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La funzione di riparto è nella natura dell’istituto

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Academic year: 2021

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3.1. La tesi dell’indisponibilità ontologica del credito tributario

In base ad una prima impostazione, l’indisponibilità di cui parliamo trova la sua matrice ed insieme la sua giustificazione nella natura pubblicistica dell’obbligazione tributaria che, essendo funzionale alla realizzazione di un interesse generale – la corretta e perequata ripartizione delle spese collettive tra i consociati – deve ritenersi per ciò stesso sottratta al potere dispositivo del soggetto attivo del rapporto61.

Questa ricostruzione, elaborata da Falsitta62, muove dall’assunto che l’imposta è un’obbligazione di riparto, in quanto tramite essa si suddivide il carico delle

61Con evidente parallelismo a quanto si verifica per tutte quelle situazioni, estranee all’ambito tributario, nelle quali è preminente un interesse di carattere generale e che per tale ragione sono indisponibili da parte dei titolari.

62 FALSITTA, G., I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in Il fisco n. 6/2003, 798 ss.; Id., Funzione vincolata di riscossione dell’imposta, cit., 1047 ss., e da ultimo, significativamente, in Natura e funzione dell’imposta con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, cit., 65 ss., ove si precisa che: “L’indisponibilità può derivare dalla legge o da contratto o, infine, dalla natura del diritto. Di questo terzo tipo è la indisponibilità del credito di imposta.

Nel caso di indisponibilità per natura il diritto che di volta in volta viene in considerazione violenterebbe la propria essenza e frustrerebbe la sua funzione esistenziale se gli si volesse attribuire connotazioni dispositive. La indisponibilità scaturisce perciò dai limiti impliciti nel credito di imposta, il quale metterebbe capo ad un istituto anfibologico se potesse infrangere detti limiti e veicolare poteri dispositivi, ossia poteri in grado di introdurre variazioni ai criteri di riparto codificati nella legge di imposta e dei quali il debito d’imposta imputato al singolo soggetto passivo è applicazione. La funzione di riparto è nella natura dell’istituto. È, pure, nella sua natura che il riparto al quale è preposto sia conforme a legge.

Perciò è nel sistema stesso del diritto tributario la necessità di negare la esistenza di una fonte normativa (il potere dispositivo) in grado di integrare, come che si voglia, il regolamento legislativo del riparto rispetto al singolo caso.

Si tratta dunque di un diritto indisponibile in sé, nella sua consistenza funzionale, di un diritto che nasce inglobando la limitazione intrinseca della essenza dei poteri dispositivi normalmente presenti all’interno di ogni diritto soggettivo. Codesta connotazione consustanziale ed oggettivamente rilevabile trova la sua giustificazione, la sua incancellabile ragion d’essere nella inevitabile lesione degli interessi altrui (degli interessi, si badi bene, di tutti gli altri membri della platea contributiva dei soggetti passivi della

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spese pubbliche tra i membri della comunità organizzata63. Da qui il diritto di questi ultimi di pretendere che ogni soggetto paghi la sua quota di tributo

stessa imposta) che il concreto esercizio del potere dispositivo (con rinunzie, transazioni, rimessioni) causerebbe. Tale esercizio non farebbe che alterare, rispetto a singoli membri della platea contributiva, ad iniziativa demandata ad organi della Amministrazione finanziaria, i criteri di riparto legislativamente stabiliti con efficacia erga omnes, verso tutti e verso ciascuno, sostituendo ad essi altri e diversi criteri, creati dall’Amministrazione di volta in volta e violando, con ciò stesso, il principio fondamentale di giustizia che è la uguaglianza”.

63Come sottolinea ancora FALSITTA, G., Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, 91, “Dal punto di vista strutturale l’imposta è, per lo più, una obbligazione, né più né meno. Sarà una obbligazione con qualche carattere specifico, ma pur sempre una obbligazione (...). Dal punto di vista strutturale il credito dello stato nascente da un contratto di compravendita non è diverso dal credito nascente da un atto di imposizione tributaria.

Il discorso cambia se dal profilo strutturale si passa a quello funzionale.

È la funzione che spiega la differenza tra credito di imposta e altri crediti dello stato.

La legge di imposta è un atto con funzione di riparto. Essa non procede, perciò, alla creazione di una miriade di rapporti atomisticamente intesi quasi fossero chicchi di una grandinata ma è funzionalizzata alla nascita di una miriade coordinata di rapporti che vengono a formare quasi le tessere di un unitario e complessivo mosaico mediante il quale si dà luogo alla ripartizione “razionale” tra migliaia (o talora tra milioni) di soggetti di un dato ammontare del carico complessivo da distribuire. La ripartizione non avviene a casaccio, né può essere frutto dell’arbitrio. Quale dunque, la funzione tipica di ciascuno della miriade di rapporti di obbligazione mediante i quali si attua l’applicazione di una data imposta non rispetto ad un singolo ma ad una platea, non di rado sterminata, di soggetti passivi?

La concezione meramente strutturalista della obbligazione d’imposta, oggi in voga, non aiuta a rispondere al quesito che precede. La risposta è agevole se non ci si limita all’analisi strutturale e si affianca ad essa quella funzionale. E la risposta è del seguente tenore: la miriade di rapporti non atomisticamente intesi e non concepibili come isolate monadi, attuano la funzione di giustizia nella ripartizione di un certo ammontare di spesa pubblica componendo e regolando con perequazione il potenziale conflitto di interessi tra la platea dei soggetti passivi e l’ente pubblico.

È qui che emerge e prende corpo il principio di indisponibilità in varie accezioni. Esso significa, in primo luogo, obbligo degli organi della legislazione di scegliere, per il riparto, indici espressivi di forza contributiva dei soggetti colpiti; ed altresì obbligo di strutturare gli indici in modo da rispettare la perequazione o parità di trattamento nel riparto.

A questo obbligo del legislatore corrisponde il diritto pubblico soggettivo di ciascun consociato al giusto riparto ossia a pagare imposte create da leggi giuste, per tali dovendosi intendere quelle che hanno rispettato i parametri degli artt. 2, 3, 53 Cost.

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poiché, se ciò non accadesse, la quota di colui che non paga verrebbe a gravare sugli altri consociati, violando in tal modo proprio il criterio di riparto sotteso a ciascuna legge di imposta64.

Ne discende che, oltre al rapporto di debito/credito tra il singolo contribuente e il Fisco, e parallelamente ad esso, è ravvisabile un rapporto tra contribuenti che si risolve nella pretesa di ciascuno ad un’equa ripartizione del carico fiscale65 e a non subire un concorso alla spesa pubblica superiore alla propria capacità contributiva, comparativamente a quella di tutti gli altri soggetti che debbono parteciparvi, senza aggravi dovuti all’altrui sottrazione a quel fondamentale dovere di solidarietà che è il dovere tributario66.

Ogni violazione di codesti parametri può dar luogo a reazioni giuridicamente giustificate dei soggetti passivi d’imposta”.

64Cfr. sul punto, in special modo, FALSITTA, G., Natura e funzione dell’imposta con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, cit. 57, 61, 65 e ss., il quale definisce la legislazione tributaria come “una fitta trama di criteri di riparto” e l’imposta come “un credito di ripartizione mediante il quale si distribuisce tra una moltitudine un carico comune”. Pertanto, muovendo dalla constatazione che ogni imposta rappresenta uno strumento di riparto l’Autore giunge alla conclusione che “in ogni legge di diritto tributario sostanziale, accanto alla determinazione dei soggetti passivi della contribuzione (…) dovrà sempre ritrovarsi la determinazione dei relativi indici di riparto: cioè dei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la determinazione della quota di contribuzione facente carico a ciascun singolo e alla quale corrisponde il debito individuale di imposta. Fatti e situazioni dunque che non tanto tendono a risolvere il conflitto di interesse esterno fra ente pubblico e contribuente, quanto il conflitto interno fra contribuente e contribuenti, determinando appunto il rapporto relativo di partecipazione individuale alla comune contribuzione”.

65Ciò in quanto, oltre a costituire il fondamento del debito di imposta individuale di ciascun soggetto passivo, la legge di imposta fa sorgere un diritto soggettivo di ogni singolo partecipante al riparto nei confronti di ciascuno degli altri membri della platea contributiva.

In termini invertiti, precisa BERLIRI, L.V., op. cit., 341, situazione analoga si verifica per la distribuzione dei dividendi in una società per azioni dove la facoltà degli organi amministrativi della società di determinare l’utile da distribuire non esclude affatto ma anzi resta distinto e non si confonde con l’obbligo di osservare la più perfetta e rigorosa giustizia distributiva nel riparto del dividendo fra i singoli soci al di fuori di qualunque criterio discrezionale.

66 Così FALSITTA, G., Obbligazione tributaria, cit., 3839, Id., Natura e funzione dell’imposta, cit., 61, ove si osserva che “per ciascun contribuente non è irrilevante che gli altri cointeressati paghino o non paghino la loro quota. Né è indifferente che il riparto sia corretto o scorretto. Tale non indifferenza discende dalla constatazione che l’errato riparto

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La tesi descritta privilegia l’angolo visuale dei rapporti tra i contribuenti, secondo un’ottica che potremmo definire “orizzontale”67, implicando il dovere, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di assicurare che il prelievo fiscale avvenga sempre in misura conforme all’idoneità contributiva manifestata da ciascun soggetto passivo e determinata secondo i criteri inderogabilmente enunciati dalla specifica legge di imposta.

Qualsiasi vicenda suscettibile di alterare il processo di perequata distribuzione degli oneri pubblici codificato dal legislatore, come l’inadempienza del singolo contribuente o l’abbuono dell’imposta da questi dovuta da parte del Fisco, frustra la funzione stessa dell’obbligazione tributaria rendendo doverosa, in un caso, l’azione di recupero dell’imposta non assolta dal debitore inadempiente, nell’altro, l’astensione dell’Amministrazione avvantaggia taluni membri della comunità “contributiva” ma nel contempo ridonda a danno di altri.

Questo profilo è assai evidente se ci riferiamo a una situazione di comune esperienza, quella della proprietà condominiale. Se uno dei condomini paga meno del dovuto o non paga affatto, rimanendo inalterato l’ammontare delle spese condominiali, l’inadempienza si ripercuote a danno degli altri condomini. Perciò ogni forma di “generosità” o “rinunzia”

verso il cattivo condomino si converte in bastonatura patrimoniale dei restanti condomini.

Questo effetto è più facilmente visibile nelle organizzazioni piccole (per esempio, nel Comune, consorzio o condominio). Ciò non toglie che non scompaia affatto in quel più grande condominio che è lo Stato o la regione o la città metropolitana”. Del resto, prosegue l’A., “se deve essere affrontata una spesa nell’interesse comune di una moltitudine la spesa stessa deve essere distribuita tra tutti i beneficiari, in proporzione dell’interesse di ciascuno.

Chi si sottrae alla ripartizione, in tutto o in parte, lede gli interessi dei restanti che non possono o non vogliono farlo. In altri termini, si appropria del beneficio della spesa comune senza pagarne il relativo costo, che resta interamente addossato a chi rispetta la legge di riparto”. Contra, STEVANATO, D., Determinazione della ricchezza, “obbligazione di riparto” e ricchezza non registrata, in Dial. trib., 2013, n. 1, 7 ss., part. 13 ss., ove, pur ammettendosi l’esistenza di un interesse di fatto di ciascun consociato ad un elevato livello di diffusa fedeltà fiscale, si afferma che il minor gettito del tributo rispetto alle attese potrebbe dar luogo a diverse reazioni, non necessariamente implicanti una ripartizione delle

“quote inevase” sui contribuenti adempienti, in senso critico, v. anche CROVATO, F. – LUPI, R., Indisponibilità del credito tributario, contabilità pubblica e giustizia tributaria, in Dial. dir. trib., 2007, n. 6, 853 ss.).

67Rispetto alla ben più indagata relazione “verticale” che intercorre tra ogni singolo debitore di imposta e il Fisco.

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finanziaria dal compimento di atti comportanti la rinuncia, anche solo parziale, a pretese impositive legittime in quanto fondate sulla corretta applicazione dei criteri di riparto predeterminati in via normativa68.

Essendo l’indisponibilità del credito tributario diretta conseguenza della natura e funzione dell’imposta, non occorre attendere la Costituzione del 1948 per vedere riconosciuto ed affermato tale principio69. Riconoscimento che però, dopo tutto, sarebbe avvenuto ad opera dell’Assemblea Costituente.

Le norme della Costituzione che Falsitta individua a presidio del tributo come obbligazione di riparto di carichi pubblici – inderogabile ed irrinunciabile da parte del legislatore prima e dell’ente impositore poi – sono l’art. 53 e le disposizioni che a questo sono collegate, ossia gli artt. 2 e 3.

3.1.1. Critiche a questa impostazione. L’indisponibilità come attributo della (sola) potestà di imposizione.

La teoria dianzi esposta, per quanto apparentemente lineare e suggestiva, soffre di alcuni limiti intrinseci che altra autorevole dottrina non ha mancato di evidenziare.

68Cfr. FALSITTA, G., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 58, il quale, dopo aver ribadito che “L’evasione altera la misura della quota di riparto individualmente attribuibile a ciascun soggetto passivo d’imposta ledendo l’interesse individuale degli altri contribuenti a che la spesa comune da ripartire sia perequativamente distribuita a carico di tutti e di ciascuno secondo i criteri fissati, per tutti e per ciascuno, dalla legge racchiudente la disciplina sostanziale di ogni imposta”, afferma che “lo stesso effetto di iniquo riparto produce l’attribuzione di poteri dispositivi e/o discrezionali all’Amministrazione finanziaria”.

69Questo spiega perché la Corte di Cassazione, in ogni tempo, e quindi ben prima del 1948, abbia affermato senza esitazioni e tentennamenti il principio della indisponibilità dell’imposta (cfr. sentenza Cass, sez. un., 15 maggio 1939, n. 1661, pubblicata in Foro it., 1939, I, 1538 ss., con nota di INGROSSO, G., Sul contenuto giuridico del concordato tributario, ivi, 1539).

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Innanzitutto, come è stato efficacemente sostenuto70, è da escludere che possa ragionevolmente affermarsi un’indisponibilità ontologica del credito tributario in virtù della sua natura pubblicistica.

Occorre infatti aver ben chiara la distinzione tra il potere (o la potestà) impositivo(a) nella sua astratta dimensione normativa e quale espressione di una funzione pubblica essenziale71, e il singolo e specifico credito sorto nel concreto rapporto obbligatorio d’imposta.

Invero, mentre è fuor di dubbio che il potere impositivo sia da qualificarsi come indisponibile72 (e, in particolare, irrinunciabile) alla luce del principio di legalità – il quale, se da un lato comporta che la Pubblica Amministrazione possa esercitare solo i poteri ad essa espressamente attribuiti dal legislatore, dall’altro esclude che la medesima possa rinunciare ai (o trasferire i) poteri di cui sia titolare, per essere questi finalizzati all’espletamento delle funzioni rientranti nei compiti istituzionali dell’ente – discorso totalmente diverso deve farsi con riguardo allo specifico rapporto obbligatorio d’imposta nella sua consistenza di rapporto di debito-credito.

70RUSSO, P., Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, cit., 595 ss. La tesi dell’Autore è stata fatta propria da Cass., sentenza 6 ottobre 2001, n. 12314, con nota di BASILAVECCHIA, M., La conciliazione giudiziale può essere fuori udienza ma deve restare interna al processo, in Corr. trib., 11/2002, 983. Anche successivi interventi giurisprudenziali hanno confermato tale impostazione (cfr. Cass., 3 ottobre 2006, n. 21325).

71 La funzione (o potestà) amministrativa di imposizione assume centralità nella ricostruzione del fenomeno tributario offerta da quella parte della dottrina che contrappone (e antepone) tale concetto al rapporto obbligatorio d’imposta (in particolare, FANTOZZI, A., Il diritto tributario, cit., 247, 274 ss.). In simile contesto, la funzione impositiva viene in rilievo come potestà amministrativa diretta alla determinazione del presupposto – sotto il duplice profilo qualitativo e quantitativo – ed alla conseguente applicazione del giusto tributo. D’altronde l’attività di accertamento si estende, proprio per ciò, al controllo dei diversi comportamenti imposti dalla legge al contribuente e finalizzati alla corretta applicazione del tributo (FANTOZZI, A., Diritto tributario, cit., 402). Tale funzione pubblicistica risulta perciò estranea all’obbligazione tributaria, che si inserisce piuttosto nella fase della riscossione, derivando da atti e situazioni che si collocano temporalmente anche in posizione anticipata ovvero successiva al verificarsi della fattispecie imponibile.

72Al pari, peraltro, di tutti i poteri o potestà di cui sia titolare la Pubblica Amministrazione.

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Di conseguenza, se per un verso dovrebbe ritenersi invalido e inefficace l’atto con cui l’Amministrazione finanziaria rinunciasse ex ante ad applicare un tributo il cui presupposto si verificasse (o fosse accertabile) in futuro, ovvero accordasse esenzioni non previste dalla legge73, a ben altre conclusioni deve giungersi allorché la stessa Amministrazione ponga in essere atti dispositivi del credito tributario, sub specie di rinuncia ad una sua parte, una volta che questo sia concretamente sorto a seguito del realizzarsi dell’astratta fattispecie impositiva74.

Ciò in quanto detto credito, avendo ad oggetto nient’altro che l’apprensione di una somma di denaro, è solo un mezzo preordinato al fine di rendere possibile l’assolvimento dei compiti istituzionali da parte degli enti pubblici.

Muovendo da tale premessa, non è dato scorgere ontologiche ragioni di principio contro l’ammissibilità di accordi latu sensu transattivi tra contribuenti e Fisco, ove anzi può risultare conveniente per l’Amministrazione finanziaria – e quindi, di riflesso, per la Stato-comunità – definire una lite già sorta o prevenirne una che può sorgere, facendo qualche ragionevole

73Cfr. Cass., 30 maggio 2002, n. 7945 (in Il fisco n. 26/2002, fascicolo 1, 4235), ove si è dichiarata la nullità della clausola con cui un’Amministrazione comunale aveva concesso per via contrattuale un’esenzione dalla Tarsu.

74Infatti, è la potestà di imposizione ad essere indisponibile poiché attiene all’esercizio della sovranità e perché è dichiarata tale dalla legge, come si evince dagli artt. 8 e 13 delle vecchie leggi di successione e di registro, e soprattutto dall’art. 49 del D.Lgs. 28 maggio 1924, n. 827 sulla contabilità di Stato. Ciò rappresenta un corollario del principio di legalità (art. 23 Cost.); come già accennato, una volta che la legge pone le norme materiali che disciplinano l’obbligazione di imposta, l’individuazione amministrativa della norma generale ed astratta avviene, in presenza dei presupposti predeterminati dalla legge, senza esercizio di discrezionalità (TESAURO, F., Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 1998, 131). In altri termini, l’indisponibilità esprime la garanzia che il tributo sia attuato in conseguenza della capacità contributiva manifestata dal presupposto. La scelta dell’Ufficio non è discrezionale nel senso di ponderazione dell’interesse pubblico collegato all’esercizio della funzione con gli altri interessi in gioco, ma è solo una scelta finalizzata alla migliore determinazione del presupposto. Il principio assicura, quindi, la giustizia nell’imposizione (FANTOZZI, A., Atti del convegno: Adesione, conciliazione ed autotutela:

disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria? svoltosi a Venezia il 25 gennaio 2002 (sintesi consultabile in www.fondazionelucapacioli.it).

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concessione alla parte privata in cambio della desistenza totale o parziale di questa dalle sue pretese75.

Il tutto, naturalmente, presupponendo che sussista un interesse effettivo e riconoscibile dell’Erario alla composizione consensuale della lite a fronte, da un lato, del fondato rischio che la controversia, se portata davanti all’autorità giurisdizionale, si risolva a suo sfavore, dall’altro, della prospettiva di rendere quanto prima certo e stabile il prelievo, seppur al prezzo di rinunciare ad una parte del tributo controverso di cui la stessa Amministrazione riconosca obiettivamente dubbia la debenza76.

3.1.2. L’insopprimibile matrice valutativa dell’accertamento tributario.

Collegato alle considerazioni appena svolte si coglie un altro aspetto problematico della tesi che fa discendere l’indisponibilità del credito tributario dalla funzione pubblicistica di riparto assegnata all’imposta: tale impostazione implica, infatti, che la reale consistenza degli indici di forza economica assunti a presupposto di qualsivoglia tributo sia nota a priori o comunque determinabile in modo certo ed univoco con riguardo a ciascuno dei soggetti chiamati a concorrere al sostenimento delle spese pubbliche77.

75Come osserva RUSSO, P., ult. op. cit., richiamando le parole utilizzate da MIELE, G., La transazione nei rapporti amministrativi, in Scritti giuridici, Milano, 1987, II, 512 ss., “nel ragionamento di chi esclude ogni possibilità di disposizione del credito tributario sol perché quest’ultimo pertiene ad un rapporto di diritto pubblico v’è un’eccessiva generalizzazione la quale, se accolta, condurrebbe a negare ogni margine di disponibilità per l’Amministrazione perfino nell’ambito dei suoi rapporti iure privatorum, non potendosi certo negare che anche rispetto a questi l’Amministrazione sia tenuta a procedere in modo conforme al diritto”.

Sul tema, più generale, della possibilità di accordi tra Pubblica Amministrazione e privati, si rinvia a GIANNINI, M.S., Diritto amministrativo, II, cit., 149 ss., nonché 343 ss.

76Trattasi comunque di accordi che intervengono sulla definizione dell’an e del quantum debeatur, e quindi in una fase logicamente anteriore alla disposizione del credito tributario già accertato in via definitiva.

77Cfr., LUPI, R., Manuale professionale di diritto tributario, Ipsoa, Milano, 2011, 357-358, secondo il quale “La posizione del contribuente viene forzata in quella, amministrativistica,

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Del resto, la concezione stessa delle leggi di imposta come corpi normativi funzionali alla ripartizione del carico fiscale tra i condebitori del medesimo tributo78 postula la fissazione, in primis, del gettito complessivo che l’ente impositore intende conseguire dall’applicazione di quel dato tributo, in secondo luogo, della quota “millesimale”79 di gettito che dovrà provenire da ciascun soggetto passivo; operazione quest’ultima che richiede, a sua volta, la conoscenza esatta e puntuale della capacità economica riferibile al singolo contribuente – declinata ovviamente nella specifica manifestazione colpita dal tributo (reddito, patrimonio, consumi, ecc.) – comparativamente a quella di tutti gli altri componenti della platea contributiva.

Sennonché è di immediata percezione che un siffatto auspicio sia ben difficile da realizzare. Le ragioni sono molteplici e vanno ricercate, in primo luogo, dell’“interesse oppositivo”, anziché pretensivo, come quello di qualsiasi altro debitore che rivendica un diritto soggettivo a non pagare più di quanto sia dovuto in base alla corretta interpretazione della legge e valutazione dei fatti. Questo atteggiamento mette in secondo piano tutta la valutatività della determinazione della ricchezza e sembra presupporre che esista, prima dell’intervento dell’amministrazione fiscale, un debito predeterminato dalla legge che sarebbe facile da scoprire; si trasporta così sul piano della ricchezza “non rilevata”

lo stesso schematismo esistente nella determinazione “contabile” delle imposte attraverso le aziende. È intuitivo che questo atteggiamento non serve a far coesistere nel modo migliore le varie forme di individuazione della ricchezza, cioè quella a cura delle aziende e quella dove le aziende non ci sono, o vengono scavalcate dai loro proprietari.

Questa idea di “preesistenza” di un debito all’intervento dell’amministrazione rende molto più difficile contrastarne le determinazioni e pretendere una valutazione oggettiva, imparziale e ragionevole dei principali elementi indiziari di ricchezza; invece, l’idea di un debito preesistente, di un diritto soggettivo a non pagare più del dovuto, mettendo in secondo piano tutte le incertezze connesse alla determinazione di questo “dovuto”, mette in difficoltà anche il contribuente, almeno quello che ha interesse ad una corretta e disinteressata determinazione della ricchezza da parte del fisco”.

78L’espressione è utilizzata nell’accezione di insieme dei soggetti tenuti per legge al pagamento della medesima imposta (IRPEF, IRES, IRAP, IVA, ecc.), qui configurata come una un’unica, grande contribuzione collettiva che viene scomposta in quote individuali sulla base di un indice di forza economica, senza alcun riferimento, quindi, alle fattispecie di responsabilità solidale, riconducibili allo schema delineato dagli articoli 1292 e seguenti c.c., che pure connotano la materia tributaria.

79La scelta del termine è volutamente evocativa della metafora “condominiale” citata da Falsitta, per la quale si rimanda alla nota n. 58.

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nelle carenze informative che tutt’oggi limitano l’attività conoscitiva degli organi preposti al controllo del corretto adempimento degli obblighi tributari in funzione di contrasto dell’evasione fiscale (principalmente Agenzia delle entrate e Guardia di finanza)80.

Per quanto negli ultimi decenni siano stati compiuti enormi passi avanti nell’irrobustimento delle banche dati a disposizione delle autorità fiscali81, permangono forti criticità nell’intercettazione di quei fatti economici che, non essendo “filtrati” da organizzazioni spersonalizzate82 e dotate di procedure

80Come osserva LUPI, R., op. ult.,cit, 368, “la determinazione delle imposte, da parte del fisco, avviene sempre con informazioni limitate”. Del resto, di fronte alla mole immensa di operazioni e fatti economici che interessano i milioni di soggetti coinvolti nella c.d.

“fiscalità di massa”, è impensabile immaginare che l’Amministrazione finanziaria abbia accesso a tutti gli elementi conoscitivi necessari per individuare ogni singola situazione rivelatrice di idoneità contributiva e ricostruire “al centesimo”, con precisione ragionieristica, la corrispondente base imponibile (ai fini delle imposte sui redditi, dell’Iva, dell’Irap e via enumerando), onde verificare la fedeltà delle dichiarazioni fiscali presentate da ciascun contribuente. È qui che entra in gioco l’intuitiva differenza tra ricchezza

“realmente esistente”, ricchezza “visibile” e ricchezza “tassabile” cui accenna anche BEGHIN M., Diritto tributario, III, Cedam, Padova, 2017, 4.

81Il riferimento è chiaramente all’Anagrafe tributaria la cui istituzione si deve al d.p.r. 29 settembre 1973, n. 605, recante appunto “Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti”.

82 Il ruolo fondamentale rivestito dalle organizzazioni pluripersonali, sia private che pubbliche, nei moderni sistemi fiscali è il filo conduttore di molte opere di LUPI, R., tra cui Manuale professionale di diritto tributario, cit., che non a caso ha come sottotitolo “La tassazione attraverso le aziende tra diritto ed economia”. Qui il concetto di “azienda” è impiegato in modo volutamente atecnico, non di “azienda” in senso materiale, quale complesso di beni coordinati dal titolare per l’esercizio di un’impresa (art. 2555 c.c.), bensì in senso personale, quale gruppo sociale organizzato dotato di una particolare rigidità amministrativa, in grado di intercettare con sufficiente affidabilità la ricchezza che entra ed esce dal suo circuito economico. Sottolinea l’Autore, op. cit., 221-222, che anche le istituzioni amministrative rientrano in questa accezione allargata di “azienda”, trattandosi a loro volta di gruppi sociali caratterizzati da ripartizione di compiti, gerarchie funzionali, proceduralizzazione, serialità, adempimenti ripetitivi, parcellizzazione del lavoro, esigenze di immagine istituzionale, comodità operativa, condivisione delle decisioni impegnative, e tante altre situazioni tipiche di ambienti in varia misura “spersonalizzati”.

L’intervento delle “aziende” (nel senso appena chiarito) nella gestione della fiscalità consente allo Stato di incamerare la maggior parte del gettito tramite l’applicazione delle ritenute alla fonte e dell’Iva. Ciò è possibile, innanzitutto, grazie al fatto che le aziende,

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amministrative sufficientemente rigide83, sfuggono alle forme di segnalazione tipiche della cosiddetta “tassazione attraverso le aziende”84.

ponendosi come naturale crocevia di molteplici flussi di ricchezza, da un lato acquisiscono consumi dal mercato attraverso la cessione dei beni o la prestazione dei servizi che formano oggetto della loro attività, dall’altro erogano redditi a quanti apportano i fattori produttivi, distribuendo il proprio valore aggiunto tra dipendenti, fornitori, finanziatori e soci.

Come fa notare LUPI, R., op. ult. cit., 61-62, “a mano a mano che aumenta il numero dei collaboratori, esterni ed interni, l’azienda diventa sempre più un gruppo sociale diverso dal titolare e, in una certa misura, autonomo”. Con la crescita delle dimensioni aziendali, “il titolare ha bisogno di personale da impiegare nel settore produttivo, commerciale e, da ultimo, nella gestione amministrativa. Infatti, arriva un punto in cui egli non può più fare tutto da solo: incassare i crediti, pagare i debiti, controllare se i dipendenti lavorano, gestire le giacenze di merci in magazzino, i rapporti con le banche, ecc.”. Insomma, l’aumento della complessità delle funzioni aziendali fa perdere peso specifico al titolare (o ai titolari) al cospetto di un’organizzazione che tende invece ad assumere una struttura gerarchica e ad adottare una ripartizione dei compiti sempre più marcata.

All’espansione dell’azienda come gruppo sociale “spersonalizzato” corrisponde una sempre maggiore rigidità e standardizzazione delle procedure amministrativo-contabili, indispensabile per gestire la crescente complessità dei rapporti, sia tra gli addetti interni che svolgono funzioni diverse, sia tra l’organizzazione e i terzi con cui entra in contatto (clienti, fornitori, istituti di credito, ecc.).

Come infatti rilevato dall’Autore, pp. 74-76, la funzione aziendale più direttamente incaricata della tassazione è quella amministrativa, che ha vari compiti, il più elementare dei quali è conservare la documentazione dei rapporti giuridici coi terzi (ciò in vista di potenziali conflitti con le controparti esterne, clienti e fornitori, o per esigenze interne di rendicontazione dell’operato dei dipendenti nel rapporto col titolare); con la crescita dimensionale, la funzione amministrativa comporta rigidità che sono i punti di forza del fisco nella tassazione attraverso le aziende. Punti di forza che il fisco può utilizzare quando ci sono, ma non può creare artificialmente dove mancano. Peraltro, anche quando le suddette rigidità amministrative sussistono, il fisco non è dispensato dal compiere valutazioni e ragionamenti per ordine di grandezza al fine di formulare un giudizio di verosimiglianza delle registrazioni contabili.

83 Le informazioni fiscalmente rilevanti desumibili dai documenti che alimentano la contabilità aziendale sono tanto più affidabili quanto maggiore è il numero delle persone che lavorano in gruppo, con ripartizione di compiti, controllo e coordinamento reciproco.

All’interno di queste organizzazioni è più difficile “scavalcare” i sistemi di contabilizzazione in vista dell’occultamento di una parte della ricchezza prodotta. Si tratta, invero, di sistemi difficilmente malleabili perché funzionanti secondo procedure tendenzialmente ripetitive, standardizzate e consolidate. Possono crearsi, inoltre, rapporti di reciproca diffidenza tra gli addetti alla contabilità, ai quali si aggiunge, in molti casi, la totale carenza di interesse personale, da parte dei dipendenti, all’occultamento dei proventi.

In senso conforme, LUPI, R., op. ult. cit., 80, per il quale “gli addetti amministrativi non

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Rispetto a questa fetta considerevole del sistema produttivo, costituita perlopiù da lavoratori autonomi, imprenditori individuali e piccole società a prevalente conduzione familiare85, l’antidoto all’occultamento diffuso di hanno alcun motivo di nascondere ricchezza al fisco a beneficio dell’azienda (o, meglio, dei suoi titolari). Perché lo facciano serve una specifica pressione del titolare, che li sollevi dalle rispettive responsabilità interne ed esterne, ove il fisco scoprisse l’evasione e pretendesse sanzioni. In assenza di queste coperture, c’è una tendenza spontanea degli addetti amministrativi alla compliance”.

Nelle società anche la frammentazione degli assetti proprietari, favorendo il controllo reciproco dei soci, ostacola indirettamente la possibilità di occultare ricchezza al fisco (v. op.

cit., 83).

In tale contesto organizzativo, dove la rigidità delle procedure amministrative è un effetto naturale del “contrasto di interessi” tra gli addetti alle diverse funzioni aziendali e tra questi e i soggetti esterni, la ricchezza che transita attraverso le aziende viene intercettata, con sufficiente affidabilità, mediante i documenti e le scritture contabili, in funzione della determinazione dei tributi.

84Il riferimento è soprattutto alla figura del “sostituto di imposta”, soggetto che eroga somme costituenti reddito per i percettori, cui la legge impone di effettuare una ritenuta alla fonte, sovente seguita dall’indicazione al Fisco delle generalità del percettore medesimo e della ragione del pagamento.

Secondo LUPI, R., op. ult. cit., 95-96, “la tassazione alla fonte è una delle architravi della tassazione attraverso le aziende, soprattutto per l’obbligo di indicare le somme soggette a ritenuta nella dichiarazione dei sostituti d’imposta”. La ritenuta d’acconto, in particolare,

“colpisce proventi lordi oppure che non prevedono la deduzione di costi, come i redditi di lavoro dipendente. Questa funzione esattiva della ritenuta ha intralciato quella segnaletica, perché ha impedito l’applicazione delle ritenute ai redditi di impresa, anche se spettanti ad autonomi fiscalmente inaffidabili; la segnalazione al fisco, cioè una funzione essenziale delle ritenute di acconto, è stata quindi ostacolata dal timore di provocare eccessivi crediti di imposta sui redditi netti; la funzione esattiva della ritenuta ne ha quindi ostacolato la funzione “segnaletica al fisco”, quasi più importante”.

Analoga valenza segnaletica può essere attribuita ai cosiddetti “elenchi clienti e fornitori”, strumenti dal passato travagliato ma recentemente reintrodotti dal decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2017, che consistono nella comunicazione periodica all’Agenzia delle entrate dei dati concernenti le fatture e emesse e ricevute dai soggetti titolari di partita Iva, sia con riferimento alle transazioni intervenute con altri imprenditori o professionisti (business to business, B2B), sia con riguardo ai rapporti commerciali con consumatori finali (business to consumer, B2C) di importo unitario superiore ad una certa soglia.

85In relazione a tali categorie di operatori economici è quasi o del tutto assente l’alterità tra chi registra i documenti in contabilità e chi pone in essere le operazioni sottostanti. Si pensi all’artigiano o al libero professionista che effettua la prestazione d’opera e poi, personalmente o tramite il commercialista, emette la relativa fattura: davanti al commercialista o al centro contabile esterno non ci sono rigidità, perché non sono loro a

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materia imponibile non è rappresentato dall’imposizione, anche a tali soggetti, di una serie di obblighi formali e strumentali86 che rispondono ad esigenze esclusivamente fiscali87, quanto invece dal ricorso sistematico, da parte dei titolari della funzione istituzionale tributaria, a stime e valutazioni per ordine

maneggiare il denaro e a doverne renderne conto. Prima l’operatore economico maneggia il denaro direttamente e poi trasmette al commercialista o al centro contabile i dati da registrare nella contabilità fiscale. Per questo non basta la contabilità a creare la “buona”

burocrazia amministrativa, ma occorrono la spersonalizzazione e la ripetitività; se questi requisiti mancano, non li può certo creare una rigidità imposta fiscalmente ad organizzazioni composte da uno o pochi addetti, per loro natura flessibili (LUPI, R., op. ult.

cit., 79).

86Come osserva ancora LUPI, R., op. ult. cit., 84, “la tassazione aziendale funziona meglio quanto più le aziende sono strutturate e rigide. Quanto precede conferma la centralità dell’organizzazione aziendale rispetto ai singoli documenti, cioè fatture, ricevute, scontrini, libri contabili, bilanci, rendiconti, dichiarazioni fiscali, ecc. Sopravvalutare quest’aspetto documentale sarebbe cioè formalistico, astratto e controproducente. Perché tali “documenti”

non sono infatti un feticcio magicamente capace di creare le rigidità aziendali anche dove le aziende non ci sono, impedendo ai loro titolari di nascondere al fisco una fetta di ricchezza.

Nella confusione generale sulla tassazione attraverso le aziende c’è stato, evidentemente, un filone di pensiero secondo cui essa poggiava sul rigore formale dei documenti, un po’ come gli atti solenni notarili, anziché sulla rigidità delle procedure aziendali, la loro ripetitività, ed i possibili controlli di verosimiglianza sull’ordine di grandezza di quanto rilevato. Pigrizie mentali avvocatesche e ottusità contabili hanno invece fatto sopravvivere per anni la mistica della bollatura e vidimazione dei registri, l’estensione delle scritture contabili agli

“autonomi” e tanti altri adempimenti estranei alle necessità aziendali, quindi inutili (Cfr.

TREMONTI, G. – VITALETTI, G., Le cento tasse degli italiani, Il Mulino, Bologna, 1986, 71).

87Secondo LUPI, R., op. ult. cit., 100, “non ci si può illudere di trasformare legislativamente in “aziende fiscali” piccoli commercianti, artigiani, professionisti, e altri operatori economici per i quali l’azienda esiste solo sul piano materiale e non dal punto di vista umano, cioè come gruppo sociale caratterizzato dai conflitti di interesse descritti. È quindi assurda la promozione ope legis di tutti gli autonomi ad imprenditori obbligati alle scritture contabili, all’effettuazione di ritenute, all’applicazione dell’Iva. In tutto questo si è privilegiata la struttura giuridico formale, anziché la rigidità organizzativa. Si sono imposti quindi adempimenti amministrativi che presuppongono un’organizzazione ad aziende coincidenti col loro titolare, che deve ricorrere a un commercialista. Quest’ultimo però non è inserito nell’organizzazione, non crea rigidità interne, ma è una figura estranea cui il titolare semplicemente comunica la ricchezza che intende manifestare al fisco”.

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di grandezza88 del giro di affari e delle altre astrazioni economiche (reddito, patrimonio, valore aggiunto, ecc.) che assumono rilevanza ai fini tributari.

Ciò, a maggior ragione, quando i beni e i servizi che formano oggetto dell’attività di imprenditori e lavoratori autonomi sono destinati a consumatori finali89, i quali, in genere, non hanno interesse a pretendere il rilascio di un documento che attesti fedelmente la spesa sostenuta90.

Nelle situazioni appena descritte la contabilità, spesso, non costituisce un solido punto di partenza per la determinazione della ricchezza fiscalmente rilevante. Affinché questa ricchezza emerga diviene talvolta indispensabile un intervento estimativo dell’Amministrazione finanziaria91.

88Per LUPI, R., op. ult. cit., 140, “c’è un solo modo per costringere chi non è tassato a sufficienza dalle aziende, a pagare le imposte: andargliele a chiedere. Ma la concezione meccanicistica del diritto, la vincolatezza, l’indisponibilità del credito, ecc., impediscono di stimare, per ordine di grandezza come il fisco ha sempre fatto, questa ricchezza non dichiarata; ostacolano la necessità che il fisco si metta in gioco con stime e altri ragionamenti valutativi. Queste valutazioni comportano una assunzione di responsabilità, che gli equivoci formalistico-processuali indotti dall’accademia hanno drammatizzato, impedendo agli apparati pubblici di determinare la ricchezza dove le aziende non arrivano, o sono manipolate dai titolari.

Prende quindi piede la schizofrenia sociale, confermata dalla possibilità che le stesse persone, con riferimento a forme di ricchezza diverse – cioè raggiunte e non raggiunte dalla tassazione attraverso le aziende – adempiano o meno in modo diverso, a seconda di come percepiscono le probabilità di richiesta delle imposte”.

89In senso conforme, LUPI, R., op. ult. cit., 100-101: “Man mano che si rimpicciolisce l’organizzazione, diminuisce anche la visibilità agli occhi del fisco, diminuiscono i vincoli organizzativi, le rigidità strutturali e la tassazione attraverso le aziende funziona solo nella misura in cui è il cliente ad essere un’azienda, segnalando a sua volta il fornitore”. Quando gli “autonomi” – che sono privi di rigidità strutturali proprie – operano con consumatori finali, la determinazione tecnico-ragionieristica della ricchezza entra in crisi e deve lasciare spazio a stime di credibilità esteriore del dichiarato ed altri ragionamenti per ordine di grandezza tipici della tassazione “valutativa”, con il supporto, magari, degli indizi di matrice contabile comunque esistenti.

90Situazione che si riscontra frequentemente, vuoi perché l’acquisto non attribuisce al privato alcuna deduzione dal reddito o detrazione dall’imposta personale, vuoi perché il beneficio fiscale, per quanto astrattamente previsto dalla legge, cede il passo di fronte all’opportunità di spuntare un prezzo “in nero” ancora più vantaggioso.

91La determinazione contabile della ricchezza ai fini tributari è un’occasione da cogliere laddove se ne presentino spontaneamente le condizioni. In tutte le altre situazioni, in cui la

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Il controllo della posizione fiscale dei suddetti contribuenti – che, come detto, rappresentano la maggior parte del tessuto economico del Paese – dovrebbe pertanto avvenire sulla base delle caratteristiche esteriori dell’attività, senza tuttavia trascurare eventuali indizi di natura contabile e documentale92, il cui ricchezza fiscalmente rilevante non è filtrata da organizzazioni sufficientemente rigide e strutturate, al Fisco non resta che avvalersi della tradizionale determinazione valutativa fondata su stime per ordine di grandezza, naturalmente adattata ad un contesto di autoliquidazione dei principali tributi.

Per LUPI, R., op. ult. cit., 103, “la possibilità di una determinazione analitico-documentale senza contabilità – necessaria dove le rigidità aziendali non arrivano – costringe a fare i conti con la valutatività del diritto, perché impone di stimare la credibilità di quanto dichiarato in relazione alle caratteristiche esteriori dell’attività”. Ancora, p. 112, nessuna contabilità fiscale “può supplire alla valutazione degli uffici dove le aziende non arrivano, e alla pretesa di riproporre in sede di accertamento fiscale la stessa minuziosa analiticità che caratterizza l’amministrazione aziendale”.

92Del resto anche i lavoratori autonomi e le piccole attività imprenditoriali al consumo finale operano in un contesto documentale, perciò ai tradizionali indizi materiali ed esteriori su cui fondare il controllo della credibilità di quanto dichiarato dai contribuenti (le dimensioni e l’ubicazione dell’esercizio, i prezzi notoriamente praticati per ogni tipo di prestazione, la resa delle materie prime, ecc.), si affiancano indizi contabili e documentali quali appunti, ricevute, contratti, tracce finanziarie, liste di crediti e debiti, conservati per tenere memoria dei rapporti con le controparti (clienti, fornitori, banche, dipendenti, istituti previdenziali, ecc.).

Da elementi contabili di un calcolo ragionieristico, queste informazioni cambiano natura e si calano in un ragionamento presuntivo che contribuisce alla valutazione per ordine di grandezza di quanto è stato evaso.

Indizi contabili di incoerenza dei ricavi, registrati in misura troppo modesta, sussistono in primo luogo rispetto all’annotazione degli acquisti. Esiste infatti una tendenza, ispirata al desiderio di mantenere il controllo dell'attività, oltre che a dedurre i costi e a detrarre la relativa Iva a credito, ad una registrazione degli acquisti più completa di quella delle vendite.

Queste sproporzioni consentono, nei confronti dei commercianti al dettaglio, di presumere la possibile rivendita “in nero” delle merci; esaminando le merci esposte, in base al prezzo indicato al pubblico è possibile risalire attraverso la documentazione degli acquisti e tenendo conto delle rimanenze, al valore teorico delle vendite; il relativo procedimento passa attraverso il calcolo della “percentuale di ricarico” delle vendite sugli acquisti, applicata poi ai costi di acquisto registrati. È possibile così stimare un ordine di grandezza dei ricavi, da confrontare con quelli dichiarati; l’esigenza di precisione indurrebbe a tener conto dei diversi margini di ricarico per le varie merci, dei periodi di liquidazione, delle stagionalità, dei deperimenti, etc... Quando queste spiegazioni non sono credibili, una percentuale di ricarico bassa spinge a presumere la vendita in nero di parte delle merci acquistate “in bianco”.

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valore probatorio deve però essere valutato caso per caso a seconda del contesto organizzativo in cui tali elementi si sono formati93 e da cui dipende, in buona misura, il loro grado di affidabilità.

Quanto sopra rende evidente che la funzione amministrativa tributaria incontra difficoltà soprattutto nella determinazione della ricchezza non

Lo stesso ragionamento è adattabile alle imprese di servizi (albergatori, baristi, autoriparatori, parrucchieri, ecc.) trovando il peso di un singolo fattore produttivo rispetto alle prestazioni effettivamente rese (ad es. il consumo di farina per stimare la produzione di un panettiere, il consumo di elettricità per una lavanderia, ecc.). Sono insomma vari ragionamenti presuntivi, di plausibilità economica, che occorre coordinare nel caso concreto.

La collocazione della stima in un contesto contabile consente di utilizzare anche altri indizi documentali e finanziari come i canoni di locazione degli immobili, i consumi di energia risultanti dai fornitori di utenze, i versamenti bancari, gli incassi con carte di credito, le retribuzioni dei dipendenti, ecc.

93La documentazione contabile può costituire un valido supporto per la determinazione della ricchezza ai fini tributari solo quando essa è il prodotto dell’applicazione sistematica di procedure amministrative rigide e standardizzate, create per rispondere ad effettive esigenze gestionali di controllo. Al di fuori di questi casi, quando cioè le rilevazioni contabili assolvono unicamente ad una funzione fiscale, l’intero sistema documentale offre minori garanzie di affidabilità, rendendo quanto mai opportuno il ricorso del Fisco a verifiche di credibilità esteriore dei fatti registrati alla luce dei comuni parametri di normalità (id quod plerumque accidit) desumibili dal comportamento degli operatori economici del settore interessato.

Per contro, la stima esteriore della ricchezza relativa alle organizzazioni pluripersonali, anche composte da qualche decina di addetti, tende a diventare rapidamente difficile.

Occorre infatti riflettere sulla necessità di produrre un “valore aggiunto” a beneficio di tanti addetti, sulla presenza di un’organizzazione con un avviamento da salvaguardare, e di una divisione del lavoro che non coinvolge direttamente il titolare, come invece per il piccolo commercio e artigianato. Per questo la “credibilità esteriore” è compatibile, per le organizzazioni, con quote significative di ricchezza fiscalmente non registrata.

La valutazione di queste evasioni, nascoste all’interno di una documentazione complessa, deve necessariamente seguire gli indizi personalizzati presenti nella singola realtà organizzativa. L’evasione da “scavalcamento delle procedure aziendali”, perpetrata dai titolari, è difficilmente presumibile confrontando le dichiarazioni fiscali con le caratteristiche esteriori dell’attività; la scoperta di questa evasione presuppone infatti indagini personalizzate di coerenza interna all’organizzazione mediante l’analisi incrociata di dati e documenti alla ricerca di eventuali anomalie ed incongruenze di cui chiedere conto ai responsabili e dai quali desumere, se del caso, l’occultamento di materia imponibile a beneficio dei titolari o di chi può comunque controllarle.

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intercettata dalle organizzazioni su cui è esternalizzata gran parte della moderna tassazione94.

È comunque utopistico pensare che le rigidità amministrative della media o grande azienda consentano al Fisco di determinare contabilmente gli imponibili fiscali di tali operatori economici facendo del tutto a meno di valutazioni e ragionamenti presuntivi95.

D’altra parte, l’evasione delle imposte non è appannaggio esclusivo delle realtà produttive più elementari e flessibili, solamente che essa tende ad assumere forme più raffinate man mano che aumentano le dimensioni – e con esse la complessità – della struttura organizzativa96. Quando quest’ultima è ridotta ai minimi termini perché sostanzialmente coincidente con il titolare (che si avvale al massimo di qualche collaboratore e di pochi beni strumentali e che magari opera a stretto contatto con consumatori finali), l’evasione si risolve quasi sempre nell’omessa registrazione di una parte dei proventi incassati97, cui talvolta si accompagna, in maniera pressoché simmetrica, la

94Di fronte alla difficoltà di coordinare il contesto ragionieristico della tassazione attraverso le aziende con la stima per ordine di grandezza del volume di affari degli operatori per i quali un’azienda esiste solo in senso materiale (imprese di piccole dimensioni, professionisti), la risposta è stata cercata nelle scienza matematico-statistica per determinare l’ammontare presumibile dei ricavi o dei compensi conseguiti in base a talune caratteristiche della specifica attività svolta. Si pensi, a tale riguardo, agli studi di settore e alle altre predeterminazioni normative con cui si è tentato, a partire dagli anni ottanta, di standardizzare il processo di stima da parte degli Uffici finanziari limitando il ricorso a ricostruzioni indirette “personalizzate” (LUPI, R., op. ult. cit., 310).

95Anche nei confronti delle organizzazioni strutturate le eventuali “squadrature contabili”

possono essere corrette dall’Amministrazione finanziaria facendo ricorso a criteri presuntivo-valutativi sulla base del miglior apprezzamento delle prove disponibili.

96Cfr. BEGHIN, M., Diritto tributario, cit., 226 ss.

97L’esperienza insegna che, a fianco degli evasori “parziali”, i quali omettono di palesare al Fisco nella loro interezza i presupposti d’imposta realizzati, vi sono anche evasori “totali”, soggetti che evitano di instaurare il ben che minimo rapporto con l’Amministrazione finanziaria omettendo sistematicamente la presentazione delle dichiarazioni fiscali ed alimentando l’economia sommersa. Nei confronti di questi ultimi, l’accertamento fiscale può basarsi su dati e notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’Amministrazione,

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mancata contabilizzazione di un certo ammontare di operazioni passive (acquisti di beni o servizi inerenti all’attività)98.

Con il progressivo aumento delle dimensioni organizzative si assiste alla graduale perdita di immedesimazione tra l’azienda e i suoi titolari e all’affiorare di altre tendenze all’interno alla struttura che conferiscono maggiore rigore ed affidabilità all’impianto contabile nel suo complesso.

Anche le tecniche di evasione si evolvono, passando dal “rudimentale”

occultamento di corrispettivi a soluzioni più sofisticate che spaziano dall’inserimento in contabilità di costi fittizi99, documentati da fatture false emesse da soggetti compiacenti, alla rappresentazione, anche negoziale, di fatti od operazioni in base una qualificazione giuridica difforme da quella effettiva e più vantaggiosa sotto il profilo tributario, per arrivare alle elaborate

e persino su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza usualmente richiesti.

98 dal momento che molte caratteristiche dell’organizzazione aziendale sono visibili all’esterno, fisicamente o per mezzo di riscontri documentali (i collaboratori, i beni strumentali, i rapporti con clienti e fornitori, ecc.), i titolari avvertono la necessità di contabilizzare ricavi per un ammontare almeno sufficiente a coprire i costi “strutturali”, salvo sfruttare l’eventuale flessibilità aziendale residua per nascondere al fisco buona parte del profitto (cfr. LUPI, R., op. ult. cit., 81-82). L’effettuazione di acquisti “in nero” risponde proprio all’esigenza di contenere i costi “ufficiali” e, parallelamente, disporre di un più ampio margine di manovra per l’occultamento dei proventi al Fisco.

99Sul punto ancora LUPI, R., op. ult. cit., 85, 87-88: “l’evasione più classica è l’evasione da

“ricavi”, acquisiti dal titolare “a monte”, direttamente dai clienti e prima che le relative somme entrino nella contabilità aziendale: si tratta della forma di evasione tipica dei cc.dd.

“autonomi”, che diventa sempre più complessa man mano che i collaboratori aumentano e i compiti si parcellizzano, ovvero quando i clienti esigono una documentazione fedele delle proprie spese”.

“Quando la mancata registrazione di una parte dei ricavi diventa difficile subentrano i documenti attestanti costi fittizi, i quali lasciano tracce all’interno della contabilità ma sono più manipolabili dal titolare dell’azienda” (per approfondimenti sul tema della false fatturazioni, cfr. LUPI, R. – GARGIULO, G., Tracce finanziarie delle fatture fittizie e teoria della tassazione, in Dial. trib. n. 4/2010, 438).

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costruzioni proprie della pianificazione fiscale aggressiva, spesso proiettate in una dimensione internazionale100.

É quella che Lupi definisce “evasione da interpretazione”101, fenomeno che mette radici nelle scritture contabili e nella documentazione aziendale, ma non per questo esime l’Amministrazione finanziaria dal compito di svolgere una complessa analisi critica, anche se incentrata più su profili di diritto che non su questioni di fatto, come invece avviene per gli imprenditori e i professionisti privi di un significativo sostrato organizzativo.

Il ricorso a stime e presunzioni si rende vieppiù necessario allorché una contabilità non esiste o è del tutto inattendibile, e le frammentarie tracce documentali eventualmente disponibili non consentono di determinare sulla base di prove dirette la consistenza dei fatti economici da sottoporre a tassazione102.

100Per una panoramica completa delle più frequenti forme di evasione riscontrabili in relazione alle diverse tipologie di contribuenti, si veda BEGHIN, M., op. ult. cit., 207 ss.

101 In genere essa si riferisce alla scelta del regime giuridico relativo alla ricchezza fiscalmente registrata, ma con un inquadramento normativo diverso da quello ritenuto corretto dagli uffici tributari. In alcuni casi l’inquadramento normativo, cioè l’interpretazione adottata dal contribuente, può anche comportare l’omessa registrazione della ricchezza ai fini tributari, dal momento che in base all’interpretazione adottata non la si ritiene dovuta. Ad esempio, se si ritiene di non essere soggetti passivi Iva, non si effettua la fatturazione, se si ritiene di essere residenti all’estero non si presenta la dichiarazione.

Tutte queste omissioni, pur finendo spesso per essere sanzionate come gli occultamenti della ricchezza al fisco, dipendono invece da una tesi giuridica applicata ad una realtà comunque palesata, anche se non oggetto di adempimenti fiscali che, proprio in ragione della tesi seguita, si ritenevano “non dovuti”.

102La mancanza o l’inutilizzabilità dell’impianto contabile nel suo complesso costituiscono, insieme all’omessa presentazione della dichiarazione, i presupposti tipici dell’accertamento induttivo o “extracontabile”, metodo di carattere eccezionale previsto dall’art. 39, comma 2, del d.p.r. n. 600/1973 e dall’art. 55 del d.p.r. n. 633/1972, che permette all’Amministrazione finanziaria di ricostruire il reddito d’impresa o di lavoro autonomo (così come l’imponibile rilevante ai fini Iva ed Irap) prescindendo in tutto o in parte dalle risultanze delle scritture contabili eventualmente disponibili ed avvalendosi di dati e notizie comunque raccolti o entrati nel suo patrimonio conoscitivo, nonché di presunzioni “semplicissime”, cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti in via generale.

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