3. MANZONI, DEGOLA E I LUMI DELLA FEDE
3.1 INTRODUZIONE
La parola “conversione” deriva dal latino “convertere” e indica un cambiamento improvviso e radicale: la forma riflessiva “se convertere” indica il voltarsi indietro, il ritornare sui propri passi; la parola richiama poi etimologicamente anche il verbo “evertere” che significa distruggere, e che, in riferimento al convertirsi, fa riaffiorare l’immagine di un cambiamento netto ed improvviso: convertirsi esige l’annientamento radicale dell’Uomo Vecchio e la successiva costruzione di quello Nuovo. Stando a tale definizione, si deve necessariamente convenire che nulla accadde nella vita di Manzoni di più lontano da questo. Si utilizzerà, perciò, la parola “conversione” consapevolmente, solo in nome della tacita convenzione che ha messo d’accordo gli studiosi, i quali, in un secolo e mezzo di studi manzoniani, hanno voluto avvalersi di questo termine per indicare quel passaggio dall’ateismo alla fede che è un fatto fondamentale della vita Manzoni.
In questo capitolo si è cercato di mostrare l’esistenza di un paradigma di conversione che emerge con forza nelle pagine dedicate al passaggio alla fede dell’Innominato. Questo paradigma è il risultato di uno studio sul tema a cui Manzoni si è dedicato molto, come testimonia anche l’altra conversione presente nel Romanzo; è sembrato perciò utile iniziare il capitolo con una comparazione tra gli esempi differenti di conversione che Manzoni offre nel Fermo e Lucia e nei
Promessi Sposi: oltre a quella dell’Innominato, sono state considerate le
conversioni di Fra Cristoforo e del Conte del Sagrato. Insieme alla conversione è stata anche studiata la vicenda della monaca e la storia del suo pentimento: Gertrude infatti prende coscienza dei propri crimini e si ravvede sotto la spinta della potenza della Grazia, che è il motore della conversione. La dettagliata analisi di queste pagine, appartenenti alle due versioni del Romanzo, ha mostrato come
nel Fermo e Lucia l’aderenza alle idee giansenistiche sia maggiore rispetto al quanto emerge nei Promessi Sposi.
Un’idea comune rende ad ogni modo simili tutte le conversioni del Romanzo: quella per cui esse vengano operate dalla Grazia di Dio e in nome della sua Misericordia.
Si è cercato, perciò, di dimostrare come l’influenza giansenistica abbia giocato un ruolo importante nell’ elaborazione dei concetti di “Misericordia di Dio” e “Grazia di Dio” da parte di Manzoni. Questi termini sono infatti parole parlanti che appartengono ad un lessico preciso, il quale oltre ad essere comunemente cristiano, è peculiarmente giansenistico. Le parole “Misericordia” e “Grazia” ricorrono spessissimo nella loro accezione giansenistica non solo nei testi dei Macolatisti pavesi, ma anche negli epistolari delle persone più vicine a Manzoni con accezioni particolari e in certo modo differenti rispetto al loro uso nel cristianesimo ortodosso. Per stabilire con sicurezza la portata dell’influenza giansenistica sull’elaborazione di questi due concetti in Manzoni, è stato necessario fare una panoramica che studiasse l’evoluzione dei due termini attraverso l’analisi dei testi scritti a partire dalla conversione fino al 1827. Questa storia che, attraverso i testi, ricostruisce il pensiero religioso di Manzoni mostra come lo scrittore si sia, pur con qualche ricaduta, gradualmente allontanato dalle posizioni rigide del giansenismo tradizionale, che poggiava la propria visione pessimistica del rapporto uomo / Dio sulla complessa dottrina della Grazia di S. Agostino.
Successivamente la conversione dell’Innominato è stata isolata per il suo carattere universale e si è cercato di dimostrare come il paradigma su cui essa si costruisce derivi dal vissuto biografico e, soprattutto, dall’interpretazione che Manzoni diede a quell’evento appoggiandosi alla visione di Degola in fatto di conversione: a ben vedere, infatti, il paradigma istituito da Manzoni nella conversione dell’Innominato è identico a quello istituito da Degola nel suo discorso di abiura per Enrichetta Blondel e si compone di tre elementi: la crisi psicologica; l’intervento della parola, di persone ed eventi divenuti strumento della grazia divina; l’intervento della Chiesa.
In seguito entrando nel vivo della dialettica filosofica, sulla base di una suggestione offerta dal Raimondi, si è voluto mostrare come Manzoni avesse parzialmente rettificato Pascal: lo scrittore lombardo, infatti, insieme a Degola e
Grégoire, credeva che la ragione avesse un ruolo di primo rilievo nel processo di conversione. Secondo Manzoni la ragione, non soltanto può, ma deve persuadersi della bontà dei precetti divini, sottomettendosi al Vangelo, non tramite il proprio accecamento, ma attraverso un esame lucido dei suoi insegnamenti. Nell’ultimo paragrafo del presente lavoro è stato studiato il ricorrere in Degola e Manzoni di una metafora molto antica che vede il passaggio dalle tenebre alla luce come allegoria del processo di conoscenza. L’immagine, nata già nel Vangelo, utilizzata da Sant’Agostino nel VII libro delle Confessiones, ritorna spessissimo nell’Exhortation à une nouvelle catholique di Degola, anche in virtù dell’uso che di essa facevano i giansenisti italiani. Manzoni, probabilmente ispirandosi al Degola, riprende velatamente questa metafora nella conversione dell’Innominato, facendo in modo che il percorso di conversione di quest’ultimo si configuri come un passaggio dalle tenebre.
3.2 IL MIRACOLO DELLA CONVERSIONE E DEL
PENTIMENTO NEL ROMANZO E LA SUA ADERENZA
ALLE IDEE GIANSENISTICHE
Per molto tempo la sterminata critica che si è dedicata a questo tema ha cercato di considerare la portata effettiva della leggenda del miracolo, tentando di strappare al silenzio quasi assoluto di Manzoni 1 una confessione di verità. Nell’arco di un secolo di studi si è giunti a comprendere che Manzoni poté riaccostarsi alla fede soltanto dopo un lungo percorso di due anni, in cui gli eventi della vita e le vicissitudini della propria arte ebbero pari importanza e, sovrapponendosi, portarono a quel cambiamento straordinario che tanto effetto ebbe sul pensiero dell’uomo e sull’arte dello scrittore.
Sembra giusto sin da ora collocare al suo posto un tassello che nell’ambito della conversione di Manzoni è sempre risultato scomodo: quello del miracolo, su cui ci
1
Cfr. Giuseppe Belotti, Il silenzio del Manzoni sulla sua conversione, in “Atti del VI Congresso nazionale di studi manzoniano”, Lecco: Comune 1963, pp. 119‐142.
si è spesso chiesti se debba appartenere alla storia o al mito 2. A prescindere dalle varie interpretazioni, una cosa è certa: non è possibile credere alla discesa fulminea della Grazia che d’improvviso cambiò quel cuore umano.
È probabile che il mito di tale discesa per quanto riguarda Manzoni esistette solo nelle penne dei critici: né Manzoni, né il Degola, che lo catechizzò, poterono mai credere, almeno a proposito della conversione che li vide entrambi attori, ad un intervento repentino ed improvvisamente determinante della Grazia. Se anche il miracolo avvenne, nelle modalità in cui ne parlarono Zanella, Carcano, Ceroli e il Garzia 3, esso non ebbe certo un ruolo determinante, e la sua verità o leggenda va comunque riconnessa alla storia di quel lungo processo, a cui si è appena accennato.
Non è però possibile dubitare del fatto che Manzoni credesse ai miracoli. Manzoni – scrivono Ruffini 4 e Jemolo 5 - credeva ad essi proprio come nel Seicento
avevano fatto Racine e Pascal, che per fede ritenevano vero il miracolo della
2
Giuseppe Langella dubita fortemente della veridicità della leggenda: “lascia del tutto increduli il famoso (e ahimé fumoso) anedotto del “miracolo di San Rocco”, in cui si è voluto vedere l’episodio culminante del ritorno di Manzoni alla Fede”. Giuseppe Langella, Manzoni, poeta
teologo (1808‐1819), Pisa: Edizioni ETS, 2009, pp. 55 e ss.
3
La leggenda del miracolo fu ricostruita innanzitutto da Busnelli, poi da Garzia e da Ruffini attraverso un puzzle di diverse fonti e fu rievocata in tutti i suoi dettagli anche da Fossi nel suo volume dedicato interamente alla conversione di Manzoni. Langella ne ricorda le tappe, citando dal Fossi: L’episodio avvenne in Parigi, il 2 di aprile 1810, il giorno del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa (…). Una folla enorme acclamava l’Imperatore (…). Fu poi la volta delle musiche e, sull’imbrunire, dei fuochi d’artifizio. (…) Ma a questo punto accadde un serio inconveniente. Alcuni fuochi bruciarono malamente riversandosi con denso fumo verso il pubblico e provocando nell’immensa folla un ondeggiamento (…). Ora in quella folla che gremiva Place de la Concorde e les Tuilleries si trovavano appunto i giovani sposi Manzoni, che vennero anch’essi trascinati nel vario ondeggiare della moltitudine (…), non riuscirono a tenere il contatto e si trovarono divisi e lontani l’uno dall’altro: di più il poeta nell’atto di vedersi strappata via la moglie dalla corrente della folla ebbe l’impressione che la fragile – ed ai suoi occhi, fragilissima – Enrichetta, soffrisse e venisse come soffocata dalla stretta che l’avvolgeva. (…) Uscito barcollante dalla folla in uno stato di smarrimento e di desolazione venne a trovarsi dinnanzi all’Eglise de S. Roque, che è situata appunto ad uno degli sbocchi delle Tuilleries; e quasi a rifugio del malore che gli incombeva, entrò nella chiesa. Qui nella serenità del canto d’una funzione religiosa egli trovò sollievo al fortissimo turbamento, (…) rivolse al Cielo “un affannosa preghiera”, (…) invocando “o Dio, se tu esisti rivelati a me” e nel suo sgomento (…) pregò “fammi ritrovare la mia Enrichetta”. A questo punto ci troviamo di fronte al così detto miracolo di San Rocco, o per esser più precisi a quel vivo e luminoso intervento della grazia divina che condusse il poeta al possesso della fede”. Piero Fossi, La conversione di Alessandro Manzoni, 1933, Firenze: La nuova Italia, 19742, pp. 75‐78. Citato da Langella, op. cit. (2009), p. 55.
4
Ruffini, op. cit. (1931), I, p. 176.
Santa Spina 6. Manzoni credeva ai miracoli ed invogliava altri a crederci; il 7 settembre 1842 aveva infatti parlato al Coen dell’improvvisa e miracolosa conversione del Ratisbonne, indicandogliela come rassicurante precedente: lo scrittore rivedeva infatti in quell’evento una possibilità della ripetibilità del miracolo 7.
Il miracolo in senso stretto, però, inteso come intervento fulmineo ed improvvisamente efficace non appartiene né al suo vissuto, né alle conversioni letterarie che egli narrò in qualità di autore nelle varie stesure del romanzo 8. Anche il pentimento e la contrizione, descritti dai giansenisti come un prodigio della Grazia, non avvengono in modo repentino ed improvviso ma esigono una lunga maturazione. Nel mondo manzoniano la conversione è sempre un processo che richiede una maturazione psicologica: la Grazia interviene, sì, ma come un flusso carsico, che opera pian piano e dolorosamente, portando all’esame infallibile del Dio interiore i ricordi di un’intera vita fino a sciogliere i rimorsi nel pentimento.
Un processo simile può richiedere mesi, settimane o anni, come accadde a Manzoni stesso, ma per l’Innominato è tutto condensato in una sola notte, una corsa a perdifiato dallo stato più degradato del peccato a quello più alto della grazia 9. Al di là dei tempi richiesti per questo processo, che, come si è visto, non si riducono mai ad un battito di ciglia, la vicenda della conversione viene sempre rappresentata sia nei Promessi Sposi (1825-27) che nel Fermo e Lucia come evento inevitabile (quando deve avvenire) e guidato dall’alto: è Dio che dal di fuori silenziosamente intreccia le vicende umane, e che da dentro, nell’interiorità,
6 Si racconta che una nipote di Pascal sia stata guarita di una fistola all’occhio per il semplice contatto con una reliquia che avrebbe contenuto una spina della corona di Cristo. Ruffini, op. cit. (1931), I, p. 179. 7 Ruffini, op. cit. (1931), I, p. 176. 8 Per uno studio approfondito sul miracolo in Manzoni cfr. Ruffini, op. cit. (1931), I, pp. 169‐183; Parisi, op. cit. (2003), p. 44. 9 Come scrive Ulivi: “abbiamo dunque davanti il caso di una conversione rapida e radicale. Ma il caso è talmente immedesimato a un’identità umana nella sua crisi di evoluzione che fa meraviglia si sia potuto dibattere, un tempo se quella conversione sia un “miracolo” o un intimo modificarsi secondo le leggi della psicologia”. Ferruccio Ulivi, Manzoni. Storia e Provvidenza, Roma: Bonacci Editore, 1974, p. 119.
smuove le anime. Sembra giusto, perciò, parlare di latente ma prodigiosa opera della Grazia e di “miracolo” in senso lato 10.
Per quanto Manzoni abbia evitato in ogni modo di raccontare la conversione come una luce improvvisa e scesa dal cielo, come un evento soprannaturale e inverosimile 11, l’idea di miracolo si avverte in quell’abisso che l’Innominato ha dovuto saltare per giungere alla fede 12. Era un salto stupefacente, che andava oltre la speranza e la comprensione di chiunque lo avesse contemplato. Scrive Agostino: “miraculum voco quidquid arduum aut insolitum supra spem vel facultatem mirantis apparet” 13. La Grazia ha agito sull’animo dell’Innominato muovendolo al primo rimorso, e ha trovato in Lucia il suo strumento, atto a dare a quell’uomo l’occasione di un’opera di misericordia: solo quest’opera porta al primo passo verso Dio perché attraverso essa l’uomo con la propria misericordia emula quella di Cristo, si avvicina a Dio e ricongiunge la propria natura umana con quella divina 14. La divina provvidenza ha portato Lucia al cospetto
dell’Innominato, e ha predisposto tutta una serie di eventi che portassero alla conversione di quel potente; e, per compiere quell’opera di misericordia, l’Innominato ha dovuto operare secondo un sentimento cristiano, molto vicino all’ottica giansenista, perché essa è stata innanzitutto frutto di umiltà.
Come si può leggere anche nell’intera storia di Gertrude 15, la qualità che secondo Manzoni distingue il potente è innanzitutto l’orgoglio, la superbia, che esige l’elevazione di sé sugli altri, e, quindi, il comando e la supremazia 16: questa
10
“Puro e immateriale sentimento del miracolo, suggerito senza affermare e altresì senza negare” affermò Roberto Braccesi. Cfr. Eurialo De Michelis, Sulla conversione dell’Innominato, in
Atti del VI congresso manzoniano di studi, Lecce: Annone, 1964, pp. 91‐96: 93.
11 Il miracolo “tout court” nei Promessi Sposi viene narrato solo come superstizione religiosa: l’epica del prodigio è l’antitipo del romanzo manzoniano. l’elemento del prodigio rimane in Manzoni confinato alla parola dei personaggi. Cfr. Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio, Torino: Einaudi, 1974, pp. 191‐225. 12 Cfr. Belotti, op. cit. (1963), pp. 123‐124. 13 Augustinus, De utilitate credendi, XVI. Citato dallo studio di Righi che ha approfondito questo aspetto: Roberto Righi, L’eccezione normale. I miracoli di Pascal, in Anima e paura, studi in onore di Michele Ranchetti, a cura di Bruna Bocchini Scamaiani e Anna Scattigno, Macerata: Quodlibet, 1998, pp. 109‐116.
14 Questo è un concetto schiettamente giansenistico: evidenzia il ritorno alla verità crocifissa. Manzoni non fa menzione di Cristo nella narrazione dell’Innominato, ma la figura di Cristo è incarnata dall’ umiltà necessaria all’Innominato per uscire dall’abisso dell’orgoglio.
15 Cfr. Angelo Pupino, Religione e romanzo, Roma: Salerno editrice, 2005, pp. 103‐118. 16
Cfr. Monica Barbi, Il terribile uomo, lo sconosciuto potente, il tiranno selvatico: nomi e volti
dell’Innominato, in Prospettive sui Promessi Sposi, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia,
caratteristica che i Giansenisti, seguendo Sant’Agostino 17, condannavano più di ogni altra come propria del maligno e di chi agisce da lui ispirato, trovava il suo opposto proprio nell’umiltà, che invece è incarnata da Cristo 18. Secondo una topica tutta giansenistica, Cristo è l’umile per eccellenza in quanto, essendo Dio, non ha trovato disdicevole divenire uomo e morire sulla croce per salvarci 19. Ora, poiché la conversione è innanzitutto per Agostino, e quindi per i Giansenisti, un νόστος in Dio operato dalla Grazia tramite Cristo, l’atto che comincia questo ritorno deve essere prima di ogni altra cosa frutto di umiltà: si ritorna in Dio specchiandosi in Cristo come in un modello ed imitandone lo spirito e le qualità
20. A ben vedere, proprio in questa maniera ha agito l’Innominato, personaggio, in
fondo tragico, che collocandosi dopo Carmagnola ed Adelchi può divenire nuova
figura Christi: furono atti di estrema umiltà giudicare con sincero pentimento il
proprio operato ed aborrirlo, affidarsi al cardinale, piangere di fronte a lui, chiedere perdono a Lucia e infine raccogliere l’occasione offerta dalla provvidenza per operare il primo atto di misericordia.
Sembra difficile negare l’ispirazione giansenistica di questo evento focale del romanzo: la conversione dell’Innominato, pur non avendo i connotati del miracolo in senso stretto, che forza la natura a violare le proprie leggi, è comunque un evento anomalo. L’elemento straordinario sta nella sorprendente distanza tra lo
17
Cfr. De Civitate Dei, XIII, 13 ; 14 ; 15, pp. 395‐396 ; XIX, 27, p. 697. Citato sempre da Sancti
Aurelii Augustini De civitate Dei (fa parte di Corpus Christianorum Series Latina, voll. XLVII (Aurelii Augustini opera, Pars XIV, libri I‐X) e XLVII (Aurelii Augustini opera, Pars XIV, libri XI‐XXII)), a cura
di Bernardus Dombart e Alphonsus Kalb, Turnholti: Typographi Editores Pontificii, 1955.
18 Cfr. Confessiones, VII, 8, 14, pp. 101‐102 : “Indagavi quippe in illis litteris varie dictum et multis modis, quod sit filius « in forma patris non rapinam arbitratus esse aequalis Deo », quia naturaliter id ipsum est, sed quia « semet ipsum exinanivit formam servi accipiens, in similitudine hominum factus est et habitus inventus ut homo, humiliavit se factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis: propter quod Deus eum exaltavit a mortuis et donavit ei nomen, quod est super omne nomen, ut in nomine Iesu omne genu flectatur caelestium, terrestrium et infernorum et omnis lingua confiteatur, quia Dominus Iesus in gloria est Dei patris » (...)”. Citato sempre da Sancti Augustini Confessionum libri XIII, quos post Martinum Skutella iterum, edidit
Lucas Verheijen (fa parte di Corpus Christianorum Series Latina, vol. XXVII, Sancti Augustini Opera), Turnholti: Typographi Brepols Editores Pontificii, 1981. Queste erano anche le idee di
Paolo di Tarso: l’autore cita infatti dalla lettera ai Filippesi (12.6 et passim). 19
L’humilitas secondo Agostino è una delle caratteristiche principali di Cristo. Cfr. Cornelius Mayer, Humiliatio, humilitas, in Augustinus Lexikon, III fasc. 3 / 4 : Hieronymus‐Institutio,
institutum, Wuerzburg: Schwabe Basel, 2006, pp. 443‐456; 449.
20
Questo era sostenuto da Agostino che si rifaceva a S. Paolo, da Pascal, Senault e Bossuet (Parisi, op. cit. (2003), p. 65. Pascal scrive: “C’est un des grands principes du christianisme, que tout ce qui est arrivé à Jésus Christ doit se passer dans l’âme et dans le corps de chaque Chrétien; que, comme Jésus‐Christ a souffert durant sa vie mortelle, est mort à cette vie mortelle, est ressuscité d’une nouvelle vie, est monté au ciel, et sied à la dextre du Père; ainsi le corps et l’âme doivent souffrir, mourir, ressusciter, monter au ciel, et seoir à la dextre”. Lafuma, Pensée 278b.
stato degradato di orgoglio e di peccato in cui l’Innominato inizialmente viene presentato e quello di giustizia e nobiltà d’animo che raggiunge 21. In un salto così grande, per quanto descritto con tutto il realismo manzoniano, va rivisto l’enigma del segreto operare della Grazia che trasforma gratuitamente il peggiore dei potenti in un uomo giusto 22.
Proprio nel contemplare questo stacco il lettore avverte il mirum che solitamente connota il miracolo 23: di questo si era accorto anche il Visconti che, quando lesse quelle pagine, trovò giusto invitare l’autore a rivederle e ad attenersi maggiormente al Ripamonti che aveva rimesso la conversione del Conte quasi interamente nelle mani di Borromeo 24.
Molta più importanza ha il ruolo del Cardinale nel Fermo e Lucia (1821): in questa prima stesura è infatti Federico Borromeo che, attraverso un illuminante colloquio, ottiene la conversione del Conte inducendolo a trarre le conclusioni più giuste da quello stato di agitazione e rimorso in cui egli è precipitato, dopo aver udito le parole di Lucia 25. Nei Promessi Sposi (1827) invece la conversione viene più efficacemente narrata dando maggior spazio al potere iniziale di quegli improvvisi rimorsi, che precedono l’incontro con Lucia; l’Innominato già prima di incontrarla è assalito da sentimenti dolorosi che faticano a tramutarsi in prosa: il peso del giudizio divino sul proprio capo, il presagio di un avvenire incerto, un senso amletico di morte 26. In questa versione del Romanzo sono proprio le parole
21
Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), p. 117.
22 Come scrive Jemolo: “Il perché gli uni si salvino e gli altri periscano è inesplicabile. È vero, chi ha la volontà buona, la sottomissione, può essere percosso, ma non si perde. Peraltro la volontà buona non è l’effetto di una causa umana, è un dono di Dio. Invano si vuole scorgere nell’innominato qualcosa di grande che non c’è in don Rodrigo, nel conte Attilio, in Egidio, in tutti i personaggi per cui non si dà salvezza”. Jemolo, op. cit. (1973), p, 38.
23
Ulivi ha studiato attentamente e con estrema acutezza il miracolo della conversione dell’Innominato spiegandolo alla luce di quanto asserito dai moralisti francesi, Ulivi, op. cit. (1974), pp. 115‐129.
24
Pistelli Rinaldi, op. cit. (1985), pp. 433‐458. 25
Ibidem
26 “Invecchiare, morire! E poi?” I Promessi Sposi, XX, p. 784. I Promessi Sposi saranno citati sempre nella versione del 25‐27 da Alessandro Manzoni, Tutte le opere, a cura e con introduzione di Mario Martelli, Firenze: Sansoni, 1973, vol I. Cfr. Geno, Pampaloni I Promessi Sposi,
Introduzione, commento critico e note di Geno Pampaloni, Novara: Istituto Geografico, 1988, p.
394. Cfr. Monica Barbi, Il terribile uomo, lo sconosciuto potente, il tiranno selvatico: nomi e volti
dell’Innominato in Prospettive sui Promessi Sposi, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia
di Lucia ad avere caratteri decisivi per la conversione dell’Innominato 27, ed esse si impongono per importanza sul colloquio successivo con Borromeo.
L’ispirazione giansenistica è, però, molto più forte nel Fermo e Lucia 28, dove la crisi psicologica del Conte e di Gertrude, quando vengono assorbiti dalle idee di pentimento e contrizione, viene descritta dettagliatamente da una penna che ricorda da vicino quella di Dostoevskij 29, quando si tratta di disegnare l’immagine vivida della sofferenza in “un’anima caduta nelle mani del Dio vivente” 30. Proprio come quella notte terribile, che Mitja avrebbe voluto fosse l’ultima 31, la veglia tormentata del Conte del Sagrato porta il lettore dritto nei meandri della sua mente: l’analisi psicologica, che lascia poco ai silenzi rispetto alla futura stesura del Romanzo, segue tutti i sentieri verso cui si spinge il pensiero umano, quando è assillato dal rimorso e dalla colpa, e mostra in maniera analitica e dettagliata il dispiegarsi di una lacerazione interiore.
Proprio come rivela il Cardinale al Conte, la fonte di quel tormento è Dio: non può che trattarsi del Dio terribile dei Giansenisti, che dai suoi fedeli esige vera contrizione per i peccati commessi. Il Conte neoconvertito assume un atteggiamento di umiltà, così vicina all’umiliazione, che i Giansenisti non avrebbero potuto non approvare 32: tale atteggiamento si evince con forza quando, giunto all’ora di pranzo nella cucina di Perpetua, il Conte si ostina a rosicchiare il proprio tozzo di pane nel segno di una frugalità ostinata, declinando con
27
Ibidem, p. 151. 28
Si citerà sempre l’edizione diretta da Dante Isella. Alessandro Manzoni. I Promessi Sposi,
Edizione critica diretta da Dante Isella, Prima minuta (1821‐1823). Fermo e Lucia, a cura di
Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni, Milano: Casa del Manzoni, 2006. 29
Espressione del tormento cui va incontro un’anima sofferente per la propria miscredenza è certo la figura di Ivan Karamazov: il suo appuntamento con il diavolo è quello a cui si accosta chiunque metta alla prova razionalmente gli argomenti della fede, forse per cederle. Cfr. Vladimir Laksin, Il giudizio su Ivan Karamazov in F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Torino: Einaudi, 2005 5, pp. XII‐XLIII.
30 Durante il colloquio con Borromeo il conte ammette di avere “l’inferno nel cuore” eppure afferma di non riuscire a comprendere dove stia quel Dio, “parola che termina tutte le quistioni”. “‐ Voi me lo domandate, rispose Federico, voi? E chi l’ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che v’inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una speranza ch’Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo confessiate?”, Fermo e Lucia, III, I, p. 286. Cfr. Manzoni, Tutte le opere. Introduzione di Mario
Martelli premessa di Riccardo Bacchelli, I, Milano: Sansoni, 1973, p. 403.
31
Il senso di colpa per aver colpito il vecchio e la convinzione di averlo ucciso porta Mitja a propositi di suicidio.
32 Barbi non può fare a meno di vedere del ridicolo nell’immagine del Conte neoconvertito, proprio come De Gubernatis non si spiegava le parole degradanti che Giulia Beccaria scrive a Degola dopo aver ricevuto il sacramento della confermazione: in realtà si tratta di una modalità tutta giansenistica di rapportarsi al divino e al momento del pentimento.
un’ostinazione quasi ridicola l’insistente proposta della donna di unirsi alla mensa
33. Infine il Conte stesso insiste, proprio in conformità alla figura del penitente
giansenista, sulla necessità del proprio volontario ostracismo di fronte a coloro che festeggiano la liberazione di Lucia e chiede a Borromeo:
“approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente, ch’io
mi umilij dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e che riceva
dalla sua bocca innocente dei rimproveri che non saranno certo condegni
alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad espiarla” 34.
È poi la stessa voce del narratore a sottolineare la necessità di questa giansenistica umiliazione:
“Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte (…) per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza umiliata volontariamente sarebbe un
conforto, un rincoramento dopo tanti terrori” 35.
Infine suona intriso di volontaria mortificazione giansenistica il discorso fatto a Lucia pubblicamente, che nei Promessi Sposi verrà condensato in un’unica ed icastica parola “Perdonatemi” 36, lasciando così la figura dell’Innominato alle austere altezze, che gli sono universalmente riconosciute 37, e che il Conte non può azzardarsi a sfiorare dopo esser caduto nello stato di penitente:
“Perdono; io son quello che v’ha offesa, tormentata = ho messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà, senza un pretesto, perché era un iniquo = ho sentite le vostre preghiere, e le ho rifiutate; ho vedute le vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi. Vi ho fatta tremare senza che voi m’aveste offeso, perché era pù forte di voi, e scellerato.
33 Barbi, op. cit. (1991), pp. 158‐159. 34 Fermo e Lucia, III, IV, 43c, p. 346. 35 Ibidem 36 I Promessi Sposi, XXIV, p. 814. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 460. 37 Per un confronto tra l’Innominato e Napoleone: Carlo Annoni, La superbia e l’altezza. Saggio critico sul cinque maggio, in Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, Milano: Vita e Pensiero, 2010, pp. 683‐714.
Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio, perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete” 38.
Nei Promessi Sposi del 1827 il colorito giansenistico tinge ancora la prosa, ma in tonalità diverse e più pallide. Il senso di indegnità che trascinava nell’umiliazione il Conte del Sagrato, qui si presenta come un sentimento più sobrio, che, del tutto immune da qualsiasi sfumatura parodica, si ferma sulle labbra stesse dell’Innominato 39:
“Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato vi aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti di lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete … con chi!” e ancora “le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso” 40.
La tragicità della crisi psicologica dell’Innominato è certo maggiore rispetto a quella del Conte: l’Innominato ha pensieri di morte e ad un certo punto la portata della colpa, per delitti la cui entità è lasciata all’immaginazione, conduce il personaggio ad una risoluzione estrema: quella del suicidio. Benché, però, le tormentate volute dei pensieri dell’Innominato si innalzino alla tragedia molto più di quanto non avvenga per il Conte del Sagrato 41, la mancanza di una descrizione dettagliata dei delitti compiuti sfuma ogni cosa: essa spersonalizza la figura del personaggio 42, sottraendo elementi concreti, tangibili al pentimento e alla contrizione giansenistica, che comunque è presente (“Ho ribrezzo di me stesso”). Inoltre, i picchi tragici fanno sì che i pensieri del personaggio insistano in maniera shakespeariana sui grandi quesiti dell’esistenza, trasformando di fatto la tragedia
38 Fermo e Lucia, III, IV, 44b‐44d, p. 348. 39
Ulivi, op. cit. (1974), pp. 120‐121. Questo senso di indegnità era stato teorizzato per esempio da Nicole, come scrisse Ulivi: “Nicole, citando e parole di San Pietro dopo la pesca miracolosa « Eloignez‐vous de moi, Seigneur, parceque je suis pêcheur »: che « c’est le premier des mouvemens que Dieu a accoutumé d’inspirer aux pécheurs qu’il convertit »” Citato da Ulivi, Ibidem. Per approfondire i rapporti tra Manzoni e Nicole si rimanda al lavoro di Ulivi.
40 I Promessi Sposi, XXIII, p. 806. Proprio come Degola per Manzoni, è il Cardinale che traccia il programma di vita per il futuro dell’Innominato. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, nota 22.
41 Barbi, op. cit. (1991), pp. 152‐153. Nel Fermo e Lucia l’introspezione segue tracce concrete: “Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un giorno, era meglio che avessi pensato così sempre.” Manzoni, Fermo e Lucia, II, 10, 108a, p. 266.
di un uomo nella tragedia dell’Uomo. In questo modo l’Innominato, divenendo modello di ogni uomo, acquisisce una grandezza senza volto e senza nome sconosciuta al Conte del Sagrato, il quale nella resa artistica è in fin dei conti un cattivo qualsiasi 43: il risultato ottenuto da Manzoni è unico, e il giansenismo diviene solo una delle tante sorgenti a cui egli attinse per cesellare questo personaggio 44.
Rispetto al Fermo e Lucia nel Romanzo del 1827 il lavorio di sintesi ha dato alla luce una storia più lineare, dove la riflessione, condotta dai rimorsi, emerge diversamente, divenendo un dissidio del silenzio: è infatti il gioco dei silenzi, che tacciono sulle azioni malvagie dell’Innominato e che molto sottraggono all’introspezione analitica, a fare di quella conversione un enigma assoluto, di fronte a cui l’attenzione di un qualsiasi lettore è portata ad arrovellarsi su quanto di umano e di divino ci sia in quella vicenda …
Un’altra storia interna al Fermo e Lucia che pare veramente di impostazione giansenistica, è il racconto del difficile, lento e tormentato pentimento di Gertrude, donna caratterizzata da un’indole conflittuale, divisa spesso tra il male delle proprie scelte e improvvisi rimorsi 45. La storia della monaca si presenta estremamente sfaccettata e complessa e la conduce in entrambe le versioni del Romanzo alla trasformazione da vittima in carnefice. La donna viene presentata come un personaggio dalla volontà ammutolita 46: il principe padre, che sin dall’inizio decide il destino della figlia, ha nei suoi confronti pretese di onnipotenza divina 47, e detiene pieno controllo sulla sua volontà. In seguito, per interessi ben precisi, il principe cede il proprio potere sulla volontà di Gertrude
43 Cfr. Pupino, op. cit. (2005), pp. 303‐316. 44
Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), p. 33. 45 Ibidem, pp. 98‐100.
46 Zama, op. cit. (2013), pp. 115‐139. Rimando al suo studio per un confronto dettagliato tra il
Fermo e Lucia e I Promessi Sposi a proposito della vicenda di Gertrude.
47
Nei Promessi Sposi la responsabilità del padre appare molto più accentuata rispetto alla versione del Fermo e Lucia. Nella quarantana Manzoni scrive: “la nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita.” I
Promessi Sposi (1840), IX, p. 1023. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, pp. 189‐190.
Ancora nel secondo Romanzo, al cap. X, il principe si paragona al Dio evangelico (che è anche quello di Nicole), come nota Zama. Il Principe dice: “avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.” Ibidem, X, p. 1030, cfr. I Promessi Sposi a
alle monache, a cui è stato delegato il compito di compiere la fatidica scelta al posto della figlia 48.
Zama ha studiato i meccanismi psicologici che si attuano nella vicenda di Gertrude, comparando la versione del Fermo e Lucia a quella della quarantana. La sua analisi sottolinea all’interno l’esistenza di un equilibrio del gioco narcisistico del potere 49, basato sulla supremazia del più forte e sull’assoggettamento del più debole: prima è il padre padrone ad avere potere sulla volontà di Gertrude, in seguito le monache e in fine lei stessa. Zama evidenzia come ogni cessione di potere sulla volontà di Gertrude indichi il passaggio allo stato di superbia di ciascun personaggio che con lei interagisce; come si è detto, questo processo termina proprio in Gertrude.
La donna, quando prende finalmente possesso della propria volontà, acquisisce lo stato di superbia e supremazia proprio del padre, materialmente rappresentato da quelle “distinzioni e finezze”, conferite dal grado di badessa. Una volta assunto il potere, Gertrude attua ciò che ha imparato:
“La vista di quelle monache che avevan tenuto in mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera e le pagava con tante sgarbatelle, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti” 50.
Come dimostra il suo comportamento nei confronti delle educande sue coetanee, Gertrude precipita ulteriormente nello stato di superbia, tramite una vendetta non meritata nei confronti di tutte coloro che potranno godere di “quel mondo dal quale essa era stata esclusa per sempre” 51. Il salto definitivo dallo stato di superbia a quello di umiltà e Grazia, raccontato compiutamente solo nel Fermo e
48 Questo è ben visibile nella quarantana: “(Il principe) pensò che lì meglio che altrove (a Monza) la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla e scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né si ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere (…) esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile (…); accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro”. I Promessi Sposi (1840), IX, p. 1024. 49 Cio è presente in entrambe le versioni del Romanzo. Zama, op. cit. (2013), pp. 122‐141. 50 I Promessi Sposi (1840), X, p. 1038. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 220. 51 Ibidem, p. 1038.
Lucia, non avviene nell’incontro con Lucia, ma le premesse perché esso si compia
cominciano a nascere proprio in quel momento.
La monaca, prima di inviare Lucia su quel sentiero che sarà sfondo del suo rapimento, avverte per un momento l’ispirazione irresistibile della Grazia che le porta alle labbra parole in grado di salvare: “sentite, Lucia”. La monaca è lì per lì sul punto di tradire Egidio e salvare la giovane donna, ma per paura rinuncia 52. L’occasione di “quell’opera di misericordia” 53 è persa, ma la Grazia ha già posto in quel cuore indurito il suo seme destinato a maturare nel modo più doloroso possibile, forse proprio a causa di quell’aiuto che Lucia da lei non ricevette. Quando, perciò, dopo l’insorgere di alcuni sospetti, Borromeo si presenta dalla monaca per accertarsi di come stiano le cose, il discorso con lui non le dà giovamento, ma la porta a sentire tutto il peso delle “certezze” che agitano “la coscienza” 54. La crisi interiore di Gertrude, che per il Conte dura solo una notte,
per lei ha tempi molto più lunghi, e raggiunge i suoi picchi più alti in seguito ai provvedimenti che il cardinale prenderà nei suoi riguardi, trasferendola in un convento in città: la donna, di fronte alle sue colpe, esprime il suo turbamento attraverso l’insulto, i discorsi furiosi, la bestemmia contro il vescovo 55; è questa la soluzione inefficace che la sua anima trova per combattere il demone interiore che inevitabilmente la sconvolge.
Solo dopo aver udito la notizia delle atrocità compiute da Egidio a danno delle sue compagne di un tempo, la monaca improvvisamente prova orrore per sé stessa:
“La signora all’annuncio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si mutò: rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile in lagrime inesauste tutto quell’impeto di furore; e da quel momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare. Il cardinale ch’ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch’ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente” 56.
52 Il timore per sé stessi porta in Manzoni alla dannazione e va in conflitto con il timore verso Dio. Questa immagine ricorre identica anche nel Romanzo del 1827‐28, ma descritta più sinteticamente. 53 Fermo e Lucia, II, 9, 95½b‐ 95½c, pp. 347‐348. 54 Ibidem 55 Ibidem 56 Ibidem
Con queste parole Manzoni, traendo materiale dalla storia vera, nel Fermo e Lucia riabilita il personaggio della monaca 57 attraverso la cifra di un dolore immenso e di quel pentimento ostinato e mai pago di sé che è proprio della contrizione giansenistica: l’autore ha fatto così della monaca di Monza, pur con le dovute differenze 58, una novella Mère Angélique, il miglior esempio possibile di contrizionismo giansenistico.
Nella stesura del Romanzo del 1840 si allude soltanto di sfuggita al futuro della monaca. Nel capitolo XXVII dei Promessi Sposi, Manzoni scrive citando il Ripamonti 59:
“(Lucia) seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare uno più severo” 60.
La sintesi in questo caso è essenziale ed efficace, ma il dramma, con cui si esplicò il ravvedimento, e il dettaglio della storia non vengono raccontati affatto; per questa ragione parte della critica ha rivisto nella vicenda di Gertrude una storia inconclusa, e in lei un non finito michelangiolesco 61; a proposito del pentimento della monaca, rimane nei Promessi Sposi, già dalla versione del 1827, soltanto una riflessione di sapore quasi gnomico 62, che aveva già avuto una sua versione
57
Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, X, p. 734, nota 75. Come scrive Pampaloni il Manzoni, informandoci del ravvedimento della signora ha voluto far trasparire la sua pietà per la sciagurata”. Ibidem, p. 735.
58
Non sembra che la monaca si convertì.
59 Queste sono per lo più parole del Ripamonti. Il suo resoconto sembra curiosamente dipingere in maniera esatta il modello di contrizione che avevano in mente i giansenisti. La storia del ravvedimento di Gertrude apparteneva anche alla vera storia di Marianna de Leyva, che è l’exemplum a cui Manzoni attinge per creare la monaca di Monza. Cfr. Paola Mastrocola,
Gertrude e “la signora”: due storie, nessuna fine, in Prospettive sui Promessi Sposi a cura di G.
Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia, 1991, p. 163‐178. 60 I Promessi Sposi (1840), XXXVII, p. 2066. 61 Mastrocola, op. cit. (1991), pp. 163‐178. 62 “E’ una delle facoltà singolari ed incomunicabili della religione cristiana, questa: di poter dare indirizzo e quiete a chiunque in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa. Se al passato v’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, presta lume e vigore per metterlo in
precedente nel Fermo e Lucia 63: Manzoni in entrambe le versioni allude al futuro ravvedimento di Gertrude e racconta il momento in cui la donna, illuminata finalmente dal potere rivelativo della Religione, seppe fare di necessità virtù, trasformando la propria monacazione forzata in un mezzo per espiare le proprie colpe. Questa riflessione si dipana partendo da una fiduciosa convinzione che a Manzoni derivava da Massillon 64, cioè che la verità della fede, persuadendo della propria intrinseca giustizia, ripaga sempre con le sue grazie il dolore di una scelta ingiusta 65: la penitenza è infatti un dono della Grazia di Dio.
Dopo il ravvedimento di Getrude, assimilabile per certi versi ad una conversione, è necessario parlare del passaggio alla fede di Ludovico, futuro Fra Cristoforo 66. La sua conversione non è narrata né nel Fermo e Lucia, né nei Promessi Sposi con quell’attenzione estremamente minuziosa alla psiche del personaggio che caratterizza il pentimento di Gertrude o la conversione del Conte del Sagrato / Innominato. Anche questa conversione, come quella dell’Innominato si delinea chiaramente come un passaggio dalla condizione di superbia a quella di umiltà, un salto dal mondo gerarchico e clientelare istituito dalla legge del più forte, a quello della carità cristiana 67.
opera a qualunque costo; se non v’è essa da il modo di fare realmente e in effetto, ciò che l’uom dice in proverbio, della necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò che è stato intrapreso con leggerezza, piega l’animo ad abbracciare con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà ad una elezione che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutto il consiglio, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione”. I Promessi Sposi X, p. 876. Cfr I Promessi Sposi di Geno Pampaloni, p. 220. 63 “è uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all’uomo che ricorra ad essa un rimedio, una norma e il riposo dell’animo. (…) Poiché se la la via che egli ha intrapresa è (…) difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per poter renderla regolare, praticabile (…) Disapprovando i motivi che l’hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed incusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice, ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione”. Fermo e Lucia II, IV, 43b, p. 176.
64
Il confronto è stato studiato da Pupino: Massillon sostiene che a prescindere da quale possa essere la sorte d’una creatura, essa non sarà mai abbastanza disperante che Dio non possa “accorder à la douleur d’un choix injuste les graces qu’il aurait accordées à un choix légitime” J‐B Massillon, Sermons, III, Carème, Paris, Estienne et Herissant, 1746, pp. 175‐76. Cfr. Angelo Pupino, op. cit, (2005), p. 27.
65 Ibidem. 66
Il pentimento di Gertrude viene posto sullo stesso piano di una conversione, perché esso è operato dalla Grazia e il suo snodarsi segue lo stesso meccanismo che si attua secondo i giansenisti ogniqualvolta la Grazia decida di operare sul cuore umano. La conversione è l’esempio più eclatante del suo intervento.
67
Langella, Il modello della Conversione: Papini e Manzoni in Manzoni tra due secoli, Milano: Vita e Pensiero, 1986, p. 175.
L’evento che scatena la crisi è in questo caso il delitto perpetrato dal futuro frate durante il duello intrapreso con l’intento di difendere il proprio padrone. In entrambi i Romanzi quell’evento non fu fortuito: generò “una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti”, fu perciò strumento della Grazia che ab origine sceglieva di chiamare a sé l’anima di Ludovico 68.
Pur essendosi riassopiti, quei sentimenti troveranno irresistibilmente il modo di tornare alla mente di Cristoforo, richiamati dalle parole di un prete che assistette l’ucciso in punto di morte e che, nel consolare il dispiaciuto assassino, gli parlò di perdono: “almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono e di portarvi il suo”. Sono queste le parole che per Ludovico portano lume, risvegliando distintamente quei sentimenti prima confusi: il pentimento, il rimorso, la forte commiserazione e l’amore verso l’ucciso. L’atto di umiltà che contraddistingue la conversione, e che fa da contrappeso al passato, si compone in questo caso di molti elementi: la donazione del proprio patrimonio alla famiglia dell’ucciso, la richiesta pubblica di perdono e, soprattutto, il cambiamento del nome in Cristoforo. La decisione di cambiare il nome indica il desiderio, insito nella conversione, di evertere dalle fondamenta un’identità per costruirne un’altra. L’umiltà dimostrata è certo massima: all’ucciso il frate dona tutto di sé, persino il proprio nome. La contrizione giansenistica del pentimento non sembra, però, emergere qui con la stessa forza con cui si presenta al lettore nel caso del Conte e di Gertrude, ma è pur sempre presente.
Anche nel caso di Fra’ Cristoforo emergono alcune differenze dal confronto tra le due versioni del Romanzo. Innanzitutto nei Promessi Sposi, rispetto al racconto del Fermo e Lucia, i tempi della conversione di Ludovico si dilatano 69: già prima
68 Scrive Manzoni nel Fermo e Lucia : “l’impressione che Ludovico ricevette dal veder l’uomo morto per lui e l’uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico, l’alterazione de’ suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un punto l’animo dell’uccisore.” (Fermo e Lucia, I, 4, 40b, p. 52). Scrive Manzoni nei Promessi
Sposi: “l’impressione che egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui e l’uomo morto da lui fu
nuova ed indicibile: fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico, l’alterazione de’ suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla severa debolezza della morte, fu una vista che cangiò in un punto l’animo dell’uccisore”. I Promessi Sposi (1827), IV, p. 646.
69 Adolfo Jenni aveva notato come questa conversione avvenga sulla via di Damasco: in realtà anche qui la Grazia offre più di una folgorazione improvvisa; essa guida un risveglio improvviso, si riassopisce e poi desta di nuovo l’uomo, questa volta definitivamente utilizzando le parole del prete come suo strumento. Cfr. Adolfo Jenni, Il motivo della conversione nel Manzoni e nella
del fatidico delitto, Dio lo aveva potuto chiamare a sé facendogli sovvenire più volte il proposito di farsi prete:
“Riflettendo quindi ai casi suoi sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli s’era girato per la mente: gli parve che Dio stesso lo avesse messo sulla strada (…)” 70.
Inoltre il Fermo e Lucia conferma ancora una volta, anche a proposito di Fra Cristoforo, la propria maggiore vicinanza alle idee giansenistiche. In questa versione del Romanzo il sentimento di espiazione si lega ad una contentezza della pena, che nella successiva redazione del Romanzo appare smorzata, e che si sposa bene con le istanze del rigorismo morale propugnato da Degola. Nel Fermo e
Lucia Ludovico, dopo aver preso la decisione di farsi cappuccino, è “finalmente
contento” per questa ragione:
“non desiderava altro che di cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che potesse compensare il male ch’egli aveva fatto e raddolcire il sentimento insoffribile del rimorso” 71.
La contentezza per la possibilita di espiazione ricevuta ritorna altre due volte nel passo e, agli occhi di un paradosso solo umano, si unisce alla sofferenza e da essa scaturisce: “il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al timore lo afflisse per un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa ingiustizia” 72. E, ancora, quando si tratta di riparare all’offesa, Ludovico prova gioia al pensiero dell’umiliazione che gli ha preparato il “signore superbo” 73, che, al fine di soddisfare al meglio la vendetta, diede alla faccenda molta solennità:
“Fra Cristoforo, arrivò, vide tutto l’apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento che la riparazione fosse clamorosa” 74.
letteratura italiana, in Atti del VI convegno nazionale di studi manzoniani, Lecco: Annone, 1964, pp. 47‐70: 61. 70 I Promessi Sposi (1827) IV, p. 647. D’ora in poi, come scrive Pampaloni, Ludovico dialogherà con “Dio medesimo”. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 80, nota 77. 71 Fermo e Lucia, I, IV, p. 55, 42c. 72 Ibidem 73 Ibidem, p. 56, 43a.
Questa dolorosa contentezza può essere a ragione definita giansenistica, in quanto Ludovico accoglie felicemente le nuove possibilità di sofferenza come mezzo della propria espiazione, in perfetta armonia con gli insegnamenti del portorealismo: l’umiliazione è, infatti, soprattutto un mezzo per rimarcare la propria indegnità di fronte a Dio e ha valore di espiazione.
Nei Promessi Sposi (1827), anche a proposito della storia di Fra Cristoforo, si osserva un’ammorbidirsi delle spigolature giansenistiche: dei tre passi sopra citati, in cui Manzoni parlava della contentezza dell’espiazione nei Promessi Sposi, ne vengono soppressi due e solo il primo dei tre rimane, per altro notevolmente modificato:
“contento finalmente e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Ludovico, il quale cominciava una vita di espiazione e di servigio che potesse, se non riparare, pagare almeno, il mal fatto e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso” 75.
Nei Promessi Sposi la contentezza ha certo un colore diverso: il desiderio fortissimo di espiazione, misto a piacere, che aveva il Ludovico del Fermo e
Lucia scompare lasciando spazio ad un’austera ed impellente necessità, dove il
dolore prevale su tutto.
Al di là delle differenze, si può quindi concludere che in entrambe le redazioni del Romanzo la conversione e il pentimento vengano descritti come miracoli, nelle modalità che si è detto, operati dalla Grazia a prescindere dai meriti. Soprattutto per quanto riguarda la conversione, il miracolo si configura come un salto dallo stato di orgoglio a quello di umiltà, che coincide giansenisticamente 76 con la mimesi di Cristo. Perciò, ogni personaggio che nel Romanzo si converte, è anche “Figura Christi”, ovvero immagine vivente di Cristo, come lo erano anche i protagonisti delle Tragedie manzoniane 77. Questo è valido soprattutto per l’Innominato, apoteosi di tale processo.
74 Ibidem, 43b. 75 I Promessi Sposi (1827), p. 648. cfr. Fermo e Lucia, p. 55, 42c. 76 Si intende soprattutto il pensiero di Degola e dei giansenisti vicini a Manzoni. 77 Questo è valido sopratutto, per Adelchi, Ermengarda, Conte di Carmagnola.
Il balzo compiuto dall’Innominato in una sola notte è certo il cambiamento più grande di tutti, quello che esplicitamente sembra richiamare il miracolo in senso stretto. La differenza si può apprezzare paragonando all’Innominato la versione precedente del Conte del Sagrato: il silenzio, con il suo lavoro di intarsio, ha scolpito nel primo un gigante capace di infinito male, e, quindi, poi, di infinito bene, che ha poco da spartire con il profilo ancora misurabile del Conte del Sagrato 78.
La rappresentazione di un personaggio letterario come Figura Christi è uno stilema che ha profonde radici nella letteratura cristiana. Esso si sposa, però, perfettamente anche con le concezioni giansenistiche e con l’agostinismo; in particolare i giansenisti del Sinodo di Pistoia vedevano nel giansenista il giusto, immagine di Cristo, chiamato a dissipare l’oscurantismo che aveva gettato ombre sulla morale evangelica e sulla vera fede. Manzoni si appropria di questo stilema79
tramite diverse fonti tra le quali spiccano gli scritti dei moralisti francesi, e soprattutto i lavori di Pascal e Racine 80. È probabile che altra fonte per il paradigma della mimesi di Cristo attuata da Manzoni nei suoi personaggi siano anche i testi di Quesnel e Duguet 81, autori carissimi al Degola; l’abate infatti impartiva i loro insegnamenti ai propri catecumeni e si era servito dei loro testi come fonte di ispirazione per la compilazione dell’Instruction ai Réglements dati ad Enrichetta. In Manzoni lo stilema della “Figura Christi” aveva precisi intenti apologetici e doveva servire a veicolare il messaggio morale.
78 Barbi, op. cit. (1991), p. 153. 79 Era molto apprezzato da Papini: cfr Langella, op. cit. (1986), p. 172. 80 Cfr. Maria Caffiero, La verità crocefissa, in Il Sinodo di Pistoia del 1786 a cura di Lamioni, Roma: Herder, 1991, pp. 315‐325. 81 Cfr. Rosa, op. cit. (2014), pp. 154‐157.
3.3
LA CONVERSIONE, COME GRAZIA OFFERTA
DA DIO PER MISERICORDIA; UNA DIFFICILE
DOTTRINA E IL SUO LESSICO
Analizzando le conversioni nelle varie stesure del Romanzo, non si parla mai di miracolo tout court. Secondo Manzoni per quanto l’onnipotenza della Grazia possa dare improvvisa ed efficace prova di sé, non c’è nessuna necessità che essa si manifesti attraverso questo iter: anzi, più spesso, essa lavora sulle anime portandole all’esame di sé, ed è una forza irresistibile che opera all’interno della coscienza 82. Su questo concordavano i Giansenisti, che attingevano da Sant’Agostino 83. Si consideri che ogni conversione nella topica giansenistica è comunque sorprendente, un miracolo se si vuole, perché effetto della Grazia: i “signa”, per i Giansenisti e per l’ “altro Agostino”, quello delle Confessiones e del
De Civitate Dei 84, sono sempre elementi secondari, che mantengono un valore
meramente ausiliario rispetto alla forza irresistibile della Grazia. Quando ci si converte, è infatti sempre opera della Grazia di Dio, che agisce sulla volontà umana, ricreandola e trasformandola al fine di renderla sensibile alla Rivelazione. L’operazione della Grazia è però spesso un’eccezione normale. Come scrive Nicole: “Dieu veut que les opérations de la grâce ne se distinguent sensiblement de celles de la nature” 85.
Tutto questo è valido anche per i giansenisti di fine Settecento, che considerano Dio come onnipresente nelle cose, in quanto fonte suprema del bene che esiste nel mondo, e rivedono in ogni evento la traccia della sua imperscrutabile volontà 86: per questa ragione il drappello degli ultimi giansenisti tendeva a far ricadere sul
82
Questa convinzione è espressa anche da Cottignoli: Alfredo Cottignoli, Manzoni: Guida ai
Promessi Sposi, Roma: Carocci, 2002, p. 43 e ss. cfr. Gaetano Lettieri, L' altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Brescia: Morcelliana, p. 117. 83 Si sta parlando, come sempre a proposito dei Giansenisti, di quello che Lettieri chiama l’ “Altro Agostino”, cfr. Lettieri, op. cit. (2001), pp. 115‐117. 84
Tra le due opere c’è un grande scarto cronologico, ma esse si collocano entrambe nella cronologia della vita di Agostino dopo Ad diversis quaestionibus ad Simplicianum.
85 Citato da Ulivi, op. cit. (1984), p. 122. 86
La tendenza alla profezia può essere rivista nel discorso di Abiura che Degola redige per Enrichetta, quando tutti gli eventi precedenti alla sua vita vengono riletti come in funzione a quell’evento fondamentale che è la sua conversione. Cfr. Salvadori, op. cit. (1929), p. 80 e ss.
dipanarsi degli eventi e della storia un valore profetico, presagio dell’adempimento di promesse bibliche 87. Per un giansenista ogni volta che un miscredente o un eretico si avvicina alla vera fede è sempre un miracolo perché la Grazia ne ha cambiato straordinariamente il cuore 88.
Di questo parere era in particolare Eustachio Degola, che nella Instruction ai suoi
Réglemens insiste moltissimo sull’importanza di essere grati a Dio per qualsiasi
ispirazione alla fede. Di questo parere era anche Massillon, caro tanto al Degola quanto al Manzoni, secondo il quale nessun miracolo è più mirabile e difficile del cambiamento di un’anima che, finalmente liberata dalle passioni cambi radicalmente le proprie inclinazioni fino a darsi solo al bene, alla preghiera e all’amore di Dio. Una simile, prodigiosa trasformazione (“la gloire de ces prodiges”) va naturalmente attribuita, scrive Massillon, “à la grâce” 89.
La convinzione che sia la Misericordia di Dio a donare la fede è una concezione cristiana molto diffusa 90. I Giansenisti però insistono particolarmente su questo
concetto contrapponendo la Misericordia di Dio alla sua Giustizia: come dimostra Ruffini 91, l’idea della Misericordia divina agli occhi dei giansenisti si lega indissolubilmente al concetto della gratuità della Grazia, che nel momento della conversione agisce sul cuore umano in modo irresistibile e a prescindere dai meriti o dai demeriti dell’uomo 92. La fede, come anche la salvezza eterna, è un dono, non un premio: perciò non è dovuto da Dio all’uomo, ma viene concesso
87
Lo scisma della Chiesa di Utrecht veniva letto per esempio come indice del futuro decadimento della Chiesa Romana, in quanto discendente dagli antichi popoli pagani unitisi con il vecchio ceppo del popolo ebraico. Cfr. Pietro Stella, Il giansenismo in Italia – III Crisi finale e transizioni, Roma: Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 2006, pp. 129; 134‐135.
88 Luciano Parisi, Manzoni, il Seicento francese e il giansenismo, in “MLN”, Vol. 118, No. 1, Italian Issue, 2003, pp. 111 – 112.
89
Massillon, Sermons, tomo IVme . Citato da Ulivi, op. cit. (1984), p. 123.
90 La matrice di questo pensiero è agostiniana: Agostino sostiene infatti che solo grazie alla Misericordia di Dio egli poté scrivere le sue confessioni; la gloria che gli deriva dall’averle scritte va attribuita a Dio. “Ecce narravi tibi multa, quae potui et quae volui, quoniam tu prior voluisti, ut confiterer tibi, domino deo meo, quoniam bonus es, quoniam in saeculum misericordia tua”,
Confessiones, XI, 1, 1, p. 194. Agostino afferma che se egli ha potuto narrare molte cose nelle sue
confessioni è merito della misericordia divina. Secondo Agostino la più grande prova della Misericordia di Dio è la morte di Cristo in Croce, che ha permette la remissione dei peccati. Volker Henning Drecoll, “Misericordia” in Augustinus Lexikon, Würzburg: Schwabe Basel, 2012, vol. 4, fasc. 1/2, p. 34.
91
Ruffini, op. cit. (1931), II, p. 353. 92 Ibidem
per sola misericordia 93. Inoltre l’espressione “Misericordia di Dio” richiama alla mente il Dio che, avendo compassione per la sua creatura, suscita quel senso di umiltà, tanto caro ai giansenisti, che l’uomo, in nome della sua piccolezza, deve provare verso Dio : l’uomo è un monstrum, come diceva Pascal, e, di fronte a questo essere miserabile, Dio non può provare altro che compassione. Non è perciò un caso che le correnti del cristianesimo pessimista seicentesco avessero particolarmente a cuore il concetto di “Misericordia di Dio” 94: essa, ben diversa dalla Misericordia divina della teologia gesuitica 95, richiama l’attenzione su quell’enorme debito ricaduto sulle spalle umane e quasi impossibile da saldare. Solo con una vita rigorosamente pia – sosterrebbero i Giansenisti – si può tentare di pareggiare i conti con Dio. Inoltre, cosa forse non secondaria, come mostra Bruni 96 l’espressione “opera di misericordia” deriva dal linguaggio prettamente religioso e catechistico: da chi, perciò, Manzoni poté apprenderla meglio se non dai suoi catechisti, Degola e Tosi?
L’ultimo giansenismo italiano e pavese, cui era legato il Tosi, proseguiva di fatto, a proposito della visione dell’uomo, sulla stessa linea del Degola e si faceva portavoce ultimo del portorealismo, e, quindi, del misticismo antiumanistico del Seicento 97. Testimonianza di ciò è la dottrina dell’annientamento di Giuseppe Parona, uno dei Macolatisti Pavesi, amico del segretario di Monsignor Tosi, Giovanni Emanuel 98. Secondo Parona (m. 1871), contemporaneo di Manzoni, l’uomo senza Dio è niente: le sue parole, ispirate da una voce cupa come quella di Pascal, parlano dell’uomo come di un essere che è contenitore vuoto, sola cassa di
93 Questa era la teoria di Quesnel insegnata da Degola. Nelle sue Réflexions Morales Quesnel lega la misericordia di Dio all’efficacia della Grazia. Un esempio per tutti è quanto Quesnel scrive nel suo commento alla lettera ai Filippesi di Paolo di Tarso: “Que peut s’attribuer la volonté présomptueuse de l’homme, si le commencement et le progrès, la perfection et la persévérance sont l’effet de l’opération de Dieu dans le cœur? Le premières grâces sont un gage, non d’assurance, mais de confiance pour la dernière. Achevez, mon Dieu, l’œuvre de votre miséricorde que vous avez commencé en moi”. Pasquier Quesnel, Le Nouveau Testament en français avec des Réflexions Morales sur chaque verset, Paris: chez André Palard, 1706, p. 49. 94 Luciano Parisi, Manzoni, il Seicento francese e il giansenismo, in “MLN”, Vol. 118, No. 1, Italian Issue, 2003, p. 111. 95 Per i gesuiti la Misericordia di Dio coincide con la sua giustizia. 96
Francesco Bruni, Intorno alla prosa delle “Osservazioni sulla morale cattolica: implicazioni
linguistiche e filosofiche”, in Manzoni. “L’eterno lavoro”, Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto negli studi del Manzoni , Milano 6/7/8/9 Novembre . Milano:
Centro Manzoniano di Studi, 1987, p. 107. 97
Parisi, op cit. (2003), pp. 111‐112. 98 Stella, op. cit. (2006), pp. 148‐149.