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da Storia sociale dell arte di Arnold Hauser Storia dell arte Einaudi 1

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da Storia sociale dell’arte

di Arnold Hauser

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Edizione di riferimento:

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume ter- zo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo e Volume quarto. Arte moderna e contemporanea, trad. it. di Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987

Titolo originale:

Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,

München

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Indice

ROCOCÒ NEOCLASSICISMO ROMANTICISMO

VI. Il Romanticismo in Germania e nell’Europa

occidentale 4

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

I. La generazione del 1830 76

II. Il Secondo Impero 141

III. Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia 193

IV. L’impressionismo 261

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Capitolo sesto

Il Romanticismo in Germania e nell’Europa occidentale

Il liberalismo ottocentesco identificò il romanticismo con la Restaurazione e la reazione. Questa connessione, anche se non mancava di qualche legittimità, specie per quel che riguarda la Germania, finí per provocare, in generale, un’errata visione storica. Questa poté essere rettificata soltanto quando si cominciò a distinguere tra il romanticismo tedesco e quello dell’Europa occidenta- le, riconducendo il primo a tendenze reazionarie, il secondo a tendenze progressiste. Il quadro che ne derivò, benché ancora semplicistico per molti aspetti, risultò assai piú vicino al vero, poiché, politicamente, né l’una né l’altra forma di romanticismo furono chiare e coerenti. Piú tardi infine, con piú aderenza alla realtà, si distinsero nel romanticismo tedesco, come in quello francese e in quello inglese, una fase primitiva e una piú tarda, una prima e una seconda generazione. Si constatò che in Germania e nell’Occidente europeo lo sviluppo seguiva direzioni diverse e che il romanticismo tedesco da inizi rivoluzionari si svolgeva poi in senso reaziona- rio, mentre quello dell’Europa occidentale da posizioni legittimistiche e conservatrici si accostava progressiva- mente al liberalismo. Il quadro era esatto, ma piuttosto infruttuoso per una determinazione del concetto di romanticismo. Infatti il movimento romantico ebbe que- sto di caratteristico, che in sé non rappresentava una

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ideologia rivoluzionaria o conservatrice, progressista o reazionaria, ma all’una o all’altra di queste posizioni giungeva per una via irreale, irrazionale, non dialettica.

La passione rivoluzionaria restava nel romanticismo qualcosa di estraneo al mondo, esattamente come l’op- posto atteggiamento conservatore; l’entusiasmo per «la Rivoluzione, Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe» era in esso atteggiamento tanto ingenuo, tanto lontano dalla conoscenza delle vere forze motrici dell’evoluzione, quanto il fanatismo per la Chiesa e il Trono, la cavalle- ria e il feudalesimo. Dappertutto vi furono romantici rivoluzionari e altri devoti all’antico regime e alla Restaurazione. Danton e Robespierre furono astratti dogmatici quanto Chateaubriand e De Maistre, Görres e Adam Müller. Friedrich Schlegel fu un romantico da giovane, quando si esaltava per Fichte, il Wilhelm Mei- ster e la Rivoluzione, come da vecchio, quando applau- diva Metternich e la Santa Alleanza. Quanto a Metter- nich, non era un romantico, benché tradizionalista e conservatore; egli lasciò ai letterati il compito di elabo- rare il mito dello storicismo, del legittimismo e del cle- ricalismo. È un realista chi sa quando lotta per i propri interessi e quando fa concessioni agli interessi altrui; ed è un dialettico chi riconosce che ogni situazione storica comporta un complesso di motivi e di impegni che non si possono eludere. Il romantico, pur con tutta la sua comprensione del passato, ignora la storicità e la dialet- tica del presente; non capisce ch’esso sta fra passato e futuro e presenta un insolubile contrasto di elementi sta- tici e dinamici.

La definizione di Goethe per cui il romanticismo incarna il principio della malattia – un giudizio che, cosí com’era inteso, difficilmente era accettabile – alla luce della recente psicologia acquista un senso nuovo e rice- ve una nuova conferma. Infatti, se effettivamente il romanticismo vede solo un lato di una situazione piena

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di tensioni e di contrasti, se non considera che un solo fattore della dialettica storica, accentuandolo a spese dell’altro, se infine mostra una tale unilateralità, una reazione cosí esagerata, una mancanza di equilibrio psi- chico, si ha ragione di chiamarlo «morboso». Infatti, perché esagerare e svisare le cose, se non ne siamo tur- bati, impauriti? «Things and actions are what they are, and the consequences of them will be what they will be;

why then should we wish to be deceived?» [«Cose e azioni son quel che sono, e le loro conseguenze saranno quel che saranno; a che dunque volersi illudere?»], domanda il vescovo Butler, caratterizzando cosí nel miglior modo il sereno e «sano» realismo settecentesco, alieno da ogni illusione1. Da questo punto di vista il Romanticismo appare sempre una menzogna, un autoin- ganno che, come dice Nietzsche a proposito di Wagner,

«non vuol sentire i contrasti come contrasti» e afferma a gran voce proprio quello di cui dubita di piú. La fuga nel passato non è la sola forma dell’irrealismo e dell’il- lusionismo romantico; c’è anche una fuga nel futuro, nell’utopia. Quello a cui si aggrappa il romantico è, in ultima analisi, senza importanza; quel che importa è la sua paura del presente, dell’imminente cataclisma.

Il romanticismo improntò di sé tutta un’epoca, e ne ebbe chiara coscienza2. Esso costituí una delle piú importanti svolte nella storia dello spirito occidentale, e di questa sua funzione storica fu pienamente consa- pevole. Dall’età gotica in poi lo sviluppo della sensibi- lità mai aveva subito impulso piú energico, e il diritto dell’artista a seguire la voce del suo sentimento e della sua natura non era mai stato accentuato con tale riso- lutezza. Il razionalismo, che a cominciare dal Rinasci- mento aveva senza soste guadagnato terreno, raggiun- gendo nell’età dei lumi una validità universale in tutto il mondo civile, conobbe il piú grave scacco della sua storia. Dopo la fine del trascendentalismo e del tradi-

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zionalismo medievale mai era accaduto che si parlasse con tanto disprezzo della ragione, della vigile e misu- rata intelligenza, della volontà e della facoltà di domi- narsi. «Those who restrain desire do so because theirs is weak enough to be restrained» [«Coloro che frena- no il desiderio, cosí fanno perché il loro è abbastanza fiacco per essere frenato»], dice persino Blake, che pure certamente non approvava lo sfrenato sentimentalismo di un Wordsworth. Se come principio della scienza e della pratica il razionalismo ha potuto presto riaversi dagli attacchi romantici, l’arte occidentale è però rima- sta «romantica». Il romanticismo non è stato soltanto un generale movimento europeo, che l’una dopo l’altra ha conquistato tutte le nazioni, creando infine quell’u- niversale linguaggio letterario, comprensibile in Russia e in Polonia come in Francia e in Inghilterra: al pari del naturalismo dell’età gotica e del classicismo del Rina- scimento, esso si è rivelato uno di quei movimenti che rimangono come fattori costanti dell’evoluzione stori- ca. Effettivamente non c’è prodotto dell’arte moderna, né impulso sentimentale, né impressione o stato d’ani- mo dell’uomo della nostra epoca, che non debba la sua sottigliezza e ricchezza di sfumature a quell’eccitabilità che nel romanticismo ha la sua prima origine. E ad esso risalgono tutta l’esuberanza, l’anarchia e la vio- lenza dell’arte moderna, il suo ebbro e balbettante liri- smo, l’esibizionismo senza freno né riguardo. E questo atteggiamento soggettivo, egocentrico, è diventato per noi cosí naturale, cosí inevitabile, che non possiamo neppure esporre un astratto sviluppo di idee senza par- lare delle nostre sensazioni3. La passione intellettuale, il pathos della ragione, la fecondità artistica del razio- nalismo sono cosí completamente caduti in oblio, che anche l’arte classica la possiamo intendere soltanto come espressione di un sentimento romantico. «Seuls les romantiques savent lire les ouvrages classiques,

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parce qu’ils les lisent comme ils ont été ecrits, roman- tiquement» [«Solo i romantici san leggere le opere clas- siche, perché le leggono come sono state scritte, roman- ticamente»], dice Marcel Proust4.

Artisticamente tutto l’Ottocento dipende dal roman- ticismo, ma questo a sua volta era un prodotto del Set- tecento, e non aveva mai perduto la coscienza del suo carattere di transizione e della sua problematica posi- zione storica. L’Occidente conobbe molte altre crisi, analoghe e piú gravi, ma non ebbe mai cosí vivo il senso di trovarsi a una svolta della storia. Certo non era la prima volta che una generazione assumeva un atteggia- mento critico di fronte al proprio tempo e rifiutava le forme tradizionali della cultura, perché in esse non pote- va esprimere il proprio mondo spirituale. Anche in epo- che anteriori era accaduto che si avesse il senso di un invecchiamento e si desiderasse un generale rinnova- mento, ma nessuno aveva mai pensato di porre in dub- bio il significato e la ragion d’essere della propria civiltà, chiedendosi se veramente si potesse giustificare la par- ticolare fisionomia e se rappresentasse un elemento necessario nel complesso della civiltà umana. Il senso romantico di un risorgimento non era certo cosa nuova;

la Rinascita l’aveva ben conosciuto e già il Medioevo era stato agitato da pensieri di rinnovamento e fantasie di resurrezione, il cui oggetto era l’antica Roma. Ma nes- suna generazione ebbe mai cosí forte il senso di essere erede e discendente, né cosí netto il desiderio di restau- rare e richiamare a nuova vita tempi remoti e una per- duta civiltà. Il romanticismo cerca continuamente nella storia reminiscenze e analogie e trova il piú forte stimolo in ideali, che crede già attuati nel passato. Ma il suo rap- porto con il Medioevo è alquanto diverso da quello del neoclassicismo con l’antichità: il neoclassicismo vede nei Greci e nei Romani semplicemente un esempio, il romanticismo invece conserva sempre il senso del «déjà

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vécu». Esso ricorda le età remote come una preesisten- za. Questo sentimento per altro non prova affatto che romanticismo e Medioevo fossero piú affini tra loro di quanto fossero antichità e neoclassicismo, anzi prova il contrario. «Quando un benedettino studiava il Medioe- vo, – si dice in una recente, acuta analisi del romantici- smo, – non si domandava a che cosa questo gli servisse e se nel Medioevo si vivesse piú felici e piú vicini a Dio.

Poiché egli stesso si trovava ancora nell’ambito di quel- la fede e di quell’organizzazione ecclesiastica fonda- mentali per il Medioevo, di fronte alla religione poteva esser miglior critico di un romantico, che si trovava a vivere in un secolo rivoluzionario, in cui ogni fede era scossa e tutto posto in discussione»5. Non si può disco- noscere che nell’esperienza storica dei romantici si espri- ma un morboso timore del presente e un tentativo di evasione. Ma non ci fu mai psicosi piú feconda. Ad essa i romantici debbono la loro sottigliezza e chiaroveggen- za di fronte alla storia, la loro sensibilità nel cogliere le piú remote analogie, nel tentare le piú difficili inter- pretazioni. Senza questa iperestesia, il romanticismo non sarebbe riuscito a stabilire i grandi nessi nella sto- ria dello spirito, a definire la civiltà moderna di fronte all’antica, a riconoscere nel cristianesimo la gran cesura della storia occidentale e a scoprire il comune carattere

«romantico» delle civiltà derivate dal cristianesimo, individualistiche, riflesse, piene di problemi.

Senza la coscienza del proprio tempo cosí viva nei romantici, senza il continuo problema del presente che domina il loro pensiero, tutto lo storicismo dell’Otto- cento sarebbe inconcepibile, e con esso una delle piú profonde rivoluzioni nella storia dello spirito. Fino all’età romantica, nonostante Eraclito e i sofisti, il nomi- nalismo scolastico e il naturalismo rinascimentale, il dinamismo dell’economia capitalistica e i progressi della critica storica nel Settecento, l’Occidente ebbe del

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mondo un’immagine sostanzialmente statica, parmeni- dea, astorica. I fattori determinanti della civiltà umana, i principî razionali dell’ordinamento naturale e sopran- naturale, le leggi morali e logiche, l’idea della verità e del diritto, il destino dell’uomo e il fine delle istituzio- ni sociali furono, in fondo, concepiti come qualcosa di essenzialmente chiaro e immutabile nel suo significato, eterne entelechie, o idee innate. Rispetto alla stabilità di questi principî, ogni mutamento, ogni sviluppo e diffe- renziazione apparivano irrilevanti ed effimeri; tutto quel che si svolgeva nei tempi storici pareva non toccare che la superficie delle cose. Solo a partire dalla Rivoluzione e dall’età romantica si cominciò a sentire la natura del- l’uomo e della società come essenzialmente dinamica e in continua evoluzione. La concezione che noi e la nostra civiltà siamo coinvolti in un eterno fluire e in una lotta senza fine, il pensiero che la nostra vita spirituale ha il carattere transitorio di un processo, è una scoper- ta del romanticismo e ne costituisce il piú valido con- tributo al pensiero del nostro tempo.

È noto che il «senso storico» già nell’età preroman- tica non solo era vivo e vigile, ma agiva come una forza motrice dell’evoluzione. E l’illuminismo, che produsse storici quali Montesquieu, Hume, Gibbon, Vico, Winckelmann e Herder, non solo oppose alla rivelazio- ne l’origine storica dei valori civili, ma anche presenti la relatività di questi stessi valori. Era certo un pensie- ro corrente per l’estetica del tempo che ci fossero piú tipi equivalenti di bellezza e che il concetto stesso di bellezza fosse variabile come variabili erano gli aspetti della vita, insomma che fosse vero che «un dio cinese ha il ventre grosso come quello di un mandarino»6. Tuttavia la con- cezione storica dell’illuminismo rimane legata all’idea base che nella storia si dispieghi una ragione sempre identica a se stessa, in un processo che tende a una meta sicura, discernibile fin dagli inizi. Il Settecento dunque

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