa è potente e, nel momento dell’impatto, tutto il mio peso amplificato dalla velocità si scarica su una sfera di materiale plastico del diametro di circa quattro centimetri e mezzo. La potenza è tale che non sento l’impatto con la pallina: le passo attraverso. Le braccia proseguono il loro movimento come le lancette di un orologio che, passate le sei, risalgono verso le nove e, infine, verso le dodici. La mia testa ruota a sinistra rimettendosi in asse con le spalle. In quel momento, il mio sguardo è libero di inseguire il volo della pallina: la vedo in fase di salita e per effetto della luce sullo sfondo la perdo di vista mentre in aria rallenta e inizia la caduta. Non vedo dove si è fermata, ma dentro di me lo so: è vicino alla bandiera.

Sentii i miei compagni di gioco farmi i complimenti per il tiro. Con falsa modestia, cercai di dissimulare la soddisfazione per il colpo assumendo l’atteggiamento di chi a certi tiri è assuefatto da anni di pratica e da un talento innato. Eravamo in quattro: io giocavo in coppia con Massimo Salvioni contro Arcadio Casati Vitali e Alessandro

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Ranni i quali, rispettando i pronostici, ci fecero a pezzi. La gara era già stata vinta da loro alla buca tredici. Massimo e io terminammo lo stesso il giro un po’ perché avevamo ancora voglia di giocare, un po’ per darci il tempo di digerire la legnata prima del rientro nei locali del golf club Frassanelle. Era sabato pomeriggio e contro ogni logica nutrivo la segreta speranza che il circolo fosse deserto: non è mai

divertente spiegare a chi lo chiede, e lo chiedono tutti, i motivi di una disfatta.

Arrivammo al green e, proprio come avevo previsto, la mia palla era a un metro dalla buca.

Nel golf i turni di gioco sono stabiliti in base alla lontananza della pallina dalla buca: la mia era quella più vicina, quindi sarei stato l’ultimo a giocare. Avevo in mano il putter che mi serviva anche da sostegno mentre attendevo il mio turno. Quando alla fine giunse, ero stanco, demotivato e sbagliai anche l’ultimo colpo: la pallina danzò sul bordo della buca e, vincendo la forza di gravità, non vi entrò. Arcadio non mi risparmiò una delle sue solite battute prive di gusto quanto fuori luogo. Guardai Massimo che fece spallucce. Finalmente era finita ed eravamo liberi di cercare conforto in una birra.

Essendo il golf un gioco animato da una forte componente competitiva, il corretto comportamento dei giocatori in campo è una condizione importante per evitare che una serena passeggiata tra amici si trasformi in qualcosa di più simile a un incontro di boxe.

Nel corso della nostra sfida, Arcadio fu capace di violare, senza distinzione di sorta, tutte le regole dell’etichetta. Addirittura, il ragazzo arrivò a colpire Massimo con un rametto alla fine di un animato alterco causato dal suo costante chiacchiericcio durante la preparazione dei colpi tirati da Massimo e me. Non bastasse, ciò che più indisponeva, era il religioso silenzio che esigeva quando il turno di tirare era loro.

Mentre stavamo rientrando nel club, avevo la sensazione che tutti i soci ci stessero aspettando per chiederci il risultato di quella gara.

Arcadio, con il consueto stile, bruciò la domanda sulle labbra di tutti esclamando:

«E ora, sotto a chi tocca!».

Se non altro quella sua ennesima sbruffonata ci risparmiò ulteriori domande su chi avesse vinto e chi perso. Arcadio tirò dritto verso gli spogliatoi mentre Massimo, Alessandro e io ci fermammo al bar: se solo avessimo immaginato il delirio che sarebbe stato innescato da quella nostra breve sosta, di sicuro saremmo filati sotto la doccia senza nemmeno toglierci i vestiti.

Massimo era di pessimo umore e stanco, quindi non fece nulla per trattenere la rabbia che anzi manifestò commentando: « Arcadio sarà anche un bravo giocatore, però è sicuramente una gran testa di cazzo. Mi ha proprio rovinato la giornata e non è la prima volta che succede».

Anche a me diede fastidio perdere quella gara, che in gergo golfistico si

chiama “match play”. Si può giocare singolo contro singolo, oppure coppia contro coppia. Giocare in coppia con Massimo è un piacere: non ti rinfaccia mai gli errori e

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con quattro battute è in grado di rendere divertente anche la gara in cui va tutto storto.

All’opposto giocare con Arcadio è talmente irritante, che in cinque ore di gioco non eravamo riusciti a sorridere nemmeno una volta. Per fortuna Alessandro è un bravo ragazzo, molto educato oltre che riservato, tanto che mi stavo domandando come potesse far coppia con Arcadio. Non esitai a chiederglielo direttamente.

«Vuoi sapere la verità? Me lo ha chiesto suo padre di farlo, ma è veramente dura.

Alla fine, passo per uno stronzo anch’io…» fu la sua risposta.

Come la maggior parte degli esseri umani, anche a me non manca mai il coraggio di dire quello che penso senza peli sulla lingua, a condizione ovviamente che il diretto interessato non sia presente. Siccome non c’erano altri soci a portata d’orecchio, ne approfittai per sfogare il mio disappunto dicendo: «Se penso allo stile del conte Alvise, Arcadio proprio non può essere suo figlio».

Massimo è tra i miei compagni di gioco favoriti, non solo per i meriti già

menzionati, ma anche perché ama questo sport per quello che è e non per quello che appare. È un uomo sui cinquantacinque anni, grande e grosso, ed è anche una persona semplice e simpatica che ama stare in compagnia. Ginecologo presso l’ospedale di Padova, parla del suo lavoro di rado: il più delle volte, per rispondere a battutine di cattivo gusto che, soprattutto all’interno dello spogliatoio maschile, si sprecano ogni giorno. Con un carattere piuttosto spigoloso, Massimo non è il tipo da lasciarsi scivolare di dosso delle angherie: se sente di aver subito un torto, va subito alla resa dei conti e, a differenza del sottoscritto, lo fa anche in presenza del diretto interessato.

Complice anche il malumore dovuto alla sconfitta appena subita, Massimo diede libero sfogo ai suoi pensieri dicendomi in tono misto di ironia e rabbia:

«Il figlio del conte? Lo so io di chi è figlio quello. In ogni caso voglio parlarne col padre quando lo vedrò, perché mi sono proprio rotto le palle di tutta ’sta cosa».

Finì tutto lì.

Francesca, una giovane donna sui trentotto anni che lavora al bar del golf club e che quel pomeriggio era di turno, segnò le nostre consumazioni. Poi, con l’aria stanca di chi ha avuto una dura giornata, abbozzò un sorriso tirato a mo’ di saluto.

CAPITOLO UNO

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In occasione di una gara di golf, arrivo sempre al campo un’ora prima del suo inizio.

Chissà perché, sono convinto che attuare ogni volta lo stesso rituale favorisca buoni risultati: una teoria spesso smentita dalla pratica. Non sono un grande giocatore: nel golf ho un handicap di tredici colpi che mi colloca a ridosso della migliore tra le tre categorie amatoriali. Tuttavia, a differenza di alcuni fanatici che praticano anche quotidianamente, io posso dedicare al golf solo due giorni alla settimana. Compenso il mio limite con una buona dose di coordinazione che in questo sport, come in tutti gli altri sport tecnici, è un fattore determinante.

Come sono solito fare ogni domenica, anche quella volta superai le postazioni del campo pratica ed entrai nel bar del circolo come prima tappa del mio rituale. Il bar resta l’unico locale del club in cui non c’è distinzione tra giocatore e non giocatore, mentre c’è tra consumatore e buon consumatore e lì me la gioco alla pari con tutti. Il luminoso sorriso di Luisa, l’altra barista del circolo, mi accolse da dietro il bancone.

Un po’ perché malgrado abbia già superato i quaranta sono considerato ancora un bell’uomo, molto perché lascio la mancia a fine anno, ogni volta mi illudo ancora che i suoi sorrisi siano riservati, se non a me in esclusiva, almeno a una selezionata

cerchia di soci.

Non ho mai bisogno di ordinarle il caffè: Luisa conosce da sempre il mio rituale e così fu anche quella volta.

«Riccardo, hai saputo di Massimo?».

Dentro di me, mi chiesi come mai a volte Luisa mi dia del tu e a volte mi dia del lei.

«Massimo chi? Salvioni?».

«Sì, lui».

«Non so nulla. Che cosa gli è successo?».

«Pare che è scomparso».

La stecca sul congiuntivo fu come una crepa nel mio orecchio, ma non mi lasciai distrarre.

«In che senso, scomparso? Ma se ieri ha giocato con me!» esclamai perplesso.

«Eh… Ma dopo la partita non si è più visto. Infatti, ieri la Patty è rimasta qui ad aspettarlo fin quasi a mezzanotte».

Patty, la moglie di Massimo, all’anagrafe Roberta, si presenta a tutti come Patrizia e non nasconde il fastidio che prova se qualcuno la chiama col suo nome di battesimo.

A differenza di Massimo, Patty non è alta e nemmeno robusta; il naso un pochino sproporzionato e gli occhi un po’ troppo piccoli la escludono dalle gare di bellezza.

Tuttavia allo stesso modo di suo marito, Patty possiede una grande carica di simpatia e una buona dose di dolcezza. Quando al club ci sono loro due, la giornata acquista sempre più sapore e anche il golf appare più bello.

«Non si saranno capiti e Massimo sarà andato direttamente a casa. O, magari, lo avranno chiamato dall’ospedale per un’urgenza».

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«Ma se la Patty era in macchina con lui?».

Sorrisi all’idea che Massimo fosse andato a casa a Padova, che dista più di venti chilometri da Frassanelle, dimenticandosi la moglie al club.

Mentre ci pensavo, presi una bustina di zucchero di canna dal vassoio posto sul banco del bar. Per effetto di qualche retaggio culturale, considero l’abitudine di usare lo zucchero di canna nel caffè una concessione ad antiche tradizioni di cucina. A onor del vero, giusto o sbagliato che sia, questa è l’unica concessione che faccio. Per il resto mi considero il principe del precotto, ancor meglio se surgelato.

«Ma adesso dov’è la Patty?» le chiesi.

«Non so. Credo che è andata alla polizia».

Altra crepa nell’orecchio.

«Alla polizia? Addirittura?».

«Sì e stamattina la madre della Patty ha già chiamato qui tre volte per chiedere se qualcuno poi avesse visto Massimo».

«Ma lo hanno cercato in campo? Magari ha avuto un malore…».

«Sì, lo hanno già cercato in campo. Non lo hanno trovato, e la sua sacca è nella sala sacche».

«E che hanno detto all’ospedale dove lavora?».

«Che non lo vede nessuno da venerdì».

«Che casino… Chissà dove si sarà cacciato…» esclamai, sentendomi a quel punto seriamente preoccupato per lui.

Dissi a Luisa di segnare la consumazione sul mio conto, mi incamminai verso la scala che dalla sala d’ingresso porta sia alla segreteria sia agli spogliatoi e scesi di sotto.

La sede del golf club si trova in una villa ottocentesca inserita in una decina di ettari di bosco all’interno del parco dei Colli Euganei. Antica residenza di campagna della famiglia Casati Vitali, conti di Nogaredo, si sviluppa su due piani più un interrato: non è un ambiente lussuoso ma la sua semplicità, unita a un arredamento di buon gusto in armonia con la collocazione campagnola, la rende familiare e accogliente.

Non avevo ancora finito di scendere la scala, che un capannello di persone di fronte alla segreteria si voltò verso di me. Quel gruppetto era composto dal presidente del club, Andrea Galli, dalle due segretarie che ci lavorano, dai due arbitri di gara e da due carabinieri, un maresciallo e un appuntato. Grazie a una consumata esperienza in materia, ebbi la netta sensazione che tutti loro mi stessero guardando con aria di rimprovero. Mi fermai sull’ultimo gradino, sentendomi un po’ a disagio.

Quasi a voler rispettare le gerarchie il primo a parlare fu Galli, una persona che della regolarità ha fatto uno stile di vita. Galli è alto e talmente magro da farmi sospettare che la pancia gli cresca al contrario.

«Ranieri! È da ieri che la stiamo cercando! Ma lei lo accende mai il suo cellulare?»

mi chiese il presidente con aria seccata e di rimprovero, non appena mi vide.

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Cazzo, il cellulare! Mentre stavo pensando a dove l’avessi dimenticato quella volta e, mentre stavo anche cercando di scendere l’ultimo gradino della scala, le due

segretarie mi elencarono quasi in sincrono gli orari precisi dei tentativi falliti che avevano fatto per contattarmi telefonicamente.

«Scusatemi, devo averlo dimenticato da qualche parte…» risposi imbarazzato.

Dai loro sguardi capii che se il mondo va così male, è certamente per colpa mia.

Prima che Galli facesse in tempo a iniziare la paternale che aveva in serbo per me, mi venne incontro uno dei due carabinieri che subito mi disse:

«Buongiorno, signor Ranieri. Sono il maresciallo Carmine Costanzo della caserma di Bastia di Rovolon».

Mentre gli stavo allungando la mano per presentarmi a mia volta, il maresciallo portò la sua al berretto e proseguì: «Signor Ranieri, lei sa che il dottor Massimo Salvioni è irreperibile da ieri sera?».

«Sì, me lo ha appena detto Luisa».

Mentre pronunciai quelle parole, tentai di recuperare dignità insieme alla mia mano.

«E mi dica, lei ha giocato con il dottor Salvioni ieri pomeriggio?».

«Sì, abbiamo giocato in quattro fino alle diciotto. Dopo la partita abbiamo bevuto una birra insieme, poi io sono sceso negli spogliatoi a farmi una doccia e alla fine sono tornato a casa mia».

«E poi, ha forse sentito il dottor Salvioni al telefono?».

«No, beh… Se l’avessi sentito, glielo avrei già detto».

Intanto, dentro di me stavo pensando ancora a dove cavolo avessi lasciato il mio cellulare… Probabilmente quel tarlo mi si lesse in faccia, perché il maresciallo subito mi chiese da quanto tempo l’avevo smarrito.

«Onestamente, non ricordo… Di sicuro, ieri non l’ho usato».

Com’era prevedibile, le espressioni dei presenti passarono dal patetico compatimento alla condanna senza appello.

In un sussulto di orgoglio, provai a rendermi utile citando i nomi degli altri giocatori che la sera precedente erano stati con noi durante la partita finché il

maresciallo mi interruppe su Casati Vitali. Infine, non mi restò che schierarmi dalla loro parte e ammettere che il mio cellulare avrebbe avuto bisogno di un proprietario più attento…

Mentre stavamo parlando arrivarono altri soci che, essendosi iscritti alla gara prevista per quella domenica, dovevano presentarsi in segreteria. Il presidente intimò a Claudia, una delle due segretarie, di tornare al suo posto per raccogliere i quindici euro che ogni partecipante è tenuto a versare. A me ormai, con buona pace del mio rituale, era passata anche la voglia di giocare.

Il maresciallo Costanzo mi stava ancora guardando quasi volesse alludere al fatto che io avessi ancora molte cose da dire, mentre in tutta onestà non avevo idea di dove Massimo fosse.

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«Luisa mi ha detto che l’avete già cercato in campo, perché se ha avuto un malore…» tentai di suggerirgli.

«Lo hanno cercato i caddies ieri sera. Stamattina abbiamo già chiamato gli ospedali oltre ai parenti più stretti, ma nessuno ne sa nulla».

Ciò detto il maresciallo assunse improvvisamente un’espressione di complicità e, facendo un passo verso di me, mi prese sottobraccio per isolarmi dagli altri e

chiedermi:

«Senta, Ranieri. Non è che per caso lei sa se il dottor Salvioni ha magari, diciamo, altre frequentazioni? Sa… il circolo, le mogli, magari una scappatella?».

Avrei voluto dirgli che io di mestiere faccio il giornalista e, in quanto tale, sono la persona meno indicata per una confidenza del genere, a meno che non si intenda divulgarla ai quattro venti. Inoltre, per indole personale non sarei in grado di vedere un adulterio nemmeno se me lo indicassero col dito. Tuttavia mi sarebbe dispiaciuto deludere il maresciallo che mi stava accreditando di tanta confidenza, dunque gli risposi fermo: «Maresciallo, premesso che Massimo non mi sembra il tipo, non mi risulta proprio abbia relazioni extraconiugali».

A quel punto mi sarei aspettato che il maresciallo abbandonasse quella smorfia di carbonara cospirazione, invece mi rispose:

«Allora, potrebbe trattarsi magari di uno scherzo… Sa, tra vecchi amici…».

«Forse è meglio chiarire un piccolo equivoco, maresciallo. Io non sono un grande amico di Massimo. Intendo dire che giochiamo insieme a golf, ma niente di più perché fuori dal circolo non ci frequentiamo. Quindi, credo che solo la Patty possa aiutarla».

«E chi è la Patty?».

«Ha ragione, maresciallo. Intendevo dire Roberta, la moglie di Salvioni. È che vuole essere chiamata Patty...».

«E perché mai? Non è che si chiama Genoveffa!» esclamò il maresciallo con una certa curiosità.

La logica del maresciallo era inappuntabile: non mi restava che approfittare del clima cameratesco e glissare sulla sua domanda: «Eh… sa… Le donne…».

Finalmente il maresciallo, con un sospiro che sanciva la maschile comprensione, mi restituì il braccio e tornò a dedicare la sua attenzione al presidente Galli:

«Voglio che venga chiesto a tutti i soci se hanno visto il dottor Salvioni o se ne sanno qualcosa. Casomai uscissero delle informazioni, questo è il numero della caserma. Al momento non possiamo fare nient’altro».

Il maresciallo e l’altro carabiniere che lo accompagnava lasciarono la segreteria del club dopo avere dato i loro recapiti.

Mi chiesi che cosa potessi fare. La gara non più: ormai non ne avevo alcuna voglia.

Decisi di cambiarmi comunque e di fermarmi al campo pratica: di solito, tirare tante palline senza lo stress di dove vanno a finire mi rilassa e mi aiuta a riflettere. Non avevo alcun dubbio che Massimo avesse una spiegazione per la sua assenza, però nutrivo la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa…

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Mentre mi stavo cambiando negli spogliatoi, prestai orecchio ai commenti di alcuni giocatori che si stavano cambiando a loro volta: l’idea più gettonata, espressa in modo molto colorito, fu quella della fuga d’amore. Un socio, che in quel momento non potevo vedere per via degli armadietti tra lui e me e la cui voce non riuscivo a

riconoscere, azzardò l’ipotesi che Massimo potesse essersi cacciato in qualche casino per debiti di gioco o peggio. Decisi di non dare credito a nessuna delle ipotesi che avevo sentito, perché non erano coerenti con l’idea che avevo di Massimo. Tuttavia, è pur vero che troppo spesso nella mia vita mi sono sbagliato sulle persone. Mi chiesi che cosa ne pensasse la Patty e soprattutto come potesse stare…

Accantonai per un momento i pensieri e le ipotesi che continuavano ad affacciarsi e a sovrapporsi fra loro nella mia testa e, una volta arrivato in campo pratica, presi dalla sacca il pitch, il ferro col quale inizio sempre il riscaldamento. I tiri che stavo facendo erano la conferma che avevo fatto bene a rinunciare alla gara: mi mancava il ritmo, stringevo troppo l’impugnatura del bastone e non avevo la giusta elasticità. Il risultato fu che un colpo mi andava a destra e uno a sinistra e, quel che era peggio, i miei colpi non si susseguivano necessariamente in quell’ordine.

Nei Colli Euganei ottobre è il mese che preferisco. Non c’è più la calura tipica dei mesi estivi ma il freddo non morde ancora. I boschi sulle colline che fanno da cornice al campo da golf assumono dei colori caldi che variano dal giallo al rosso, come se volessero restituire sotto forma cromatica tutto il calore accumulato nei mesi estivi appena conclusi.

Valutai se non fosse il caso di interrompere già gli esercizi di pratica e andare a farmi la doccia. Nell’indecisione tirai un’altra pallina col ferro sette, ma le braccia partirono in anticipo rispetto alla rotazione del bacino. Ne uscì una traiettoria talmente curva a sinistra che, vincendo ogni residua titubanza prima ancora che la pallina

ricadesse sul terreno, avevo già rimesso il ferro in sacca.

A quel punto tornai negli spogliatoi. Non erano ancora le dieci del mattino e di certo ero il primo giocatore a rientrare. Era talmente presto che Carlo Buonafiore, il caddie master, stava ancora raccogliendo dalle ceste gli asciugamani sporchi del giorno precedente. Dopo aver terminato di farmi la doccia, scoprii con frustrazione che il bancale in cui vengono di solito impilati i teli puliti era desolatamente vuoto.

D’accordo, niente panico. Sapevo che di solito la donna delle pulizie ne lasciava una scorta consistente in un mobile di fronte alla sauna. Quindi mentre nudo, bagnato e speranzoso stavo raggiungendo l’anticamera che dà accesso alla sauna, notai con stupore che l’oblò della porta era completamente appannato mentre sulla panca all’interno si intravedeva una sagoma.

Che cosa potesse spingere un uomo a torturarsi in quel modo alle dieci del mattino di una tiepida giornata di ottobre, per me era incomprensibile almeno quanto il

dentifricio a strisce. Trovai la pila degli asciugamani puliti dove avevo previsto, passai davanti al vetro per andare a prenderli ma prima cercai di guardare con più attenzione per capire chi fosse quella figura che si intravedeva. Non mi era possibile vedere, ma

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intuii un’inclinazione innaturale del suo capo. Decisi di entrare e chiesi se fosse tutto a posto, ma non ebbi nessuna risposta. Mentre mi stavo avvicinando, sentivo il cuore accelerare i battiti: la testa di quell’uomo era inclinata all’indietro come se stesse fissando il soffitto. Ormai non avevo più dubbi, appoggiai un piede sulla panca per sollevarmi a vedere il suo viso: il cuore mi stava esplodendo nel petto. Ciò che vidi fu agghiacciante tanto che, come in una vertigine, provai un senso di vuoto nel quale stavo precipitando. Cercai di controllarmi, ma ero talmente shockato da avere la sensazione di guardare quel volto con gli occhi di un altro. Le sue orbite erano vuote;

il naso era come esploso, aperto e divaricato in una posa oscena; le labbra erano cucite con del filo di nylon che facevano assumere alla bocca la postura di un bacio. Quel senso di vuoto mi stava arrivando al cervello, l’immagine si confondeva sempre più nel vapore della sauna e, veloce come il battito del cuore, arrivò il buio.

Mi ritrovai seduto sul pavimento bagnato della sauna, sentendo un forte dolore alla nuca ma non capii se fosse per la caduta oppure per lo shock avuto dalla tremenda scoperta. Il corpo di quell’uomo era lì davanti a me. Non ero lucido, non capivo che cosa stesse succedendo e che cosa dovessi fare. Alla fine mi rialzai, uscii da lì

appoggiandomi alla parete, raggiunsi la fila degli armadietti dello spogliatoio e sentii qualcuno degli altri soci rivolgermi la parola, forse un saluto.

Mi trovai di fronte qualcun altro di loro, che mi stava guardando con aria preoccupata e finalmente sentii le parole uscirmi di bocca: «Massimo è di là. È morto».

Mi misi seduto su una panca e cercai di recuperare un minimo di lucidità, mentre nello spogliatoio si creò un caos inverosimile. Nel viavai di giocatori, ragazzini, segretarie, addetti al campo, parenti e amici dei suddetti riuscii a far mente locale su due cose: la prima era che in tutti i telefilm polizieschi americani la scena del crimine è solitamente riservata all’assassino, alla vittima e ad alcuni membri della polizia scientifica. La seconda era che ero ancora nudo. In merito alla prima non c’erano dubbi sul fatto che da noi la scientifica avrebbe dovuto rassegnarsi a esaminare più impronte che sulla metropolitana di Milano all’ora di punta. In merito alla seconda, decisi di coprirmi con le mani i gioielli di famiglia e di raggiungere il mio armadietto con malcelato imbarazzo.

Non avevo ancora finito di vestirmi che sentii il maresciallo Costanzo,

evidentemente richiamato da qualcuno, intimare a tutti di uscire dallo spogliatoio.

Terminai di vestirmi in fretta, chiusi la mia sacca con i vestiti da lavare e uscii insieme agli altri presenti. Stavo per varcare la soglia dello spogliatoio, quando il maresciallo mi chiamò:

«Ranieri, aspetti. Lei deve restare qui, mi deve raccontare quello che ha visto».

«Maresciallo, mi dia solo cinque minuti. Il tempo di bere un caffè, perché ho davvero bisogno di riprendermi».

«Non si preoccupi. Lei stia qui con me, che le faccio portare qualcosa dal bar».

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Mentre il maresciallo, nonostante le fosse vicino, stava urlando a Claudia di chiedere dei caffè al bar, riappoggiai la mia sacca e tornai a sedermi con rassegnazione su una panca dello spogliatoio.

Il maresciallo, in piedi di fronte a me, iniziò quello che a mio parare avrebbe potuto configurarsi come il primo interrogatorio della mia vita.

«Ranieri, allora… Che mi combina, eh?».

«Che le combino, in che senso?» gli chiesi a mia volta, cadendo dalle nuvole.

«No, dico. Tutto ’sto casino. Salvioni trovato morto ammazzato, lei che nel ritrovarlo è svenuto, tutta quella gente che di colpo è entrata nel bagno turco…».

«È una sauna» puntualizzai serafico.

«Che?».

«Ho detto che è una sauna, non un bagno turco» risposi fermo.

«Ranieri, cazzo! Di là c’è uno morto ammazzato e lei mi fa le pulci sul bagno turco?».

«Senta, maresciallo, mi faccia uscire un attimo da qui. Ho bisogno di riprendermi e di respirare un po’ d’aria».

«Abbia pazienza, si tratta di aspettare solo qualche minuto. Abbiamo chiamato la centrale di Padova, sappiamo che il procuratore Dal Nero sta arrivando col medico legale e la polizia scientifica. Lei mi serve perché il presidente Galli mi ha detto che è stato il primo a trovare il dottor Salvioni. A proposito, come ha fatto a capire che si tratta di Salvioni? Non è così facile riconoscerlo per il modo in cui è conciato…».

«Massimo ha il tatuaggio della Sampdoria sul braccio. È l’unico tifoso di quella squadra che io conosca in tutto il Veneto».

«È più di trent’anni che sono in servizio, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista. E non c’è solo l’omicidio. Secondo me, c’è anche un messaggio dell’assassino nella bocca cucita, nelle orbite vuote… Se voleva solo ammazzarlo, mica lo conciava in quel modo».

Mentre stavamo parlando si sentì in lontananza la sirena di un’ambulanza, o di un’auto della polizia o più probabilmente di entrambe.

«Ecco, Ranieri, sente? Stanno già arrivando».

«Ma che cosa succederà?».

Ero obiettivamente preoccupato perché non volevo essere costretto a ritornare nella sauna e rivedere quella scena raccapricciante.

«Oh, stia tranquillo! Le faranno solo delle domande».

«Beh, maresciallo, questo lo sapevo anch’io. Intendevo, dovrò rientrare nella sauna?».

«Non lo so. Lasci fare a loro, che sanno ciò che fanno».

Da fuori lo spogliatoio, sentimmo che era in corso una discussione dai toni piuttosto accesi. Mentre il maresciallo decise di affacciarsi per vedere che cosa stesse

succedendo, entrò una donna bionda che teneva tra le mani un vassoio coi caffè.

In modo brusco, la donna si rivolse al maresciallo chiedendogli:

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«Chi ha chiesto questi caffè?».

Prima che il maresciallo potesse risponderle, intervenni dicendo: «Sono per me».

«Ah! E vuole anche due cornetti? Magari un succo d’arancia insieme?» mi chiese quella sconosciuta.

Credo che in condizioni normali non mi sarebbe certo sfuggito il tono retorico di quella domanda. Tuttavia in quella circostanza, essendo ancora frastornato, me ne uscii con: «Beh, se ci fosse dello zucchero di canna..».

La donna, visibilmente irritata, sbatté il vassoio sulla panca sulla quale ero seduto e mi guardò come si guarda un piccione che ti ha appena fatto un dispetto

sull’impermeabile pulito.

Con un tono che suggeriva di non replicare, disse:

«L’ha saputa la novità? Questa è la scena di un delitto, mentre il bar è di sopra e lei è pregato di andarci il più velocemente possibile!».

Incrociai lo sguardo del maresciallo che, di spalle a quella donna, allargò le braccia in segno di rassegnazione.

Siccome non mi era ancora ben chiaro il motivo di tanta arroganza, le chiesi con disappunto:

«Premesso che avrei voluto andare al bar già da prima, mi scusi, ma lei chi è?».

Intervenne il maresciallo presentandomi a quella donna come colui che aveva scoperto il cadavere di Massimo.

La donna, usando a quel punto un tono meno tagliente, per fortuna rivolse i suoi strali su Costanzo dicendogli: «Mi scusi, ma davvero non la capisco. Si fa portare il caffè proprio qui, sul luogo del delitto? Maresciallo, almeno lei...».

Forse per effetto della tensione crescente che mi stava restituendo l’adrenalina, non mi sfuggì il riferimento al fatto che da me quella donna isterica non si aspettasse capacità di comprensione.

Ormai stavo esaurendo la pazienza, quindi ripetei sbottando:

«Scusatemi, se mi ripeto. Ma lei, signora, chi è?».

Finalmente, guardandomi dritto negli occhi, la donna mi rispose:

«Sono Giulia Dal Nero, il procuratore incaricato di questa indagine».

Molto bene. Se il buongiorno si vede dal mattino…

La procuratrice Dal Nero, una volta appreso meglio qual era stato il mio ruolo insieme alla mia reazione nel ritrovamento del cadavere, si fece più comprensiva nei miei confronti. Invitandomi ad abbandonare lo spogliatoio, la Dal Nero mi assegnò alle cure dell’appuntato per verbalizzare la mia testimonianza.

Nel giro di pochi minuti mi ritrovai al bar, finalmente con un caffè in mano, a

declamare le mie generalità all’appuntato dei carabinieri che si presentò come Cipolla:

costretto a stargli vicino, sorrisi per l’appropriatezza di quel cognome.

Eravamo soli con Luisa che stava chiudendo il bar secondo le disposizioni date dalle autorità per ovvi motivi legati all’indagine: tutti i soci erano già andati via, ma solo dopo aver lasciato ai carabinieri le loro generalità come da prassi.

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Prima ancora di terminare l’elenco dei numeri di telefono ai quali era possibile rintracciarmi, mi ritrovai di fianco la procuratrice che, sconvolta e terribilmente pallida, chiese a Luisa un bicchiere d’acqua.

Poi, senza rivolgermi lo sguardo confessò:

«Mi avevano detto che era una scena terribile, ma mai avrei immaginato di trovarmi di fronte a una cosa del genere…».

A essere onesto provai una certa soddisfazione nel constatare come anche la

procuratrice, che tutto sommato di situazioni simili doveva averne già vissute, faticava a sopportare ciò che aveva visto. Avvertii una sorta di complicità nel condividere con lei il senso di vertigine che quella scena provocava. Incoraggiato da quelle sensazioni, le appoggiai una mano sulla spalla e le rivolsi un sorriso di comprensione.

Lei si voltò verso di me e, dopo un istante nel quale incrociò il mio sguardo, si rivolse all’appuntato Cipolla per dirgli: «Mi sarebbe utile che lei contattasse il comando di Padova per la trasmissione di tutti i dati appena raccolti alla polizia di stato».

Dopodiché, aggiunse rivolgendosi a me: «Signor… mmh…».

«Riccardo Ranieri».

«Signor Ranieri, fra poco potrà andarsene. Ma la prego di restare reperibile perché nel pomeriggio, non appena la scientifica avrà terminato i rilievi, avrò necessità di chiederle alcune cose. Inoltre, dovrà rilasciare una deposizione essendo stato lei a trovare per primo il corpo del dottor Salvioni».

«Certo, capisco, però, beh… Ecco, purtroppo non so dove ho lasciato il cellulare e a casa non ho un telefono fisso».

«Dove abita?».

«Qui vicino, a Bastia».

«Bene. Allora non lasci casa sua, perché le manderò una macchina della polizia a prenderla».

Fui sorpreso dalla velocità di reazione di quella donna, che in un attimo aveva ripreso perfettamente in mano la situazione.

La procuratrice Dal Nero mi salutò, poi tornò con rapidità verso lo spogliatoio. Per un istante mi trovai a guardarla di spalle e confesso che, malgrado non fosse certo il momento più opportuno per pensieri del genere, rimasi ammirato dalla sua figura.

Una volta uscito dal club e superata una consistente schiera di curiosi, salii nella mia macchina, una Volvo Station Wagon. Chiusi la portiera e aspettai qualche

secondo prima di mettere in moto, godendo della protezione dell’abitacolo e del senso di isolamento che è in grado di dare.

Il breve tragitto dal club fino a casa mia, non più di cinque chilometri, è molto suggestivo. La strada, piuttosto stretta, scavalca una collina e poi attraversa un bosco molto fitto quanto carico di magici colori. È piuttosto raro incrociare altri veicoli tanto che quando accade, provo un pizzico di fastidio, quasi gelosia, per dover condividere con un estraneo quel piccolo incantesimo. All’uscita dal bosco, la strada si immette

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sulla statale che collega Padova a Bastia; passato il paese di Bastia, si prosegue per tre chilometri in direzione di Vicenza.

La mia casa, in realtà un casolare di campagna, non si affaccia sulla strada e per raggiungerla si devono attraversare cinquanta metri di proprietà del mio vicino

Giuseppe. Il casolare è piuttosto isolato, circondato da un giardino di seimila metri in parte adibito a frutteto, mentre sul retro la proprietà è limitata dall’argine di un canale destinato all’irrigazione. Adoro questa casa: quando mi trasferii qui da Milano, cinque anni fa, me ne innamorai immediatamente. Ci vivo da solo, o meglio, insieme a una coppia di pastori tedeschi. Quei due cani li ho desiderati sin da quando ero bambino.

La femmina si chiama Mila, in onore della città che mi ha sopportato per tanti anni, mentre il maschio si chiama Newton a causa di una mai sopita passione per la fisica.

Mila pesa ventisette chili e ha fattezze che la fanno assomigliare a un coyote, mentre Newton ne pesa cinquanta e, se proprio devo spendere una somiglianza, direi che le sue fattezze ricordano invece un orso. Il fatto curioso è che di quegli animali i miei cani hanno anche il carattere: Newton è pigro, calmo e sicuro di sé, ama essere coccolato ed è socievole con gli altri suoi simili, ma tutto ciò a una condizione ossia che nessuno tocchi Mila. Se questo succede, Newton morde una volta sola ed è sufficiente. Al contrario Mila è elettrica, nervosa, sempre attenta e pronta a segnalare abbaiando ogni genere di pericolo. Purtroppo dal suo punto di vista le automobili che passano a cinquanta metri di distanza, le voci dei vicini e ancora il cinguettio degli uccellini tra gli alberi rappresentano insidie da segnalare con meticolosa costanza.

Delle quattordici ore che Mila trascorre in giardino, tredici le passa abbaiando e provocando inevitabili oltre che fastidiosi contraddittori canori con tutti i cani del vicinato nel raggio di un chilometro. Questo, unito alla mia smisurata incompetenza in tema di giardinaggio, mi procura scarso credito presso la severa comunità di Bastia.

Non appena ebbi varcato il cancello, fui accolto come sempre dal gioioso

scodinzolare dei veri padroni di casa. Mila, come d’abitudine, si sollevò con le zampe anteriori sulla portiera dalla mia parte. Ho il ragionevole sospetto che sia stata

addestrata a questo gesto dal proprietario della carrozzeria del paese che, da quando sono arrivato qui, ostenta un inaspettato benessere economico. Per quanto

quell’accoglienza mi costi quasi mille euro l’anno, alla fine ritengo che siano soldi ben investiti: veder arrivare incontro i miei cani sempre felici di accogliermi, mi risolleva il morale ogni volta.

Scesi dalla macchina e, accompagnato da quelle consuete manifestazioni di gioia di Mila e Newton, aprii la porta di ingresso, disinnescai l’allarme e mi misi alla ricerca del mio cellulare deciso come non mai. Cercare qualcosa a casa mia non è facile: il casolare si sviluppa su tre piani e misura più di trecento metri quadri. Se a ciò si aggiunge la mia innata predisposizione al disordine, ci si può fare un’idea della difficoltà dell’impresa che dovevo intraprendere. Non mi illusi di sentire il bip delle chiamate perse: non era stato caricato da almeno cinque giorni. Tuttavia credetti di avere molto tempo a disposizione in quanto era facile immaginare che, tra i rilievi

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della scientifica, l’ascolto delle testimonianze e il consumo di svariati alcolici per superare lo shock, agli inquirenti servissero molte ore per svolgere le indagini presso il golf club Frassanelle.

Era del tutto indifferente iniziare da un locale o dall’altro della casa, quindi perché non cominciare dalla cucina? Con questa scusa, e dopo una breve sosta in bagno, ne approfittai per prepararmi un tramezzino al salame. Non feci in tempo a disporre le fette di salame sul pane che, anticipate dalle vigorose rimostranze di Mila, sentii in lontananza le sirene della polizia. Dalla finestra della cucina vidi che l’auto si era fermata al primo cancello della via, quello del mio vicino dal quale è necessario passare a causa della servitù di passaggio. Fu lui ad aprire il suo cancello, perché quando scesi vidi l’auto della polizia già di fronte al mio.

Mentre anche Newton si univa alle proteste di Mila per i nuovi arrivati, intuii che il poliziotto sceso dalla macchina stava facendo il mio nome. Inserii di nuovo l’allarme, chiusi la porta e lo raggiunsi.

CAPITOLO DUE

«Signor Ranieri, deve venire con noi in procura a Padova».

Aprii la portiera posteriore e salii in macchina, sedendomi accanto a un altro poliziotto.

«Sì, certo. Però, mi aspettavo di vedervi molto più tardi».

Non avevo ancora chiuso la portiera né finita la frase, che il poliziotto alla guida partì in retromarcia sgommando e, con una derapata da brivido, girò la macchina pestando con le ruote tre metri di coltivazioni del mio vicino. Sapevo che ciò mi sarebbe costato almeno venti minuti di rimostranze e di lezione con lui sulla

incompatibilità tra le giovani piantine di nonsochecosa e le sgommate di un’auto della polizia.

«Credo ci siano delle novità sul caso, perché la procuratrice Dal Nero ci ha chiesto di portarla immediatamente da lei a Padova» mi spiegò il poliziotto seduto accanto a me.

«Ma la procuratrice non si trova a Frassanelle?».

«Si trovava a Frassanelle prima. Nel frattempo, è già rientrata a Padova».

Nel tragitto lungo il vialetto di cinquanta metri che separa la mia casa dalla strada raggiungemmo a sirene spiegate probabilmente i cento chilometri orari. Pregai il Signore che il mio vicino avesse chiuso le galline nel pollaio altrimenti, oltre a

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dovermi sorbire una filippica in proposito, mi sarebbe stato inevitabile mettere mano anche al portafoglio. Passando di fronte alla casa di Giuseppe, notai che tutta la sua famiglia era affacciata a una finestra per guardare che cosa stesse succedendo. Solo in quel momento, realizzai che ai loro occhi essere caricato su un’auto della polizia e pure a sirene spiegate avrebbe favorito ipotesi sinistre sul mio conto. I loro sguardi confermarono i miei dubbi: sia la moglie sia la figlia stavano scuotendo la testa come intendessero dire che uno come me, prima o poi, si sarebbe cacciato inevitabilmente in qualche guaio. A quel punto, le mie residue possibilità di avere relazioni sociali in paese erano sfumate in modo irreparabile.

Uscimmo da quello stradello ed entrammo in strada con un terribile stridio di

gomme e in un attimo raggiungemmo il paese a più di centocinquanta chilometri orari.

Mi attaccai con entrambe le mani alla maniglia di cortesia dell’auto. Avevo una paura del diavolo e cercai di spiegare all’agente alla guida che, dato il mio ruolo nella

vicenda dell’omicidio di Massimo, non credevo fosse necessario andare così veloci:

non ero certo io l’assassino. I poliziotti mi spiegarono che la procuratrice aveva chiesto loro di fare in fretta. Non capii quale potesse esserne il motivo, tuttavia a quel punto la mia attenzione si concentrò sullo stomaco: sono talmente facile al mal d’auto, che a Milano soffrivo di nausea anche in tram. Abbassai il finestrino nella speranza che l’aria fresca mi facesse star meglio, ma purtroppo in quel modo la sirena

diventava insopportabile.

Fino a Padova la strada è abbastanza dritta tanto che riuscii a contenere il senso di nausea a livelli tollerabili, ma in città disgraziatamente le cose cambiarono finché, curva dopo curva, la situazione peggiorò in modo terribile. Se non fosse stato per il fatto che ero a digiuno dal giorno prima, probabilmente avrei tirato su tutto.

Arrivammo davanti alla procura e ci fermammo con l’ennesimo stridio di gomme.

Alla fine, scesi dalla macchina in stato comatoso e non ebbi bisogno di guardarmi allo specchio per intuire un pallore cadaverico sul mio volto: stavo talmente male, che giurai a me stesso di non commettere mai un reato solo per non dover subire di nuovo quella tortura medioevale.

Quasi a forza, i due agenti mi trascinarono nell’ascensore del palazzo e subito salimmo al terzo e ultimo piano. L’ascensore, vecchio e lento come la fame, si aprì su un corridoio con un pavimento di linoleum verde sul quale si affacciava una decina di porte. Con passo sicuro, i due agenti arrivarono davanti alla porta sulla quale

campeggiava la targhetta con il nome della procuratrice. Mentre gli agenti bussarono io mi trovai a pensare che, tutto sommato, avevo piacere di rivederla. L’agente che prima era alla guida dell’auto aprì la porta e si affacciò per comunicarle la mia presenza. Immaginando di dover entrare feci un passo avanti ma inaspettatamente sbattei contro l’agente che, incalzato dalla procuratrice, si stava facendo indietro. La Dal Nero mi spiegò che dovevo andare con lei a casa dei Salvioni e che avremmo parlato lungo il tragitto. Quindi, riprendemmo in tutta fretta l’ascensore e una volta fuori dall’edificio della procura risalimmo con mio grande disappunto sull’auto della

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polizia. Manco a dirlo, ripartimmo sgommando e di nuovo con la sirena accesa. Non volendo apparire debole di fronte a quella donna, cercai di assumere un atteggiamento disinvolto da uomo avvezzo a certe tensioni: così facendo, ero sicuro che la Dal Nero non potesse accorgersi del mio malessere.

«Ma che cos’ha Ranieri? Non si sente bene? Ha lo stesso colore del linoleum del mio ufficio…».

Ecco, appunto.

«No… Soffro solo un pochino il mal d’auto...».

«Resista, Ranieri. Non ci vorrà più di un quarto d’ora».

«Ci credo! A questa velocità è un miracolo se non decolliamo» mi sfuggì.

«Mi spiace averla costretta a venire in questo modo. Ci sono delle novità, purtroppo».

«Purtroppo?».

«Stamane ho incaricato una psicologa della polizia di andare dalla signora Salvioni per comunicarle la morte del marito. La signora non rispondeva né al citofono né al cellulare, quindi la psicologa si è fatta aprire l’appartamento dalla portinaia che aveva le doppie chiavi e ha trovato la signora Salvioni morta».

«Morta? No, Patty! Come, morta? Hanno ucciso anche lei..?» chiesi sconcertato.

«Sì. Da quanto mi ha riferito la psicologa, è stata colpita in testa con una mazza da golf».

A quel punto, ebbi un momento di sconforto ed esclamai:

«Cristo, ma che cosa sta succedendo? Povera Patty... Non riesco proprio a crederci… Lei, Massimo… due persone così belle!».

«Non abbiamo ancora capito il movente di entrambi gli omicidi, quindi non sono ancora in grado di rispondere alla sua domanda. Ma forse lei può aiutare noi».

«Ossia?».

«Prima di essere assassinata, la moglie del dottor Salvioni l’ha cercata al cellulare.

A proposito, lo ha poi ritrovato?».

«Beh, no. Non ho nemmeno avuto il tempo di cercarlo».

«In ogni caso, i poliziotti già presenti sul luogo del delitto hanno visto questa chiamata che la signora Salvioni le ha fatto. Ora abbiamo bisogno di sapere da lei quali potevano essere le ragioni».

«Ah, non ne ho la più pallida idea! Probabilmente, la Patty voleva chiedermi se avevo visto suo marito».

«A dire il vero, la signora Salvioni nel giro di pochi minuti oltre a lei ha chiamato anche il signor Ranni e altre persone che al club hanno visto per ultimo suo marito».

Feci appena in tempo a intuire un’ombra di delusione sul viso della procuratrice, che sentii salirmi in gola l’irrefrenabile impulso a rimettere. Aprii il finestrino dalla mia parte che, maledizione, si apriva solo per metà, buttai fuori la testa per quanto riuscissi e diedi libero sfogo al mio stomaco. Grazie a Dio ero digiuno da tempo così sporcai poco il finestrino dell’auto, però ebbi il sospetto che la mia immagine agli

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occhi di quella donna, come a quelli dei miei compaesani, fosse ormai

irreparabilmente compromessa. Mi pulii con un fazzoletto e sentii il suo sguardo su di me, percependo anche i sorrisi ironici dei due agenti seduti ai posti anteriori.

«Scusatemi tanto, ma non potevo davvero resistere…» mi giustificai, sentendomi davvero mortificato.

«Non si preoccupi, Ranieri, non è nulla. Sono spiacente di questa nostra fretta, ma in casi del genere il tempo è un fattore decisivo».

«Sì, capisco. Ma da stamattina mi sembra di essere entrato in un frullatore. Poi, sapere che Massimo e la Patty sono stati uccisi entrambi e pure in modo violento è davvero uno shock terribile».

«Mi parli dei suoi rapporti con loro» mi chiese a quel punto la Dal Nero.

«C’è poco da dire. Ci troviamo quasi tutti i sabati e le domeniche a giocare a Frassanelle, ma non ci siamo mai frequentati al di fuori di questo contesto».

La nostra conversazione fu interrotta da Schumacher, l’agente alla guida, che ci avvertì di essere arrivati a destinazione.

Scendemmo ed entrammo sempre di corsa nell’elegante palazzo in cui i coniugi Salvioni abitavano al secondo piano. Una volta arrivati lassù non mi era ancora chiaro se la mia presenza fosse ancora così importante per la procuratrice: decisi di rallentare prendendomi un attimo per respirare prima di vedere l’ennesima scena

raccapricciante. Mi fermai sul pianerottolo dell’appartamento dei Salvioni sia perché non me la sentivo di entrare sia perché avevo bisogno di fermarmi un attimo a

riflettere. A quel punto mi era chiaro che, volente o nolente, in quella storia

allucinante c’ero dentro anch’io fosse stato solo per il ritrovamento che avevo fatto del cadavere di Massimo. Sentii che qualcosa mi era sfuggito… Ripensai al giorno precedente: avevamo giocato a golf, in campo ne avevamo combinate di tutti i colori ma non ricordavo nulla di particolare. Anche le litigate con Arcadio, per quanto fossero state sgradevoli, non mi offrivano spunti davvero utili. Dopo la gara, al bar Massimo e io ci eravamo sfogati un po’ con Alessandro che era d’accordo con noi e poi…ecco… e poi Massimo ci aveva detto che sarebbe andato a parlare col padre di Arcadio. Ecco che cosa avevo dimenticato di dire all’appuntato Cipolla!

Mi affacciai sulla porta d’ingresso dell’appartamento di Massimo e Patty, della quale potevo scorgere i piedi che mi confermavano fosse stesa a terra morta. L’agente che prima era alla guida mi trattenne dicendomi di non entrare fino a quando la

procuratrice non mi avesse chiamato. La intravidi di spalle con le scarpe avvolte nel cellophane, i guanti di lattice sulle mani e una cuffia da doccia in testa mentre stava parlando con quello che, dalla tenuta, se non era un fantasma era un agente della scientifica. Quasi percependo il mio sguardo su di lei, la procuratrice si girò verso di me e per un istante mi parve di leggere nella sua espressione un pizzico di femminile imbarazzo per quella tenuta che ne sviliva bellezza e femminilità. Avrei voluto dirle della visita che Massimo voleva fare al conte di Nogaredo e le feci cenno di

avvicinarsi a me, ma non feci in tempo perché in un attimo fu già fuori dalla mia

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visuale. Ebbi maggiormente il sospetto che le fosse seccato farsi vedere conciata in quel modo. Pensai che, tutto sommato, fosse ancora in vantaggio lei: io l’avevo vista con la cuffia da bagno in testa, ma lei mi aveva visto vomitare contro un finestrino dell’auto della polizia. Mi rivolsi allo stesso agente e gli dissi che avrei aspettato di sotto anche per prendere un po’ d’aria fresca. Alla faccia della fiducia! Con un walkie-talkie, l’agente comunicò al suo collega rimasto fuori dal palazzo che stavo scendendo.

Fine dell'estratto Kindle.

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