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Enrico Maria Dal Pozzolo Apri il cuore

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Academic year: 2022

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Enrico Maria Dal Pozzolo Apri il cuore

Quando nella primavera del 1506 Giorgione sul cavalletto sta lavorando alla cosiddetta “Laura” del Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. 13) è di certo consapevole di cimentarsi in un’impresa pittorica inedita e sperimentale.

Fino a quel momento, infatti, nella sua Venezia, i (pochi) ritratti di donna a sé stanti elaborati da artisti di rango come Jacometto Veneziano (Cleveland Museum of Art; New York, Metropolitan Museum), Carpaccio (Denver Art Museum; Kansas City, The Nelson-Atkins Museum of Art) e dai seguaci dei fratelli Bellini si limitavano a rappresentazioni di status e verosimiglianza fisica, inquadrando dame a mezzo busto, impeccabilmente vestite, dallo sguardo assorto, a volte con un paesaggio alle spalle ma più spesso su fondo nero1. In un caso – quello del Carpaccio a Denver – la dama solleva un libro, inequivocabile richiamo a una cultura letteraria e, secondo alcuni, addirittura allusivo alla sua personale produzione lirica (si tratterebbe del ritratto della poetessa toscana Girolama Corsi Ramos)2.

Quel che fa Giorgione è sconcertante. Prende una ragazza di circa 16 anni, la introduce in uno spazio buio, la pone di fronte a una pianta di alloro, la spoglia e le fa indossare un soprabito foderato con una pelliccia inequivocabilmente di foggia maschile, salvo poi farle scostare con la mano un lembo della veste da cui esibisce il seno destro. Da quella porzione di corpo si irradia nella “finestra” del quadro, come in un’epifania, una luce che rende diafana la figura e fa risaltare le foglie di alloro, di cui si percepisce la fragranza e quasi il profumo3.

Chi sia tale fanciulla non lo sappiamo. Sappiamo però – perché miracolosamente è sopravvissuta una iscrizione coeva sul retro del dipinto4 – che esso fu compiuto il 1° giugno del 1506 da un maestro, “Zorzi da Chaste[l] Fr[ancho]”, che ancora non veniva qualificato mediante il soprannome accrescitivo di Giorgione (sancito da Vasari nelle Vite: perché grande di animo e corporatura) e che all’epoca collaborava con “[mai]stro Vizenzi Chaena”, ossia Vincenzo Catena, un allievo di Giovanni Bellini di alte frequentazioni sociali e umanistiche (Giovanni Battista Egnazio, Giangiorgio Trissino…)5. In più si fa riferimento al committente del quadro: un certo “mis(er) Gia(co)mo Ansé”, che di recente si è supposto essere forse identificabile con Giacomo Anselmo, un patrizio che di mestiere faceva il pellicciaio6. Vero, non vero… Quasi ogni nuovo indizio su Giorgione provoca più interrogativi che risposte, come dimostra anche il caso degli importantissimi documenti non da molto individuati – e diversamente interpretati – da Renata Segre e Giacinto Cecchetto7.

Perché mai Giorgione abbia eseguito per Giacomo Anselmo (o chi per lui) questo ritratto in un modo che nella Venezia dell’epoca era – almeno a giudicare da quanto giunto fino a noi – ancora del tutto atipico, resta un mistero. D’altra parte, è fuori di dubbio che da tale incipit deriva un filone iconografico – minoritario, ma di rilevante interesse culturale – che attraversa l’intero Cinquecento lagunare, legando gli esperimenti di Giorgione alle esperienze del giovane Tiziano, di Palma il Vecchio, Cariani, Bernardino Licinio, Paris Bordon, fino a Domenico Tintoretto, il figlio di Jacopo. Tutti costoro, in modi diversificati ma coerenti, proposero infatti immagini di donne giovani e belle – a volte reggenti mazzi di fiori (cat. 14, 15;

ma anche Palma il Vecchio alla National Gallery di Londra)8 e, in un caso (il Licinio Canesso) con l’ingresso nel campo visivo dello spasimante (cat. 38) – che denudano il seno destro (cat. 16), o il sinistro (cat. 17), o entrambi (cat. 18).

La critica si è divisa sul significato di tali opere, percorrendo strade interpretative molto differenti tra loro, che è necessario ricordare al lettore in estrema sintesi.

La prima chiama in causa le famose “cortigiane”, professioniste dell’amore non sempre però relegate nell’umiliante ruolo di prostitute, ma talvolta assunte agli onori delle lettere: o perché celebrate da intellettuali provocatori come Pietro Aretino o perché (ma solo in qualche caso, tanto raro da risultare eccezionale) autrici di testi e versi, come Veronica Franco (di cui in mostra si presenta una supposta effigie: cat. 59). Che si trattasse di figure caratteristiche del variopinto contesto lagunare è fuori di dubbio, e che avessero un ruolo di connessione sociale, per dir così, altrettanto. Ma che in gruppo riuscissero a ingaggiare i pennelli dei più insigni maestri attivi in città appare a dir poco improbabile.

Inoltre, se è attestato che qualcuna di loro in effetti si fece fare un ritratto, dalle testimonianze a stampa giunte fino a noi si capisce che preferivano presentarsi in abbigliamenti tutt’altro che discinti: quindi,

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tentando di identificarle, paradossalmente andranno cercate tra le innumerevoli “gentildonne” senza nome che affollano la ritrattistica veneziana dell’epoca9.

Da qualche tempo s’è sostenuto che queste fanciulle altro non siano che spose o promesse tali (le

“novizie”), descritte in termini erotizzanti per richiamare il concetto di voluptas (un piacere sia carnale sia spirituale) che, assieme alla virtus (morale e comportamentale), si riteneva sostenesse le sorti del buon matrimonio10. Su questo versante si sono posti studiosi come Rona Goffen, Augusto Gentili, Sergio Bertelli, Costanza Barbieri e, in buona misura, chi scrive, come si capirà da quanto segue11.

Un’altra interpretazione chiama in causa un ruolo per certi versi intermedio tra mercenarie e spose, ossia quello dell’amante. La proposta è stata avanzata prendendo atto delle diffuse relazioni extraconiugali causate dall’alta percentuale di matrimoni concordati tra le famiglie. Tuttavia pone non pochi problemi, primo fra tutti quello di dove queste immagini sarebbero state collocate: a casa del marito fedifrago o in quella dell’adultera? Entrambe le ipotesi sembrano poco plausibili e la risposta “che una tela può essere arrotolata o essere nascosta in qualche segreto luogo del proprio appartamento e non essere necessariamente appesa con cornice alla parete”12 lascia più che perplessi, se non altro perché spesso si trattava di tavole.

In ogni modo, pur considerando questo filone iconografico in termini unitari, il buon senso suggerisce di non applicare schematicamente un’univoca prospettiva di lettura ma di valutare caso per caso, sia in considerazione di tutto ciò che del Cinquecento veneziano – ma non solo – ci sfugge, sia per la consapevolezza, questa sì chiarissima, della sua estrema complessità. Una complessità che pone lo studioso moderno nella condizione di doversi districare fra realtà e sensibilità talvolta antitetiche (il matrimonio sentito come istituzione coercitiva contraria al sentimento o, viceversa, come positiva condizione di equilibrio e felicità), di distinguere tra finzione letteraria o rappresentativa e vita vissuta, di giustapporre le storie di vicende giudiziarie magari drammatiche alla devozione nei confronti dei coniugi manifestata con commossa sincerità in tanti testamenti…13.

In altre parole: volendo cogliervi un riflesso della società coeva, innanzi a iconografie come quelle appena richiamate è sempre opportuno ragionare con prudenza. Tenendo ben conto però che esiste anche una quarta opzione esegetica che, sia pure in termini non facilmente dimostrabili, è stata pure sovente richiamata negli studi. Ossia che per lo più queste fanciulle rappresentino, in ultima analisi, sostanzialmente la bellezza femminile e la sua idealizzazione14.

In vari casi, non si può non concordare con questa ultima opzione: tuttavia è altrettanto innegabile che in altri ci si trova di fronte a persone dai tratti assolutamente peculiari, che sembrano lì per raccontare storie private e aprire il loro animo. Insomma: si tratta di moduli compositivi che inglobano più realtà e, di conseguenza, diverse possibilità di lettura.

Per cercare di spiegare in modo semplice tale polisemicità – che a volte rasenta l’enantiosemia – dobbiamo tornare brevemente alla princeps della serie: la fanciulla giorgionesca di Vienna.

Che si tratti di un ritratto di una persona reale, in carne e ossa, è indicato dai lineamenti assai particolari, né belli né brutti: quelli di una giovane un po’ timida e in imbarazzo a causa dell’interpretazione a dir poco singolare per lei immaginata dal maestro di Castelfranco.

Sebbene siano state avanzate anche spiegazioni di altro genere – come quella che vedeva nel lauro alle sue spalle un possibile richiamo al nome Laura (analogamente al ginepro nella Ginevra de’ Benci di Leonardo) – va evidenziato che nella Venezia di quegli anni la soluzione di porre una pianta di alloro alle spalle di una figura femminile era adottata soprattutto per glorificare la Madonna, simboleggiandone la virtù incorruttibile: così fecero, ad esempio, Giovanni Agostino da Lodi (Napoli, Capodimonte), Palma il Vecchio (Londra, National Gallery) e Girolamo dai Libri (New York, Metropolitan Museum)15. Non per nulla Cesare Ripa, nella sua Iconologia, trattando dell’Amor di Virtù dichiara che la virtù si rappresenta mediante “la ghirlanda d’alloro, per segno dell’honore che si deve ad essa virtù. Et per mostrare che l’amor d’essa non è corruttibile, anzi come l’alloro sempre verdeggia, et come corona, o ghirlanda che di figura sferica non ha giamai alcun termine”16. Questo semplice riscontro rende del tutto improbabile l’ipotesi, più volte avanzata, che si trattasse di una cortigiana, magari di nome Laura. Ma perfino un elemento come l’ostentazione del seno – che fino a tempi non lontani è stata considerata la prova dell’impossibilità che si trattasse di una gentildonna – assume una luce inequivocabilmente positiva qualora lo si inquadri pure in una prospettiva mariana. Si sa, infatti, che in epoca medievale vari testi celebravano il seno di Maria: uno dei più significativi è il

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Liber Marialis di Jacopo da Varagine, da cui si evincono decine di nessi simbolici17. In effetti, nel Quattrocento italiano si registra quella che è stata definita una “teleologia sulla posizione del seno”18. Seguendo ciò che all’inizio del secolo scrive il veneto Francesco Barbaro, ad esempio, si capisce che si guardava ad esso non solo come a una straordinaria fonte di vita, ma anche come a una sorta di emblema della differenza tra noi e gli animali, un vincolo d’amore che legava madre e figlio in maniera particolare: essendo infatti posto in alto, ella poteva allattarlo abbracciandolo, e quindi affezionarvisi19. Così, in conformità a un fenomeno sovente analizzato in sede storica, l’allattamento di Gesù Bambino era un’esperienza mistica concessa a molte sante20. E non solo a molte sante – si può aggiungere – se si considera che la celeberrima Vergine di Fouquet ad Anversa è quasi certamente incarnata da Agnes Sorel, maîtresse di Carlo VII di Francia21. In tale luce non sorprende dunque la connessione che alcuni studiosi hanno scorto tra “Laura” e la nuda allattante della Tempesta22.

Ma c’è dell’altro. Infatti tra Quattro e Cinquecento il tema del seno della donna amata viene affrontato nella lirica profana con una nuova sensibilità, che molto deve al recupero di modelli classici.

Portiamo un esempio eloquente. Nel 1505 a Venezia Aldo Manuzio stampa la Pontani Opera, in cui vengono per la prima volta presentati gli Endecasillabi che il tipografo specifica essere tratti dall’autografo del poeta, morto due anni prima. Se leggiamo quanto Pontano scrive a riguardo del seno di Ermione e Lucilla, ci rendiamo conto di essere in presenza di un notevole scarto di temperatura rispetto alla tradizione di primo Quattrocento, una virata spiccatamente sensuale e intimista, paragonabile a quella manifestata dal quadro di Zorzi. Egli si rivolge a Ermione, chiedendole perché mai mostri scoperto il niveo seno:

Perché il seno di latte e le poppe, persino, mostri senza lini?

Vuoi forse dire: “Bacia le mie poppe, bacia il mio bianco seno”? O forse:

“Tocca, tocca, stringi”? Tu!

Camminare a poppe nude, tu!

Aggirarti a petto nudo? È un invito agli amanti ad amare. Allora, o copri le bianche poppe, e cingi con una fascia onesta il seno, oppure, son vecchio, ma volerò ad esse per apparirti giovane.

Ermione, queste tue poppe possono ridare il dono della giovinezza a Titone.23

La diffusione di versi di questo genere a Venezia potrebbe aver stimolato l’elaborazione di immagini con giovani donne a mezzo busto, nude o seminude, come quelle di Bartolomeo Veneto a Francoforte (cat.

15) o di Giovanni Mansueti a York24. Ma nella prospettiva giorgionesca, il riferimento a Pontano si fa ancora più puntuale quando il poeta, nel De fulgentissimis Lucillae papillis, canta lo splendore del seno di Lucilla: da esso sembra nascere un raggio di sole e d’un tratto la notte si rischiara. Se non lo avesse coperto sarebbe sorta l’Aurora e le tenebre sarebbero state illuminate a giorno. Questo perché “porta il giorno Lucilla nel suo seno risplendente, nel suo candido petto fa risplendere il sole”25. Dunque, il seno diviene metafora non solo del nutrimento e della vita ma anche della luce interiore.

D’altra parte, che in Giorgione un audace scoprimento del corpo potesse esprimere un valore positivo è attestato dalla scelta che egli stesso fece per la Giuditta di San Pietroburgo (fig. 62), in cui – come evidenziato da Białostocki – l’eroina biblica scopre la gamba fino a metà coscia per alludere alla seduzione “virtuosa” che le consentì di uccidere il nemico Oloferne e di salvare così il suo popolo26. Queste soluzioni iconografiche furono subito fatte proprie dal giovane Tiziano, come dimostra sia nella Giuditta/Giustizia affrescata sulla facciata di terra del Fondaco dei Tedeschi (che scopre sia la gamba sia il seno) sia nella Giovane donna del Norton Simon Museum di Pasadena, il cui gesto richiama – in maniera esplicita, sebbene meno audace – quello della “Laura” giorgionesca27.

Da allora in poi (e siamo alla fine del primo decennio del XVI secolo) i pittori introducono nella ritrattistica privata contenuti letterari e concetti astratti che nel secolo precedente venivano visualizzati solo in immagini allegoriche28. Si pensi a come Botticelli nella Calunnia degli Uffizi descrive la Verità in

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guisa di giovane nuda che indica il cielo o a come, prima ancora, Pisanello allude alla castità di Cecilia Gonzaga coniando sul verso della sua medaglia una fanciulla en déshabillé che conduce un unicorno29. Se di fronte alle Flore di Bartolomeo Veneto a Francoforte (cat. 15) e di Tiziano agli Uffizi (cat. 14) – nonché nell’Allegoria nuziale di quest’ultimo al Louvre, dove la presa di possesso maritale della donna (dal seno scoperto) è accompagnata dalle personificazioni dell’Unità, della Fede e della Speranza (fig. 63)30 – è più che lecito credere che si tratti di immagini in cui appunto prevale la componente allegorica, in altre siamo costretti a pensare il contrario. Si prenda la dama di Bernardino Licinio in collezione privata a Bergamo (cat. 16). La si ritrova nel ruolo di “matrona” al centro del Ritratto della famiglia di Arrigo Licinio alla Galleria Borghese di Roma, realizzato insieme da Bernardino e da suo fratello Arrigo (fig. 64)31. È quindi proprio quest’ultimo il destinatario dello sguardo – a un tempo severo e remissivo – della dama bergamasca, che ai polsi porta i lacci che ci si scambiava tra innamorati e che all’epoca si chiamavano

“favori”. Con quel gesto, di ascendenza giorgionesca, ella allude alla sua fecondità, a quel ruolo di madre che garantisce la continuità della famiglia. La stessa cosa si può dire per la dama col cagnolino del Museo di Castelvecchio a Verona (cat. 17), laddove ancora si è innanzi a un seno denudato, ancora a nastrini ai polsi, ancora a uno sguardo puntato sull’osservatore. Che questi sia stato il marito o l’amante, poco cambia: stringendo a sé l’animale, ella gli garantiva la fedeltà tradizionalmente emblematizzata da quest’ultimo32. Il quale è, anzi – se si considera la ricorrenza di un topos letterario diffusissimo tra Quattrocento e Cinquecento – alter ego dell’uomo che glielo donò33.

Queste appena tratteggiate potrebbero sembrare elucubrazioni suggestive ma in fondo soggettive, qualora non si fondassero su una solidissima base testuale coeva. Ci riferiamo all’Arte de’ cenni di Giovanni Bonifacio (1616) che, per quanto posteriore alla maggior parte dei dipinti richiamati (ma va posto in risalto che il suo autore di certo conosceva Domenico Tintoretto, con cui frequentava la seconda Accademia Veneziana), risulta imprescindibile nell’esegesi della gestualità cinquecentesca34. Centinaia e centinaia di gesti espressi dal corpo, dalla testa ai piedi, vengono analizzati dall’autore con implacabile acribia, portando infinite occorrenze letterarie che ne spiegano i significati specifici. Trattando del seno, Bonifacio si sofferma sui tanti atteggiamenti che lo riguardano (la mano che lo carezza, lo sguardo che lo desidera ecc.), tra cui anche sull’“Aprir il seno”. Così: “quest’apertura di seno accenna voler alcuna cosa caramente, come nel core, ricevere”. A riscontro invoca una testimonianza dell’Ariosto e poi dello stesso Petrarca quando, nel primo capitolo del Trionfo della Morte, correla anima e petto: “lo spirito per partir di quel bel seno, con tutte sue virtuti, in sé romito, fatt’avea in quella parte il ciel sereno”35. Ecco: il seno inteso quale porta dell’animo, luogo metaforico d’intimità. In tale luce va interpretato – oltre che in segno di seduzione e di fertilità – il “cenno” delle donne sopra considerate. Una luce che nella “Laura” di Giorgione si fa limpida nell’incontro con il lauro (la pianta che vari suoi colleghi posero alle spalle di Maria per indicarne verginità e pudicizia, integrità e somma virtù) e che nell’anonima dama veronese si focalizza, invece, sul legame indissolubile degli affetti affidato al cagnolino e alla sua incrollabile fedeltà.

1 Un repertorio dei ritratti veneziani del Rinascimento non esiste: si deve inevitabilmente ricorrere alle ormai datate panoramiche di Berenson (1958) e Heinemann (1962 e 1991), dalle quali si evince che la percentuale dei ritratti femminili databili entro il XV secolo è bassissima ed evidentemente corrisponde a una produzione che all’epoca fu decisamente minoritaria rispetto a quella maschile.

2 Humfrey 1991, p. 56, n. 12. Ringrazio lo studioso per avermi fatto leggere in anteprima la sua scheda su tale ritratto – piuttosto scettica sul riconoscimento nella Corsi Ramos – redatta per la prossima mostra su Carpaccio a Washington e a Venezia nel 2022-2023.

3 Sul dipinto la letteratura è vastissima: cfr. almeno Hornig 1987, pp. 208-209; A. Ballarin in Le siècle de Titien 1993, pp. 724-729 (nuova ed. pp. 332-337);

Dal Pozzolo 1993a (ed. 2008 pp. 30-53, 190-199); Dal Pozzolo 2009, pp. 291-300; Junkermann 1993; Anderson 1996, pp. 208-217, 299-300; Helke 1999;

Schier 2014.

4 ✠ 1506 a[d]j [pr]imo zugno fo fatto questo de ma(n) de maistro Zorzi da Chaste[l] Fr[ancho] | [c]holega de [mai]stro Vizenzi Chaena ad instanzia de mis(er) Gia(co)mo Ansé [·] Stazi […]: questa la lettura paleografica offerta dal professor Massimiliano Bassetti dell’Università di Verona, in Dal Pozzolo 2016, pp. 49-50.

5 Su Catena, Robertson 1954 e Dal Pozzolo 2006.

6 Dal Pozzolo 2016, pp. 52-57.

7 Cfr. Segre 2011 e Segre 2012-2013, Cecchetto 2009, pp. 63-67 e Cecchetto 2012, p. 21. Cfr. poi il riepilogo di chi scrive in Labirinti del cuore 2017, pp.

176-177, n. I 4.4.

8 Rylands 1988, pp. 323, n. 66.

9 Ben rappresentativo di tale filone esegetico è Lawner 1988. Per un riepilogo sulle cortigiane veneziane del Cinquecento, cfr. Scarabello 2006, pp. 65- 103; sul tema, inoltre, Pedrocco 1990a e Schuler 1991.

10 Cfr. Lüdemann 2008.

11 Dal Pozzolo 1993a e Dal Pozzolo 2008; Gentili 1995; Bertelli 1997; Goffen 1997a; Barbieri 2018a.

12 Rossoni 2002, p. 148.

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13 Sul versante della teoria amorosa cfr. Zonta 1980, con una ricca introduzione di M. Pozzi. Per la situazione famigliare a Venezia si rinvia a Chojnacki 2000; per l’entroterra veneto, a Grubb 1999. Molte vertenze in materia amorosa e nuziale sono analizzate da Scarabello 1980, Ruggiero 1988 e Ruggiero 1993.

14 In tal senso – a partire dai ragionamenti di Pozzi 1979 – si veda in particolare Ferino-Pagden 2006, pp. 190-199.

15 Dal Pozzolo 1993a, pp. 265-266 (ed. 2008 p. 37).

16 Ripa, Iconologia ed. 1992, pp. 471-472.

17 Le considerazioni sugli ubera spiritualia di Maria le ho lette nel Mariale di Jacopo da Varagine, nell’edizione veneziana del 1497, alle pp. LXVIv-LXVIIr.

18 Herlihy 1987, pp. 154-155.

19 Per il testo del Barbaro, la cui princeps è del 1513 (ma con vari manoscritti precedenti), cfr. Gnesotto 1915-1916, pp. 92-96.

20 Per il fenomeno dell’allattamento mistico del Gesù Bambino, Klapisch-Zuber 1988, pp. 305-329.

21 Per l’identificazione della Sorel nella Vergine di Fouquet, Lombardi 1983, pp. 125-130.

22 Tale relazione è stata sostenuta, ad esempio, da Roskill 1976.

23 Seguiamo il testo veneziano del 1505, che differisce da altre versioni: Pontani Opera 1505, pp. aaiiiv-aaiiiir. Nello stesso anno gli Hendecasyllaborum libri furono presentati anche nella princeps napoletana.

24 Non ci soffermiamo sul problema della corretta interpretazione di queste opere: basti solo dire che quella di Bartolomeo non pare un ritratto, come del resto quasi nessuna delle cosiddette Flore successive, e che tuttavia la donna ha il capo coronato da un Myrtus coniugalis, come sottolineato da Panofsky 1969 (ed. it. 1992, p. 140). L’opera di York fu opportunamente rivendicata a Mansueti da Berenson 1957, I, p. 112.

25 “Fert Lucilla diem sinu corrusco, et splendet pectore cancidante solem”: Pontani Opera 1505, p. bbiiiiir. Si leggano anche – con un inquadramento critico – in Ioannis Iovani Pontani ed. 1902, II, pp. 249-250, 265-266.

26 Białostocki 1981. Più di recente, con ulteriori raffronti figurativi, Dal Pozzolo 2019 (“Lo spacco”).

27 Joannides 2001, pp. 51-71, 94-86; Humfrey 2007, pp. 36-37 n. 7A, 42 n. 10. Anche Cariani nella Giuditta ora in collezione Valsecchi (In the Age of Giorgione 2016, pp. 148-149) adotta la medesima soluzione, con il seno destro scoperto.

28 Panofsky 1939.

29 Si veda in Dal Pozzolo 2008, p. 42.

30 Panofsky 1969 (ed. it. 1992, pp. 128-132).

31 Vertova 1975, pp. 429-430, n. 96, n. 2; Dal Pozzolo 2008, pp. 48-49; F. Cocchiara in Labirinti del cuore 2017, pp. 290-291, n. II.6.4.

32 G. Peretti in Museo di Castelvecchio 2018, pp. 149-150, n. 149.

33 Si veda il capitolo Cani in grembo e uccelli in gabbia: il tormento dell’amante in Dal Pozzolo 2008, pp. 134-159.

34 Bonifacio 1616. Su tale testo Gazzola 2018 e – più in sintesi – il saggio della medesima studiosa in questo volume.

35 Bonifacio 1616, pp. 364-365 (ed. Gazzola 2018, II, p. 376); Petrarca, Trionfo della Morte, I, 151-153.

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