UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA Facoltà di Lettere e Filosofia
Cattedra di Lingue e letterature angloamericane Prof. Marina Camboni
PARTE I:
Introduzione a Poe e il gotico 1. Il goticoSe per Michel Foucault i racconti del terrore fanno uso di una lingua che li rende allo stesso tempo “eccessivi e mancanti”, trattando del genere letterario definito “Gotico” Fred Botting, asserisce che il carattere distintivo del Gotico è l’“eccesso” 1. E l’eccesso è associato alla trasgressione, alla sfida e al superamento dei limiti, sicché l’antitesi, il gioco degli opposti, dove un termine si contrappone all’altro come il nero al bianco, sta al centro della narrazione gotica, producendo però non tanto chiarezza e distinzione, ma ambiguità, incertezza sui confini stessi. Ma è proprio l’ incertezza a rivelare un’altra caratteristica del genere gotico: la percezione della realtà e il racconto delle esperienze da una prospettiva individuale, a partire da una percezione ed emozione soggettive. Non per altro una delle caratteristiche del racconto Gotico è la narrazione in prima persona. E non per altro le emozioni in genere associate con il Gotico sono il terrore e l’orrore, due emozioni che, come i due termini che le definiscono, solo apparentemente sono intercambiabili. Perché il terrore e l’orrore rappresentano i due poli di una tensione dinamica lungo la quale si collocano le emozioni provocate dal racconto gotico. Se il terrore porta difatti a un’intensificarsi ed espandersi del senso di sé, l’orrore segnala al contrario la contrazione e il ripiegarsi dell’io su se stesso (Botting 10).
Il gotico condensa tutto quanto viene percepito come minaccia alla razionalità e ai valori dell’umanismo borghese.
Queste minacce sono sentite come provenienti da forze sovrannaturali o naturali, da eccessi dell’immaginazione o fantasmi della mente, dal male di religione e essere umano,
1 Michel Foucault, “Language to Infinity”, in Language, Counter-Memory, Practice, Oxford:
Blackwell, 1977, p. 65. Fred Botting, Gothic, London: Routledge, 1996, p. 1. A questo testo si devono gran parte delle definizioni e delle informazioni di carattere generale riguardo il
dalla trasgressione sociale, dalla disintegrazione mentale o alla corruzione spirituale. Sebbene non possa essere considerato ‘negativo’ in sé, il genere “Gotico” racconta della fascinazione per oggetti e pratiche che vengono considerate negative, irrazionali, immorali e fantastiche. . . . Anche oggi gli eccessi del Gotico, danno forma al fascino e all’attrazione per ciò che è trasgressivo, all’ansietà generata dai limiti e confini culturali. Sono questi eccessi che continuano a produrre emozioni e significati ambivalenti nei racconti dell’oscurità, del desiderio eccessivo, della fascinazione del potere. (Botting 2)
Espressione del potenziale dell’immaginario, il Gotico è altresì strettamente legato all’ esplorazione artistica ed estetica del Sublime. Quale espressione artistica di un’estetica radicata nel sentire emotivo e in ciò che è incommensurabile, impossibile definire, limitare, essa affida alle parole il compito di costruire e proiettare il Sublime, creandolo e insieme definendolo.2
Se difatti nella concezione classica e razionale del Bello, questo si identifica con la proporzione, la misura e la perfezione della forma, nell’estetica del Sublime, il Bello è associato all’eccesso e alla magnificenza, alla grandezza delle dimensioni, al loro potere di significare l’infinito, di alludere a forze preternaturali, incomprensibili all’essere umano.
In questo universo dell’immenso possono abitare oggetti e forze di tutti i tipi, oggetti, enti che si muovono fra il fantastico il grottesco ma che possono anche raggiungere il ridicolo. L’opera
2 Nel Trattato del Sublime (in greco antico Perì Hýpsous), attribuito a Longino, questi definisce un’estetica del Sublime. Sublime è quella genialità che insuffla nelle parole una sorta di follia e di spirito divino, è quella grandezza smisurata, indefinita e indefinibile, che produce estasi, meraviglia e sorpresa. E’ parere dell’autore del Trattato che, diversamente dal testo didascalico o informativo, l’opera sublime mostra la capacità dell’autore di creare con la lingua delle realtà difficili da catalogare e confinare entro precisi limiti e definizioni. Come chiaramente sintetizza Philip Shaw, “ogni volta che una nostra esperienza fuoriesce dalla normalità, ogni qualvolta il potere di un oggetto è tale che le parole vengono a mancare e mancano anche possibilità di fare paragoni, allora si ricorre al sentimento del sublime” (The Sublime, London, Routledge, 2006, p. 6). Nel settecento è stato il critico e politico irlandese Edmund Burke a riprendere e ridefinire con forza il concetto di Sublime nel suo A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757) il trattato –trattato che segna la transizione dal classicismo al romanticismo- in cui asserisce che se il Bello è ciò che è simmetrico e piacevole per il senso estetico, il Sublime opera con una forza molto più potente capace di commuoverci e di influenzarci. Perciò il Sublime deve essere preferito al Bello classico.
che aspira a comunicare il Sublime eccita, non informa, fa rabbrividire e agghiacciare il sangue, nutre il desiderio dello strano.
Dal punto di vista storico, il Gotico è un genere prettamente nordico. Nel senso più specifico del termine, il genere è associato con la storia della nazioni germaniche, ritenute strenue sostenitrici dei valori della libertà e della democrazia, perché demolitrici di dominio e tirannia, come, nel passato demolirono l’egemonia dell’impero romano o, con il protestantesimo, della chiesa cattolica. Più in particolare, la narrativa gotica caratterizza un filone importante della letteratura di lingua inglese, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tanto che, come asserisce Botting, “Il Gotico può essere definito la sola vera tradizione letteraria di lingua inglese.”
Nato nel settecento dall’incontro fra romanzo borghese sentimentale e romanzo d’avventure o fantastico, il genere si manifesta con romanzi che, nel secolo dei lumi, sondano l’oscurità che minaccia la razionalità e moralità perseguite da una classe, quella borghese, che con la rivoluzione industriale si imponeva in Inghilterra e con la Rivoluzione politica, strappava in Francia il potere alla monarchia e all’aristocrazia. Non sorprende, quindi, che i primi romanzi gotici –e i racconti gotici in generale—interroghino la natura del potere e della legge, l’istituzione familiare e religiosa, che pongano al centro del loro interrogarsi la sessualità e il disintegrarsi di società e individuo in preda a forze potenti e incontrollabili. Da questo punto di vista il Gotico diviene il luogo privilegiato del confronto fra le forze razionali del progresso e le spinte alla conservazione del passato (Botting 22).
Il genere Gotico, quindi, afferma una tradizione anglosassone e nordica di contro a una neoclassica mediterranea. Nel settecento in questo genere letterario confluiscono e si consolidano le distinte tradizioni della poesia cimiteriale pre-romantica, del romance medievale con i suoi eventi che muovono tra il fantastico e il meraviglioso, e del romanzo realista borghese
Il primo romanzo a imporre il genere nella letteratura di lingua inglese è The Castle of Otranto (1764) di Horace Walpole.
Qui si trovano anche i principali ingredienti del Gotico, ingredienti che poi si ritroveranno, più o meno variati, negli altri romanzi settecenteschi.
Questi sono, la presenza di:
-una Prefazione in cui si dice che il libro è traduzione di un’opera medievale dell’epoca delle crociate;
-un insegnamento morale secondo cui i peccati dei padri ricadono sui figli;
-la creazione di una distanza storica fra l’epoca degli eventi e quella della narrazione;
-l’individuazione parallela di uno spazio altro rispetto a quello del narratore e del presente della narrazione. E’ questo lo spazio medievale di castelli e abbazie, in cui accadono eventi
‘strani’.
Soprattutto la distanza nel tempo e nello spazio in questi romanzi permette di costruire quella opposizione di Nord e Sud Europa, di universo culturale afferente,oltre che al passato, al cattolicesimo dell’Europa del Sud e dell’Italia in particolare. Se in questo mondo alberga la corruzione, la depravazione, il male, il buio e il caos, diversa è la natura dei luoghi del presente ove la ragione e l’ordine, espressione della modernità illuminista, protestante o laica, vincono il caos morale e le sue conseguenze sociali.
Nei romanzi di un’altra scrittrice gotica inglese Ann Radcliffe (The Mysteries of Udolpho 1794, The Italian 1797)–veri e propri bestsellers dell’epoca-- , ambientati in Italia, emergono ancora altre caratteristiche che andranno a far parte del genere.
Esemplare The Mysteries of Udolpho dove introduce:
-un’eroina caratterizzata da una sensibilità eccessiva;
-una “morale” della storia, alla fine della quale avviene il ritorno al familiare, alla virtù e alla ragione;
-l’associazione di tratti fisici dei personaggi, in particolare del villain, il malvagio, con quelli della sua abitazione (Poe adotterà questo in “The Fallo f the House of Usher”);
-l’associazione di male e luogo, come ad esempio il castello in cui abita Udolpho;
-esternalizzazione e espulsione di tutte le forme di vizio e anche delle emozioni,che vengono così oggettivate.
A Radcliffe si deve anche la distinzione fra terrore e orrore.
Nel suo saggio “On the Supernatural in Poetry” scrive:
il terrore e l’orrore sono totalmente opposti: il primo espande l’anima e risveglia tutte le facoltà dando loro nuova vitalità; il secondo invece rattrappisce, gela, e quasi annichila queste facoltà.3
3 Ann Radcliffe, “On the Supernatural in Poetry” (1826)
<http://www.litgothic.com/Texts/radcliffe_sup.pdf> consultato il 16.10.2013.
Ritenendo tuttavia che il terrore più che l’orrore sia fonte del Sublime, aggiunge:
in che cosa consiste la più grande differenza tra orrore e terrore, se non nell’incertezza e nell’oscurità rispetto alla fonte del male che accompagnano l’orrore?
A differenza della confusione e del caos provocati dall’orrore, il terrore, che Radcliffe associa all’oscurità, permette l’espandersi dell’immaginazione. Il terrore, a suo parere, attiva la mente e l’immaginazione permettendole di superare le paure, sicché l’io può passare da uno stato di passività a uno di attività. Gli oggetti o eventi che provocano terrore, inoltre, stimolando l’attività della mente, le danno un senso del suo stesso potere.
L’’apprezzamento della terribile sublimità del terrore permette, inoltre, di percepire il potere del Supremo Potere, la Provvidenza, e quindi di superare o tener lontano il male e di ricostituire i confini e con questi, l’ordine.
L’orrore, che Radcliffe estromette dalla creazione del sublime, è comunque presente nei racconti di terrore. Nelle celle sotterranee, nei mausolei cimiteriali abita difatti l’orrore, che gela il sangue e blocca le facoltà umane, rendendo la mente passiva e immobilizzando il corpo. Causa dell’orrore è in genere l’incontro con la morte. La morte è il limite assoluto, che impedisce qualunque trascendenza. L’orrore condensa il Sublime negativo.
Ed è in un altro romanzo, The Monk (1796) di Matthew Lewis, che l’orrore emerge con tutto il suo potere, dando carne agli spettri che il gotico precedente aveva lasciato all’immaginazione. Con questo romanzo un ulteriore elemento viene a caratterizzare la trama del gotico: il sensazionale, mutuato dai racconti tedeschi dell’orrore. In The Monk tutto è eccessivo, anche se l’eccesso si nasconde dietro una facciata di rispettabilità.
Le cose però cambiano nell’ottocento, con l’emergere della nuova sensibilità romantica. Diversamente che nei romanzi settecenteschi, gli oggetti dell’orrore non sono più proiettati all’esterno ma abitano l’interiorità, e i protagonisti dei racconti e romanzi sono individui che stanno ai margini della società.
Emblematico il Frankenstein (1818) di Mary Shelley, in cui il malvagio è anche la vittima, mentre l’elemento diabolico, che nel settecento era sempre un agente esterno, oggettivato, è ora
incarnato nell’essere umano o nel potere della scienza o della natura. Ambientato nel settecento e in luoghi che non sono più quelli medievali dei romanzi settecenteschi, il romanzo pone al centro l’orrore della sfida alla morte. Frankenstein vuole difatti trascendere i confini che separano la vita e la morte e, grazie alla scienza, creare una nuova specie che lo adorerà come padre e padrone. Il mostro che egli riesce a creare – un mostro che è anche il suo alter ego, una incarnazione delle energie represse—è un essere naturale e innaturale, morto e vivo, umano e non umano, epperò è anche una entità che ha vita autonoma e che produce orrore e terrore non solo all’interno dell’individuo ma anche nella società.
L’ultimo romanzo inglese ancora appartenente al genere gotico è Melmoth the Wanderer (1820) di Charles Robert Maturin. Nel suo romanzo, Maturin mette al centro della narrazione l’orrore psicologico, andando a sondare “i recessi del cuore umano” nella convinzione che l’essere umano non abbia nemico peggiore di se stesso.
Nell’ottocento vittoriano, la scena e la storia gotica sono ambientate nella città moderna e nella vita quotidiana. Gotico è allora l’ ”uncanny” freudiano, la cosa strana, inquietante,
“perturbante”. Atmosfere gotiche, scrive ancora Botting, hanno sovente segnalato il conturbante ritorno del passato nel presente, evocando emozioni di terrore o riso.
Nel ventesimo secolo, elementi gotici hanno continuato a turbare il progresso della modernità, dandoci delle narrazioni (counter-narratives) che mettono in discussione i valori del razionalismo umanista (Botting 21-2).
2. Poe e il Gotico americano
Considerato alieno alla maggiore tradizione americana da critici come F. O. Matthiessen e Vernon Luis Parrington4, se non anti- americano per il suo deciso atteggiamento anti-democratico, Poe fa tuttavia parte integrante di quella letteratura americana che da spazio a visioni ultraterrene, --che nel racconto “Ligeia”
sono rappresentate come “i molti misteri della trascendenza in cui [il narratore e Ligeia] erano immersi”-- a mondi mentali e rarefatti, alla psicologia del profondo in cui razionalità e pazzia, morte e vita coabitano, come nei versi della canzone cantata da
4 Vedi di F.O. Matthiessen American Renaissance. (Trad. it. Il Rinascimento Americano, Milano, 1961) e di V.L. Parrington Main Currents in American Thought, 3 Voll. (New York:
Harcourt Brace And Co, 1927)
Ligeia nell’eponimo racconto, in cui se il dramma rappresentato è quello della morte che vince la vita, l’anima di quel tema è la follia, il peccato e l’orrore (“And much of Madness and more of Sin / and Horror the soul of the plot.”). Ma non v’è per Poe maggiore peccato, maggiore violazione che quella del cuore umano.
Per la sua esplorazione di situazioni limite, Poe deve ritenersi parente stretto di Nathaniel Hawthorne, Herman Melville ed Emily Dickinson. Poe sonda difatti quello che Melville chiama “the power of blackness”, il potere dell’oscurità. I rapporti fra vita e morte, peccato e salvezza, individualità e società, follia e sanità e soprattutto fra razionalità e irrazionale, realtà e immaginazione-visione. Anche Poe, come loro, nutre le sue storie con l’introspezione radicata nella tradizione protestante e puritana degli Stati Uniti.
Nella Prefazione al primo volume dei suoi Tales of The Grotesque and Arabesque (1840) Poe, contestando i critici che accusavano i suoi racconti di essere nello stile “germanico”, ovvero di appartenere a quel genere popolare di “pseudo- horror” di cui facevano parte molti dei racconti gotici o
‘germanici’ del tempo, asseriva che il terrore non appartiene ai racconti gotici importati dalla Germania, bensì all’animo umano:
If in many of my productions terror has been the thesis, I maintain that terror is not of Germany, but of the soul, — that I have
deduced this terror only from its legitimate sources, and urged it only to its legitimate results.5
Sebbene molti abbiano letto in chiave autobiografica l’uso del terrore da parte di Poe, ritengo che si possa concordare con un suo contemporaneo, il critico Chancey Burr, che nel 1850 così scriveva nel suo Memoir:
Poe ha messo poco di se stesso nella sua opera. Piuttosto ha scritto da artista. Ha intuitivamente compreso quel che Schiller ha articolatamente e ben espresso, ovvero che la nostra natura è irresistibilmente attratta e affascinata da tutto ciò che è luttuoso, pauroso e anche orribile. E questo è un fenomeno universale.6
Rispetto alla sensazione di infinito evocata dai romanzieri gotici, Poe si concentra con maggiore efficacia “sui piccoli terrori della
5 “Se in molti racconti il terrore è stata la mia tesi, è mia convinzione che il terrore non appartenga alla Germania ma all’anima. Io ho tratto il terrore solo dalle sue fonti legittime e portato ai necessari risultati.”
6 Riportato da David Galloway nella sua Introduction a Edgar Allan Poe, Selected Writings,
vita”, ricavando “suspense da ogni incidente quotidiano, e la sua suspense è intollerabile 7 Come scrive Elizabeth Barrett Browing a proposito di “The Facts in the Case of Mr. Valedmar”:
Poe ha il potere di rendere familiari e possibili anche le cose più lontane, orribili e improbabili.
Tutti i suoi racconti si sviluppano intorno a situazioni limite, rappresentanti di quell’ambivalenza di genio, razionalità e follia che caratterizza il narratore del di uno dei suoi primi racconti,
“Eleonora”, una sorta di concentrato di temi e scelte linguistiche e narrative dei suoi racconti dell’orrore. Qui, in apertura della sua storia, il narratore dice di sé:
I am come of a race noted for vigor of fancy and ardor of passion.
Men have called me mad; but the question is not yet settled, whether madness is or is not the loftiest intelligence — whether much that is glorious — whether all that is profound — does not spring from disease of thought — from moods of mind exalted at the expense of the general intellect. They who dream by day are cognizant of many things which escape those who dream only by night. In their grey visions they obtain glimpses of eternity, and thrill, in awaking, to find that they have been upon the verge of the great secret. In snatches, they learn something of the wisdom which is of good, and more of the mere knowledge which is of evil. They penetrate, however rudderless or compassless, into the vast ocean of the “light ineffable” and again, like the adventurers of the Nubian geographer, “agressi sunt mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi.”
Discendo da una stirpe famosa per vigore di fantasia e per la veemenza delle passioni. Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia è o no una suprema forma di intelligenza; e se la maggior parte di quanto è superiore, di quanto è profondo, non deriva da qualche malattia del pensiero, o da speciali modi dello spirito che pigliano il sopravvento sul senso comune. Colui che sogna ad occhi aperti sa di molte cose che sfuggono a quanti sognano solo dormendo. Nelle sue nebbiose visioni, egli afferra sprazzi dell’eternità e trema, al risveglio, di vedere che per un momento si è trovato sull’orlo del grande segreto. . . . pur senza timone né bussola penetra nell’oceano sterminato della “luce ineffabile” come gli avventurieri del geografo nubiano che aggressi sunt mare tenebra rum, quid in eo esset exploraturi.8
7 R. Ellis Roberts, “The Other Side”, Life and Letters X, 1934.
8 E.A. Poe, The Collected Works of Edgar Allan Poe — Vol. II: Tales and Sketches (1978), p.
635. Trad. it. Racconti, Milano: Mondadori, 1985, p. 183. Pubblicati inizialmente su rivista i racconti e le poesie di Poe, rivisti e corretti, sono stati poi raccolti nei volumi. Qui di
PARTE II. E.A. POE: Vita e poesia
1. La vita
Nato il 19 gennaio 1809 a Boston da una coppia di attori (Elizabeth Arnold e David Poe), morti entrambi quando Edgar aveva appena due anni, viene poi adottato dalla famiglia del ricco mercante John Allan, a cui si deve il suo secondo nome.
Cresciuto a Richmond, nella Virginia, sotto le cure amorose della madre adottiva Frances Keeling Allan, a cui molto si lega affettivamente, dopo un periodo trascorso Inghilterra (1815- 1820), dove riceve la sua prima educazione, ritorna con la famiglia a Richmond e studia prima nelle scuole della città, poi all’Università della Virginia a Charlottesville (1826). Lasciata l’università per problemi di gioco che portano alla rottura con Allan, Poe si arruola in un primo momento nell’esercito americano. In seguito viene ammesso all’accademia militare di West Point, da cui viene poi allontanato per indisciplina. Nel frattempo ha pubblicato due raccolte di poesie: Tamerlane and Other Poems (1827), Al Aaraaf, Tamerlane, and Minor Poems (Baltimore, 1829) riunite poi nel volume dei Poems (1831). I suoi rapporti con John Allan sono però sempre difficili, tanto che alla morte di quest’ultimo, nel 1834, Poe non erediterà niente.
Spostatosi a Baltimora, andrà a vivere presso la zia Maria Clemm, non certo benestante, insieme al fratello e alla cugina Virginia, che sposerà nel 1836, quando la ragazza ha appena tredici anni.
Nel 1833 Poe, che ha già iniziato a pubblicare i suoi primi racconti, vince un premio di cinquanta dollari con il racconto
“MS. Found in a Bottle”. Nel 1835 trova lavoro presso la rivista Southern Literary Messenger, che intende contrastare l’egemonia culturale del Nord degli Stati Uniti con proposte culturali e letterarie innovative quale espressione della cultura
seguito I titoli delle principali raccolte di poesia da lui pubblicati in vita: Tamerlane and Other Poems (1827, Poems, by Edgar A. Poe (1831); Tales of the Grotesque and Arabesque (1840, 2 volumi); The Raven and Other Poems (1845);Tales by Edgar A. Poe (1845).
del Sud. Finito il rapporto con la rivista, nel 1837 Poe si reca con la moglie e Maria Clemm, prima a New York e poi a Philadelphia, dove si stabilisce nel 1838, anno in cui pubblica il romanzo The Narrative of Arthur Gordon Pym e il racconto
“Ligeia”. Malpagato e continuamente perseguitato dalla penuria di danaro, Poe cerca la collaborazione con alcune riviste di Baltimore. Nel 1839 pubblica “The Fall of the House of Usher” e
“William Wilson” sul Burton’s Gentleman’s Magazine. I due racconti, insieme ad altri ventitre andranno a far parte della raccolta Tales of the Grotesque and Arabesque (Philadelphia, Lea & Blanchard, 1839)9.
Da tempo, tuttavia, Poe pensa a una sua rivista letteraria, il Penn Magazine, che decide di lanciare quando, per la prospettata chiusura del Burton’s Gentleman’s Magazinen con cui collabora, ritiene di non aver più un impiego. Ammalatosi nel 1841, però, e privo di un finanziatore, non riesce a portare in porto la sua iniziativa. Nonostante gli sforzi fatti, quindi, la sua rivista non decolla e Poe accetta di diventare “Review editor”
del Graham’s Magazine, su cui nel 1841 pubblica “The Murders in the Rue Morgue” e “A Descent into the Maelström”, che riscuotono grande successo. Nel 1842 la moglie Virginia avrà una emorragia polmonare, che segna l’inizio della sua tubercolosi. Poe, che per diversi anni si era tenuto lontano dall’alcool, riprende a bere. Dopo aver lasciato il Graham’s Magazine cerca senza successo di ottenere un posto pubblico nella Custom House di Philadelphia che gli garantisca –come a Nathaniel Hawthorne— una sicura base economica. Nel 1842 pubblica a puntate“The Mystery of Marie Rogêt” nel Ladies’
Companion, e “The Tell-Tale Heart” nel Pioneer. Nel 1843 “The Gold-Bug” riceve un premio di cento dollari e porta grande successo a Poe che, tuttavia continua a vivere in ristrettezze tali da essere costretto a lasciare Philadelphia per New York, dove nel gennaio 1845 viene per la prima volta pubblicata la poesia che lo renderà celebre, “The Raven”. Inizia, per sostenersi, l’attività di conferenziere. La sua prima conferenza è intitolata
“American Poetry” (ripetuta in diverse sedi nel 1843-1844). Del
9 I due volumi della raccolta contengono rispettivamente: Volume I: “Morello,” “Lionizing;”
“William Wilson,” “The Man that was Used Up,” “The Fall of the House of Usher,” “The Duc de L’Omelette,” “MS. Found in a Bottle,” “Bon — Bon,” “Shadow,” “The Devil in the Belfry,” “Ligeia,” “King Pest,” and “The Signora Zenobia” incorporating “The Scythe of Time” (14 storie); Vol. II, “Epimanes,” “Slope,” “Hans Phaall,” “A Tale of Jerusalem,” “Von Jung,” “Loss of Breath,” “Metzengerstein,” “Berenice,” “Why the Little Frenchman Wears His Hand in a Sling,” “The Visionary,” and “The Conversation of Eiros and Charmion” (11 storie).
1845 è “Poets and Poetry in America”, tenuta nel febbraio a New York. Nello stesso anno escono per l’editore Wiley and Putnam anche i suoi Tales e The Raven and Other Poems. Poiché, tuttavia, continua a bere, molti suoi sostenitori si allontanano.
Soprattutto continua a vivere in una miseria permanente.10
Importanti recensioni positive dei due volumi in Francia, con le prime traduzioni, nel 1846, segnano i primi successi europei di Poe scrittore. In patria, si accende l’interesse dei letterati newyorkesi e Poe inizia la sua frequentazione di salotti e ‘poetesse’. Tutto ciò, per quanto gratificante, non lo toglie dalla penuria, e a stento riesce a mantenere la sua famiglia. Ad appena venticinque anni, nel gennaio 1847, la moglie Virginia muore di tubercolosi, mentre lo stesso Edgar è seriamente ammalato. Rimessosi, nel 1848 pubblica Eureka e corteggia la poetessa Sarah Helen Whitman, a cui dedica la poesia “To Helen”. Sarah promette di sposarlo se lui cesserà di bere ma, poiché ciò non avviene, rompe ogni rapporto. Sempre nel 1848 Poe tiene per la prima volta la sua conferenza sul “Poetic Principle ”. L’ultimo anno della sua vita trascorre fra alcoolici eccessi –in una occasione è preso da delirium tremens—
corteggiamenti di donne, e la proposta di matrimonio a una sua fiamma giovanile, Sarah Elmira Royster. Anche il progetto per una rivista tutta sua, che ora si dovrebbe chiamare Stylus, sembra infine avverarsi. Quando Poe lascia Richmond per andare a incontrare il finanziatore della rivista e poi sposare Sarah, durante il viaggio si ferma in una taverna di Baltimore e ancora una volta si ubriaca: è il 3 ottobre 1849, giorno di elezioni. Lo troveranno la mattina dopo in stato di coma, senza documenti e senza soldi, di fronte a un seggio elettorale di Baltimora. Morirà il 7 ottobre nel Washington College Hospital di Baltimore.
2. Poe: scrittore del Sud, scrittore americano, scrittore universale?
Poe è considerato scrittore del Sud, di cui incarnerebbe il conservatorismo antidemocratico, l’elitarismo individualista e
10 Le notizie essenziali sulla vita di Poe sono tratte da: Thomas Ollive Mabbott, “Annals,”
The Collected Works of Edgar Allan Poe — Vol. I: Poems (1969), pp. 529-572,
<http://www.eapoe.org/works/mabbott/tom1p118.htm>http://www.eapoe.org/papers/misc 1921/tplg00ca.htm ultima consultazione 26.10.2012; e da POE LOG: A Documentary Life of Edgar Allan Poe 1809-1849, di Dwight Thomas e David K. Jackson , Boston, G.K.Hall, 1987. http://www.eapoe.org/papers/misc1921/tplg00ca.htm ultima consultazione
20.10.2012.
aristocratico e la tendenza a privilegiare il passato rispetto al presente. E per certi aspetti ciò corrisponde a un suo modo di sentire. Eppure, costringerlo entro il regionalismo sudista o entro il suo antagonismo verso gli scrittori del New England è limitativo. Poe fu più di tutto questo. Con il suo sentirsi innanzitutto ‘scrittore’, col suo ritenere quella di scrittore una vera e propria professione e non un’attività secondaria, con il suo considerare l’arte una produzione umana autonoma avente come fine il bello e non l’utile, Poe si sentiva cittadino non dell’America ma dell’universo delle lettere, e quindi abitante del mondo.
Lo fa ben capire in una lettera scritta due mesi prima di morire, dove leggiamo:
la letteratura è la professione più nobile. In realtà forse è l’unica veramente degna di un uomo. Da parte mia non c’è nulla che possa indurmi ad abbandonare questa strada. Sarò un litterateur fino alla fine, per tutta la mia vita: né abbandonerò le speranze che ancora mi sostengono per tutto l’oro della California.11
Poe era tuttavia un isolato in un’ America che in quegli anni teorizzava il suo “Manifest Destiny”, completava la colonizzazione del continente, raggiungendo il Pacifico e sottraendolo ai nativi, costretti a penosi spostamenti o rinchiusi in riserve. La sua era un’America in cui commercio e danaro, espansione e conquista erano i valori egemoni, un’America che, come scrive lo storico Piero Bairati, con l’avventura della frontiera “diventa un paese senza nessuna ortodossia ma con mille e mille forme di dissenso.” Gli Stati Uniti del suo tempo avevano tante culture locali ma nessuna cultura nazionale, sì che, “sradicato socialmente, privo di modelli culturali con cui identificarsi, Poe appartiene a una cultura che non esiste. E’ una sentinella del nulla.”12
Non per altro i suoi racconti prescindono dalla storia e le vicende narrate non hanno localizzazioni americane, dando piuttosto la precedenza a una dimensione ‘umana’
dell’esperienza interiore. Non stupisce quindi che i suoi racconti e le sue poesie abbiano attirato l’attenzione di Charles Baudelaire, che con lui si è immedesimato, e a cui si deve l’averlo importato in Francia da dove la sua fama e la sua influenza si diramernno nel resto d’Europa.
11 E.A. Poe, lettera tradotta da Piero Bairati e citata in “Poe e la società americana”, in E.A. Poe: Dal Gotico alla Fantascienza, a cura di Ruggero Bianchi, Milano, Mursi, 1978, p.
8.
12 Bairati, op. cit., p. 9.
Poe e l’America appartengono a due grandezze diverse, scrive Baudelaire nell’introduzione ai racconti di Poe da lui tradotti:
Gli Stati Uniti sono un paese gigantesco e bambino….fiero del suo sviluppo materiale, anormale e mostruoso…ha una fede ingenua nell’onnipotenza dell’industria; ed è convinto… che finirà col mangiarsi il Diavolo. Il tempo e il denaro hanno laggiù un così gran valore! L’attività materiale… lascia negli spiriti ben poco spazio per le cose che non sono di questa terra. Poe,... diceva [che] in un popolo senza aristocrazia il culto del Bello non può che corrompersi, ridursi e sparire….Poe era laggiù un cervello singolarmente solitario.
Egli non credeva che all’immutabile, all’eterno, al self-same.
13
E tuttavia, proprio perché era scrittore capace di sondare il cuore umano, nei suoi racconti non potevano non penetrare ansie e paure, consapevolezze e drammi del suo paese e del Sud e dell’America intera.
Come scrive Toni Morrison nel suo Playing in the Dark, la
“blackness” che ossessiona i narratori di Poe, ripropone la presenza di quella “blackness” che ha strutturato la storia e la cultura degli Stati Uniti, segnalando il ruolo svolto dagli schiavi africani nella costruzione della nazione e dell’identità bianca. La loro presenza, negata, emerge nella scrittura perché gli scrittori sempre, a un livello più o meno profondo della loro coscienza sanno che la “presenza nera” è centrale nella costruzione dell’identità americana anche se la sua manifestazione consiste nel conflitto, nelle contraddizioni, nella negazione. La
“blackness”, difatti, per Morrison “fornisce un modo di contemplare il caos e la civiltà, il desiderio e la paura, ed è un meccanismo che permette di sondare i problemi e i vantaggi della libertà.”14
In quanto scrittrice, asserisce Morrison, lei stessa è giunta a capire che, non solo, come scrive Poe, “colui che sogna ad occhi aperti sa di molte cose che sfuggono a quanti sognano solo dormendo”, ma “il soggetto del sogno è il sognatore” e la costruzione di un’alterità nera “è una potente esplorazione delle paure e dei desideri che abitano la coscienza di chi scrive. E’
una stupefacente rivelazione del desiderio, del terrore, della vergogna, della magnanimità” (p. 17).
13 Charles Baudelaire, “Edgar Poe, la sua vita e le sue opere”, in Poe, Racconti, , Milano, Mondadori, 1985, p.
1040.
In un’acuta analisi della conclusione di The Narrative of Arthur Gordon Pym di Poe, Morrison mette in evidenza un significato rivelatore nella figura bianca che emerge gigantesca dalla più totale oscurità in cui Pym è immerso prima di essere inghiottito --insieme alla sua barca, e dopo la morte del nero Nu-Nu-- dall’abisso che si apre dietro il velo di una enorme cascata, ugualmente bianca.
Poiché la fantasmatica figura bianca, con la pelle del biancore della neve, appare dopo che nel racconto si è entrati nell’oscurità, e poiché in questo romanzo come nelle opere di altri scrittori americani, questa immagine appare sempre in associazione con rappresentazione di neri morti, impotenti o completamente soggiogati,
allora queste immagini di biancore accecante sembrano funzionare come accompagnamento o come meditazione sull’ombra che accompagna questo biancore-- una presenza scura e costante che riempie di paura e desiderio i cuori e i testi degli scrittori americani.
(p. 33)
Ed è questa oscurità, questa “blackness” ossessionante che anima, a parere di Morrison, la letteratura fantastica (romances, i racconti gotici) perché la letteratura fantastica, importata dall’Europa e prodotto delle ombre della cultura europea, ha reso possibile confrontarsi con le paure umane. Per gli americani, le paure sono state diverse da quelle europee. Le loro sono state paure di marginalità, di impotenza, di fallimento.
Tutte legate al terrore del fallimento insito in quella ricerca di libertà da loro insieme desiderata e temuta. Agli scrittori americani il gotico offriva la possibilità di confrontarsi con le loro paure esplorandole con l’immaginazione, e in questo modo confrontarsi con la violenza e con l’ingrediente dominante del terrore, l’oscurità:
Romance, an exploration of anxiety imported from the shadows of European culture, made possible the sometimes safe and sometimes risky embrace of quite specific, understandably human fears:
Americans’ fears of being outcast, of failing, of powerlessness…. In short, the terror of human freedom, the thing they feared most—the thing they coveted most of all… Romance offered writers the opportunity to conquer fear imaginatively and to quiet deep insecurities. It offered platforms for…the immaginative entertainment of violence, sublime incredibility and terror—and terror’s most significant, overweening ingredient: darkness, with all the connotative value it awakened. (36-37)
Non sorprende, date queste premesse, che nei racconti del terrore come “The Pit and the Pendulum” sia stato individuato un sottotesto che rivela l’affinità tra le violenze e torture lì rappresentate e le scene riportate nei racconti di schiavi o negli articoli di giornale.15
E forse è proprio “The Fall of the House of Usher” che può essere letta anche come testo che da voce all’ansia dello scrittore americano per le sorti della nazione, che nel cuore del sud alimenta il baco che la corrode. Come la Madeline sepolta nelle segrete della “Casa Usher”, quella cultura nasconde nel suo ventre una vittima sacrificale, i suoi abitanti neri, schiavi sfruttati, oggetti e non esseri umani, “proprietà” dei bianchi, e perciò torturabili e sfruttabili a piacere. Sono loro il segreto pubblico di quella nazione che solo a parole è ‘democratica’ ma che nella sostanza nutre un classismo che si nutre del colore nero. Nella casa di Roderick Usher, come nella fenditura che l’attraversa possiamo leggere un sottotesto che espone il luogo della frattura e del crollo della società del Sud, inghiottita dalle fiamme del conflitto fratricida, o anche il terrore che l’ingresso degli ex-schiavi nella casa costruita dai coloni bianchi possa demolire l’ “American dream” come questi l’avevano immaginato.
3. Il Sublime di Poe
In Poe l’esperienza estetica, e il suo prodotto verbale in forma di poesia o racconto, produce in chi la vive, e dovrà produrre in chi ne legge la trasposizione scritta, il piacere che si manifesta innanzitutto come piacere prodotto dall’ “orribilmente bello””16 .
Sarà perciò proprio l’impossibilità di trasformare in Sublime l’orrore della scena che si trova davanti alla fine di una giornata di viaggio che provoca depressione e angoscia nel narratore di “The Fall of the House of Usher”. La vista, la percezione d’insieme di casa e ambiente non solleva la sua anima verso un’esperienza estetica e la contemplazione del Bello ma produce in lui un improvviso, disastroso risveglio a una
15 Vedi a riguardo Teresa A. Goddu, “Poe, sensationalism, and slavery”, in Edgar Allan Poe, ed. Kevib J. Hayes, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 92-112.
16 Mario Praz, “Introduzione a Three Gothic Novels, Londra 1968, p. 10. Citato da Carla Marengo Vaglio in “Poe e il ‘Ropmanzo Nero’ inglese”, in E.A. Poe: Dal Gotico alla Fantascienza, cit., p. 175.
realtà orribile, tanto più orribile perché gli si presenta davanti come dopo un’evasione provocata dall’oppio:
with the first glimpse of the building, a sense of insufferable gloom pervaded my spirit. I say insufferable; for the feeling was unrelieved by any of that half-pleasurable, because poetic, sentiment, with which the mind usually receives even the sternest natural images of the desolate or terrible. I looked upon the scene before me — upon the mere house, and the simple landscape features of the domain — upon the bleak walls — upon the vacant eye-like windows — upon a few rank sedges — and upon a few white trunks of decayed trees — with an utter depression of soul which I can compare to no earthly sensation more properly than to the after-dream of the reveller upon opium — the bitter lapse into common life — the hideous dropping off of the veil.
La manifestazione del principio poetico sta nell’ “eccitazione”
che eleva l’anima, asserisce Poe in “The Poetic Principle”, nella nascita di un Amore che non è Passione erotica carnale, ma passione mentale (la Venere dionisiaca distinta dalla Venere Urania), e in una capacità di vedere la Bellezza e l’Armonia laddove non si manifesta apertamente, perché, presentandosi sotto forma di ‘strano’ non risponde ai canoni classici. Lo strano eccita l’anima che riesce a riconoscere nell’apparentemente eccessivo, una proporzione armonica.
Non sorprenda quindi che l’incarnazione stessa del Principio Poetico siano donne come Ligeia, e Morella, protagoniste di eponimi racconti. In “Ligeia” coesistono il Bello Sublime e lo Strano, come si può chiaramente evincere dal brano qui sotto riportato:
Yet her features were not of that regular mould which we have been falsely taught to worship in the classical labors of the heathen. “There is no exquisite beauty,” says Bacon, Lord Verulam17, speaking truly of all the forms and genera of beauty, without some strangeness in the proportion.” Yet, although I saw that the features of Ligeia were not of a classic regularity — although I perceived that her loveliness was indeed
“exquisite,” and felt that there was much of “strangeness” pervading it, yet I have tried in vain to detect the irregularity and to trace home my own perception of “the strange.” I examined the contour of the lofty and pale forehead — it was faultless — how cold indeed that word when applied to a majesty so divine! — the skin rivalling the purest ivory, the commanding extent and repose, the gentle prominence of the regions above the temples; and then the raven-black, the glossy, the luxuriant
17 Poe riprende la citazione dal saggio “Of Beauty” contenuto negli Essays di Francis Bacon (1561-1626), divenuto Lord di Verulam nel 1618.
and naturally-curling tresses, setting forth the full force of the Homeric epithet, “hyacinthine!” I looked at the delicate outlines of the nose — and nowhere but in the graceful medallions of the Hebrews had I beheld a similar perfection. There were the same luxurious smoothness of surface, [the same scarcely perceptible tendency to the aquiline, the same harmoniously curved nostrils speaking the free spirit. I regarded the sweet mouth. Here was indeed the triumph of all things heavenly — the magnificent turn of the short upper lip — the soft, voluptuous slumber of the under — the dimples which sported, and the color which spoke — the teeth glancing back, with a brilliancy almost startling, every ray of the holy light which fell upon them in her serene and placid, yet most exultingly radiant of all smiles. I scrutinized the formation of the chin — and here, too, I found the gentleness of breadth, the softness and the majesty, the fullness and the spirituality, of the Greek — the contour which the god Apollo revealed but in a dream, to Cleomenes, the son of the Athenian. And then I peered into the large eyes of Ligeia.
Con i suoi capelli raven-black, con la sua pallida fronte, Ligeia anticipa l’accoppiata bianco-nera che in “The Raven” è formata dal corvo sul busto di Pallade Atena, a testimoniare, che più che una donna, Ligeia, è un’idea.
Ma è proprio quando cerca di dominare l’orrore generato dall’osservare il lento spegnersi di Ligeia che il narratore riesce a intercettare negli occhi di lei l’abisso che li abita. Sono difatti gli occhi di Ligeia che conducono il marito-narratore verso gli abissi della volontà, del divino e dell’eterna oscurità in cui la morte immerge l’essere:
The expression of the eyes of Ligeia! How for long hours have I pondered upon it! How have I, through the whole of a midsummer night, struggled to fathom it! What was it — that something more profound than the well of Democritus — which lay far within the pupils of my beloved? What was it? I was possessed with a passion to discover. Those eyes! those large, those shining, those divine orbs!
they became to me twin stars of Leda, and I to them devoutest of astrologers.
Il narratore “ponder[s]” sugli occhi di Ligeia come il giovane di
“The Raven” “pondered. . ./ Over many a quaint and curious volume of forgotten lore.” Nel racconto e nella poesia si ripropongono situazioni analoghe, pur nell’apparente cambiamento dei personaggi e i necessari adattamenti. Così, la lettura di opere contenenti “forgotten lore” da parte dell’innamorato di “The Raven” associa il sapere esoterico in cui cerca rifugio non solo alla morte di Lenore, ma al suo personale
desiderio di conoscere quell’ignoto che si apre oltre la vita, entro la morte, e a cui cerca di accedere con le sue domande al corvo, nella speranza di superare i confini che separano vita e morte.
Nel racconto, Ligeia sembra incarnare il desiderio di conoscenza del narratore. Ed è dai suoi occhi che traspare il desiderio di una vita oltre la morte, desiderio che il narratore riconosce quando la consunzione che la avvicina alla morte la dimostra più che mai appassionatamente attaccata a lui:
Let me say only, that in Ligeia’s more than womanly abandonment to a love, alas! all unmerited, all unworthily bestowed, I at length recognized the principle of her longing with so wildly earnest a desire for the life which was now fleeing so rapidly away. It is this wild longing — it is this eager vehemence of desire for life — but for life — that I have no power to portray — no utterance capable of expressing.
L’incapacità di esprimere qualcosa di inconoscibile, e allo stesso tempo di esprimerla testimonia la trasformazione estetica dell’esperienza del Sublime. Nell’eccesso di passione per la vita dimostrato da Ligeia sta non solo il Sublime ma, come sarà evidente nel seguito del racconto, l’orrido. E’ questo orrore che il narratore non riesce a esprimere a parole, ma che pure affiderà alle parole del suo racconto.
Ben comprende questo l’epigono di Poe, Baudelaire,
quando, pur con una limitante lettura biografica della sua opera, a proposito dei personaggi dei suoi racconti afferma.
I personaggi di Poe, o piuttosto il personaggio di Poe, l’uomo dalle facoltà sovracute, l’uomo la cui volontà ardente e paziente lancia una sfida alle difficoltà, quello in cui lo sguardo è teso con la durezza di una spada su oggetti che ingrandiscono a misura che egli li fissa,-- è Poe stesso. E le sue donne, tutte luminose e malate, che muoiono di mali bizzarri, e parlano con una voce che somiglia a una musica:
sono ancora lui; o perlomeno, con le loro strane aspirazioni, il loro sapere, la loro inguaribile malinconia, esse partecipano fortemente della natura del loro creatore.18
4. “The Raven”
La Bellezza è atmosfera: è questa la vera essenza della poesia (“Beauty … is the atmosphere and the real essence of
18 Charles Baudelaire, op. cit., p. 1064.
the poem”) asserisce Poe nel suo “Poetic Principle.” E in nessun testo poetico quanto in “The Raven”, in nessun racconto quanto in “The Fall of the House of Usher” Poe riesce ad applicare questa sua concezione portandola ai massimi livelli formali, sì da far accostare i lettori alle visioni della mente e alle sue perverse e trasgressive esplorazioni degli abissi dell’eternità in cui ci sprofonda la morte.
Come dirà estesamente nella sua “Philosophy of Composition”, “The Raven”, la sua poesia di maggior successo e forse la più conosciuta, imitata, parafrasata, ironizzata della letteratura Americana dell’Ottocento, ha al suo centro il tema della bella donna morta quale materia base del sublime poetico.
Nella poesia tutto è narrato dal punto di vista dell’uomo che soffre per la morte della sua amata. Ogni cosa è filtrata dalla sua mente semicosciente. Chiuso nella sua stanza, una stanza che, come dirà il narratore di “Berenice”, è la materializzazione spaziale, oggettivata, della “stanza della mente”19, in un luogo non precisato del mondo, nella mezzanotte di un dicembre fuori del tempo, piegato su antichi libri che presumibilmente trattano di materia esoterica e che, in modo ben più determinante che le quattro mura della stanza, lo isolano dal mondo esterno, l’uomo medita sulla morte della sua amata Lenore. E’ in questo contesto di freddo notturno, in un’atmosfera liminale20 , mentale e fisica --mentale perché l’uomo si trova in uno stato di dormiveglia, immerso in una sorta di reverie (“dreaming dreams no mortal ever dared to dream before”), e fisica, perché l’uomo è “weak and weary” e la stanza è immersa in un’oscurità appena rischiarata dalle “morenti braci” del camino e dalla luce di una candela-- che un leggero battere gli fa inizialmente
19 “But from the disordered chamber of my brain, had not, alas! departed, and would not be driven away, the white and ghastly spectrum of the teeth.” E.A. Poe, “Berenice” 1840, p. 176. http://www.eapoe.org/works/tales/bernicec.htm.
20 Liminale /liminalità (derivate dal latino Limen, soglia) indica in antropologia, quello stato di ambiguità e disorientamento che avviene a metà dei riti iniziatici, quando gli iniziandi non sono più coloro che erano all’inizio del processo di iniziazione ma non hanno ancora acquisito la loro nuova identità. A livello temporale, la liminalità indica un tempo indefinito- rappresentato come tempo intermedio. Il crepuscolo –un periodo del giorno che si colloca tra il giorno e la notte, è emblematico del tempo liminale. La liminalità è rappresentata, sempre a livello antropologico, da alcune figure mitiche di animali che fanno parte del folclore di alcuni popoli ( i Trickster), come il corvo nella mitologia degli indiani del nordovest. The trickster is a universal figure that can be found in folktales and myths of nearly all cultures. I trickster – come Coyote o Raven nei racconti degli indiani d’America--sono sempre figure marginali, degli outsider caratterizzati da eccesso, esseri incapaci di vivere nella comunità, e perciò poco affidabili.
sospettare un possibile ritorno della sua amata dal regno dei morti. Ma, aperta la porta e accortosi che nessuno emerge dal buio completo in cui figge lo sguardo, aperta quindi la finestra, vede un corvo infilarsi risoluto –presumibilmente infreddolito- nella stanza, per poi andarsi ad appollaiare sul busto bianco di Atena che sovrasta la porta. E’ come se un oggetto ben definito e netto entrasse nel campo di visione del narratore. E’ a questo punto, nell’ottava delle prime 8 strofe che possono considerarsi l’antefatto del successivo dialogo immaginario del narratore con il corvo, che i due colori, il bianco del busto e il nero del corvo, contrapposti ma uniti nel corvo appollaiato sul busto, immettono nel racconto una prima linea di demarcazione che separa l’indecisione, la reverie e l’oscurità della stanza e della mente del narratore, dalla nettezza del bianco-nero che vede associata la dea vergine e il corvo. In questo modo Poe inserisce nel racconto un elemento che scatena la libido conoscitiva del suo personaggio e sfrutta al massimo l’ associazione coloristica e simbolica del corvo e di Atena. A quel punto, difatti, nel narratore emerge il desiderio di sondare l’oscurità da cui il corvo proviene, identificando l’oscurità stessa con la morte e con l’Ade in cui abita Plutone.
Ed è a questo punto che si capisce quanto bene Poe abbia costruito un’ambientazione crepuscolare, creato un’atmosfera ipnotica tramite la ripetizione di suoni e di parole, e con una precisa scelta delle parole abbia fatto della morte l’atmosfera stessa della poesia. E’ evidente difatti l’uso di un lessico afferente al paradigma associativo della morte (“dying”, “ghost”
“darkness”, “stillness”), che poi dominerà l’intera poesia, associato nella seconda parte a una dimensione infernale. Un lontano ma indeterminato e inattuale passato, evocato sia a livello temporale che sonoro (“Once”, “lore” e Lenore” non solo rimano fra loro, ma con la loro o resa lunga dalla consonante proiettano sul passato la loro lugubre ombra), le esaltate percezioni sensoriali dell’io narrante: il suono amplificato dal silenzio e dall’oscurità in cui è immersa la stanza, il colore che qua e là emerge (“purple curtain”, “dying ember”, “darkeness”), la soggettività emotiva, marcata da eccesso di dolore (“sorrow”) e eccesso di sensibilità (l’aggettivazione rimanda alla psicologia del narratore più che a una descrizione oggettiva delle cose, come nel “midnight dreary”, “bleak December”). In questo modo Poe crea l’atmosfera in cui fa immergere chi legge. In quest’atmosfera basta un sussurro per far risuonare un’eco, eco
riconoscibile anche nella ripetizione ossessiva di “tapping”,
“rapping”, “napping” che interrompe il “silence” e la “stillness”
della stanza, con il riproporsi delle p tamburellate e, dell’ ing dei gerundi che ripetono il loro suono protratto e sospeso.
Attraverso la lingua stessa Poe ha inteso produrre nell’orecchio di chi legge il testo un effetto di ripetizione e di eco vera e propria. Nella storia narrata questo effetto di eco che raddoppia il suono e il senso è prodotta dal nome Lenore, sussurrato dal narratore e rimandatogli indietro, forse dalle mura della stanza chiusa, o forse dall’oscurità che la circonda:
“And the only word there spoken was the whispered word,
‘Lenore!’ / This I whispered, and an echo murmured back the word ‘Lenore!’”.
Più avanti l’eco sarà più argutamente nascosta nelle parole:
così “raven” echeggerà nel “craven” ma anche in “shaven”, e
“ore” ritornerà in “lore”, “Lenore”, “nevermore”, in questo modo producendo un effetto di eco moltiplicato che forma l’atmosfera coesiva della poesia, quasi fosse l’eco dell’oscuro regno dell’immateriale, del non più umano.
In questo contesto il “Ghastly, grim, ancient Raven”, assumendo un nome proprio, marcato dalla maiuscola, diviene un vero e proprio personaggio (Il narratore inizialmente penserà che “Nevermore” sia il suo nome proprio). Persa la sua identità di animale che abita il mondo naturale dei viventi, diviene per il narratore un emissario del mistero e della morte. Insieme a Pallade forma un’entità unica: busto e animale sembrano reincarnazione di Ligeia dai capelli corvini (“raven-black hair”), dalla mano marmorea (“marble hand”) e volto d’avorio (“the skin rivalling the purest ivory”), o anche delle “raven-winged hours” del tempo che corre verso la morte in “Berenice”. Ed è a questo punto che la sua funzione “tecnica” di elemento coesivo dell’intera composizione -- sia dal punto di vista fonico- evocativo che dal punto di vista narrativo— cessa per trasportare la dimensione linguistico-narrativa in un universo simbolico. 21
21 Raven (n.). O.E. hræfn (Mercian), hrefn; hræfn (Northumbrian, W.Saxon), from P.Gmc.
*khrabanas (cf. O.N. hrafn, Dan. ravn, Du. raaf, O.H.G. hraban, Ger. Rabe "raven," O.E.
hroc "rook"). Il “raven” fa parte della mitologia nordica, e la sua figura si trova nella bandiera dei Vichinghi Danesi. “Raven” è uno dei molti nomi di Odino ( il dio aveva due corvi chiamati Huginn e Muninn --"pensiero" e "memoria"-- che volavano intorno al mondo per poi riportare le notizie al loro padrone. Raven è anche un personaggio importante, un trickster, nella mitologia degli indiani del nord della costa pacifica. Il corvo viene associato
Il Corvo, manco a dirlo, lega il tema della poesia a quel genere gotico che si riconosce discendente ottocentesco di tradizioni nordiche e anglosassoni. La stessa parola “Raven” lo rivela. Potendo optare fra diverse parole riferentisi al corvo in inglese ( ad esempio “rook” e “crow”), Poe sceglie il termine più carico di miti e di associazioni simboliche e che già nella sua natura di personaggio mitico, viene intertestualmente portato dentro il testo. Tramite la sua poesia, a sua volta, però lui stesso contribuisce ad aggiungere altri aspetti simbolici all’animale, sicché, come asserisce in “The Philosophy of Composition”, chi legge la sua poesia finisce per considerare l’uccello simbolo di
“Mournful and Never-ending Remembrance” .
Nell’ultima strofa di “The Raven” l’uccello, quindi, con il suo permanere sembra portare dentro la stanza la stessa donna morta, che getta la sua nera ombra sulla vita dell’uomo. La donna, come un vampiro continuerà a incombere e a dominarlo dall’alto. Ma è solo la donna-morta che incombe? O il nero dell’uccello e l’oscurità da cui proviene aprono altri scenari? O, ancora, il nero uccello e il bianco busto di Pallade rappresentano il confluire di tradizioni culturali, letterature e miti mediterranei e nordici?
Se, come è stato più volte ricordato, Poe può aver tratto spunto per il suo Raven Nevermore dal corvo Grip di Barnaby Rudge:
A Tale of the Riots of 'Eighty di Charles Dickens22 l’affinità finisce lì.
5. Struttura della poesia
Inserita nella raccolta The Raven and Other Poems, nel 1845, e dedicata alla poetessa inglese Elizabeth Barrett23, la poesia trae spunti anche formali da “Lady Geraldine’s Courtship,” una delle poesie di Barrett contenute nel suo Drama of Exile, che Poe aveva recensito nel gennaio del 1845. Della poesia Poe aveva scritto “non ho mai letto una poesia capace di combinare la passione più feroce con quanto v’è di più delicato.”
Formata da 18 strofe di sei versi ciascuna, “The Raven”, ha un ritmo trocaico e un metro ottonario regolare (acatalectic, ovvero con tutte le sillabe previste) che si alterna con un settenario tronco (con una sillaba in meno nell’ultimo piede),
22 Alla fine del quinto capitolo del romanzo Grip chiede: "What was that – him tapping at the door?" The response is, "'Tis someone knocking softly at the shutter."
23 Dopo il matrimonio con Robert Browning conosciuta come Elizabeth Barrett Browning.
ripetuto nel refrain del quinto verso e, con nell’ultimo verso un tetrametro regolare24: Ed è lo stesso Poe che descrive la forma metrica usata nella poesia nella sua “Philosophy of Composition”, usando proprio questo componimento per illustrare la sua poetica e il suo metodo compositivo,
Struttura sillabica del primo verso Accen
to / x / x / x / x / x / x / x / x
Sillab a Onc
e up
- o
n amid
- nigh
t drea r- y
, whil
e I pon
- dere
d wea
k an
d wear
- y
Lo schema delle rime è: ABCBBB, ma poiché “The Raven” ha anche un sistema di rime interne, lo schema, inclusivo delle rime interne, può essere rappresentato come AA,B,CC,CB,B,B. In ogni strofa il verso 'B' rima con la parola 'nevermore' ed è regolare, con maggiore enfasi sulla sillaba finale. Insistito è anche l’uso dell’allitterazione.
Il rigoroso schema metrico, il ricorso all’allitterazione, alla ripetizione, e alla rima interna ed esterna rendono estremamente coeso il tessuto verbale. L’autore sembra voler dominare con le parole e con la forma finita, quasi matematica, la materia narrata che, però, fugge tematicamente verso l’insondabile. In questo modo Poe costruisce un cerchio di parole che, come le mura della stanza, racchiude la poesia. E tuttavia, questa costruzione così minuziosa e dettagliata, proprio grazie ai moltiplicati echi che, sradicando il suono dalla sua fonte, lo propagano nell’aria, o stordiscono la mente in un ritmo che prende il sopravvento sul contenuto della storia. E’ questo quanto accade al narratore di “Berenice”, che passa ore a
“ripetere monotamente una parola comune fino a che il suono, proprio a causa della frequente ripetizione, cessa di trasmettere qualunque idea” (“to repeat monotonously some common word, until the sound, by dint of frequent repetition, ceased to convey any idea whatever to the mind”)25 . La parola è così presa entro in un movimento quasi incantatorio che crea evasione dal
presente e dal senso.
24 / rappresenta le sillabe accentate, x quelle non accentate.
25 E.A. Poe, “Berenice” (1840). http://www.eapoe.org/works/tales/bernicec.htm.
PARTE III E.A. POE: i racconti
1.Il racconto
In quel saggio antiromantico che è “The Philosophy of Composition” Poe mette in evidenza il lavoro dello scrittore, l’uso di tecniche finalizzate al raggiungimento di un preciso effetto che faccia presa sul lettore. Quanto scrive riguardo la poesia vale anche per il racconto, che Poe ritiene debba essere il più possibile breve per poter assicurare quell’unità di lettura che è la precondizione per la sua efficacia emotiva. Nella recensione ai Twice-Told Tales di Nathaniel Hawthorne26, asserisce che, oltre a essere originale, un racconto deve trasmettere a chi legge un “sense of the new”, ovvero una sensazione di novità capace di trasmettere un’emozione piacevole (“a pleasurable emotion”). Un racconto deve, inoltre, far emergere le fantasie recondite, o stimolare la sensibilità del cuore umano, combinando la manifesta novità con il piacere tutto individuale e egotista di chi legge. Non solo, ma proprio nel racconto il genio dello scrittore può manifestarsi meglio che nel romanzo, perché nell’ora in cui ci si dedica alla sua lettura
“l’anima di chi legge è sotto il controllo dello scrittore”.
In genere la critica distingue due gruppi di racconti all’interno della produzione di Poe: i racconti dell’orrore e i racconti di raziocinio. Se i primi corrispondono in genere ai racconti gotici o dell’orrore, come “The Black Cat” o “The Pit and the Pendulum”, “Ligeia” o “The Fall of the House of Usher”, i secondi vengono fatti corrispondere alle detective stories e vedono protagonista il detective Dupin, che illustra i processi, deduttivi e imitativi, che portano alla soluzione di delitti efferati, come nel caso di “The Murders in the Rue Morgue”, o di furti ricattatori come in “The Purloined Letter”.
Restano fuori da questa dicotomia i racconti più propriamente fantascientifici –Poe fu considerato uno dei fondatori del genere-—che prendono spunto da ritrovati scientifici del tempo, come il mesmerismo di “The Facts in the Case of Mr Valdemar” o l’aerostato di “The Balloon Hoax”.
26 Le citazioni e sintesi di questa recensione sono tratte da: Edgar Allan Poe, “Review of Hawthorne -- Twice- Told Tales” Graham's Magazine, May 1842, pp. 298-300. http://www.eapoe.org/works/criticsm/gm542hn1.htm.
ultima consultazione 29.10.2012.