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CAPITOLO II. To be or not to be... (Ham III.i.56); con queste parole comincia la più conosciuta e

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Hamlet

e il valore della tradizione (riformata)

There is a sort of paradoxical historicity in the experience of writing.

The writer can be ignorant or naïve in relation to the historical tradition which bears him or her, or which s/he transforms, invents, displaces.

But I wonder whether, even in the absence of historical awareness or knowledge s/he doesn’t “treat” history in the course of an experience which is more significant, more alive, more necessary in a word, than that of some professional “historians” naively concerned to “objectify” the content of a science.

Derrida Jacques, “This strange institution Called Literature: an interview with Jacques Derrida”

To understand what Shakespeare inherited and transformed, we need to understand the way in which Purgatory, the middle space of the realm of the dead, was conceived in English texts of the later Middle Ages and then attacked by English Protestants of the sixteenth and seventeenth centuries. The terms of this attack in turn, I will argue, facilitated Shakespeare’s crucial appropriation of Purgatory in Hamlet.

Greenblatt Stephen, Hamlet in Purgatory.

2.1 “Something after death”. Immagini dell’aldilà.

“To be or not to be....” (Ham III.i.56); con queste parole comincia la più conosciuta e citata meditazione sulla vita e la morte che accompagna ormai, non solo la tradizione

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occidentale, ma quella del mondo intero che sente riecheggiare, ininterrottamente da secoli, questa espressione nelle lingue più diverse e sugli stage di ogni nazionalità.

Altrettanto vari, però, sono stati gli interventi, i commenti e le critiche che hanno accompagnato, nel corso del tempo, questo testo da permettere ad Harold Jenkins di affermare: “This speech is the most discussed in Shakespeare, and the most misinterpreted” (“Longer notes” in Hamlet 484); nel contempo, tuttavia, una tale eterogeneità di pensiero ha dato origine anche ad incomprensioni ed aggiunte che hanno corso il rischio di non lasciar trasparire il vero significato delle parole del principe di Danimarca: “That their results have diverged widely is due in large part to the different additions they have made to what Hamlet actually says” (485). Harold Bloom, d’altra parte, suggerisce la centralità di questo monologo come pure mette in risalto la presenza di elementi divergenti e contrastanti in esso quando afferma: “Questo soliloquio è il centro di Amleto, insieme tutto e niente, una pienezza e un vuoto che si contrastano a vicenda. Getta le basi per tutto ciò che il principe dirà nell’atto V e può essere definito un discorso di morte in anticipo, la prolessi della sua trascendenza” (Shakespeare.

L’invenzione dell’uomo 296).

Tra le tante le ‘questioni’ che il testo solleva e le letture a cui si presta sembra necessario, e nel contempo arduo, porci nella volontà di rileggere, tra le righe del soliloquio dell’Atto III, un certo discorso religioso che maggiormente interessa il presente studio.

Come ad un bivio, dinanzi al quale ci si arresta per valutare e studiare il percorso al fine di imboccare la strada giusta, il principe Hamlet, in un punto cruciale tanto della tragedia – l’inizio dell’atto III, considerato il punto di svolta dell’opera – tanto della propria vita – e cioè di fronte alla consapevolezza dell’uccisione del Re-padre e alla

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infedeltà della madre – non può far altro che concedere pausa al travaglio che turba il suo animo e meditare:

To be or not to be, that is the question:

whether ‘tis nobler in the mind to suffer the slings and arrows of outrageous fortune, or to take arms against a sea of troubles and by opposing end them. To die – to sleep, no more; and by a sleep to say we end

the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to: ‘tis a consummation devoutly to be wish’d. to die, to sleep;

for in that sleep, perchance to dream – ay, there’s the rub:

for in that sleep of death what dreams may come, when we have shuffled off this mortal coil, must give us pause – there’s the respect

that makes calamity of so long life. (III.i.56-69)

Questa riflessione, in cui tanto frequenti quanto seri sono gli interrogativi, lo porta a definire due condizioni che sembrano arricchirsi, gradualmente, di elementi diametralmente opposti. ‘Essere’ e ‘non essere’ risultano soltanto la prima di una serie di dicotomie presenti nel soliloquio: vita/morte; tormento/pace; affanno e conflitto/sonno e riposo; ma tutte queste opposizioni possono essere riassunte in un’unica alternanza che ingloba le altre, quella tra la vita terrena e ciò che la segue: se è la carne ad essere erede degli “slings and arrows of outrageous fortune” (Ham III.i.58), è chiaro che la pace e la possibilità di mettere fine alle sofferenze trascende il corpo per

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trovare la sua realizzazione in una realtà diversa da esso. È vero che Hamlet qui non si riferisce mai chiaramente all’anima o alla sua sorte, per cui il suo discorso non può essere considerato, ad una prima lettura, una vera e propria riflessione soteriologica; il suo interesse, infatti, sembra essere di natura più pragmatica e concreta. Per molti, che vedono il principe malinconico preoccupato per lo più della vendetta richiesta dal fantasma del padre, si tratta di una meditazione riguardante il compiere o meno la sua missione: “Many critics, feeling this a little remote from the business Hamlet has in hand, have persuaded themselves that it somehow conceals a debate on whether to act or not to act, to kill the King. But Hamlet voices a larger dilemma than this” (Jenkins,

“Introduction” in Hamlet 126).

Così, sebbene il discorso di Hamlet sia legato agli “advantages and disadvantages of human existence” (Jenkins, “Longer Notes” 485), le parole pronunciate all’Atto III, poc’anzi richiamate, possono essere anche considerate una riflessione più profonda che, in ultima analisi, porta a meditare sulla vita e la morte:

“The question concerns the choice between life and death and hence focuses on suicide throughout” (Jenkins, “Longer Notes” 485).

Tra la prima di queste opposizioni – l’essere e il non essere – e le altre c’è una fondamentale separazione poiché non c’è legame né riferimento tra “to suffer” o “to take arms” e “to be” o “not to be”; in altre parole, non è ben chiaro perché l’esistenza debba corrispondere al dolore, mentre l’annullamento di questo debba invece significare la perdita dell’esistenza stessa. Tuttavia, evidentemente, nell’esperienza di Hamlet la vita è sinonimo di sofferenza e non sono pochi coloro che tentano di rileggere una corrispondenza tra i grandi temi tragici affrontati da Shakespeare nei primi anni del ‘600 e avvenimenti autobiografici dell’autore che avrebbero contribuito a rendere la sua

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visione della vita una realtà veramente “rotten” (Ham I.v.90) e “out of joint” (Ham I.v.196). Tra questi avvenimenti, particolare attenzione meritano la morte del figlio e del padre del drammaturgo; tale stato di cose porta Ned Luckacher ad affermare:

“Shakespeare found less and less comfort of conscience with every passing year” (127).

Alla vita corporea e sensibile, dunque, a cui il principe di Danimarca associa inscindibilmente il dolore che la propria condizione gli procura, si oppone una realtà diversa che non è semplicemente una non-vita, una assenza indeterminata ed incorporea di ogni sofferenza legata a questo mondo; è, piuttosto, una vita diversa, una condizione destinata, una volta abbandonato “this coil” che egli definisce “mortal” (III.iii.67), a durare al di là della morte. Quest’ultima, che all’inizio del soliloquio sembra essere la naturale soluzione all’afflizione e alla sofferenza dell’uomo-Hamlet, nel corso del testo diviene solo un traguardo oltre il quale vi è qualcosa, la cui paura impedisce che il pensiero si tramuti in azione e, come afferma Harold Jenkins, “[t]he same vision will present the life of a man as a series of “troubles”, “shocks”, “fardels”, “ills” from which death – if it were only the end – would be a welcome release” (“Longer notes” 489).

Così riletto, il soliloquio di Hamlet, troppo spesso associato dall’immaginario comune ad un contesto drammatico e mesto, diventa una sorta di confessio fidei, una professione di fede nell’immortalità dell’anima.

Tuttavia, queste considerazioni non sono espresse dal principe in maniera esplicita e diretta, né la sua consapevolezza riguardo a ciò è piena, per cui al ragionamento non segue l’azione, mentre l’interrogativo si fa’ incalzante:

Who would bear the whips and scorns of time, Th’oppresor’s wrong, the proud’s man contumely, The pangs of dispriz’d love, the law’s delay,

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The insolence of office, and the spurns That patient merit of th’unworthy takes, When he himself might his quietus make With a bare bodkin? (III.i.70-75)

Tale affermazione riguardo una possibile fede da parte di Hamlet nell’immortalità dell’anima è espressa, come già è stato chiarito, solo in germe nelle parole del soliloquio dell’Atto III, ma ciò non significa che nell’opera non siano presenti maggiori e più chiari riferimenti a tal proposito. In altri contesti troviamo il principe intento a riflessioni di questo genere dove la tematica è approfondita e ribadita con maggiore coerenza, come nell’Atto III, scena iii.72-95 dove, istruito dal fantasma del padre di essere stato ucciso dal fratello e attuale Re, e ricevuta la conferma di tale racconto dalle azioni dello stesso Claudius, Hamlet è deciso ad ucciderlo;1 tuttavia qui, ancora una volta, al pensiero non fa seguito l’azione in quanto quello non sembra essere un momento ‘propizio’ per compiere il gesto, giacché il re usurpatore è in via di pentimento e questo potrebbe compromettere l’efficacia della sua vendetta.

Hamlet non è, del resto, la sola opera shakespeariana in cui sia presente una

riflessione sulla sorte dell’anima che troviamo, ad esempio, anche nella successiva tragedia, Othello.2 La scena sopraccitata in Hamlet, confrontata in sinossi con Oth

1 Now might I do it pat, now a is a-praying. / and now I’ll do it. / And so a goes to heaven; / And so am I revenged. That would be scann’d: / a villain kills my father, and for that / I, his sole son, do this same villain send / To heaven. / Why, this is hire and salary, not revenge. / A took my father grossly, full of bread, / with all his crimes broad blown, as flush as May; / And how his audit stands who knows save heaven? / But in our circumstances and course of thought / ‘Tis heavy with him. And I then reveng’d, / To take him in the purging of his soul, / when he is fit and season’d for this passage? / No. Up, sword, and know thou a more horrid hent: / When he is drunk asleep, or in his rage, / Or in th’ incestuous pleasure of his bed , / At game a-swearing, or about some act / That has no relish of salvation in’t, / Then trip him, that his heels may kick at heaven / And that his soul may be as damn’d and black / As hell, whereto it goes.

2 Le citazioni da Othello si riferiscono all’edizione curata da Honingmann Ernest A. J. Successive citazioni dalla stessa edizione saranno indicate nel testo dalla sigla Oth.

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V.ii.24-58 ci fa comprendere che il discorso sull’anima e sulla sua condizione dopo la morte è tutt’altro che estraneo a queste opere:

Oth: Have you prayed tonight, Desdemona?

Desd: Ay, my lord.

Oth: If you bethink yourself of any crime Unreconcilied as yet to heaven and grace, solicit for it straight.

Desd: Alack, my lord, what do you mean by that?

Oth: Well, do it and be brief; I will walk by.

I would not kill thy unprepared spirit,

No, heaven forfend, I would not kill thy soul.

Nella mentalità di Othello la realtà temporale ed immanente del corpo si discosta da quella dell’anima cosicché è possibile uccidere l’uno senza provocare del male all’altra e così, consapevole di ciò che sta per compiere, chiede all’amata sposa di preparare la sua anima attraverso la preghiera, ma soprattutto attraverso il pentimento.

Come un ministro sacro, il generale veneziano sprona colei che morirà presto a pentirsi e a confessare i propri peccati perché sa, evidentemente, che questi pregiudicherebbero la salvezza della sua sposa. Rispetto alla volontà di Hamlet di attendere un momento in cui Claudius si trovi in una condizione di peccato per poterlo uccidere e assicurargli così l’Inferno, qui la situazione è completamente capovolta; tuttavia lo stesso Ernest Honingmann – curatore dell’edizione Arden di Othello – ci fa comprendere che vi è un profondo e mutuo legame tra le due opere richiamando nella nota di testo di Othello corrispondente a tale scena, quella già presentata di Hamlet. Il capovolgimento sta nel

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fatto che Othello, a differenza del vendicativo principe, intende concedere a Desdemona il tempo necessario al suo pentimento prima di ucciderla poiché il suo obiettivo non riguarda l’anima della sua sposa, ma solo il suo corpo. Egli non cede all’offuscamento dei sensi che, potremmo ipotizzare, avrebbe caratterizzato un uomo in una situazione simile, ma concede alla sua vittima tutto il tempo necessario a richiamare alla mente i suoi ‘misfatti’ e a compiere un vero e proprio esame di coscienza.3

Le due scene sembrano essere, anzitutto, la descrizione della premeditazione con cui vengono commessi due omicidi: la morte di Claudius e l’assassinio di Desdemona non sono, infatti, atroci delitti commessi solo a causa dell’annebbiamento della ragione dovuto al desiderio di vendetta di Hamlet o alla gelosia di Othello, ma ci appaiono tanto crudeli in quanto pensati, ragionati, ove, all’istinto omicida che caratterizza i due assassini, si associa un’ambigua preoccupazione: essa non riguarda più l’esperienza

‘terrena’ del re di Danimarca né della fanciulla veneziana, non ha più a che fare, per così dire, con le ‘questioni di questo mondo’, ma apre i nostri orizzonti verso realtà trascendenti.4

Se Hamlet e Othello fossero stati guidati dal solo desiderio di vendetta, probabilmente non avrebbero esitato nel compiere l’insano gesto nel momento stesso in cui la loro mente lo concepiva, senza alcuna dilazione o ripensamento; sufficienti

3 Dopo un primo tentativo di discolparsi da parte di Desdemona, Othello incalza: “Oth: Thou art on thy death-bed. / Desd: I? – but not to die! / Oth: Yes, presently. / Therefore confess thee freely of thy sin”

(V.ii.51-53). La confessione a cui fa riferimento Othello non può riferirsi alla necessità da parte sua di essere sicuro della colpevolezza della moglie. Il fazzoletto è la prova del suo tradimento; piuttosto possiamo ipotizzare che egli sproni Desdemona a compiere proprio una confessione in senso sacramentale, pentendosi , dunque, del suo gesto e chiedendo perdono a Dio. Certo è che ella intende fare proprio questo quando, dopo il suggerimento del marito e comprese le sue intenzioni di ucciderla, esclama: “Then, heaven, have mercy on me!” ( Oth V.ii.32-33). Nonostante di fronte a lei ci sia un uomo pronto ad ucciderla, benché innocente ella sente l’esigenza di invocare la misericordia del Dio; solo più tardi, una volta assicurata la propria anima chiederà perdono anche al marito: “And have mercy you too”

(Oth V.ii.58).

4 Sia Hamlet che Othello motivano il ritardo della loro azione, almeno in queste due scene, richiamando la loro consapevolezza che i loro omicidi determineranno la sorte futura sia di Claudius che Desdemona: “A villain kills my father, and for that / I, his sole son, do this same villain send / To heaven” (Ham III.iii.76- 78); “I would not kill thy soul” (Oth V.ii.32).

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motivazioni, infatti, avrebbero supportato i due reati: da un lato si sarebbe trattato di difendere il trono di Danimarca, usurpato da un uomo che non reggeva il confronto con il vecchio re, (cfr. Ham III.iv.65ss) e che avrebbe potuto essere preferito solo a causa dell’azione di un demonio (cfr. III.iv.76s); dall’altro, pochi avrebbero biasimato un marito tradito che difendeva l’onore del proprio matrimonio, sebbene in maniera tanto cruenta e, inoltre, mosso da un forte senso di giustizia al fine di difendere gli altri “more men” (Oth V.ii.6) che avrebbero potuto essere traditi.

Tuttavia, dalle parole del malinconico principe e del generale veneziano traspare una certa ragionevolezza, un interesse ben preciso: preoccuparsi dell’anima di coloro che saranno uccisi. Ciò che colpisce qui, non è tanto la scelta diametralmente opposta che compiono i due, e cioè la possibilità concessa a Desdemona di pentirsi al contrario della spietatezza di Hamlet nel ricercare un momento in cui i peccati di Claudius siano ancora “flush as May” (Ham III.iii.81); piuttosto vi è, in entrambi, una chiara consapevolezza che riguarda la vita post-mortem: con la morte l’esistenza dell’uomo non cessa del tutto, ma continua in una condizione diversa aldilà del tempo e della corporeità mentre i peccati commessi durante la vita terrena pregiudicano la salvezza.

Questi personaggi sono pienamente consapevoli che l’omicidio che stanno per compiere non riguarda solo l’esistenza fisica delle loro vittime, ma che da esso dipende anche e soprattutto la salvezza o la dannazione eterna. Pertanto il momento della morte non può essere uno qualsiasi, poiché la finalità della loro azione trascende il tempo.

L’hora mortis di Claudius e di Desdemona non è inserita nell’ambito del kronos, cioè non si tratta di un momento indifferenziato e uguale a tanti altri della loro esistenza; esso è il kairos, “il tempo favorevole o della grazia” (van deer Leew 302- 305), ‘quel’ momento, quindi, che determinerà lo loro salvezza. Sebbene inserito ‘nel’

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tempo, il kairos lo trascende perché si affaccia sull’eternità, apre uno spiraglio su una dimensione senza tempo. Nell’ambito del kairos ogni istante è prezioso ed irripetibile, ogni momento è il momento favorevole poiché in esso l’uomo incontra la divinità e ne fa esperienza profonda e personale: è il tempo della conversione, della rinascita, della salvezza, ma anche della morte, ovvero di quel fatidico istante che spalanca, stavolta non più solo in senso spirituale, le porte dell’eternità.

6. Particolare del frontespizio dello scritto di Lutero Un sermone sulla preparazione alla morte, 1520.

Se però la consapevolezza che la vita terrena è legata in maniera misteriosa e soprannaturale a quella a venire, così come quest’ultima è determinata dalla santità della prima è comune sia ad Hamlet che ad Othello, diverse sono le modalità di elaborazione di tale fede nelle due tragedie; inoltre, sebbene l’analisi di Othello non sia parte integrante del presente studio, sembra interessante quantomeno far notare come manchi in questa quel sostrato culturale, tradizionale e religioso innanzitutto, che ci permette di iscrivere Hamlet nell’ambito di un divenire storico e culturale a cui, invece, Othello

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sembra sottrarsi. La volontà del principe di Danimarca di ritardare l’assassinio dello zio in attesa di un momento più opportuno si inscrive nell’ambito di una consapevolezza che, come vedremo, trascende le convinzioni dello stesso Hamlet per affondare le sue radici in un’esperienza più profonda che è tradizionale e metafisica nel contempo.

Othello appare meno inscrivibile in un contesto tradizionale e la consapevolezza

di questo marito geloso riguardo alla possibilità che le azioni della vita terrena possano pregiudicare quella futura, come pure la certezza riguardo la stessa vita dopo la morte è forse meno scontata. Probabilmente perché è difficile inserire il Moro all’interno di una determinata fede religiosa, dunque è anche più difficile stabilire un frame entro il quale considerare la sua concezione di vita ultraterrena. È un fatto che Othello appartenga, in virtù della sua diversità etnica, a quella schiera di persone che la società rinascimentale bollava come outsiders; l’alterità del generale veneziano è potenzialmente pericolosa non solo in quanto etnicamente ‘diverso’, ma a causa del proprio displacement (cfr.

Gillies 7ss), ovvero a causa del fatto che Othello sia inserito in un contesto sociale che non gli appartiene né culturalmente né ‘geneticamente’ parlando. Venezia e il Moro sono inconciliabili poiché quest’ultimo è fuori dall’ oikumene di tradizione greca, cioè all’esterno della comunità civile, religiosa e culturale dell’Occidente.5

5 Un breve riferimento ad alcune ‘voci’ della critica shakespeariana post-coloniale ci aiuterà a comprendere il problema della inscrivibilità di Othello in un contesto culturale in maniera più approfondita. Nel suo libro Orientalism, Edward Said afferma che l’approccio occidentale nei confronti dell’Oriente è fortemente segnato da un pregiudizio, che si dimostra in realtà come la somma di svariati pregiudizi, l’orientalismo appunto, a causa del quale questa visione è sostanzialmente distorta. La questione religiosa è tutt’altro che marginale in questo contesto. Se l’Oriente è diametralmente opposto all’Occidente in termini di diversità, inferiorità, immoralità, nefandezza, depravazione e quant’altro di negativo possa esserci, l’Islam merita tutti questi attributi al massimo grado: “Not for nothing did Islam come to symbolize terror, devastation, the demonic, hordes of hated barbarians. For Europe, Islam was a lasing trauma. Until the end of the seventeenth century the “Ottoman peril” lurked alongside” (59).

In virtù di questa distorsione, si genera un’inevitabile associazione che ci porta a non saper distinguere il Moro/moro – dunque Otello come qualsiasi altro personaggio dai tratti somatici tipicamente mediorientali – dalla fede islamica. Eppure, Otello occupa una posizione del tutto particolare rispetto a tale questione, poiché se da un lato è inevitabile l’evidenza del proprio displacement che altri personaggi come Iago e Brabanzio fanno di tutto per mettere in evidenza, è altrettanto forte e tangibile il suo desiderio di integrazione che si manifesta sotto tre aspetti: religioso, politico e sessuale.

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Né il problema può essere ridotto ad un rapporto di semplicistica alternanza dove l’Occidente e l’Oriente si scontrano dialetticamente: la situazione di Othello sembra essere più complessa in quanto irriducibile ad alcuna della parti in opposizione.

Nell’introduzione all’Othello pubblicato dalla casa editrice Arden, l’autore e curatore dell’intera opera considera il problema della fede del generale veneziano proponendone una visione non solo cristiano-islamica, ma considerando Othello come un caso

‘speciale’ nella sua religione:

Why, though, make the Muslim faith the only alternative to Christianity? Could “the Othello music” not point in another direction, to a more primitive worship of sun and moon and elemental forces of nature, overlaid by later Christian imagery and attitudes?

Othello’s first account of the handkerchief associates his parents with an undefined paganism, reminiscent of the witch doctors of north Africa. (Honigmann E. A. J.,

“Introduction”, in Othello 22-23)

Con tali parole si chiarisce bene come sia difficile stabilire un determinato substrato religioso – e culturale in senso lato – nel quale poter inserire Othello e la sua fede nell’immortalità dell’anima; emerge, nel contempo, quanta differenza vi sia tra lui e Hamlet che, invece, mostra di avere alle spalle un bagaglio tradizionale che gli

Se è vero dunque che egli si trova in una posizione marginale a causa del proprio status, è altrettanto reale il suo sforzo di abiurare tale condizione per abbracciarne un’altra che gli permetta di essere considerato cittadino veneziano a tutti gli effetti; cristiano, difensore dello stato e marito di una donna bianca: sono queste le sue credenziali. La questione dell’alterità – come la critica post-coloniale suggerisce - non può essere risolta semplicemente nell’ambito di opposizioni binarie, ma grande interesse deve essere mostrato verso quegli in-between states a cui Homi Bhabha fa tanto riferimento nel suo The Location of Culture.

Considerare la realtà secondo stadi intermedi significa smantellare l’intero sistema medievale basato sulle antinomie, ovvero sulla contrapposizione bianco-nero, luce-buio, buono-cattivo, caldo-freddo, ecc;

significa rileggere la realtà secondo un infinità varietà di sfumature grigie che ne permettono una migliore comprensione. Per una descrizione più accurata di tale questione si veda il testo di Loomba Ania e Orkin Martin, “Introduction: Shakespeare and the post-colonial Question”.

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permette di riflettere su tale questione in maniera più completa e critica; se il generale veneziano è un displaced, il principe di Danimarca, almeno all’inizio, è un uomo pienamente inserito nel suo mondo che è una realtà fatta di tradizione, di abitudine e di un passato cristiano che, senza alcun dubbio, gli permette di professare un certa fede; in questo contesto si inserisce l’esperienza del tutto singolare e personale del principe Hamlet.

2.2 “I am thy father spirit”. Il fantasma del Re-padre e il Purgatorio sopravvissuto.

Se in Hamlet – e nel contempo in Hamlet – è estremamente presente la convinzione riguardo a quanto detto finora, ciò non è solo a causa di una tradizione religiosa che, come abbiamo visto, glielo fa credere e professare, ma soprattutto, per una rivelazione personale. Quand’anche Hamlet fosse stato un uomo dal vago e superficiale senso religioso, non avrebbe potuto non considerare lo stretto legame tra peccato e vita ultraterrena. Il fantasma del defunto re docet.

Prima ancora di spiegare i fatti riguardanti la propria morte, infatti, lo spirito del Re tiene a chiarire la propria condizione attuale:

I am thy father spirit,

Doom’d for a certain term to walk the night, And for the day confin’d to fast in fires till the foul crimes done in my days

of nature are burnt and purg’d away. (Ham I.v.9-13)

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Sin dall’inizio, l’apparizione intende sottolineare la soprannaturalità di quell’incontro dove anche i legami familiari sono in un certo qual modo alterati; esso non si presenta come il ‘padre’, ma come qualcosa di diverso che non ha più a che fare con i rapporti parentali poiché appartiene ormai al regno degli spiriti. La sua condizione, inoltre, non corrisponde affatto alla speranza di riposo e pace nutrita da Hamlet nel soliloquio dell’Atto terzo, che per il giovane principe caratterizzano la vita dopo la morte; al contrario, sia di giorno che di notte, lo spirito è condannato a due esperienze di sofferenza: il cammino nella notte, reso difficile proprio dall’oscurità e il digiuno nelle fiamme.

L’avverbio di tempo till chiarisce bene il legame esistente tra i crimes commessi durante la vita terrena e la prigionia nei fires a cui è ora costretto e, solo dopo una lunga digressione su un dolore ancora vivo, quale è quello della perdita dell’amata Gertrude, la narrazione continua e chiarisce ancora meglio l’accaduto e quali conseguenze esso abbia determinato. Parlando della propria condizione nel momento in cui gli è stata tolta la vita, il fantasma dice:

Cut off even in the blossoms of my sin, Unhousel’d, disappointed, unanel’d, No reckoning made, but sent to my account With all my imperfections on my head. (I.v.76-79)

E conclude la narrazione dando il proprio giudizio sull’accaduto: “O horrible! O horrible! Most horrible!” (I.v.80).

Il racconto del fantasma è ben più di una drammatica storia che induce l’ascoltatore – tanto Hamlet, quanto il pubblico – ad immedesimarsi nell’accaduto e a

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prendere le parti del narratore, piuttosto queste parole inquadrano l’intera tragedia in un contesto religioso ben determinato dando un volto e una fisionomia molto più chiari a quel ‘qualcosa’ a cui il principe di Danimarca fa riferimento nelle parole del suo soliloquio. La narrazione del fantasma gioca un ruolo determinante nella tragedia in quanto ancora Hamlet ad una tradizione religiosa e lo situa pienamente nell’ambito di quei cambiamenti già trattati nel capitolo precedente.

Con una semplice quanto efficace dimostrazione verbale Anthony Low chiarisce questo punto affermando:

Clearly this Ghost has not come from Heaven. Nor can he come from Hell, since he has been doomed to remain in his prison-house only for a certain term, after which he will be released from confinement. The only remaining alternative is Purgatory. (“Hamlet and the Ghost of Purgatory: Forgetting the Dead” 31)

7. Albrecht Dürer, Discesa al Limbo, incisione della serie della Grande Passione, 1510.

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La descrizione che il fantasma fa della propria condizione non può non richiamare alla mente del pubblico una serie di elementi che fanno di essa un esempio tra i tanti che Stephen Greenblatt cita nel suo testo Hamlet in Purgatory legando, quindi, il ghost della tragedia shakespeariana alla tradizione religiosa cattolica. Questo fantasma non è dunque uno spirito qualsiasi, è bensì un’anima purgante che si trova in una dimensione ben determinata – il Purgatorio – costretto a purificare i propri peccati fin quando non gli sarà permesso di accedere al gaudio celeste.

Poche battute da parte del fantasma bastano a spalancare alla mente di chi ascolta un immaginario complesso, una tradizione secolare con i suoi dogmi e le sue pratiche, cosicché il fantasma diventa testimonianza di un mondo quasi passato, di reminiscenze antiche che irrompono in questa storia che si pone così a confine tra passato e futuro, tra tradizione e modernità.

Seguendo la descrizione del Purgatorio che fa Jacques le Goff, dedicando ampio studio a tale questione, non troveremmo che conferme a questa ipotesi; anche per il medievalista francese è la possibilità di allontanarsi dalla condizione purgatoria che caratterizza questa realtà rispetto alla dannazione eterna dell’Inferno e così la descrive:

“Purgatory would become the prison in which ghosts were normally incarcerated, though they might be allowed to escape now and then to briefly haunt those of the living whose zeal in their behalf was insufficient” (The birth of Purgatory 35), e il caso del fantasma del Re Hamlet non può che sembrarci uno di questi.

Un’ulteriore caratteristica della dottrina sul Purgatorio riguarda, come abbiamo appreso, la temporalità di tale condizione in quanto, all’eternità del Paradiso e dell’Inferno si oppone la determinazione temporale del luogo della purificazione. Come sempre sono le parole del fantasma a suggerirci che esso si trovi proprio in un luogo del

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genere: la punizione e i tormenti a cui egli fa riferimento si realizzano nel tempo, in una alternanza di giorno e notte che non lascia spazio ad una collocazione a-temporale ed eterna, piuttosto a qualcosa di ciclico e temporale con un ritmo ben scandito. La dimensione del fantasma è molto più vicina all’umano dove il tempo è controllato dall’alternarsi del sole e della luna piuttosto che al divino ove, secondo le parole dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo, “non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (22,5).

A suffragare tale ipotesi, e cioè che il fantasma si trovi costretto a purificare ed espiare le proprie colpe in Purgatorio, contribuiscono ulteriormente le parole del defunto padre quando, descrivendo la propria morte, mette bene in evidenza quale fosse la sua condizione in quel momento tanto fatidico. Certo è, anche per il lettore meno addentrato in tali questioni, che il vecchio Re non fosse proprio un modello di santità al momento del trapasso in quanto è egli stesso a definirsi ‘impreparato’ a quell’ora; tuttavia le parole utilizzate indirizzano la nostra attenzione verso un discorso più profondo e dischiudono una nuova linea interpretativa in quanto chiariscono bene anche in cosa consistesse questa impreparazione a cui il fantasma fa riferimento.

Nel precedente capitolo si è potuto apprendere come non fosse solo l’hora mortis in se stessa a meritare attenzione e cura da parte della pietà popolare e della

pastorale ufficiale, ma erano soprattutto gli istanti immediatamente precedenti ad essa ad interessare il defunto e gli astanti giacché ne determinavano la salvezza o la dannazione nella stessa misura delle azioni dell’intera sua vita. In altre parole se era necessaria una vita santa e rispettosa dei divini comandi, era altrettanto o forse

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maggiormente necessario assicurarsi un degno trapasso; le garanzie che assicuravano una buona morte erano i sacramenti.

La tradizione cattolica, oggi come nel XVI secolo, circonda gli ultimi istanti della vita di un uomo con la cura pastorale che si esprime attraverso tre sacramenti:

l’Unzione degli Infermi, la Confessione, la Santa Eucaristia sotto forma di Viatico.

8. Rogier van der Weyden, L’unzione degli infermi (part.), 1445-1450.

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Dalle parole del fantasma del Re apprendiamo che ciò che ha caratterizzato la sua morte non è stata semplicemente l’assenza di uno stato di sufficiente santità, quanto piuttosto la mancanza dei sacramenti. Nel momento in cui egli è “sent to my account”

(I.v.78), infatti, tre attributi esprimono la sua condizione: “unhousel’d, disappointed, unanel’d” (77) e, a tal proposito, Anthony Low afferma:

In other words, the Ghost was deprived of his chance to receive three of the Sacraments that would have prepared him to face death and individual judgment. The Ghost’s

“housel” is an old-fashioned word that suggests the Catholic Eucharist… “Unanel’d”

refers to oil of Extreme Unction (no longer in use among Anglicans) and “disappointed”

refers to missed preparations for Confession and Absolution”. (“Hamlet and the Gost of Purgatory: Forgetting the Dead” 32)

Ancora una volta qui non vi è un riferimento esplicito alla pratica sacramentale, né al Purgatorio in quanto tale, piuttosto tali riferimenti sono come adombrati e, sicuramente non manifesti; ma se al lettore moderno sfugge la comprensione di queste realtà, è accaduto lo stesso al pubblico che nel 1601 assistette alla rappresentazione dell’opera? Al momento della messinscena di Hamlet la dottrina ufficiale aveva già da tempo portato a compimento il suo processo di smantellamento dell’intero sistema di suffragi e preghiere di intercessione, come pure dell’intera economia sacramentale legata alla morte in virtù di un cambiamento ancora più profondo: l’inesistenza del Purgatorio. Se tali trasformazioni erano state portate a compimento già con l’avvento del regno di Elisabetta I, possiamo certamente immaginare che il pubblico degli inizi del Seicento avesse ormai abbandonato da tempo gran parte della fede e della pratica legata alla dottrina sulla purificazione dell’anima nell’aldilà. Ma si può parlare di un completo

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e radicale abbandono? Si può supporre che già entro i primi anni del XVII secolo nessuno più pensasse a tali questioni né fosse capace di comprenderne la portata?

Il fantasma shakespeariano di Hamlet ci suggerisce di no: esso, con la sua storia, le sue sofferenze, le sue richieste sembra volere ‘ricordare’ – ad Hamlet, al pubblico, al lettore di ogni tempo – che il Purgatorio esiste e se Shakespeare lo inserisce in quest’opera non come uno tra i tanti personaggi, ma quale portavoce di una tradizione, di un passato che stenta a voler essere dimenticato, probabilmente si aspettava anche che un tale discorso non fosse completamente estraneo ai suoi uditori, ma che questi avrebbero potuto comprenderne le motivazioni, ascoltarne il racconto e sposarne la causa.

L’incontro tra i vivi e i morti, infatti, non avviene per casualità o determinato dal semplice affetto che lega tra loro persone che un tempo sono state unite da una certa familiarità; lo stesso Jacques le Goff ha chiarito che ciò che spinge le anime purganti a lasciare talvolta la loro prigione è la necessità di rinvigorire lo zelo in coloro in cui il ricordo dei cari estinti si è indebolito. In altri termini potremmo dire che ogni apparizione è finalizzata ad un certo coinvolgimento di chi la riceve nella condizione di chi appare e così, come abbiamo già notato, il fantasma della vedova di Gy, riportata da Stephen Greenblatt, chiede suffragi particolari poiché ne ha bisogno. In generale si deve ribadire che è in virtù del forte senso di comunione e del vincolo della carità, che i vivi e i morti interagiscono partecipando gli uni alla salvezza degli altri; qualora questo vincolo si indebolisse è necessario rinsaldarlo.

Anche il Ghost della tragedia di Hamlet ‘entra in scena’ per questa finalità, anche il suo apparire è determinato dal fatto che i suoi cari non lo ricordano abbastanza o non lo ricordano in maniera giusta tanto è vero che esso è a sua volta ossessionato dal

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fantasma dell’oblio e della dimenticanza contro il quale sembra combattere nell’intera opera. Il suo timore è lo stesso che caratterizza le anime dell’opera di Tommaso Moro, The Supplication of the Souls, in cui l’autore fa parlare alcuni spiriti che sono

terrorizzati dall’idea che i propri cari si dimentichino di loro; così Stephen Greenblatt, che cita questo scritto nel suo Hamlet in Purgatory, descrive i sentimenti dei poveri supplici:

More’s souls are in a panic that they will be forgotten, erased by slothful oblivion. They are harrowed above all by the fear that their sufferings will cease even to be credited, that their prison house will be dismissed as a fantastic fable, and that their existence, in its horrible, prolonged pain, will be doubted. It is this fear that seems to shape Shakespeare’s depiction of the Ghost and of hamlet’s response. (230)

È vero sì che il destinatario di tale apparizione è il principe Hamlet, ma attraverso di lui il monito deve arrivare all’intera corte di Danimarca che non ha impiegato molto tempo per trasformare il lutto per la morte del primo Re in gaudio per le nozze del secondo Re e della Regina; la dimenticanza è stata tanto veloce che la stessa carne è servita per entrambe le circostanze cosicché “The funeral bak’d meats / did coldly furnish forth the marriage tables” (I.ii.180-181).

Uno dei punti centrali del presente studio intende proprio soffermarsi sulle motivazioni che hanno spinto il fantasma del Re padre ad apparire al figlio e, in seconda analisi cercare di comprendere quanto di questa richiesta sia stato accolto dalla fedele disponibilità di Hamlet; in altre parole, dobbiamo chiederci: cosa pretende il fantasma?

Quali sono le sue richieste? Del resto sembra impossibile che questa sia una semplice

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‘visita’ dettata dall’affetto paterno e sia Horatio (cfr. Ham I.i.130-142)6 che Hamlet pongono all’apparizione le stesse domanda circa la sua natura, ma soprattutto la sua richiesta. Dunque le prime parole che il principe indirizza a quel fantasma ancora muto sono frasi interrogative che, sull’esempio della Discretio spirituum di tradizione medievale, tentano di indagare l’origine e la finalità di un evento soprannaturale:

What may this mean,

that thou, dead corse, again in complete steel revisits thus the glimpses of the moon, making night hideous and we fools of nature so horridly to shake our disposition

with thoughts beyond the reaches of our souls?

Say why is this? Wherefore? What should we do? (Ham I.iv.50-55)

A queste incessanti domande il fantasma non esita a rispondere con delle richieste ben specifiche, ma prima di tutto esso chiede attenzione, ascolto: “Mark me”

(Ham I.v.2), “lend thy serious hearing” (5).

La domanda del fantasma si concentra intorno a due punti essenziali: la memoria e la vendetta, l’intenzione e l’azione. Alla pietà che il principe sembra mostrargli, egli risponde irritato poiché non è quello ciò di cui ha bisogno, ma che lui lo ascolti con attenzione perché possa vendicare l’accaduto; in seguito a questo comando se ne aggiunge un altro che diventa, in un certo qual modo, il testamento del fantasma, la sua

6 “If thou hast any sound or use of voice, / speak to me. / If there be any good thing to be done / That may to thee do ease, and grace to me, / Speak to me; / If thou art privy to thy country’s fate, / Which, happily, foreknowing may avoid, / O Speak; / Or if thou hast uphoarded in thy life / Extorted treasure in the womb of earth, / For which they say your spirits oft walk in death, / Speak of it, stay and speak”.

Una più approfondita lettura di questa scena sarà data al capitolo III del presente studio in confronto con quanto similmente accade in Macbeth.

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ultima volontà che è quella di essere ricordato: “Adieu, adieu, adieu. Remember me”

(I.v.90). Sebbene, nel corso della tragedia, avvenga un processo di impoverimento della richiesta fatta, poiché per Hamlet rimarrà vivo solo il comando alla vendetta, sembra qui necessario soffermarsi sul fatto che per il fantasma non primeggi la vendetta sul ricordo né viceversa, ma forse questi due aspetti andrebbero considerati nella loro totalità e non separatamente. Se è vero che il fantasma del Re Hamlet si trova in Purgatorio allora dobbiamo riconsiderare necessariamente quali erano le pratiche di suffragio più in uso per comprendere anche la legittimità di tali petizioni.

Il suffragio destinato ad un’anima purgante era inscindibilmente costituito, almeno nella tradizione cattolica, da una componente spirituale e cioè la preghiera basata sul ricordo, appunto, del defunto, ma anche da una componente fattiva e concreta, un gesto, un’azione, in altre parole, che potesse accompagnare l’intenzione.

Anche quando la pratica protestante abolirà la Celebrazione eucaristica come sacrificio di suffragio o il lascito ai monasteri per opere pie, rimarrà sempre la necessità di supportare la preghiera con l’azione concreta, per esempio, con la donazione a favore dei poveri.

L’apparizione della tragedia shakespeariana chiede esattamente un suffragio di questo genere e, come lo spirito di Gy non vuole solo che la moglie gli sia fedele, ma che faccia celebrare per lui SS. Messe secondo quelle intenzioni che più gli gioveranno;

allo stesso modo, qui, il fantasma chiede che la memoria rimanga viva e fedele (intenzione) e nel contempo la vendetta da parte del figlio amorevole sarà quel remedium (azione) che potrà ristabilire l’ordine infranto.

Secondo Stephen Greenblatt la critica contemporanea ha spogliato l’esperienza del fantasma della sua componente teologica riducendolo a mera proiezione psicologica

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da parte di un figlio arrabbiato e frustrato che mal sopporta la felicità della madre incurante del proprio dolore. Ma è necessario, afferma l’autore, ri-orientare la nostra lettura di quanto accade in queste scene secondo una prospettiva di contestualizzazione del testo letterario nell’ambito del suo contesto storico e religioso:

The overwhelmingly emphasis on the psychological dimension, crowned by psychoanalytic readings of the play in the twentieth century, has the odd effect of eliminating the Ghost as ghost, turning it into the prince’s traumatic memory or, alternatively, into a conventional piece of dispensable stage machinery. But if we do not let the ghost vanish altogether, we can perhaps begin to answer these questions, by recognizing that the psychological in Shakespeare’s tragedy is constructed almost entirely out of the theological, and specifically out of the issue of remembrance that, as we have seen, lay at the heart of the crucial early-sixteen-century debate about Purgatory. (Hamlet in Purgatory 229)

In altri termini, questo spettro è reale quanto reali sono le sue richieste e le sue necessità nella misura in cui la sua presenza sia osservata nell’ambito di una problematica teologica e comportamentale che ha ossessionato il popolo inglese per decenni e che, dopo un continuo alternarsi di voci pro e contro, si era risolto nella completa eliminazione del problema, mediante la negazione del Purgatorio stesso:

reinserito in un contesto di fede e di comportamenti religiosi propri della società del XVI secolo, possiamo essere certi che il fantasma del Re Hamlet si trovi in Purgatorio a scontare i peccati commessi in vita finché essi non siano purgati ed egli possa accedere alla beatitudine eterna; per ultimare più rapidamente il suo percorso di purificazione, lo

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Spettro coinvolge il mondo dei vivi, e in particolare Hamlet, perché questi celebri il suffragio adatto e necessario alla sua redenzione.

Ed è proprio nella richiesta dell’anima del vecchio Hamlet al figlio che va messo in luce lo scontro generazionale che si realizza tra i due; se legittime appaiono le richieste del fantasma, il principe riesce ad esaudirle? Sarà capace, in altri termini, Hamlet di comprendere pienamente ciò che il padre gli chiede e, in secondo luogo, di realizzarlo? Questo risulta essere il vero problema che sorge nell’opera, alla luce della questione affrontata, un problema che Stephen Greenblatt rilegge in termini storicisti quando contestualizza Hamlet nell’ambito dei mutamenti che caratterizzarono l’Inghilterra di fine ‘500:

There is a famous problem with all these hints that the Ghost is in or has come from Purgatory: by 1563, almost forty years before Shakespeare’s Hamlet was written, the Church of England had explicitly rejected the Roman Catholic conception of Purgatory and the practices that had been developed around it. (Hamlet in Purgatory 235)

Quest’affermazione, ovviamente, non è garanzia che l’intero popolo avesse abbandonato la fede tradizionale né che essa non fosse sopravvissuta almeno in parte pertanto, continua lo scrittore:

This fact alone would not necessarily have invalidated allusions to Purgatory: there were many people who clung to the old beliefs, despite the official position, and Elizabethan audiences were in any case perfectly capable of imaginatively entering into alien belief systems. (Hamlet in Purgatory 235)

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Non resta che osservare, dunque, quanto di questa fede Hamlet abbia ereditato e quale sia la peculiarità con cui abbia accolto la richiesta dello Spettro che lo invitava a

‘ricordare’.

2.3 “Remember thee”. Amleto e il suffragio riformato.

Una predica sulle pene del Purgatorio, come anticipato, doveva suscitare un duplice atteggiamento: intimorire i fedeli perché convertissero la loro condotta al fine di non incorrere nella stessa sorte e, nel contempo, suscitare la pietà popolare affinché, ricordando i propri defunti destinati a tali pene, gli uomini potessero alleviarne la condizione attraverso le preghiere di suffragio. Immaginare un proprio caro defunto soggetto alle più dure e nefaste torture ed esposto al fuoco purificante del Purgatorio avrebbe commosso la sensibilità di chiunque e pochi sarebbero rimasti indifferenti di fronte ad una richiesta di accorato aiuto; non fu esente da tale trasporto affettivo il principe di Danimarca.

Le parole dello Spettro hanno su di lui lo stesso effetto di una predica sul Purgatorio, da cui Hamlet apprende la condizione del padre deceduto, la motivazione che lo ha condotto lì e la modalità per aiutarlo.

Ad una lettura complessiva della tragedia sembrerebbe, tuttavia, che le richieste dello Spettro non siano state accolte nella maniera giusta dal destinatario; ciò non significa che Hamlet rimanga impassibile a quanto lo Spirito narra, anzi le battute che Shakespeare gli fa dire testimoniano con quanta partecipazione egli sia coinvolto nell’accaduto e persino le dimensioni ultraterrene del Paradiso e dell’Inferno sono

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convocate a consacrare il suo giuramento: “O all you host of heaven! O earth! What else? And shall I couple hell?” (I.v.91-92).

Nonostante la sacralità del momento e la solennità del suo impegno, Hamlet non intende, o meglio non realizza pienamente il comando dello Spettro; nel corso dell’opera, infatti, comprendiamo che il compito che egli si è prefissato è solo la vendetta, come se l’uccisione di Claudius fosse la soddisfazione necessaria alla richiesta fatta e, come afferma Anthony Low: “Hamlet takes his oath to remember with reference only to vengeance” (“Hamlet and the Ghost of Purgatory: Forgetting the Dead” 33); in realtà, la petizione del fantasma ha una portata più ampia del riferimento alla sola vendetta, richiedendo che essa sia accompagnata dalla preghiera di suffragio.

Ciononostante, ad una più approfondita analisi, questa semplificazione della missione che il principe assume come onere in direzione della sola vendetta non è presente da subito nel testo. In realtà, in Hamlet avviene un passaggio, una trasformazione che porta il giovane principe ad intendere il suffragio richiesto dal padre in una modalità piuttosto personale: tralasciando il compito della preghiera, il principe si sofferma solo sull’azione che, tuttavia, arriverà a compiere solo nell’atto V, dopo aver superato il tentennamento e l’esitazione che lo accompagnano per tutta l’opera.

Prima di giungere a questo punto di svolta, tuttavia, la richiesta dello spettro è accolta dal principe in tutta la sua portata:

Ham: There’s never a villain dwelling in all Denmark But he’s an arrant knave.

Hor: There needs no ghost, my lord, come from the grave To tell us this.

Ham: Why, right, you are in the right.

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And so without more circumstance at all I hold it fit that we shake hands and part,

You as your business and desire shall point you – For every man hath business and desire,

such as it is – and for my own poor part, I will go to pray. (I.v.129-138)

La rivelazione del fantasma descrive la condizione della Danimarca in quanto regno già tanto ‘scardinato’ e che è fondato sulla diffidenza, sulla mancanza di fiducia che interrompe i rapporti persino tra i vivi, cosicché a Hamlet sembra saggio che ognuno percorra la propria strada dividendosi dal gruppo. La società danese, specchio dell’Inghilterra rinascimentale, è caratterizzata da un forte senso di individualismo che lacera ogni relazione umana ed interrompe il naturale rapporto di condivisione tra esseri umani per cui, in questo contesto di non-comunione, sembrano assurde le parole di Hamlet che conclude il suo discorso confidando la sua intenzione di pregare. Pregare per chi? Per che cosa? Horatio non può comprendere, non solo perché non ha assistito al racconto dello Spettro e quindi non ne conosce la motivazione, ma anche perchè non sa legare la necessità della preghiera all’apparizione, dal momento che le sue categorie mentali non prevedono tale solidarietà. Come si potrà notare successivamente, Horatio non nega l’apparizione in quanto tale, né è ignaro della necessità che si faccia qualcosa per assecondare i suoi bisogni. Infatti, sebbene all’inizio non creda se non dopo aver visto coi suoi occhi, in seguito si ricrederà e sarà chiamato ad interagire con la visione, interpretandola da uomo colto e razionale quale è.

Ma Horatio è anche il simbolo della nuova generazione che ha ormai rinunciato da tempo alla visione canonica del Purgatorio perciò non può che commentare

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l’intenzione di Hamlet di voler pregare con queste parole: “These are but wild and whirling words” (I.v.139). La sconnessione che l’amico fedele nota non vuole semplicemente intendere che Hamlet non sta organizzando logicamente il discorso, piuttosto riguarda il rapporto con lo Spettro: quand’anche esso fosse reale, perché pregare per lui?

Hamlet, tuttavia non ha ‘ancora’ dimenticato che il primo compito che gli spetta è la preghiera di suffragio, che ancor prima dell’azione che egli compirà, e cioè quella di uccidere lo zio soddisfacendo la richiesta del fantasma paterno, viene la devozione e l’affetto filiale che com-patiscono la sorte paterna e cercano di alleviarne le sofferenze.

Qui il principe malinconico è ancora figlio di un’epoca e di una tradizione che lo invitano a pregare per i suoi defunti, a ‘ricordarli’ nelle sue orazioni, a suffragarli con la sua devozione.

Alla luce di ciò, forse, sembrano più chiare le battute che si scambiano i due amici subito dopo la scomparsa della visione:

Hor: My lord, my lord.

Mar: Lord Hamlet.

Hor: Heavens secure him.

Ham: [aside] So it be. (Ham I.v.113-115)

Horatio pronuncia il pronome personale him, tuttavia dal discorso rimane vago a chi esso in realtà si riferisca e due soluzioni sembrano presentarsi: la preoccupazione di tutti coloro che non hanno assistito alla conversazione è grande, senza alcun dubbio, per le sorti di Hamlet la cui espressione doveva lasciar sicuramente intendere una certa irrequietezza d’animo, perciò la protezione celeste che Horatio invoca potrebbe riferirsi

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all’amico attonito e vessato che egli ha di fronte; ciò avvalorerebbe certamente un profondo affetto tra i due, ma è la risposta di Hamlet ad indirizzare l’attenzione verso un obiettivo diverso. Quell’aside che viene messo in evidenza implica senza dubbio che la scena si sta svolgendo su due piani ideologici diversi e Hamlet e Horatio viaggiano, per così dire, su due binari paralleli cosicché le loro intenzioni sembrano non incontrarsi. La risposta del principe di Danimarca, “So it be”, è molto più di un beneplacito, è un Amen solenne e deciso che chiude la preghiera fatta inconsapevolmente da Horatio per cui nulla ci vieta di immaginare che in realtà, qui, Hamlet prenda in prestito l’invocazione fatta dall’amico e la trasformi nella primissima preghiera di suffragio secondo le intenzioni dell’anima paterna.7 Questo ‘Amen’ è lo stesso che Macbeth non riesce a pronunciare perché la sua coscienza glielo impedisce, l’assenso della fede che permette invece al protagonista di Hamlet di dare il proprio suffragio al padre defunto.

Il principe si rende conto, tuttavia, che tale discorso non è ben accolto dall’amico e che il loro pensiero non è in sintonia per cui non solo l’Amen deve essere pronunciato aside, ma essendo fonte di turbamento per Horatio, Hamlet ritiene opportuno persino

chiedere perdono per tali parole ‘sconnesse’: “I’m sorry they offend you, heartily – yes, faith, heartily”(I.v.140). Alla replica dell’interlocutore sul fatto che non ci sia nessuna offesa per cui chiedere perdono, Hamlet chiarisce tutto il proprio pensiero e in un’esplosione quasi di rabbia per l’incomprensione da parte di Horatio, ribadisce che l’offesa c’è e non di piccola entità: “Yes by Saint Patrick but there is, Horatio, and much offence too. Touching this vision here, it is a honest ghost, that let me tell you” (141- 144).

7 Nella nota di testo corrispondente a questa battuta nell’edizione Arden si fa riferimento a questo vocabolario religioso e in particolare modo a “the solemn effect of this amen” (223).

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È chiaro ancora una volta che tra i due c’è un dialogo interrotto cosicché alle domande dell’uno l’altro non risponde, ma i due discorsi continuano parallelamente senza incontrarsi, e solo il lettore disattento potrebbe non dare la giusta portata all’esclamazione di Hamlet in riferimento a San Patrizio. Tutta l’offesa sta proprio ‘per’

san Patrizio il quale, come si è potuto apprendere nel capitolo precedente, è legato all’immaginario e alle origini della dottrina sul Purgatorio con uno speciale vincolo.

È per questo che Harold Jenkins, nella nota di testo corrispondente a questa battuta, precisa:

An apt oath… To seek a particular source for this belief is to ignore the very great fame of St Patrick’s Purgatory, in an Irish cave, much visited by pilgrims. The story was that all who spent a day and night there would both be purged of their sins and have visions of the damned and the blest”. (224)

In altre parole, se la preghiera che Hamlet intende fare suona alle orecchie del fedele amico come la somma di parole vuote e sconnesse ciò è un’offesa grave e lo stesso san Patrizio – e, quindi, l’immaginario legato ad esso e al Purgatorio – sembra rivoltarsi e accusare tale offesa poiché quel fantasma è ‘onesto’, dunque non è una favola, una proiezione della mente, né la reminiscenza di antiche fandonie, ma una realtà che implica la possibilità di poterla ‘toccare’ e che è essa stessa testimonianza viva di una realtà ancora presente.

Nel breve dialogo che intercorre tra i due personaggi immediatamente dopo l’uscita dello Spettro, non sono solo Hamlet e Horatio ad entrare in conflitto, giacché l’offesa, come ricorda il principe, non riguarda le loro persone, ma le trascende; qui due mondi, due mentalità, due modi di credere si affrontano creando una linea di confine

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che rimarrà non del tutto demarcata fino alla fine della tragedia. Mentre Hamlet, almeno fino a questo punto, incarna ancora il vecchio mondo, con il suo Purgatorio, le sue orazioni, i suoi suffragi, retaggio di una tradizione secolare, Horatio è l’uomo nuovo che, sebbene non del tutto ignaro di ciò, si avvia verso quel processo di modernizzazione e “forget[s] all other ties, and act[s] from unnamable internal principles, which we now recognize as the underlying axioms of autonomous individualism” (Low, Hamlet and the Ghost of Purgatory: Forgetting the Dead 26).

La società danese – e, potremmo affermare, quella inglese post-riformista – è un ambiente ostile per il giovane principe non solo per una questione personale che riguarda la morte del padre, evento che i sudditi sembrano aver dimenticato molto presto, ma soprattutto perché è una società irriverente verso il suo dolore e, in misura maggiore, non sa accogliere e rispettare il modo in cui Hamlet intende manifestare tale cordoglio.

Nelle parole di Claudius che aprono la scena seconda dell’Atto I, è possibile notare questa volontà da parte del sovrano – e di tutti, mediante la sua persona – di voltare pagina, di abbandonare il passato perché il futuro è alle porte: non c’è più spazio per il lutto e per la mestizia perché è tempo di novità e di cambiamento. In questa frenesia di ricerca del ‘nuovo’ e del ‘moderno’ si perde ogni forma di rispetto per il lutto di Hamlet e persino la Regina, che d’altronde dovrebbe essere in lutto al pari del figlio, invita a guardare oltre e a spogliarsi del triste nero, immagine di sofferenza: “Good Hamlet, cast thy nighted colour off, and let thine eye look like a friend on Denmark”

(Ham I.ii.68-69). Alla voce della Regina fa eco quella del Re che è portavoce del

“whole kingdom” (I.i.3) e l’invito a superare il momento, per aprirsi alla novità del domani, si fa più pressante:

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’Tis sweet and commendable in your nature, Hamlet, to give these mourning duties to your father,

but you must know your father lost a father, that father lost, lost his – and the survivor bound in filial obligation for some term

to do obsequious sorrow. But to persever in obstinate condolement is a course

of impious stubbornness, ’tis unmanly grief, it shows a will most incorrect to heaven, a heart unfortified, a mind impatient,

an understanding simple and unschool’d. (I.ii.87-97)

Un tale atteggiamento di profondo contrasto risulta prestarsi ad una lettura non meramente e semplicisticamente letterale che pretenderebbe di legare l’ostilità del nuovo Re e di Gertrude verso le forme di lutto di Hamlet al senso di colpa che, in misura diversa, li accompagna, pertanto i due risulterebbero solo desiderosi di voltare pagina e vivere il momento presente; piuttosto, nel loro comportamento e nella loro richiesta di superare il dolore, vi è nascosta una volontà più profonda che è quella di voler dimenticare non solo un evento – la morte del re – ma il passato in quanto tradizione e religiosità che chiede loro di suffragare l’anima del defunto sovrano.

Le parole di Claudius sono senza speranza perché mettono in luce l’inutilità della preghiera di suffragio, la sua inconsistenza, ma in relazione ad una assenza ancora più profonda che è quella del Purgatorio: “Only those that have no hope are guilty of such conduct. At bottom, of course, it is the absence of Purgatory that renders grief and

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prayers inadmissable…. By this logic, once Purgatory is excluded, commemoration has no purpose” (Low, Hamlet and the Ghost of Purgatory: Forgetting the Dead 26 ).

Nel processo di secolarizzazione che porta l’uomo moderno ad essere faber fortunae suae, è stato inevitabile passare attraverso l’attacco alla tradizione patriarcale

che, in questo caso, è quella religiosa in riferimento al Purgatorio e alla pratica ad esso legata. Così si esprime Anthony Low a riguardo:

Buried deeply in Hamlet, in the relationship between the prince and his father, is a source tale, an unspoken acknowledgment that the modernist project of achieving complete autonomy from the past rested (at least for the great majority of Shakespeare’s contemporaries who were still Christian) on the denial of Purgatory. (28)

In tal modo, sempre secondo lo scrittore, “Shakespeare’s Hamlet and Milton’s Satan are… arguably beads in the chain of a single, sinuous, long-wave development toward liberal autonomy” (26).

Quanto detto finora sembra portarci verso un’unica chiave di lettura e cioè che Hamlet é sostanzialmente un figlio incompreso e fuori dalla realtà, il cui più grave peccato è quello di provare nostalgia per una fede e un comportamento che nessuno più, intorno a lui, intende condividere; in realtà, è necessario considerare ulteriori aspetti che ci permetteranno di guardare a Hamlet come un uomo a cavallo tra due epoche, pienamente inserito in un contesto tradizionale e, nel contempo, proiettato verso la modernità.

La tragedia di Hamlet è, nell’ambito della carriera letteraria di Shakespeare un elemento mediano che sottolinea la transizione da un interesse ad un altro; diversi critici sono concordi nel mettere in evidenza la presenza di questa volontà, da parte

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dell’autore, di cambiamento e passaggio nell’opera. Hilary Gatty estende questa consapevolezza a gran parte della critica attuale quando afferma che “La centralità dell’

Amleto di Shakespeare come momento di transizione da un primo periodo più lieto e brillante verso gli anni della matura visione tragica è ormai un fatto acquisito nella lettura dell’opera del drammaturgo inglese” (Il teatro della coscienza 13).

Allo stesso modo, nella sua più che esplicita esaltazione del genio shakespeariano – che non si sarebbe limitato alla descrizione dell’uomo, ma ad inventarlo, giacché nessuno può dire di essere esente dall’influenza del drammaturgo inglese – Harold Bloom, rileggendo i personaggi di Hamlet e Falstaff, ribadisce tale questione affermando che Hamlet “è il dramma in cui il protagonista tragico rivede la propria coscienza di se stesso. Non è un processo di foggiatura dell’io, bensì di revisione dell’io”, cosicché “il grande topos, o luogo comune di Shakespeare è il cambiamento” (Shakespeare. L’invenzione dell’uomo 298).

In virtù di tutto ciò, si rende quindi necessaria una rilettura di Hamlet in relazione a questa capacità di continua auto-revisione che porta il principe di Danimarca ad acquisire una sempre maggiore consapevolezza di sé e di trasformazione del proprio essere. In relazione all’ambito specifico di questo studio appare chiaramente, ad una lettura completa dell’opera, che ben presto Hamlet tende a rivedere se stesso, il suo essere e persino la sua relazione con lo Spettro: ogni necessità di suffragio perde le tonalità accese dell’inizio e il ‘ricordo’ a cui è stato chiamato si affievolisce nel corso del testo fino a scomparire del tutto. Nell’ambito della sua volontà di rimanere legato al passato, inteso come tradizione che gli impone di suffragare il padre defunto, Hamlet è una coscienza in movimento che progredisce verso una mentalità moderna e secolarizzata; un sintomo di tale processo è la dimenticanza del Purgatorio.

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Una delle peculiarità della Riforma protestante in Inghilterra fu l’ adattamento da parte di un gran numero di persone al mutare dei tempi e delle consuetudini; se molti si erano schierati per la Riforma, mentre altri cercavano di farne regredire l’affermazione, tantissimi altri erano quelli che, dinanzi all’alternanza da una fede all’altra, corrispondente ad altrettanta varietà di sovrani, si erano adattati alle condizioni in vigore e non avevano optato per alcuna soluzione definitiva. Questi ultimi avevano semplicemente atteso l’assestarsi dei tempi e vi si erano adattati garantendo così alla riforma protestante in Inghilterra toni meno cruenti e violenti rispetto a quelli che avevano caratterizzato la vicina Germania.

Allo stesso modo, la società di Hamlet corre in una direzione che sembra opposta a quella del principe e che lo vorrebbe più emancipato (“an understanding simple”), più virile (“unmanly grief”), più secolarizzato (“unschool’d”), in altri termini più ‘moderno’; dall’altro lato, il suo passato lo ‘ossessiona’ e gli chiede di ‘ricordare’

ciò che tutti vorrebbero che egli dimenticasse.

La soluzione di Hamlet è quella di combattere le forze contrarie solo inizialmente, opponendo una debole e precaria resistenza che lascia il posto ad una sottomissione a ciò che la sua società gli chiede: interiorizzare il suo dolore e

‘riformare’ il suo suffragio. Hamlet in principio è l’unica persona a portare il lutto per il vecchio Re, ma il figlio “does not really remember why or how he should remember his father” (Low “Hamlet and the Ghost of Purgatory: Intimations of Killing the Father 463); alla memoria richiesta dallo Spettro si sostituisce l’oblio caratterizzato da un cammino di interiorizzazione del dolore e di individualismo secolarizzato:

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’Tis not alone my ink cloak, good mother, Nor customary suits of solemn black, Nor windy suspiration of forc’d breath,

……

Together with all forms, moods, shapes of grief, That can denote me truly. These indeed seem, For they are actions that a man might play;

But I have that within which passes show,

These but the trappings and the suits of woe. (I.ii.77-79.82-86)

Così, non meraviglia affatto che nel corso del dramma sia la vendetta a prendere il sopravvento caricandosi di un odio personale e feroce in quanto l’attenzione di Hamlet si è spostata dalla richiesta del padre defunto, che trascendeva il semplice gesto, ad una immanenza che riporta tutta la questione nell’ambito della vendetta.

Il segno più tangibile di questa dimenticanza, l’elemento che concretizza questo atteggiamento interiore riguarda ancora una volta lo Spettro che, ad un certo punto dell’opera, scompare per non riapparire più: “[Amleto] impiega un po’ di tempo per dimenticarlo, ma all’inizio dell’atto V non ha più bisogno di ricordare: lo spettro è scomparso, l’immagine mentale del padre non esercita più alcun potere” (Bloom 291).

Dal momento della sua ultima apparizione, in III.iv.103, lo Spettro viene completamente estraniato dalla scena e dall’azione, che tuttavia continua, viene portata a termine, ma senza la presenza di colui che le ha dato inizio. L’atteggiamento del figlio è cambiato, si è trasformato dimenticando che la prima necessità dello Spettro è di essere ascoltato – “Mark me” (I.v.2) – pertanto prende lui l’iniziativa e pone una prima domanda alla visione che, stavolta, può essere vista solo da lui:

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