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3 Analisi della configurazione

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Academic year: 2021

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3 Analisi della configurazione

Breve rassegna delle ipotesi realizzative

L’idea di partenza è la ricostruzione di una sensazione tattile attraverso la stimolazione concomitante di diversi punti della pelle sotto l’azione di un pattern di stimolatori “elementari” ma non tali da poter solo imprimere stimoli di semplice pressione localizzata, bensì in grado di poter mettere in atto le condizioni dell’illusione tattile di Hayward.

Appare importante tenere separata la parte motrice dal tastatore vero e proprio (end effector1) in modo da poter sfruttare la geometria di quest’ultimo per amplificare gli spostamenti ed ottenere maggiori deformazioni della superficie cutanea interessata.

Altra importante considerazione riguarda la scelta dei materiali: a fronte di un segnale elettrico della minore entità possibile, questi, di qualunque natura fossero, dovevano rispondere con una rapida e consistente deformazione. Dover porre, infatti, a contatto con una persona, un dispositivo alimentato elettricamente fa apparire necessario utilizzare tensioni le più base possibili. La prima proposta per l’attuatore fece da banco di prova per la scelta del materiale.

I tre pistoni

L’end effector è un’asta che, come per Hayward, amplifica gli spostamenti dei materiali deformabili, piantata nel baricentro di una base triangolare poggiata su tre attuatori lineari.

I tre attuatori, per fornire una sufficiente deformazione avrebbero dovuto essere degli stack di un materiale attivo (piezoelettrico,magnetostrittivo, SMA....).

1 Per end effector s’intende un dispositivo od un attrezzo posto all’estremita di un braccio

robotico. Qui, per traslato, intendiamo per end effector (o anche contattore o tastatore) la parte dell’attuatore che entra direttamente in contatto con la pelle.

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I vantaggi cercati erano quelli della semplicità d’esecuzione, il ridotto ingombro radiale, e con esso la possibilità di forte impacchettamento, e il secondo grado di libertà.

Di contro, un tale dispositivo richiede un generoso ingombro verticale.

Un dimensionamento di massima con materiali magnetostrittivi evidenziò l’impossibilità di tale soluzione perché, con i materiali a disposizione, avrebbe significato bobine d’induzione di dimensioni non accettabili e intensità di corrente insostenibili.

I tre attuatori, disposti come in figura, con sopra l’end effector, sono capaci di deformazioni εm dello 0.16%.

Dalla figura si vede che dato D, diametro dello stack, l’altezza del triangolo equilatero che ha per vertici i centri delle circonferenze base dei cilindri è

W 3

2 ⋅D

e pertanto l’inclinazione massima dell’end effector, conseguente alla contemporanea estensione di un attuatore e contrazione dell’altro risulta pari a

δθ 2⋅δH W

A tale inclinazione corrisponde uno spostamento lineare dell’estremità dell’end effector di

δx b⋅δθ

giusta l’esiguità dell’angolo.

Effettuando la sostituzione dell’espressione angolare, δx b 2⋅δH

W ⋅

e facendo l’ipotesi che b=W2 si ottiene δx 2⋅δH

Dalla definizione di strain sappiamo che

2 È un’ipotesi di dimensionamento, sufficiente a valutare la fattibilità dell’attuatore relativamente

alle grandezze in gioco. La deformazione elastica dei magnetostrittivi è così ridotta che non si può agire su questa geometria per ridurne l’effetto sul dimensionamento.

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δH ε m H

Per un attuatore che abbia H=5mm è δH 0.008 mm⋅

quindi

δx 0.016 mm⋅

che è una dimensione molto piccola per poter essere avvertita.

Per quanto riguarda la corrente necessaria a muovere questi attuatori, se li consideriamo come solenoidi:

H w⋅ N I

dove H questa volta è il vettore intensità del campo magnetico3, N il numero delle spire, I la corrente che le percorre e w la lunghezza del solenoide.

H w⋅ N I⋅ J S tot⋅ ma

S tot w L⋅

dove L è lo spessore della bobina, quindi: H J L

La sfera ingabbiata

Le due concomitanti necessità di ridurre l’ingombro verticale ed aumentare gli spostamenti dell’end effector ha portato ad una configurazione nella quale la parte attiva, il motore vero e proprio, è sdraiata nel piano orizzontale4.

3 H=(B/µo) – M è l’espressione dell’intensità del campo magnetico H. Nel nostro caso M,

vettore intensità di magnetizzazione, è nullo; scriveremo B=µoH;

Per un solenoide è B=µo n i dove n=N/L è il numero di spire per unità di lunghezza; inoltre è H=L i.

Sostituendo si ha

µ 0 L⋅ ⋅i µ 0 N L ⋅ ⋅i

si ottiene, eseguendo i calcoli, che per ottenere un campo di 0.18 Oe è necessaria una corrente di 107 A, evidentemente inaccettabile [71].

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L’analisi della parte attiva ha preso le mosse dall’evidenza che: per ottenere un movimento circolare su un piano è necessario comporre due moti lineari armonici. È immediata la conclusione che sono necessari almeno due attuatori lineari.

Per aggiungere un terzo DoF (necessariamente al di fuori del piano precedente) è necessario e sufficiente un terzo attuatore. Ci si convince facilmente di ciò se si considera la composizione dei moti a due a due, di volta in volta su piani differenti.

Giunti a questa conclusione, la disposizione a tripode degli elementi attivi come mediane di un triangolo equilatero sembra la più naturale.

Il risultato è un motore a 3 DoF con un tastatore centrale che stimoli direttamente la pelle con deformazioni in senso normale e tangenziale di ampiezza finita.

A questo punto si prospettano le esigenze di incrementare l’ampiezza dello spostamento ottenuto con un’amplificazione geometrica dovuta alla lunghezza dell’end effector e l’altra (presentata già negli Obbiettivi) di riprodurre la sensazione di scorrimento sulla pelle.

Per la prima, si corre il rischio di vanificare il vantaggio di ingombro verticale ottenuto disponendo orizzontalmente la parte attiva; la seconda non è nemmeno ottenibile giacché gli spostamenti dell’estremità del tastatore, per quanto amplificati, rimangono finiti. Sarebbe necessario “ricaricare” il movimento, abbandonando il contatto con l’epidermide e quindi dovendo accettare una discontinuità o un altrettale limite nella riproduzione della sensazione.

4 L’idea venne dall’osservazione dei ricci di mare. Questi animali si spostano pompando del

liquido in delle strutture dette “pedicelli ambulacrali”, escrescenze filiformi che fuoriescono dal dermascheletro, ma, e questa è la caratteristica che abbiamo tentato di sfruttare, sono anche in grado di deformare parti del loro esoscheletro (placche) sulle quali sono disposti gli aculei. Di tutta evidenza l’analogia fra gli aculei e il nostro end effector, si trattava di predisporre un sistema attivo in grado di deformare l’analogo della placca sulla quale avremmo piantato il tastatore.

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La continuità del movimento suggersce l’adozione, come elemento di contatto, di una sfera.

Non sarebbe più un aculeo a toccare la pelle ma una sfera, posta in un alloggiamento: una sede di contenimento che la tenga in posizione e che le consenta di ruotare attorno al proprio baricentro sotto l’azione dell’estremità dell’aculeo. La sfera sarebbe raggiungibile su due calotte antipodiche, su una delle quali agirebbe l’estremità dell’aculeo, ponendola in rotazione con un’azione discontinua che avremmo tentato di mediare con l’inerzia della sfera; l’altra sarebbe in contatto con la pelle e diventerebbe l’effettivo contattore.

Si prospettano, però, problemi di perdite per attrito (la sfera che ruota in un alloggiamento sferico con l’impossibilità di adottare una lubrificazione e un sistema di pulizia delle superfici) e di difficoltà di realizzazione.

Il tripode

La configurazione definitiva prende le mosse da quella appena descritta con l’esiziale contributo del BarShaped USM di Takemura5. Laddove il contattore del caso precedente mostra degli svantaggi, dovuti all’attrito indesiderato, la configurazione del tripode può sfruttarne i vantaggi di continuità del movimento, eliminando la sede di contenimento e vincolando la sfera alla parte verticale tramite l’azione di un magnete permanente che garantisca anche un (esiguo) precarico. Naturalmente ciò comporta l’adozione di materiale ferromagnetico per la sfera.

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In questa configurazione, la parte attiva resta il tripode di lamine piezoelettriche, al quale viene collegato un pilone centrale rigido che funge anche da sede per la sfera.

Sparisce, pertanto, il contenimento della sfera che ora avrebbe bisogno solo di una protezione, che svolga anche i compiti di un distanziale, in modo da tenere il contattore sempre alla giusta distanza dalla pelle. In questo modo si assicura il corretto funzionamento dell’attuatore evitando un eccesso di coppia resistente (causata da accidentali errori di posizionamento o soverchie azioni dell’utente sull’interfaccia) che lo freni del tutto.

Un punto critico di questa configurazione sta nel far ruotare la sfera mantenendone fermo il baricentro. Le vibrazioni deputate ad indurre la rotazione dovranno quindi essere di frequenza elevata rispetto alla massa del rotore, il quale dovrà rimanere alloggiato nella sede statorica durante i suoi moti rotatori.

Principio di funzionamento

Per visualizzare immediatamente il funzionamento dell’attuatore si pensi ai giocolieri che fanno oscillare un piatto in equilibrio su un’asta: l’asta oscilla su un piano verticale e il piatto ruota sotto l’effetto composto di spostamenti lineari dell’estremità della bacchetta.

Nella fattispecie, l’attuatore è composto da una parte statorica, che comprende il tripode ed il sostegno con la sede sferica, ed una rotorica, costituita dalla sfera ferromagnetica.

Il moto si determina sfruttando i modi propri di vibrare dello statore.

È possibile imprimere alla sfera una rotazione intorno all’asse verticale combinando gli spostamenti dovuti alle vibrazioni flessionali dell’asta, mentre, combinando gli spostamenti di una vibrazione flessionale (bending) ed una assiale (bouncing) si promuove la rotazione intorno ad un asse orizzontale. Perché tale composizione sia possibile è necessario che le frequenze proprie relative ai diversi modi di vibrare siano uguali.

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All’estremità dello statore, dov’è la sede sferica per il rotore, si determina così una sorta di moto precessionale che provoca una rotazione della sfera omologa ma opposta in verso.

Cerchiamo di entrare nel dettaglio del meccanismo col quale si scambiano le forze fra statore e rotore: facciamo punto sul caso dell’oscillazione di bending composta con quella di bouncing: sono entrambi moti armonici, di pulsazioni uguali; si compongono perciò in una figura ellittica sul piano determinato dal punto di contatto, dal centro del rotore e dal centro di bending, ovvero dall’oscillazione di bending in quel momento.

Separiamo le due azioni: considerando sufficiente l’inerzia della sfera, durante l’oscillazione lo statore spinge contro la superficie sferica e tende ad entrare nel rotore. In quest’atto osserviamo la deformazione della superficie più cedevole. Al moto di bending sappiamo essere associata un’oscillazione sussultoria che abbiamo chiamato bouncing: l’effetto di questa oscillazione è sollevare dalla sede statorica il rotore il quale oppone la propria inerzia e il precarico determinato dalla presenza di un magnete affogato nella sede statorica.

La figura conseguente dalla composizione delle due oscillazioni può esser intesa come percorso del punto geometrico di massima penetrazione. Siccome abbiamo detto che le superfici hanno diversa cedevolezza, il recupero della deformazione – che, per questioni costruttive, possiamo fin d’ora considerare

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avvenire sullo statore – consente di trasferire forze sul rotore e di porlo in rotazione (in questo caso intorno ad un asse orizzontale).

Si dimostra che le ellissi di Lissajous6 vengono percorse con velocità non costanti, che il punto di massima velocità coincide con il punto di tangenza corrispondente al semiasse minore dell’ellisse e la minima si ha nell’omologo punto relativo al semiasse maggiore. Appare naturale pretendere di disporre l’ellisse in modo che il trasferimento del moto avvenga in corrispondenza del punto di maggior velocità: si dovranno sfasare i moti in modo da ottenere un’ellisse che abbia l’asse maggiore parallelo alla tangente della sfera nel punto di contatto. Purtroppo ciò contrasta con la simmetria del sistema: se si considerano due punti antipodici sulla circonferenza dei contatti si scopre che è impossibile disporre entrambe le ellissi in modo che abbiano l’asse maggiore tangente al rotore.

Perché il motore funzioni è necessario che il rotore non sia sempre in contatto con lo statore, altrimenti non potrebbe ruotare, ma pure deve sussistere una condizione di aderenza grazie alla quale lo statore trasmette le forze che determinano la rotazione della sfera. Queste fasi di aderenza e scorrimento si alternano continuamente nei punti della superficie di contatto.

Per promuovere l’aderenza, la sede dello statore è rivestita di uno strato deformabile che veicola le forze tangenziali e con la propria rigidezza determina gli intervalli di stick slip.

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Possiamo individuare, con Takemura [42], dei requisiti da usare come base di partenza per la progettazione di un motore a ultrasuoni a più gradi di libertà a sviluppo verticale (i.e.: USM MDOF “bar-shaped”):

1. i tre modi propri di vibrare devono avere frequenze proprie uguali

2. le direzioni dell’oscillazione vibratoria di un punto sullo statore per i tre modi di vibrare siano mutuamente perpendicolari così che le figure di Lissajous di ognuno risultino su piani perpendicolari7

3. la struttura dello statore sia semplice e facilmente miniaturizzabile

4. i tre modi propri siano semplici, di basso ordine e abbiano basse frequenze proprie così che non vengano eccitati modi non necessari.

3.2.x Ipotesi di funzionamento

L’attuatore è composto da:

• una parte statorica, comprendente il tripode di lamine piezoelettriche, che ne costituisce la parte attiva, ed il sostegno con la sede sferica che alloggia il rotore,

• ed una rotorica, appunto, costituita dalla sfera ferromagnetica.

Il moto si determina sfruttando i modi propri di vibrare dello statore. Tale meccanismo di trasferimento del moto è stato sfruttato da altri autori [41], [42], [43], [61] in USM bar-shaped.

Si vogliono imprimere dei moti rotatori alla sfera: una rotazione intorno all’asse verticale si ottiene combinando gli spostamenti dovuti alle vibrazioni flessionali dell’asta, mentre, combinando gli spostamenti di una vibrazione flessionale (bending) ed una assiale (bouncing) si promuove la rotazione intorno ad un asse orizzontale.

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Perché tale composizione sia possibile è necessario che le frequenze proprie relative ai diversi modi di vibrare siano uguali

.

All’estremità dello statore, dov’è la sede sferica per il rotore, si determina così una sorta di moto precessionale col quale si vuol provocare una rotazione della sfera, a questo coniugata e opposta in verso.

Nella configurazione scelta, le vibrazioni che inducono il moto nel rotore non si generano, come nei casi citati, in zone del supporto statorico, costituito in quei casi da stack di elementi pzt, bensì provengono dalla deformazione flessionale delle lamine piezoelettriche orizzontali ed il supporto verticale rigido le trasferisce al rotore. La geometria della parte statorica consente di amplificare le ampiezze delle oscillazioni di bending, a volte impropriamente indicate come

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Le deformazioni della parte attiva sono, infatti, in ogni caso flessionali, giacche’ tale e’ il funzionamento dei bender: sotto l’azione di un campo elettrico trasversale queste lamine si deformano come se fossero soggette ad un momento flettente. Lavorando opportunamente lo strato superficiale in modo da isolare 3 elettrodi indipendenti, è possibile eccitare differenti modi di vibrare del sistema, separatamente o in combinazione. Incurvando in modo concorde le tre lamine si ottiene un sollevamento (abbassamento) della zona centrale alla quale è collegato il supporto statorico; e’ questo il moto d’oscillazione assiale (sussultoria), indicato col termine bouncing.

Facendo, invece, in modo che una lamina si fletta in un verso e le altre nel verso opposto si ottiene una deformata a sinusoide che porta l’asse del supporto statorico a spazzare un angolo nel piano verticale passante per la mezzeria della lamina discorde: tale oscillazione prende il nome convenzionale di bending. Componendo le oscillazioni delle lamine in modi differenti si possono ottenere moti di bending in tutti i piani del fascio proprio di traccia la verticale all’attuatore nel baricentro della zona attiva.

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Per la composizione dei moti armonici associati a tali vibrazioni è necessario che le frequenze di quelle vibrazioni siano uguali. Ma i moti che si vogliono comporre derivano dalle vibrazioni della struttura statorica relative ai primi modi propri di vibrare. Portata la struttura ad oscillare in prossimità di tali frequenze se ne sfrutteranno le oscillazioni più ampie per il fatto di avere messo la struttura in condizioni prossime a quelle di risonanza. Bisogna, dunque, fare in modo che le frequenze proprie relative a questi due modi di vibrare della struttura siano uguali. Questo significa che le rigidezze della parte statorica agli spostamenti di bouncing e di bending devono essere in qualche modo legate. Si deve cioe’ individuare una geometria dell’attuatore per la quale la frequenza propria delle oscillazioni di bending sia uguale a quella relativa alle oscillazioni di bouncing. Cio’ ha avuto come ipotesi, come normalmente si fa nei casi canonici, il trascurare la massa della parte attiva (della molla) e considerare il solo supporto statorico come massa dello statore (la massa del sistema libero). In questo calcolo non ha preso parte la massa del rotore, ancorche’ in contatto con lo statore durante il funzionamento, in quanto considerata esterna allo statore. In base a questa scelta e’ stata determinata l’altezza del supporto statorico (ipoteticamente l’elemento in cui e’ concentrata la massa dell’intero statore) relativamente alla rigidezza flessionale del tripode in modo da ottenere una frquenza propria di bouncing uguale a quella di bending.

Si scelgono i primi modi propri per non eccitare modi di vibrare non necessari e per motivi contingenti, legati alle dimensioni ed alla elevata rigidezza della

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struttura. La frequenza propria deve essere compatibile con le capacità elastiche e di reazione al segnale elettrico dei pzt e con la possibilità dell’hardware di un sistema di controllo elettronico di gestire una serie di singoli attuatori.

Quanto descritto finora rappresenta i requisiti teorici della parte statorica: con uno statore di questo tipo si vogliono trasferire al rotore i moti rotazionali che mettano la sfera in grado di esercitare la sua funzione di end effector, operando sulla pelle dell’utente un’azione deformativa tangenziale.

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3.2.xx Principio di funzionamento

Nel paragrafo precedente si e’ anticipato come il problema di far ruotare una sfera su uno statore a forma di piattello sia stato affrontato da altri autori per USM bar-shaped. Come si vede, il rotore è schiacciato contro lo statore tramite l’azione di una forza magnetica generata da un magnete permanente. Il contatto tra statore e rotore (per ipotesi infinitamente rigidi) è mediato da uno strato cedevole.

Il funzionamento corretto di questo motore si ottiene per un opportuno bilanciamento di alcuni parametri quali:

• la rigidezza dell’interfaccia fra statore e rotore, • la massa della sfera,

• l’ampiezza e la frequenza delle oscillazioni statoriche.

Quando si verifica tale bilanciamento, lo spostamento massimo del centro del rotore durante un ciclo della vibrazione è trascurabile rispetto all’ampiezza della vibrazione del piattello valutata in corrispondenza dei punti di contatto. Pertanto, in questo caso, si può ipotizzare che la sfera ruoti intorno al proprio centro, che rimane fisso nello spazio. Con quest’ipotesi, il principio di funzionamento del motore è spiegato sulla base dei moti ellittici dei punti dello statore posti in corrispondenza del contatto col rotore. Si considerino ad esempio i punti A e B della figura. In virtù delle oscillazioni di bouncing e

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bending, fra loro sfasate nel tempo, tali punti percorreranno traiettorie ellittiche. Ipotizzando, per semplicità, che la sfera ruoti a velocità costante, nelle traiettorie ellittiche è possibile distinguere due fasi: una attiva (che produce momento motore) nella quale la velocità del punto, valutata in direzione tangenziale è maggiore della velocità tangenziale della sfera, ed una passiva (che produce momento resistente) nella quale, invece, il punto è “trascinato” dalla sfera. Per ottenere un bilancio positivo fra queste due fasi, per avere cioè, nel ciclo, un momento medio motore, occorre che durante la fase attiva la pressione di contatto fra lo stato cedevole ed il rotore sia maggiore di quella che si determina nella fase passiva (in particolare se ci fosse distacco la coppia resistente sarebbe nulla). Com’è evidente, il precarico ha un’influenza diretta sul valore del massimo momento ottenibile, mentre la cedevolezza dello stato d’interfaccia dev’essere scelta in modo opportuno per garantire il bilanciamento fra i parametri suddetto e un’opportuna differenziazione della pressione di contatto tra le fasi attiva e passiva.

1. 3.2.xxx Principio di trasferimento della coppia

In condizioni di quiete la sfera è alloggiata nella sede statorica. Immaginando di far oscillare il tripode nel moto di bending, ci si può aspettare che la sfera tenda a seguirne le oscillazioni rimanendo solidale alla sede, come se il gruppo rotore-statore costituisse un complesso rigido, oppure che la sfera, per inerzia, tenda a mantenere il proprio centro di massa nella posizione geometrica iniziale, staccandosi dalla sede statorica in conseguenza delle oscillazioni della parte sottostante

La possibilità che si verifichi una delle alternative prospettate dipende: • dalla rigidezza dell’interfaccia fra statore e rotore,

• dalla forza con la quale il rotore stesso è premuto contro la sede statorica (precarico).

Se, infatti, le superfici a contatto hanno rigidezze paragonabili, quando una muove verso l’altra (come nel caso della sede sferica che, nell’oscillazione di bending, si

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sposta tendendo ad avvicinarsi alla posizione del baricentro del rotore) non si può avere nessuna “compenetrazione di materiale” e la sfera si sposta solidalmente allo statore se il precarico è sufficientemente elevato da consentirlo, altrimenti (se il precarico è debole o assente) tenderà a sfuggire dal contatto.

Se, invece, le superfici d’interfaccia hanno rigidezze diverse, si può pensare che si verifichi quella “compenetrazione” fra le superfici geometriche primitive; ad esempio, se fosse la sede statorica ad essere più cedevole (poniamolo per ipotesi), si potrebbe affermare che la superficie geometrica primitiva dello statore penetri nella sfera che coincide con la superficie del rotore, attuandosi una deformazione elastica nella zona di contatto localizzabile in virtù dello spostamento oscillatorio: in pratica, un settore angolare della superficie dello statore risulterebbe schiacciato contro la sfera durante una semioscillazione e nella semioscillazione di ritorno si avrebbe l’analoga deformazione elastica del settore angolare antipodico concomitante col ricupero elastico del materiale del primo settore deformato. In questo caso, un precarico troppo elevato implicherebbe una deformazione elastica media sull’intera sede statorica cedevole che potrebbe risultare tale da mantenere quei punti materiali del rotore, che all’istante iniziale sono in contatto con la sede statorica, nella medesima posizione, rendendo il moto della sfera solidale a quello dello statore; un precarico assente, viste le ridottissime dimensioni che consentono di trascurare il peso proprio della sfera come agente della deformazione dello strato d’interfaccia, limiterebbe l’azione deformativa alla sola componente dinamica, riducendo, con la deformazione normale locale, anche la tensione tangenziale e quindi la coppia trasferibile al rotore.

Un precarico adeguato va dunque cercato entro questi limiti: esso dovrebbe deformare tutta la circonferenza di contatto in modo da poter avere una elasticità residua dello strato deformabile che consenta l’istaurarsi di zone di aderenza localizzate attraverso le quali trasmettere sforzi tangenziali in grado di porre in rotazione il rotore.

In realtà, anche in quest’ipotesi, nel corso delle oscillazioni la sfera viene trascinata nei movimenti oscillatori (consideriamo per semplicità di ragionamento il solo

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bending) e, a causa dei ritorni elastici delle zone di statore deformate, oscillerà anch’essa, “rimbalzando” fra le zone antipodiche di contatto, e variando, con questo movimento, il carico sulle zone di contatto. All’ampiezza dei movimenti d’oscillazione andrebbe dunque aggiunta, secondo una legge particolare, l’ampiezza delle oscillazioni del baricentro della sfera dovuto all’effetto dei ritorni elastici. Considerando che lo statore vibra a frequenze elevate, si pone l’ipotesi che tali oscillazioni secondarie del baricentro del rotore, rispetto alla sua posizione d’equilibrio statico, siano trascurabili.

3.2.3 Il pattern: la geometria esagonale

L’obbiettivo ultimo di questo lavoro è la realizzazione di un display costituito da un array di questi attuatori. Tale display avrà necessariamente uno sviluppo piano (o, in generale, di superficie) dovendo servire aree di pelle. Si cercherà dunque un elemento superficiale che permetta di mappare efficientemente una superficie più vasta. La suddivisione di una superficie in esagoni regolari risponde a questo requisito.

Un esagono regolare inoltre può essere pensato come composto di 6 triangoli equilateri e la pianta del tripode è per l’appunto triangolare equilatera.

A questo punto subentrano altre considerazioni: la disposizione in pattern degli attuatori deve, non solo riempire la superficie, ma soprattutto ridurre il più possibile la distanza mutua fra i contattori, aumentando, nel qual modo, la risoluzione del display.

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La forma triangolare della pianta dell’attuatore consente una disposizione a banda in cui gli attuatori sono accostati l’un l’altro, contrapposti, in una fila. Con questa disposizione, caratterizzata dalla massima compattezza, si possono ottenere due disposizioni: una esagonale ed una a banda singola. Nel primo caso due bande singole sono affiancate; le piante triangolari dei singoli attuatori sono disposte in modo che 6 attuatori abbiano un vertice in comune: si hanno mesoregioni attuate di forma esagonale, disuniformi nella distribuzione dei siti attuati. Rinunciando alla disposizione esagonale con gli attuatori adiacenti, che da’ una distribuzione degli spot tattili di forma corrispondente, si può optare per un pattern dove i triangoli siano accostati l’un l’altro, contrapposti, cosa che si riflette in una disposizione a “chevron” degli spot, i quali risultano abbastanza uniformemente distribuiti sulla superficie. Inoltre questa disposizione si presta ad una serializzazione in “strisce” di attuatori che, accostate, ricreano il pattern potendo piu’ agevolmente osculare superfici cilindriche alle quali possiamo, seppur grossolanamente, ridurre il caso dei polpastrelli.

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