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Capitolo IV IMMAGINI DELLA NATURA

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Capitolo IV

IMMAGINI DELLA NATURA

1. Premessa

È possibile comprendere la natura come un tutto unico e continuo, che non conosce salti o interruzioni? Se è vero, come vogliono i leibniziani, che nihil in natura fieri per saltum1, in che modo si deve pensare, per non contraddire il principio di continuità, il passaggio dalla materia al pensiero, dalla natura inanimata a quelle animata, o – per dirlo in termini leopardiani – dall’«esistenza» alla «vita» e alla coscienza? Le due “immagini della natura” che cercheremo di tratteggiare in queste pagine rappresentano le due possibili soluzioni che Leopardi sembra offrire a questo problema fondamentale.

La prima immagine che esamineremo è quella che considera la natura come un «sistema di assuefazione», rispetto al quale la conformabilità si presenta come principio immanente del divenire e della differenza. Come vedremo, quest’immagine della natura si inscrive nel contesto di una sostanziale insoddisfazione nei confronti della soluzione prospettata dai «leibniziani», che pretendevano di dedurre l’esistenza della materia a partire da quella dello spirito. Questi ultimi, pur avendo giustamente sollevato l’esigenza di pensare l’unità e la continuità della natura, restavano tuttavia, secondo Leopardi, impigliati nelle maglie del dualismo cartesiano: ciò che in particolare, nella spiegazione dei «leibniziani», sembra lasciare insoddisfatto Leopardi non è tanto il primato accordato alle monadi o alla sostanza spirituale, quanto piuttosto il fatto che, continuando a pensare spirito e materia alla maniera di Cartesio, cioè come due sostanze assolutamente eterogenee e distinte (l’una come semplice e inestesa, l’altra come estesa e infinitamente divisibile), essi restavano fondamentalmente incapaci di articolare il passaggio dall’uno all’altra: «Affinate quanto volete l’idea della

1 Zib. 1658, 9 settembre 1821. Cfr. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, IV, cap.

XVI, § 12: «Tutto procede per gradi nella natura, e nulla per salti» (in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, vol. II, p. 463).

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144 materia, non oltrepasserete mai la materia. Componete quanto vi piace l’idea

dello spirito, non ne farete mai nè estensione, nè lunghezza ec.»2. Dietro la

critica che Leopardi rivolge ai «leibniziani», si lascia intravedere un’insoddisfazione più generalizzata verso ogni tentativo di pensare l’unità e la continuità della natura a partire dall’opposizione tra res cogitans e res extensa. Tanto che si voglia (come di fatto tentano di fare i «leibniziani») dedurre l’esistenza della materia a partire da quella dello spirito, quanto che si cerchi, al contrario, di inferire l’esistenza dello spirito a partire da quella della materia, il problema resta al fondo sempre lo stesso, e cioè l’impossibilità di effettuare questo tipo di inferenza o di deduzione. L’errore, in altri termini, si trova nel manico, vale a dire nel fatto di pensare spirito e materia come due sostanze fondamentalmente distinte e irriducibili. Leopardi critica quindi la soluzione proposta dai «leibniziani» per le stesse ragioni per cui sarebbe errata anche la soluzione opposta, cioè quella che cercasse di spiegare lo spirito a partire dalla materia e che quindi pretendesse di assegnare un primato a un principio materiale.

Pensare la natura come «sistema di assuefazione» vuol dire precisamente provare ad aggirare questa difficoltà. La conformabilità, adottata come principio unico di spiegazione, consente infatti a Leopardi di sottrarsi all’opposizione netta tra materia e spirito, e di aprirsi, per così dire, una terza via tra materialismo e spiritualismo. Come vedremo, la conformabilità verrà presa in considerazione non in quanto attività o principio appartenente a una sostanza (sia essa spirituale o materiale), ma esclusivamente come funzione o come operazione in grado di descrivere, in maniera graduale e senza soluzione di continuità, il passaggio dall’esistenza alla vita, e viceversa. Poco importa stabilire in partenza se la conformabilità è intesa come principio materiale o spirituale: essa potrà essere interpretata indifferentemente in un modo o nell’altro, dal momento che materia e spirito, esistenza e vita non saranno altro che i due gradi estremi della conformabilità, vale a dire i due poli della natura come «sistema di assuefazione». Volendo, essi potranno anche essere pensati come i due fuochi di un’ellisse. Da questo punto di vista, Leopardi non potrà propriamente essere definito né materialista né spiritualista, e la sua posizione filosofica, fondamentalmente irriducibile a

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145 questa alternativa, si presenterà assai prossima a quella di Spinoza o di Bergson. Se il primo aveva superato il dualismo cartesiano facendo del pensiero e dell’estensione due aspetti (o due attributi) di un stessa realtà o

Sostanza3, il secondo spiegherà spirito e materia come i due opposti gradi di

tensione della Memoria, considerata come coestensiva all’universo4.

La seconda immagine della natura che prenderemo in considerazione offre invece una soluzione completamente diversa e, per certi versi, più tradizionale. Per risolvere il problema dell’unità della natura e superare il dualismo tra sostanza estesa e sostanza pensante, una via comunque percorribile resta sempre quella riduzionista, che consiste nel negare la realtà di una di queste due sostanze. Non si tratterà più, come nel caso precedente, di aggirare dall’interno le difficoltà presentate dal dualismo cartesiano, ma di metterlo esplicitamente in discussione. Due sono da questo punto di vista le strade possibili: o si afferma che la materia non è altro che apparenza (monismo spiritualista o immaterialismo alla Berkeley), o si riduce lo spirito alla materia, vale a dire a una sua proprietà o a un prodotto della sua organizzazione (monismo materialista). Ora, com’è evidente, l’opzione spiritualista non poteva che presentarsi agli occhi di Leopardi,

dichiaratamente anti-platonico, del tutto impraticabile5. Non gli restava

quindi che percorrere la seconda via, quella di un monismo materialista, incentrato attorno all’ipotesi della «materia pensante».

Alcune precisazioni attorno al “materialismo” di Leopardi saranno a questo punto necessarie. Innanzitutto quello leopardiano dovrà essere considerato un “materialismo epistemologico” e non ontologico: il primato, anche grammaticale, assegnato alla materia rispetto al pensiero è dovuto al fatto che nella gnoseologia leopardiana è la materia ciò che noi possiamo conoscere e immaginare distintamente. Ciò che esiste, in altre parole, è qualcosa di cui noi non possiamo sapere distintamente se non che è materia, una materia che tuttavia si presenta come intimamente ed essenzialmente

3 Cfr. SPINOZA, Etica, cit., parte I, prop. XIV, corollario II, e prop. XV, scolio.

4 Cfr. in particolare BERGSON, Materia e memoria, cit., Introduzione (Il rapporto

spirito-materia), dove si afferma di voler sostenere, in questo libro, tanto la realtà dello spirito quanto quella della materia, pensando il loro rapporto sulla base di qualcosa di comune a entrambi, vale a dire la memoria. Sull’estrema vicinanza tra la filosofia di Spinoza e quella di Bergson insiste giustamente P. GODANI, Bergson e la filosofia, Ets, Pisa 2008.

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146 dotata della disposizione a pensare. Inoltre, come vedremo, l’ipotesi della «materia pensante» sembra avere in Leopardi una precisa funzione

metodologica, che è quella di provare a forzare i limiti della nostra ragione e

delle nostre abitudini di pensiero, facendo leva su un’esperienza che si pretende in qualche modo ignara delle dispute tra i filosofi. Noi facciamo esperienza di corpi che pensano e che sentono, dunque ciò che esiste è la «materia pensante». Rispetto al dualismo cartesiano, quest’ipotesi sembra voler esplicitamente mescolare le carte, intrecciare o intersecare due piani presupposti come distinti dalla ragione. Quella tra res cogitans e res extensa è infatti, secondo Leopardi, un’opposizione astratta, prodotta dalla ragione e imposta dalle nostre abitudini di pensiero, ma nettamente contraddetta dall’esperienza.

2. La natura come «sistema di assuefazione» 2.1. Nihil in natura fieri per saltum

In una pagina dello Zibaldone del settembre del 1821, Leopardi compie una decisiva estensione del concetto di assuefazione, così come lo abbiamo esaminato nel capitolo precedente, e arriva a definire la natura nel suo complesso come «un sistema di assuefazione», in cui si passa per gradi e senza soluzione di continuità da uno stato di cose ad un altro: «L’assioma de’ Leibniziani (se non erro) nihil in natura fieri per saltum, quella gradazione continua con cui la natura assuefa le cose a diversissimi stati, e nasconde il

passaggio dall’inverno all’estate, ec.*<+, tutto ciò non dimostra egli che tutta

la natura è un sistema di assuefazione? La gradazione importa l’assuefazione,

e viceversa»6.

Quest’immagine, qui solo schematicamente abbozzata, risulterà più chiara quando Leopardi estenderà alla natura nel suo complesso la distinzione tra «qualità», «disposizioni a essere» e «a poter essere», individuando così (come vedremo meglio più avanti) a tre possibili gradi o livelli dell’assuefazione o della conformabilità. Per ora limitiamoci ad

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147 osservare come, definendo la natura nel suo complesso un «sistema di assuefazione», Leopardi sembra in particolare voler suggerire l’idea che tutti i mutamenti che avvengono in natura e che noi possiamo cogliere solo in modo discontinuo (cioè una volta che le piccole variazioni che li compongono si accumulano fino a varcare una certa soglia nella nostra coscienza: così accade nella crescita, nell’invecchiamento, nella successione delle stagioni, nella transizione dal giorno alla notte) sono in realtà l’espressione di un unico movimento continuo e ininterrotto che percorre incessantemente tutta la natura e di cui noi siamo consapevoli solo in minima parte.

Il riferimento a «l’assioma de’ Leibniziani» ci permette di inquadrare meglio i termini del problema e ci rivela la portata filosofica che Leopardi intende attribuire a quest’immagine della natura, che tutto vuole essere tranne che una semplice descrizione metaforica. Pensando la natura come un «sistema di assuefazione» in cui si passa per gradi e senza soluzione di continuità da uno stato di cose ad un altro, Leopardi spera infatti di risolvere un problema fondamentale, sollevato solo poche pagine prima proprio in

riferimento alla filosofia dei «leibniziani»7, vale a dire il problema dell’unità

della natura o, più precisamente, del passaggio dalla materia al pensiero, dall’esistenza alla vita (che è coscienza o «sentimento dell’esistenza»).

Ora, secondo Leopardi, proprio i «leibniziani», che pure avevano sollevato questo problema affermando il principio di continuità, si erano tuttavia dimostrati incapaci di rendere conto proprio di questo passaggio. Poiché la materia, composta di partes extra partes, è divisibile all’infinito, essi avevano affermato che per trovare il principio ultimo o la ragion sufficiente di tutte le cose fosse necessario postulare l’esistenza di esseri semplici e incorporei, chiamati monadi, da cui dedurre l’esistenza del mondo materiale. Tuttavia, una volta dimostrata la necessità della sostanza spirituale a partire dalla sua assoluta differenza o eterogeneità rispetto alla sostanza materiale (pensate l’una come semplice e inestesa, l’altra come composta e infinitamente divisibile), spiegare il passaggio dall’una all’altra e ricomporre l’unità della natura diventa praticamente impossibile:

7 Cfr. Zib. 1635-6. Il nesso tra questi due passi dello Zibaldone, decisivo per la corretta

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Affinate quanto volete l’idea della materia, non oltrepasserete mai la materia. Componete quanto vi piace l’idea dello spirito, non ne farete mai nè estensione, nè lunghezza ec. non ne farete mai della materia. Come si può compor la materia di ciò che non è materia? Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che non è: nè da questo

si può progredire a quello, o viceversa8.

Nella filosofia dei leibniziani, in altre parole, spirito e materia restano due realtà assolutamente distinte ed eterogenee, «due nature *<+ affatto separate e dissimili come il nulla da ciò che è». Tra loro non esiste «alcuna relazione», né «scala» o «gradazione» possibile»: ancora una volta «il materiale non può comporsi dell’immateriale più di quello che l’immateriale

del materiale»9.

Prima di proseguire il nostro discorso, è forse necessaria una breve precisazione per chiarire che cosa si intende qui parlando della filosofia dei

«leibniziani». Leopardi, che non conosceva direttamente l’opera di Leibniz10,

si era fatto un’immagine della sua filosofia soprattutto leggendo libri e manuali dell’epoca, tra cui in particolare un’opera di Louis Dutens, Origine delle scoperte attribuite a’ moderni, dove poteva trovare una concisa

ricostruzione del Sistema di Leibnizio11. L’idea che Leopardi poteva farsi della

8 Zib. 1635-6.

9 Cfr. Zib. 1636.

10 Per una ricognizione più completa del rapporto (seppure indiretto) tra Leopardi e

Leibniz si veda comunque il libro di B. MARTINELLI, Leopardi tra Leibniz e Locke, Carocci, Roma 2003, cap. II, pp. 69-134.

11 Il titolo completo dell’opera in tre tomi di Dutens, citata proprio a margine delle

pagine dello Zibaldone a cui ci riferiamo (cfr. Zib. 1636), suona, nella traduzione italiana pubblicata a Venezia nel 1789, Origine delle scoperte attribuite a’ moderni, in cui si dimostra, che i nostri più celebri Filosofi hanno attinta la maggior parte delle loro cognizioni nelle Opere degli Antichi: e che molte importanti verità sulla Religione sono state conosciute da’ Savj del Paganesimo. L’esposizione del Sistema di Leibnizio si trova in particolare nel tomo I, parte II, capo I, §§ 47-59. La ricostruzione che Dutens fornisce della filosofia di Leibniz risente fortemente di quello che era l’intento principale della sua opera, cioè mostrare il debito dei filosofi moderni nei confronti degli antichi e ciò sembra indurlo talvolta ad alcune semplificazioni. Secondo Dutens, Leibniz troverebbe i suoi predecessori in filosofi come Pitagora e Platone (i quali attribuivano rispettivamente ai numeri e alle idee le stesse proprietà delle monadi), ma anche in Democrito e in Stratone da Lampsaco. Questo richiamo a due filosofi materialisti come predecessori di Leibniz, il cui sistema sembra optare per una soluzione spiritualista, si chiarirà meglio laddove si citano alcuni passaggi di Sesto Empirico, altro illustre predecessore di Leibniz secondo Dutens: «Coloro che hanno asserito, che gli atomi *<+ erano i primi elementi

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149 sua filosofia leggendo le pagine di Dutens doveva essere piuttosto sommaria e imprecisa, e tali, di conseguenza, potrebbero benissimo apparire anche le sue critiche, se considerate alla luce di una visione più rigorosa e complessa della filosofia leibniziana. Tuttavia, al di là di questo, ciò che ci interessa per i nostri fini è capire, più in generale, il tipo di obiezioni che Leopardi muove alla filosofia dei «leibniziani» in quanto paradigmatica di una prospettiva metafisica che, presupponendo una sostanziale equivocità tra res cogitans e res extesa, pretende di ricomporre l’unità della natura. Il punto è che, secondo Leopardi, una volta dimostrata l’esistenza necessaria di ciò che è semplice e inesteso sulla base della sua assoluta eterogeneità rispetto a ciò che è esteso e materiale, spiegare il passaggio dall’uno all’altro, dedurre cioè l’esistenza del mondo materiale dal principio spirituale diventa un’impresa impossibile: il fatto è che «fra questo e quello v’è uno spazio immenso, ed a varcarlo

v’abbisogna il salto (che da’ Leibniziani giustamente si nega in natura)»12.

La critica che, facendo leva sul principio di continuità, Leopardi rivolge qui alla filosofia dei «leibniziani», che tenta di spiegare l’unità della natura assegnando un primato al principio spirituale, potrebbe quindi benissimo essere rivolta anche nei confronti di una filosofia che pretendesse, all’opposto, di dedurre lo spirito a partire dalla materia. Considerati da questo punto di vista, tanto lo spiritualismo quanto il materialismo muovono infatti da un presupposto comune, cioè dalla contrapposizione netta tra spirito e materia, pensate come due sostanze eterogenee e assolutamente distinte. Per quanto opposti negli esiti, materialismo e spiritualismo sono quindi identici nei presupposti, perché riconoscono entrambi una contrapposizione netta tra la

materia, pensata come estensione «divisibile e composta»13, e lo spirito,

concepito come semplice e inesteso. Che si voglia spiegare ciò che è materiale a partire da ciò che è spirituale o che si scelga, al contrario, di risalire a ciò che è immateriale a partire dalla composizione sempre più complessa di elementi

delle cose tutte – osserva Sesto Empirico – dissero vero in un senso, e s’ingannarono in un altro. Dissero vero, in quanto riconobbero per principio qualche cosa che sotto i sensi non cade; ma s’ingannarono in quanto cedettero questi principi corporei» (§53). Del resto era stato Leibniz stesso ad affermare come le proprie convinzioni filosofiche «si tengano a mezzo tra Platone e Democrito» (cfr. M. MUGNAI, E. PASINI, Nota storica a: LEIBNIZ, Scritti filosofici, 3 voll., Utet, Torino 2000, vol. I, p. 117).

12 Zib. 1636. 13 Ibid.

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150 materiali, il problema secondo Leopardi resta al fondo sempre lo stesso, vale a dire l’incommensurabilità tra i due piani di realtà così definiti: «Dall’esistenza della materia *<+ non si può argomentare quella dello spirito più di quello che dall’esistenza dello spirito si potesse argomentare quella

della materia»14. Tanto lo spiritualismo quanto il materialismo lasciano quindi

sussistere tra la materia e lo spirito «uno spazio immenso» che non può essere colmato se non attraverso un «salto». L’uno e l’altro si rivelano ugualmente incapaci di spiegare la correlazione tra materia e spirito. Essi sono come due facce della stessa medaglia, l’uno il rovescio dell’altro e possono essere dichiarati insufficienti per le stesse identiche ragioni.

Come abbiamo anticipato, la critica congiunta che Leopardi muove in queste pagine allo spiritualismo e al materialismo può ricordare per certi versi l’atteggiamento che sarà proprio, circa un secolo dopo, della filosofia

bergsoniana15, al limitare della quale ci riporta, non a caso, la stessa immagine

della natura come «sistema di assuefazione». Tale immagine corrisponde infatti in Leopardi al tentativo di spiegare l’unità della natura percorrendo una via intermedia e alternativa tanto rispetto al materialismo quanto rispetto allo spiritualismo, e in qualche modo di sottrarsi all’opposizione netta tra res cogitans e res extensa. Non si tratterà più né di spiegare la realtà della materia a partire da quella dello spirito, né viceversa di dedurre lo spirito dalla materia, ma di far leva su un principio per così dire intermedio tra l’uno e l’altra, e capace di descrivere, senza salti o soluzione di continuità, il passaggio dalla natura inanimata a quella animata, e viceversa. Tale principio, come abbiamo anticipato, è la conformabilità, rispetto al quale materia e spirito, esistenza e vita potranno essere compresi rispettivamente come il grado massimo e il grado minimo, vale a dire come i due poli della natura come «sistema di assuefazione».

2.2. Qualità, disposizioni a essere, disposizioni a poter essere

Abbiamo già visto, nel capitolo precedente, come le «disposizioni» siano per Leopardi tutt’uno con la conformabilità, cioè con la capacità, caratteristica

14 Ibid.

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151 del vivente, di contrarre sempre nuove forme o assuefazioni, di acquisire sempre nuove «qualità». Le «disposizioni» sono quindi ciò su cui si fonda, per ogni essere vivente, la possibilità di divenire, vale a dire di sviluppare, sulla base dell’adattamento a un’infinità di circostanze, una gamma più o meno vasta di assuefazioni o di «qualità». Tuttavia, abbiamo anche visto come, se la conformabilità o assuefabilità è una caratteristica inseparabile dalla vita stessa, non tutti gli esseri ne partecipano allo stesso modo. La conformabilità varia infatti in funzione della complessità strutturale e organizzativa dell’essere vivente e, se l’uomo ne partecipa al sommo grado, l’ameba o il polipo zoofita (per scegliere un esempio leopardiano) ne partecipa invece al grado minimo.

È precisamente per provare ad articolare, seppure in modo solo approssimativo, la differenza tra gli infiniti gradi della conformabilità o della vita che Leopardi introduce la distinzione tra «qualità», «disposizioni a essere» e «disposizioni a poter essere»: se le «qualità», cioè le assuefazioni già acquisite, rappresentano il grado più basso della conformabilità, le

«disposizioni a poter essere», che non sono altro che pure «possibilità»16,

corrispondono invece al suo grado più alto. L’essenza di ogni essere vivente può essere definita allora come un determinato grado della conformabilità, individuato dal particolare rapporto che lo caratterizza tra «disposizioni a poter essere», «disposizioni a essere» e «qualità». Questo rapporto o proporzione varia in funzione della sua complessità organizzativa.

Il passo decisivo compiuto a questo punto da Leopardi consiste nell’aver portato tale discorso all’estremo, cioè nell’aver provato a prolungare il principio della conformabilità, così definito e articolato, anche al di là dei confini della vita o della natura animata:

In questo modo e con questa proporzione passando ai vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena degli esseri, troverete che le naturali disposizioni sono di mano in mano sempre maggiormente ad essere che a poter essere, cioè si restringono, finchè gradatamente si arrivi a quegli enti ne’ quali la natura non ha posto disposizioni nè ad essere nè a poter essere, ma solo qualità. Del qual genere io non credo che alcuna cosa si possa

16 Zib. 3375, 8 settembre 1823.

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152 in verità trovare, esattamente e strettamente parlando, ma largamente si potrà

dire che di tal genere sia questo nostro globo tutto insieme considerato e rispetto al sistema solare o universale, e similmente i pianeti e il sole e le stelle e gli altri globi celesti17.

Attraverso la distinzione tra «qualità», «disposizioni a essere» e «a poter essere», sembra quindi possibile descrivere tutta la natura entro un piano e spiegare, senza salti, il passaggio dalla natura animata a quella inanimata, dal piano della vita a quello della semplice esistenza. La materia si presenta da questo punto di vista, come l’ultimo grado o livello della conformabilità, quello cioè in cui la natura sembra non aver posto altro che «qualità». Così facendo, Leopardi ottiene due risultati significativi. Da un parte, riesce a trasformare la differenza di natura tra spirito e materia in differenza di grado (a ridurre cioè la differenza qualitativa in differenza quantitativa o intensiva): spirito e materia, vita ed esistenza non sono altro che i due poli della conformabilità o della natura come «sistema di assuefazione». Dall’altra parte, Leopardi riesce ad attenuare la stessa opposizione tra libertà e necessità. Pensata come il grado più basso della conformabilità, la materia smette di apparire come il regno della necessità da contrapporre all’assoluta libertà dell’esistenza spirituale. Rigorosamente parlando – come precisa Leopardi – per quanto in basso si possa scendere lungo la catena degli esseri, non si arriverà mai a un livello di esistenza da cui sia del tutto esclusa ogni possibilità di mutamento o di divenire. Tutto sembra spingerci a pensare che anche le «qualità» che definiscono la materia inanimata (le sue proprietà, le sue leggi) possano essere pensate come delle assuefazioni acquisite, e tuttavia talmente antiche, talmente perfezionate e fissate nella ripetizione da apparire ai nostri occhi come leggi naturali eterne e immutabili. «La natura è

infinitamente e diversissimamente conformabile tutta quanta»18: ciò vuol dire

che anche a livello della semplice esistenza materiale, essa conserva sempre

17 Zib. 3378, 8 settembre 1823 (corsivo nostro).

18 Zib. 1957, 20 ottobre 1821. O ancora: «Tutto in natura, e massime nell’uomo, è

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153 un qualche grado di conformabilità o, potremmo anche dire, una qualche

forma di “libertà” o di contingenza19.

Tuttavia, se confrontata con il ritmo della nostra durata, l’esistenza materiale e le sue leggi possono apparire sottoposte a una ferrea necessità, perché i mutamenti che la attraversano sono talmente lenti e progressivi da risultare per lo più impercettibili ai nostri sensi: tale è per noi l’esistenza dell’universo, di «questo nostro globo tutto insieme considerato», così come dei pianeti, del sole, delle stelle e di tutti gli altri globi celesti. Ma la loro non è che una monotonia o un’immobilità solo apparente: come si legge nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, gli «ordini», cioè le leggi che reggono questo nostro mondo (vale a dire l’attuale configurazione assunta dalla materia), «paiono immutabili, e tali sono creduti, perciocchè essi non si mutano se non a poco a poco e con lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le mutazioni loro non cadono appena sotto il conoscimento, non

che sotto i sensi dell’uomo»20. Di questi divenire cosmici, di queste più vaste

trasformazioni che ci eccedono e ci oltrepassano, le «meteore»21 ci offrono di

tanto in tanto come un lontano presentimento.

Adriano Tilgher aveva notato giustamente come, con quest’immagine della natura come «sistema di assuefazione», Leopardi sembri anticipare con una certa consapevolezza la concezione della natura e delle leggi naturali come abitudini cristallizzate che sarà formulata di lì a poco da due dei più celebri esponenti del cosiddetto spiritualismo francese, vale a dire Ravaisson

e Boutroux22. Estendendo i concetti di assuefazione e di conformabilità dalla

natura animata a quella inanimata, Leopardi, come Ravaisson, riesce in effetti a tracciare un piano unico che gli consente di articolare, senza salti o

19 Proprio nel passo dello Zibaldone da cui siamo partiti, G. POLIZZI, Leopardi e le ragioni

della verità, cit., p. 250, ha visto un «segno delle possibili premesse teoriche per una scienza non meccanicistica», che tuttavia Leopardi non ha portato fino in fondo. Così, secondo Polizzi, la stessa «ultrafilosofia», interpretata come «filosofia delle circostanze», avrebbe portato Leopardi non molto distante dalla «scienza della complessità». Analogamente, sebbene più in generale, Natoli ha osservato come la concezione leopardiana della natura tenga insieme caso e necessità, contingentismo e determinismo: l’ordine della natura è pensato infatti da Leopardi come un «ordine non necessario», che avrebbe potuto essere diverso da quel che è (cfr. S. NATOLI, Natura, in: S. Natoli, A. Prete, Dialogo su Leopardi, cit., pp. 124 e sgg.)

20 Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, TPP, p. 579. 21 Cfr. Zib. 3381.

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154 interruzioni, il passaggio dalla vita all’esistenza, dalla coscienza alla materia. Si tratta di un punto di contatto estremamente affascinante, soprattutto

perché, raramente preso in considerazione, sembra quantomeno

scompaginare l’immagine ormai fin troppo consolidata di un Leopardi materialista. Tra questi due autori, esiste tuttavia una differenza decisiva che non deve essere persa di vista se non si vuole cadere nell’eccesso opposto e fare di Leopardi uno spiritualista alla Ravaisson – immagine questa che sarebbe non meno riduttiva della precedente.

Il senso generale dell’operazione compiuta da Ravaisson nel saggio su L’abitudine si trova espresso molto bene nelle parole di Bergson:

Che cos’è la natura? Come raffigurarsene l’intero? Che cosa si nasconde sotto la successione regolare della cause e degli effetti? *<+ Conformemente al suo principio, Ravaisson cerca la soluzione di questo problema molto generale in un’intuizione estremamente concreta, quella che abbiamo del nostro modo d’essere quando contraiamo un’abitudine. L’abitudine motrice, infatti, una volta acquisita, è un meccanismo, una serie di movimenti che si determinano gli uni sugli altri: è la parte di noi che è inserita nella natura e che coincide con essa. Ora, l’esperienza interiore ci mostra nell’abitudine un’attività che, attraverso gradi impercettibili, è passata dalla coscienza all’incoscienza e dalla volontà all’automatismo. Non è allora sotto questa forma, come una specie di coscienza ottenebrata e di volontà assopita, che cu dobbiamo

rappresentare la natura?23

Si tratta, in sostanza, di compiere un’estensione metafisica di quella che era la «doppia legge dell’abitudine», enunciata da Maine de Biran: poiché sappiamo, in base alla nostra esperienza, che l’abitudine non è altro che il risultato di un’attività o di un’azione talmente perfezionata nella ripetizione da essere passata dalla coscienza all’incoscienza, dalla volontà all’automatismo, nulla ci vieta di pensare – come scrive Ravaisson – che «la forma più elementare dell’esistenza, con l’organizzazione più perfetta, *sia+ come l’ultimo momento dell’abitudine». Così, «fino alla vita confusa e

23 BERGSON, La vita e l’opera di Ravaisson, in: Id. Pensiero e movimento, Bompiani, Milano

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155 multipla dello zoofito, fin nella pianta, perfino nel cristallo con questo lume si possono *<+ seguire gli ultimi raggi del pensiero e dell’attività che, pur lontano da ogni riflessione possibile, si disperdono e si dissolvono senza

spegnersi»24. Si tratta cioè di provare a spiegare l’unità o la continuità della

natura, facendo della materia inanimata e delle sue leggi, una «residuo

fossilizzato di un’attività spirituale»25.

Il percorso seguito da Leopardi non parrebbe fin qui essere molto diverso da quello di Ravaisson. Tuttavia, una volta illustrato in questo modo il passaggio dalla natura animata a quella inanimata, Leopardi si affretta a mostrare come questo stesso cammino sia percorribile anche in senso inverso:

Da questo genere di esseri rimontando indietro per insino all’uomo, troveremo sempre di mano in mano decrescere secondo l’ordine delle specie e de’ generi, il numero e l’efficacia e l’importanza delle qualità *<+ e crescere altrettanto il numero o l’estensione, la varietà o piuttosto la variabilità o adattabilità delle disposizioni in esse dalla natura ingenerate: e queste disposizioni esser da principio solamente, o quasi del tutto, ad essere, poscia eziandio a poter essere, e ciò sempre più salendo pe’ vegetabili ai polipi, indi per le varie specie d’animali fino alla scimia, e all’uomo26.

Verificando in questo modo la doppia percorribilità della serie o della catena degli esseri, l’intento di Leopardi non è solo quello di esibire l’assoluta continuità della scala, ma anche quello di mostrare l’indifferenza di percorrerla in un senso o nell’altro. In questo modo Leopardi mostra, a differenza di Ravaisson, di non voler riconoscere alcun primato alla coscienza o all’«attività spirituale». La conformabilità può essere ugualmente considerata come un principio spirituale o materiale. Ciò che conta è il suo essere una funzione capace di descrivere, lungo una linea continua e quasi con un unico gesto, il passaggio dalla vita all’esistenza, e viceversa. E se anche Ravaisson, nel saggio sull’abitudine, compirà il doppio percorso (salendo però dapprima dalla materia alla coscienza e poi da qui ridiscendendo verso la natura inanimata),

24 RAVAISSON, L’abitudine, cit., parte II, § 3; p. 70. 25 BERGSON, op. cit., p. 222.

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156 ciò tuttavia sarà solo per arrivare alla conclusione che è unicamente in senso discendente, assegnando cioè un primato alla coscienza o all’attività spirituale, che il movimento descritto potrà essere continuo e quindi in grado

di spiegare l’unità della natura27. Leopardi tende invece a stabilire una sorta

di identità, o meglio, di convertibilità tra i due possibili modelli di spiegazione: materialismo e spiritualismo non sono che due punti di vista sulla stessa realtà, cioè della natura come un «sistema di assuefazione». Ciò che conta è che la conformabilità, assunta come principio unico di spiegazione, consente di porre tutti gli esseri su di un unico piano e di passare per gradi, senza salti o soluzione di continuità, dalla natura organica a quella inorganica, e viceversa; poco importa poi che la si voglia considerare come un principio materiale o spirituale.

La differenza decisiva tra Leopardi e Ravaisson sta tutta qui: mentre quest’ultimo pensa l’abitudine, da cui deduce la materia, come un principio o come un’attività che emana da una sostanza spirituale, Leopardi considera la conformabilità come una sorta di principio intermedio, teso tra lo spirito e la materia. Se l’esistenza inanimata, da una parte, rappresenta il grado più basso della conformabilità, la vita, dall’altra, nella molteplicità della sue manifestazioni e variazioni, rappresenta invece il grado sempre più alto della conformabilità, il prevalere delle disposizioni sulle qualità, del divenire e della differenza sull’identità: «La vita si può, secondo le fin qui dette considerazioni, definire una maggiore o minore conformabilità, un numero e valore di disposizioni naturali prevalente in certo modo (più o meno) rispetto

a quello delle ingenite qualità»28. Non solo tra l’uomo e l’animale, ma anche

tra l’animale e il vegetale, e tra il vegetale e il minerale, non c’è una differenza di natura ma di grado.

La natura, in quanto «sistema di assuefazione», deve quindi essere immaginata come un intreccio di «qualità», «disposizioni a essere» e «a poter essere»: vale a dire come un unico piano di composizione rispetto al quale la

27 Procedendo inizialmente dal piano della natura inorganica a quello della coscienza,

Ravaisson era stato costretto in un primo momento a riconoscere, nel passaggio dagli esseri inanimati a quelli animati (e suscettibili di abitudine), l’esistenza di un salto (cfr. L’abitudine, cap. I). È solo percorrendo la scala a ritroso che egli potrà affermare l’unità della natura (cfr. ivi, cap. II).

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157 conformabilità si presenta come principio immanente del divenire e della differenza. È grazie ad esso, e sulla base di piccole variazioni determinate da circostanze del tutto casuali, che si contraggono sempre nuove assuefazioni, cioè si determinano nuovi stati di cose e si producono nuove e imprevedibili configurazioni della realtà. Quest’immagine della natura non si allontana poi molto, a ben vedere, da quella descritta nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, dove «le forze eterne», che continuamente «agitano e muovono» la materia in ogni direzione, ridisegnano ogni volta l’ordine dei mondi, la faccia sempre cangiante dell’universo29.

3. La questione della materia pensante

Il tentativo, che abbiamo condotto finora, di mostrare come la posizione filosofica di Leopardi si definisca a partire dalla ricerca di un’alternativa tra materialismo e spiritualismo, sembrerebbe definitivamente contraddetto dall’ipotesi della materia pensante, avanzata nelle pagine dello Zibaldone del

182730 e che parrebbe sancire definitivamente l’immagine di un Leopardi

materialista31. Tuttavia ci sembra che, se esaminata con una certa cautela, la

questione della «materia pensante» sembra deporre a favore del materialismo di Leopardi non più di quanto essa possa essere addotta come una prova del materialismo di Locke, che nell’Essay si era fatto portavoce di questa stessa ipotesi.

La questione della materia pensante, che l’illuminismo francese aveva riportato al centro del dibattito filosofico ponendola al servizio di un pensiero fondamentalmente ateo e materialista, era stata inizialmente sollevata da Locke con un intento strettamente epistemologico. Nel Saggio sull’intelletto umano, nell’ambito di un’indagine attorno ai limiti e all’estensione della

29 Cfr. SPINOZA, lettera 64 a Schuller (in Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi,

Torino 1951, p. 260) dove la natura, considerata come Individuo totale in continua trasformazione, viene definita come «facies totius universi».

30 Cfr. Zib. 4251-53, 9 marzo 1827 e 4288-89, 18 settembre 1827.

31 In generale, sul materialismo leopardiano e sui suoi vari aspetti rimandiamo a S.

TIMPANARO, Il pensiero di Leopardi e Il Leopardi e i filosofi antichi, in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, pp. 133-228.

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158 conoscenza umana, Locke aveva osservato incidentalmente come l’ipotesi secondo Dio potrebbe aver dotato la materia della facoltà di pensare, giudicata inammissibile dalla nostra intelligenza, non possa essere in alcun modo esclusa con certezza, dal momento che si trova al di là delle nostre

possibilità conoscitive32. Poiché infatti l’estensione delle nostre conoscenze è

inferiore non solo alla realtà delle cose (dal momento che non può andare al di là delle idee che possediamo), ma anche «all’estensione stessa delle nostre

idee»33, niente ci garantisce che, se la nostra mente non riesce a concepire

nessuna relazione tra l’idea di materia e quella di pensiero, ciò non sia semplicemente imputabile a un suo limite intrinseco anziché a un’impossibilità oggettiva. In altre parole, nulla ci vieta di considerare, anche solo in via ipotetica, che le cose a cui queste idee si riferiscono possano essere tra loro realmente connesse, e neppure che tra queste due idee possa darsi un qualche tipo di relazione che noi tuttavia non riusciamo a concepire. Noi non siamo in grado di abbracciare distintamente tutta l’estensione della nostra idea di pensiero o, detto altrimenti, «non sappiamo in che cosa consista il

pensare»34. Per questo, nulla ci permette di affermare con certezza che

l’ipotesi della materia pensante sia in se stessa contraddittoria o che Dio non possa aver creato (o non possa in alcun modo poter creare) una materia capace di pensare.

32 Cfr. J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, cit., libro IV, cap. III, § 6. Per una

ricostruzione del dibattito attorno alla materia pensante a partire da Locke e con particolare riguardo all’Inghilterra, cfr. J. W. YOLTON, John Locke and the way of Ideas, Oxford University Press, London 1968, pp. 148-166. L’interesse della ricostruzione di Yolton sta soprattutto nel mettere in luce come la questione tenda sempre di più ad allontanarsi dal terreno strettamente epistemologico, in cui l’aveva posta inizialmente Locke, per approdare a quello teologico e morale e trasformarsi in un’affermazione tacciata di materialismo o di ateismo.

33 LOCKE, op. cit., p. 1011.

34 Ivi, p. 1013. Scrive in particolare Locke, pp. 1011-13: «la nostra conoscenza non

raggiungerà mai tutto quello che desideriamo conoscere a proposito di tutte le idee che abbiamo». Ad esempio, «noi abbiamo l’idea di quadrato, di cerchio e di uguaglianza, e forse non saremmo mai in grado di scoprire un cerchio uguale a un quadrato e sapere con certezza che cosa sia». Analogamente, «noi abbiamo le idee di materia e di pensiero, ma forse non saremo mai capaci di sapere se un qualunque essere puramente materiale sia dotato di pensiero oppure no, essendo impossibile per noi, mediante la sola contemplazione delle nostre idee *<+, scoprire se l’Onnipotente abbia dato a certi sistemi di materia opportunamente disposti la facoltà di percepire e pensare, oppure non abbia congiunto e associato alla materia un’altra sostanza con la facoltà di pensare».

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159 La questione della materia pensante, così come viene riproposta da Leopardi nelle pagine dello Zibaldone, ci sembra più vicina ai problemi di ordine epistemologico sollevati da Locke che alle esigenze di un materialismo militante alla d’Holbach. Ci sembra che, come per Locke, anche per Leopardi, prendere in considerazione l’ipotesi della materia pensante voglia dire innanzitutto riconoscere come le possibilità della realtà non si esauriscano entro i limiti delle nostre possibilità conoscitive. Ma questa, che per Locke era una semplice constatazione epistemologica, diventa per Leopardi la premessa per una “sperimentazione” che consiste nel provare ad andare al di là dei limiti della nostra conoscenza. Se ha senso, per Leopardi, tentare di superare questi limiti, è perché essi non sono innati, ma acquisiti, sono cioè il prodotto dell’assuefazione e rispondono a un’utilità pratica. Parlando di «materia pensante», non si tratta quindi tanto di ridurre il pensiero alla materia, ma piuttosto di provare a spingersi (secondo una pratica che sarà poi elevata a metodo nella cosiddetta «intuizione» bergsoniana) oltre quella che è la nostra maniera abituale di conoscere e di pensare, che ci fa supporre la materia del tutto incapace di sentire o che ci porta a considerare res cogitans e res extensa come due realtà assolutamente separate e distinte. Come cercheremo di mostrare, la materia pensante di cui parla Leopardi non è la materia, quale noi abitualmente la concepiamo, con in più la capacità di pensare, ma una realtà irriducibile tanto alla materia tanto al pensiero intesi in senso tradizionale.

Parlare di materia pensante, cioè affermare che la materia possiede in se stessa la capacità di sentire e di pensare, per Leopardi vuol dire innanzitutto partire da un fatto, cioè da una constatazione che si offre immediatamente alla nostra esperienza, indipendentemente da tutte le distinzione filosofiche che sono state introdotte tra materia e spirito, tra sostanza estesa e sostanza pensante. Noi facciamo quotidianamente esperienza di corpi – vale a dire di cose di cui non possiamo conoscere con certezza se non che sono corpi – che pensano e che sentono: «Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini e animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere

che sieno altro che corpi»35. Ciò di cui facciamo immediatamente esperienza

35 Zib. 4252. Così poche righe dopo: «Perchè tu vedi al mondo cose che pensano e

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160 quindi non sono né lo spirito né la materia presi separatamente, ma la materia pensante, cioè una sorta di realtà “impura”, in cui materia e pensiero di danno insieme. Per questo, come osserva Leopardi, «parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l’andamento naturale dell’intelletto e del discorso», noi avremmo fin dall’inizio «dovuto dire e tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e sente»36. Tuttavia, né il materialismo né lo

spiritualismo sembrano prendere minimamente in considerazione

quest’evidenza. L’uno e l’altro partono dagli stessi identici presupposti, vale a dire dalla separazione e dalla contrapposizione netta tra una sostanza estesa, discreta e infinitamente divisibile, e una sostanza pensante, semplice e indivisibile, e si ingegnano poi per cercare di spiegare la loro unione propendendo ora a favore dell’una ora a favore dell’altra. L’ipotesi della materia pensante si pone quindi sin da subito come alternativa tanto rispetto all’una quanto rispetto all’altra posizione filosofica, nella misura in cui implica un diverso taglio sul reale. Parlare di materia pensante vuol dire rifiutare ogni separazione qualitativa tra materia e pensiero, e provare a partire dal presupposto della loro unione o della loro indistinzione. Sarebbe quindi un errore intendere tale ipotesi in senso riduzionista. Parlando di materia pensante, Leopardi non intende ridurre il pensiero alla materia e affermare la sola realtà di quest’ultima, ma individuare (innanzitutto

attraverso il linguaggio37) una realtà intermedia tra la materia e il pensiero

qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia» (Zib. 4253). Leopardi non sta facendo qui un’osservazione ontologica, ma gnoseologica o epistemologica: come aveva già avuto occasione di osservare più volte nello Zibaldone, per un suo limite intrinseco, «la mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di là non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una maniera di essere, una cosa diversa dal nulla» (Zib. 601-2, 4 febbraio 1821). Detto altrimenti, la materia è, tra tutti i possibili modi di essere, «l’unico *<+ che noi possiamo effettivamente conoscere, e distintamente immaginare», cioè l’unico che noi possiamo conoscere non solo come possibile, ma anche come reale (cfr. Zib. 2073-5, 8 novembre 1821). Ma tutto ciò non vuol dire affermare che esiste solo la materia. Più che come un “materialismo ontologico”, quello leopardiano dovrebbe quindi essere a rigore definito come un “materialismo epistemologico”.

36 Zib. 4251.

37 Per Leopardi esiste un nesso strettissimo tra linguaggio e conoscenza, al punto che «le

idee sono inseparabili dalla parole» (Zib. 2584, 27 luglio 1822) e che «la storia delle lingue è poco meno *<+ che la storia della mente umana» (Zib. 1134, 29 maggio – 5 giugno 1821). Ma su questo cfr. anche Zib. 1467-68, 7 agosto 1821, e Zib. 1657-58, 9 settembre 1821. Parlare di «materia pensante» è quindi in un certo senso un modo per fissare una nuova idea e per abituarsi a individuare un nuovo oggetto che la nostra maniera consueta di parlare (e di

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161 intesi in senso tradizionale o quali noi li concepiamo abitualmente sulla base delle distinzioni imposte dalla nostra intelligenza.

Le idee correnti di spirito e materia, concepiti come due sostanze assolutamente separate ed eterogenee, sono infatti, secondo Leopardi, figlie entrambe della pura ragione, della sua logica oppositiva e riduzionista. Non meno dell’idea di spirito come «sostanza che non è materia» (idea puramente chimerica e negativa in quanto si fonda sulla negazione di tutte le qualità che noi possiamo distintamente conoscere o immaginare), la stessa idea di materia «dedotta dall’enumerazione di certe sue qualità comuni come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili», è anch’essa un’idea astratta, del tutto priva di riferimento reale, perché pretende di esprimere «collettivamente un’infinità di oggetti *<+ differentissimi in verità». Per Leopardi l’unica definizione che si può dare della materia è quella che racchiude in essa tutto ciò «che cade e che può cader sotto i nostri sensi, tutto

quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire»38. Ma

ciò che cade sotto i nostri sensi, ciò di cui noi facciamo esperienza, sono appunto corpi che pensano e che sentono. Di qui l’ipotesi epistemologica della «materia pensante», con cui Leopardi tenta di superare l’opposizione astratta, esacerbata dalla ragione moderna, tra spirito e materia.

Parlare di «materia pensante» significa quindi, come abbiamo visto, partire dalla nostra esperienza, provando a forzare quella che è la nostra maniera abituale di pensare secondo distinzioni prestabilite. Considerata prima che intervengano tutte le distinzioni imposte dall’intelligenza, la materia ci appare come «materia pensante», cioè come composta di corpi che pensano e che sentono. Si tratta di partire da una nuova redistribuzione della realtà e quindi anche dei problemi filosofici che possono essere sollevati attorno ad essa. Tali problemi non sono più posti a partire da distinzioni filosofiche astratte o precostituite, ma a partire da un’esperienza concreta, sulla base della quale materia e pensiero si danno insieme e la loro congiunzione appare come un fatto. Per Leopardi non si tratta più di spiegare

pensare) ci impedisce di vedere o di concepire. Sulla concezione leopardiana del linguaggio anche in relazione alla teoria della conoscenza, rimandiamo ai numerosi contributi di S. GENSINI, di cui ricordiamo in particolare: Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politico-culturali, il Mulino, Bologna 1984.

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162 il pensiero a partire dalla materia, né viceversa la coscienza a partire dalla materia. Comunque si tenti di risolverlo, il problema della correlazione tra materia e spirito è un problema mal posto in partenza e in sostanza insolubile, perché sollevato a partire da un’errata definizione tanto dell’una quanto dell’altro. Ciò che ora appare come veramente bisognoso di una prova o di una dimostrazione, non è che la materia possa pensare e sentire, ma semmai il fatto che non possa farlo; ciò che deve essere dimostrato, in altri termini, non è la congiunzione di materia e pensiero, di corpo e anima, ma

piuttosto la loro presunta disgiunzione39. Si tratta quindi di invertire la nostra

maniera abituale di pensare, quella stessa che ha indotto «molti grandi spiriti,

come Bayle»40, a ritenere che la materia pensante sia un paradosso,

un’assurdità o un’impossibilità: «Diversamente andrebbe la cosa – osserva Leopardi – se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto

l’animo degli uomini verso questo problema»41.

Attraverso l’ipotesi della materia pensante, Leopardi vorrebbe quindi provare a disporre la nostra mente in modo completamente diverso rispetto a quello che è il problema del rapporto tra pensiero e materia, cercando di correggere, o per lo meno di aggirare, gli errori insiti nella nostra maniera abituale di conoscere e di pensare. L’esperienza ci fornisce continuamente esempi di materia pensante, cioè esempi di corpi che pensano e sentono. Tuttavia, poiché la nostra maniera usuale di concepire la materia come estensione inanimata e infinitamente divisibile, ci impedisce di concepire come ciò avvenga, per spiegare il pensiero e la sensibilità ci siamo trovati

39 Inscenando un rapido scambio di battute con un ipotetico filosofo spiritualista, che

ricorda i toni di alcune Operette, Leopardi osserva: «Io veggo dei corpi che pensano e che sentono *<+. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. – Signor no; anzi voi direte: la materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè sentire. – Oh perché? Perché noi non intendiamo come lo faccia *<+ Provatemi che la materia possa pensare e sentire. – Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova. Noi vegghiamo corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. – Quei corpi non sono essi che pensano. – E che cos’è? – È un’altra sostanza che è in loro. – Chi ve lo dice? – Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare. – Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare» (Zib. 4252-3)

40 Zib. 4288. 41 Ibid.

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163 costretti a presupporre l’esistenza di una sostanza spirituale, del tutto eterogenea rispetto alla materia. Ma, in questo modo, per cercare di risolvere un problema mal posto, ne abbiamo sollevato un altro ancora più insolubile, cioè quello della congiunzione tra due sostanze concepite come assolutamente separate. Così, non riuscendo, sulla base delle nostre categorie filosofiche, ad ammettere la possibilità di corpi che pensano o di una materia pensante, abbiamo preferito racchiudere le possibilità della realtà entro i limiti delle nostre possibilità conoscitive. Piuttosto che ripensare o allargare il concetto stesso di materia, abbiamo preferito rifugiarci in un’idea negativa, ancora più incomprensibile o inconcepibile, quella di un’anima o di spirito separato, assolutamente eterogeneo rispetto alla materia e che non è che «una parola, senza idea possibile; o vogliam dire un’idea meramente negativa e

privativa, e però non idea»42.

In questo senso, cioè con un valore prevalentemente metodologico, deve essere intesa l’analogia tra la potenza di pensare ed altre proprietà della

materia, come l’elettricità e l’elasticità43. Se non facessimo esperienza di questi

fenomeni, cioè se non conoscessimo l’esistenza di «corpi elastici, elettrici

ec.»44, probabilmente penseremmo che la materia di per se stessa non possa

compiere simili azioni. Tuttavia, una volta che ne abbiamo constatato l’esistenza, nessuno nega che l’elasticità o l’elettricità siano capacità o proprietà che ineriscono alla materia non meno dell’estensione. Allo stesso modo, secondo Leopardi, si dovrebbe ragionare per quanto riguarda il pensiero, attività di cui la materia si dimostra capace sulla base della nostra esperienza: poiché vediamo corpi che pensano e che sentono, dovremmo

poter concludere che «la materia può pensare e sentire; pensa e sente»45.

L’osservazione di fenomeni come l’elettricità e l’elasticità non ci induce a postulare l’esistenza di una qualche sostanza occulta, diversa dalla materia,

42 Zib. 4253. Analogamente, in Zib. 603, 4 febbraio 1821, Leopardi aveva osservato: «Noi

vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi. Che vogliamo noi andar oltre, e analizzare la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e *<+ pronunciare ch’ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti?». Cfr. anche Zib. 4111, 11 luglio 1824.

43 Cfr. in partic. Zib. 4251-52 e, più sotto, nell’ultimo paragrafo di Zib. 2453. 44 Zib. 4252.

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164 che ne sia la causa, ma ci porta semmai a mettere in discussione, ad ampliare, la concezione della materia di matrice cartesiana, a pensarla cioè non più come semplice estensione inerte, ma come un’estensione costantemente

percorsa da forze46. Qualcosa di analogo dovrebbe accadere anche a proposito

della potenza di sentire e di pensare, di cui la materia si dimostra capace e che dovrebbe portarci a riconoscere credito all’ipotesi della materia pensante. Ma ciò, per Leopardi (vale forse la pena di ripeterlo ancora una volta) non vuol dire ridurre il pensiero alla materia, spiegare il pensiero attraverso la materia, ma muoversi nella direzione di un progressivo riconoscimento dell’indistinzione tra materia e spirito, pensati non più come due sostanze realmente separate ma come due aspetti o due facce della stessa realtà. Sembra che in fondo, parlando di materia pensante, l’intento di Leopardi sia quello di introdurre un monismo in grado di conciliare materialismo e spiritualismo: «forse le conclusioni degli uomini su questo punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai meno difficoltà ed

assurdità nel materialismo»47.

L’equiparazione tra il pensiero e altre manifestazioni energetiche della materia, come l’elettricità e l’elasticità, è uno degli aspetti che hanno maggiormente indotto alcuni studiosi a credere che la posizione filosofica di Leopardi riguardo alla materia pensante fosse in sostanza riconducibile a

quella espressa da d’Holbach48. Ora, se è ben possibile che l’idea di questo

accostamento tra pensiero ed elettricità possa essergli stata suggerita proprio dalla lettura del Buon senso, tuttavia ci sembra altrettanto evidente il fatto che Leopardi si discosti nettamente da d’Holbach per quanto riguarda la funzione argomentativa assegnata a questa equiparazione. Per Leopardi, che non fu riduzionista come d’Holbach, non si tratta di considerare il pensiero come

46 Cfr. anche Zib. 4189-90, 28 luglio 1826: «Le pretese leggi della natura non sono altro

che fatti che noi conosciamo» e per questo «oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accade p. e. nel Mesmerismo».

47 Zib. 4288-89.

48 È la tesi avanzata in particolare da S. TIMPANARO: si veda ad esempio la sua

introduzione a Il buon senso di d’Holbach, Garzanti, Milano 1985, pp. LXIII-LXIV (nota 165 in partic.). Secondo Timpanaro, Leopardi quasi certamente non conobbe il Sistema della natura, ma lesse invece il Buon senso, di cui conobbe la paternità, nel maggio del 1825, come si evince dagli indici delle letture leopardiane.

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165 identico a una qualsiasi altra manifestazione energetica della materia e dunque

passibile di una medesima spiegazione49, ma piuttosto di stabilire tra

l’interpretazione che comunemente diamo di questi fenomeni una sorta di analogia “metodologica”: come l’osservazione di fenomeni quali l’elettricità e l’elasticità ci spinge a ripensare la nostra concezione della materia quale semplice estensione inerte, così l’osservazione della potenza di pensare ci dovrebbe indurre ad ammettere che ciò che esiste è qualcosa che si potrebbe chiamare una «materia pensante».

«Se noi abbiamo conchiuso – osserva ancora Leopardi – non poter la materia pensare o sentire, perchè le altre cose materiali, fuori dell’uomo e delle bestie, non pensano è sentono (o almeno così crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non posson esser

della materia, perchè solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no»50.

Quello che ci interessa qui è soprattutto la precisazione posta tra parentesi («o almeno così crediamo noi») perché ci lascia intravedere come Leopardi, parlando di materia pensante, intenda forse qualcosa di molto più ampio rispetto a ciò a cui, nello specifico, si riferiva d’Holbach, il quale

fondamentalmente identificava la materia pensante con il cervello51. La verità

è che per Leopardi tutta la materia è pensante, nel senso che possiede, in ogni sua parte, se non proprio la facoltà in atto, per lo meno la disposizione a pensare e a sentire, esattamente come possiede la disposizione al mutamento e al divenire. Per questo, se proprio di materialismo si vuole continuare a parlare nel caso di Leopardi, sembra che, più al materialismo austero e monolitico di d’Holbach, è a quello più mosso e inquieto di Diderot che ci si debba richiamare. Nel Rêve de D’Alembert, Diderot aveva distinto tra vita o sensibilità attiva e vita o sensibilità inerte. Quest’ultima non è che una pura potenzialità o una tendenza che si trova in ogni molecola o particella di materia e che

semplicemente si attiva con l’organizzazione52. La sensibilità e la vita

49 Per D’Holbach il movimento della materia (inteso come energia, dinamismo, azione)

si spiega in particolare a partire dalla sue eterogeneità (cfr. D’HOLBACH, Il buon senso, cit., § 39).

50Zib. 4253, corsivo nostro.

51 Cfr. TIMPANARO, introduzione a Il buon senso, cit., p. XXXVIII.

52 Cfr. DIDEROT, Le rêve de D’Alembert, Flammarion, Paris 2002. Diderot aveva

elaborato questa distinzione in analogia con la nozione di «forza viva», introdotta da Leibniz per distinguere la forza di un corpo attualmente in movimento da quella di un corpo che non

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166 sarebbero cioè proprietà diffuse, anche solo virtualmente, in tutta la natura. Attraverso questa distinzione, Diderot aveva inaugurato una concezione del tutto sui generis della materia con cui sperava, esattamente come Leopardi, di superare il dualismo tra natura organica e natura inorganica, tra vita e materia inanimata. L’immagine della natura che ne risulta non è molto diversa da quella descritta da Leopardi, cioè di una natura come tutto unico e continuo, dove le differenze tra gli esseri non sono altro che transizioni tra gradi impercettibili.

4. Natura e ragione

Il tentativo, presente nel pensiero leopardiano e su cui abbiamo più volte insistito in queste pagine, di andare oltre i limiti della nostra maniera abituale di conoscere e, più in particolare, delle possibilità conoscitive che la ragione ci dischiude, merita forse di essere chiarito ulteriormente. Ciò ci fornisce del resto l’occasione per accennare a un altro aspetto, fin’ora trascurato, dell’“immagine” leopardiana dalla natura. Se per Leopardi ha senso forzare i limiti della nostra conoscenza razionale (ad esempio attraverso l’ipotesi della «materia pensante», che sembra voler scompaginare un certo ordine di pensiero stabilito a partire dalla distinzione astratta tra res cogitans e res extesa) è innanzitutto perché questi limiti non sono necessari, oggettivi o innati, non fanno cioè parte della natura della nostra mente, ma sono qualcosa di prodotto, di acquisito per mezzo dell’abitudine, del linguaggio, etc. Come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo precedente, per Leopardi, «la

stessa nostra ragione è una facoltà acquisita»53.

ha che la tendenza al movimento (sulla questione della forza viva cin Leibniz, cfr. lo studio di M. GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, Aubier-Montaigne, Paris, 1967, ch. III, pp. 21-55). Per un inquadramento più generale della questione della sensibilità viva e della sensibilità inerte in Diderot, rimandiamo all’introduzione di C. DUFLO a Le rêve de D’Alembert, cit., pp. 9-46.

(25)

167 Tra «natura» e «ragione» esiste una contrapposizione che Leopardi non

si stanca di sottolineare e che, accanto al significato vitale ed edonistico54,

acquista anche un’accezione più propriamente gnoseologica ed

epistemologica. La conoscenza razionale non è solo ciò dissipa le illusioni e allontana l’uomo dalla sua perfezione, cioè dalla possibilità di essere felice secondo la sua natura (com’è rappresentato in forma “mitologica” nella Storia del genere umano), ma anche ciò che, rendendo la nostra conoscenza sempre più astratta, sempre più analitica, ci toglie la possibilità di conoscere la natura nel suo complesso. La ragione, per cui conoscere vuol dire soprattutto dividere e analizzare, è capace solo di «risolvere e disfar la natura» nelle sue singole parti, ma non di «ricomporla» in un tutto unico. Tuttavia, senza uno sguardo d’insieme, senza una visione dall’alto, è impossibile spiegare fenomeni come la vita, la sensibilità o la coscienza, per comprendere i quali è necessario cogliere «il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzione vera e profonda della

natura, *<+ la cagion finale del suo essere e del suo esser tale»55. La

conoscenza logico-razionale decompone la natura, la riduce a un «corpo morto», a un puro meccanismo dal quale non si può più né dedurre né

spiegare la vita56. Per Leopardi, il più utile impiego che si può fare di questa

attitudine all’analisi, portata all’estremo dal razionalismo moderno, non è gnoseologico, ma metodologico: l’analisi logico-razionale deve servire cioè non per conoscere la natura o per formulare ipotesi attorno ad essa, ma per confutare i vecchi sistemi, gli errori che la ragione stessa e la filosofia hanno

prodotto57. In questo senso, Leopardi poteva affermare che «la pura ragione

54 Tra i numerosi passi dello Zibaldone a questo riguardo, si consideri in particolare Zib.

14: «La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono essere grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalla illusioni». Ma cfr. anche Zib. 180-81 (12-23 luglio 1820), 492-4 (21 gennaio 1821) e 1464-65 (7 agosto 1821), dove la ragione è definita come ciò che, togliendo le illusioni naturali e mostrando i confini reali delle cose, restringe le possibilità del piacere.

55 Zib. 3238, 22 agosto 1823. 56 Cfr. Zib. 3237-45, 22 agosto 1823.

57 Cfr. in partic. Zib. 2706-12, 21 maggio 1823. F. BRIOSCHI, Forza dell’assuefazione, in Lo

Zibaldone cento anni dopo<. vol. II, pp. 737- 50, ha parlato giustamente a questo proposito e con specifico riferimento a Leopardi di «razionalismo metodologico, e non gnoseologico, che

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