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3. MANZONI, DEGOLA E I LUMI DELLA FEDE

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3. MANZONI, DEGOLA E I LUMI DELLA FEDE

3.1 INTRODUZIONE

La parola “conversione” deriva dal latino “convertere” e indica un cambiamento improvviso e radicale: la forma riflessiva “se convertere” indica il voltarsi indietro, il ritornare sui propri passi; la parola richiama poi etimologicamente anche il verbo “evertere” che significa distruggere, e che, in riferimento al convertirsi, fa riaffiorare l’immagine di un cambiamento netto ed improvviso: convertirsi esige l’annientamento radicale dell’Uomo Vecchio e la successiva costruzione di quello Nuovo. Stando a tale definizione, si deve necessariamente convenire che nulla accadde nella vita di Manzoni di più lontano da questo. Si utilizzerà, perciò, la parola “conversione” consapevolmente, solo in nome della tacita convenzione che ha messo d’accordo gli studiosi, i quali, in un secolo e mezzo di studi manzoniani, hanno voluto avvalersi di questo termine per indicare quel passaggio dall’ateismo alla fede che è un fatto fondamentale della vita Manzoni.

In questo capitolo si è cercato di mostrare l’esistenza di un paradigma di conversione che emerge con forza nelle pagine dedicate al passaggio alla fede dell’Innominato. Questo paradigma è il risultato di uno studio sul tema a cui Manzoni si è dedicato molto, come testimonia anche l’altra conversione presente nel Romanzo; è sembrato perciò utile iniziare il capitolo con una comparazione tra gli esempi differenti di conversione che Manzoni offre nel Fermo e Lucia e nei

Promessi Sposi: oltre a quella dell’Innominato, sono state considerate le

conversioni di Fra Cristoforo e del Conte del Sagrato. Insieme alla conversione è stata anche studiata la vicenda della monaca e la storia del suo pentimento: Gertrude infatti prende coscienza dei propri crimini e si ravvede sotto la spinta della potenza della Grazia, che è il motore della conversione. La dettagliata analisi di queste pagine, appartenenti alle due versioni del Romanzo, ha mostrato come

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nel Fermo e Lucia l’aderenza alle idee giansenistiche sia maggiore rispetto al quanto emerge nei Promessi Sposi.

Un’idea comune rende ad ogni modo simili tutte le conversioni del Romanzo: quella per cui esse vengano operate dalla Grazia di Dio e in nome della sua Misericordia.

Si è cercato, perciò, di dimostrare come l’influenza giansenistica abbia giocato un ruolo importante nell’ elaborazione dei concetti di “Misericordia di Dio” e “Grazia di Dio” da parte di Manzoni. Questi termini sono infatti parole parlanti che appartengono ad un lessico preciso, il quale oltre ad essere comunemente cristiano, è peculiarmente giansenistico. Le parole “Misericordia” e “Grazia” ricorrono spessissimo nella loro accezione giansenistica non solo nei testi dei Macolatisti pavesi, ma anche negli epistolari delle persone più vicine a Manzoni con accezioni particolari e in certo modo differenti rispetto al loro uso nel cristianesimo ortodosso. Per stabilire con sicurezza la portata dell’influenza giansenistica sull’elaborazione di questi due concetti in Manzoni, è stato necessario fare una panoramica che studiasse l’evoluzione dei due termini attraverso l’analisi dei testi scritti a partire dalla conversione fino al 1827. Questa storia che, attraverso i testi, ricostruisce il pensiero religioso di Manzoni mostra come lo scrittore si sia, pur con qualche ricaduta, gradualmente allontanato dalle posizioni rigide del giansenismo tradizionale, che poggiava la propria visione pessimistica del rapporto uomo / Dio sulla complessa dottrina della Grazia di S. Agostino.

Successivamente la conversione dell’Innominato è stata isolata per il suo carattere universale e si è cercato di dimostrare come il paradigma su cui essa si costruisce derivi dal vissuto biografico e, soprattutto, dall’interpretazione che Manzoni diede a quell’evento appoggiandosi alla visione di Degola in fatto di conversione: a ben vedere, infatti, il paradigma istituito da Manzoni nella conversione dell’Innominato è identico a quello istituito da Degola nel suo discorso di abiura per Enrichetta Blondel e si compone di tre elementi: la crisi psicologica; l’intervento della parola, di persone ed eventi divenuti strumento della grazia divina; l’intervento della Chiesa.

In seguito entrando nel vivo della dialettica filosofica, sulla base di una suggestione offerta dal Raimondi, si è voluto mostrare come Manzoni avesse parzialmente rettificato Pascal: lo scrittore lombardo, infatti, insieme a Degola e

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Grégoire, credeva che la ragione avesse un ruolo di primo rilievo nel processo di conversione. Secondo Manzoni la ragione, non soltanto può, ma deve persuadersi della bontà dei precetti divini, sottomettendosi al Vangelo, non tramite il proprio accecamento, ma attraverso un esame lucido dei suoi insegnamenti. Nell’ultimo paragrafo del presente lavoro è stato studiato il ricorrere in Degola e Manzoni di una metafora molto antica che vede il passaggio dalle tenebre alla luce come allegoria del processo di conoscenza. L’immagine, nata già nel Vangelo, utilizzata da Sant’Agostino nel VII libro delle Confessiones, ritorna spessissimo nell’Exhortation à une nouvelle catholique di Degola, anche in virtù dell’uso che di essa facevano i giansenisti italiani. Manzoni, probabilmente ispirandosi al Degola, riprende velatamente questa metafora nella conversione dell’Innominato, facendo in modo che il percorso di conversione di quest’ultimo si configuri come un passaggio dalle tenebre.

3.2 IL MIRACOLO DELLA CONVERSIONE E DEL

PENTIMENTO NEL ROMANZO E LA SUA ADERENZA

ALLE IDEE GIANSENISTICHE

Per molto tempo la sterminata critica che si è dedicata a questo tema ha cercato di considerare la portata effettiva della leggenda del miracolo, tentando di strappare al silenzio quasi assoluto di Manzoni 1 una confessione di verità. Nell’arco di un secolo di studi si è giunti a comprendere che Manzoni poté riaccostarsi alla fede soltanto dopo un lungo percorso di due anni, in cui gli eventi della vita e le vicissitudini della propria arte ebbero pari importanza e, sovrapponendosi, portarono a quel cambiamento straordinario che tanto effetto ebbe sul pensiero dell’uomo e sull’arte dello scrittore.

Sembra giusto sin da ora collocare al suo posto un tassello che nell’ambito della conversione di Manzoni è sempre risultato scomodo: quello del miracolo, su cui ci

      

1

  Cfr.  Giuseppe  Belotti,  Il  silenzio  del  Manzoni  sulla  sua  conversione,  in  “Atti  del  VI  Congresso  nazionale di studi manzoniano”, Lecco: Comune 1963, pp. 119‐142. 

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si è spesso chiesti se debba appartenere alla storia o al mito 2. A prescindere dalle varie interpretazioni, una cosa è certa: non è possibile credere alla discesa fulminea della Grazia che d’improvviso cambiò quel cuore umano.

È probabile che il mito di tale discesa per quanto riguarda Manzoni esistette solo nelle penne dei critici: né Manzoni, né il Degola, che lo catechizzò, poterono mai credere, almeno a proposito della conversione che li vide entrambi attori, ad un intervento repentino ed improvvisamente determinante della Grazia. Se anche il miracolo avvenne, nelle modalità in cui ne parlarono Zanella, Carcano, Ceroli e il Garzia 3, esso non ebbe certo un ruolo determinante, e la sua verità o leggenda va comunque riconnessa alla storia di quel lungo processo, a cui si è appena accennato.

Non è però possibile dubitare del fatto che Manzoni credesse ai miracoli. Manzoni – scrivono Ruffini 4 e Jemolo 5 - credeva ad essi proprio come nel Seicento

avevano fatto Racine e Pascal, che per fede ritenevano vero il miracolo della

      

2

 Giuseppe Langella dubita fortemente della veridicità della leggenda: “lascia del tutto increduli il  famoso  (e  ahimé  fumoso)  anedotto  del  “miracolo  di  San  Rocco”,  in  cui  si  è  voluto  vedere  l’episodio  culminante  del  ritorno  di  Manzoni  alla  Fede”.  Giuseppe  Langella,  Manzoni,  poeta 

teologo (1808‐1819), Pisa: Edizioni ETS, 2009, pp. 55 e ss. 

3

  La  leggenda  del  miracolo  fu  ricostruita  innanzitutto  da  Busnelli,  poi  da  Garzia  e  da  Ruffini  attraverso un puzzle di diverse fonti e fu rievocata in tutti i suoi dettagli anche da Fossi nel suo  volume dedicato interamente alla conversione di Manzoni. Langella ne ricorda le tappe, citando  dal Fossi: L’episodio avvenne in Parigi, il 2 di aprile 1810, il giorno del matrimonio di Napoleone  con Maria Luisa (…). Una folla enorme acclamava l’Imperatore (…). Fu poi la volta delle musiche  e,  sull’imbrunire,  dei  fuochi  d’artifizio.  (…)  Ma  a  questo  punto  accadde  un  serio  inconveniente.  Alcuni fuochi bruciarono malamente riversandosi con denso fumo verso il pubblico e provocando  nell’immensa folla un ondeggiamento (…). Ora in quella folla che gremiva Place de la Concorde e  les Tuilleries si trovavano appunto i giovani sposi Manzoni, che vennero anch’essi trascinati nel  vario ondeggiare della moltitudine (…), non riuscirono a tenere il contatto e si trovarono divisi e  lontani  l’uno dall’altro:  di  più  il  poeta  nell’atto  di  vedersi strappata  via  la  moglie  dalla  corrente  della folla ebbe l’impressione che la fragile – ed ai suoi occhi, fragilissima – Enrichetta, soffrisse e  venisse come soffocata dalla stretta che l’avvolgeva. (…) Uscito barcollante dalla folla in uno stato  di  smarrimento  e  di  desolazione  venne  a  trovarsi  dinnanzi  all’Eglise  de  S.  Roque,  che  è  situata  appunto  ad  uno  degli  sbocchi  delle  Tuilleries;  e  quasi  a  rifugio  del  malore  che  gli  incombeva,  entrò  nella  chiesa.  Qui  nella  serenità  del  canto  d’una  funzione  religiosa  egli  trovò  sollievo  al  fortissimo turbamento, (…) rivolse al Cielo “un affannosa preghiera”, (…) invocando “o Dio, se tu  esisti rivelati a me” e nel suo sgomento (…) pregò “fammi ritrovare la mia Enrichetta”. A questo  punto ci troviamo di fronte al così detto miracolo di San Rocco, o per esser più precisi a quel vivo  e  luminoso  intervento  della  grazia  divina  che  condusse  il  poeta  al  possesso  della  fede”.  Piero  Fossi,  La  conversione  di  Alessandro  Manzoni,  1933,  Firenze:  La  nuova  Italia,  19742,  pp.  75‐78.  Citato da Langella, op. cit. (2009), p. 55. 

4

 Ruffini, op. cit. (1931), I, p. 176. 

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Santa Spina 6. Manzoni credeva ai miracoli ed invogliava altri a crederci; il 7 settembre 1842 aveva infatti parlato al Coen dell’improvvisa e miracolosa conversione del Ratisbonne, indicandogliela come rassicurante precedente: lo scrittore rivedeva infatti in quell’evento una possibilità della ripetibilità del miracolo 7.

Il miracolo in senso stretto, però, inteso come intervento fulmineo ed improvvisamente efficace non appartiene né al suo vissuto, né alle conversioni letterarie che egli narrò in qualità di autore nelle varie stesure del romanzo 8. Anche il pentimento e la contrizione, descritti dai giansenisti come un prodigio della Grazia, non avvengono in modo repentino ed improvviso ma esigono una lunga maturazione. Nel mondo manzoniano la conversione è sempre un processo che richiede una maturazione psicologica: la Grazia interviene, sì, ma come un flusso carsico, che opera pian piano e dolorosamente, portando all’esame infallibile del Dio interiore i ricordi di un’intera vita fino a sciogliere i rimorsi nel pentimento.

Un processo simile può richiedere mesi, settimane o anni, come accadde a Manzoni stesso, ma per l’Innominato è tutto condensato in una sola notte, una corsa a perdifiato dallo stato più degradato del peccato a quello più alto della grazia 9. Al di là dei tempi richiesti per questo processo, che, come si è visto, non si riducono mai ad un battito di ciglia, la vicenda della conversione viene sempre rappresentata sia nei Promessi Sposi (1825-27) che nel Fermo e Lucia come evento inevitabile (quando deve avvenire) e guidato dall’alto: è Dio che dal di fuori silenziosamente intreccia le vicende umane, e che da dentro, nell’interiorità,

      

6  Si  racconta  che  una  nipote  di  Pascal  sia  stata  guarita  di  una  fistola  all’occhio  per  il  semplice  contatto con una reliquia che avrebbe contenuto una spina della corona di Cristo. Ruffini, op. cit.  (1931), I, p. 179.  7  Ruffini, op. cit. (1931), I, p. 176.  8 Per uno studio approfondito sul miracolo in Manzoni cfr. Ruffini, op. cit. (1931), I, pp. 169‐183;  Parisi, op. cit. (2003), p. 44.  9  Come scrive Ulivi: “abbiamo dunque davanti il caso di una conversione rapida e radicale. Ma il  caso è talmente immedesimato a un’identità umana nella sua crisi di evoluzione che fa meraviglia  si sia potuto dibattere, un tempo se quella conversione sia un “miracolo” o un intimo modificarsi  secondo le leggi della psicologia”. Ferruccio Ulivi, Manzoni. Storia e Provvidenza, Roma: Bonacci  Editore, 1974, p. 119. 

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smuove le anime. Sembra giusto, perciò, parlare di latente ma prodigiosa opera della Grazia e di “miracolo” in senso lato 10.

Per quanto Manzoni abbia evitato in ogni modo di raccontare la conversione come una luce improvvisa e scesa dal cielo, come un evento soprannaturale e inverosimile 11, l’idea di miracolo si avverte in quell’abisso che l’Innominato ha dovuto saltare per giungere alla fede 12. Era un salto stupefacente, che andava oltre la speranza e la comprensione di chiunque lo avesse contemplato. Scrive Agostino: “miraculum voco quidquid arduum aut insolitum supra spem vel facultatem mirantis apparet” 13. La Grazia ha agito sull’animo dell’Innominato muovendolo al primo rimorso, e ha trovato in Lucia il suo strumento, atto a dare a quell’uomo l’occasione di un’opera di misericordia: solo quest’opera porta al primo passo verso Dio perché attraverso essa l’uomo con la propria misericordia emula quella di Cristo, si avvicina a Dio e ricongiunge la propria natura umana con quella divina 14. La divina provvidenza ha portato Lucia al cospetto

dell’Innominato, e ha predisposto tutta una serie di eventi che portassero alla conversione di quel potente; e, per compiere quell’opera di misericordia, l’Innominato ha dovuto operare secondo un sentimento cristiano, molto vicino all’ottica giansenista, perché essa è stata innanzitutto frutto di umiltà.

Come si può leggere anche nell’intera storia di Gertrude 15, la qualità che secondo Manzoni distingue il potente è innanzitutto l’orgoglio, la superbia, che esige l’elevazione di sé sugli altri, e, quindi, il comando e la supremazia 16: questa

      

10

  “Puro  e  immateriale  sentimento  del  miracolo,  suggerito  senza  affermare  e  altresì  senza  negare” affermò Roberto Braccesi. Cfr. Eurialo De Michelis, Sulla conversione dell’Innominato, in 

Atti del VI congresso manzoniano di studi, Lecce: Annone, 1964, pp. 91‐96: 93. 

11  Il  miracolo  “tout  court”  nei  Promessi  Sposi  viene  narrato  solo  come  superstizione  religiosa:  l’epica  del  prodigio  è  l’antitipo  del  romanzo  manzoniano.  l’elemento  del  prodigio  rimane  in  Manzoni confinato alla parola dei personaggi. Cfr. Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio, Torino:  Einaudi, 1974, pp.  191‐225.  12  Cfr. Belotti, op. cit. (1963), pp. 123‐124.  13 Augustinus, De utilitate credendi, XVI. Citato dallo studio di Righi che ha approfondito questo  aspetto: Roberto Righi, L’eccezione normale. I miracoli di Pascal, in Anima e paura, studi in onore  di Michele Ranchetti, a cura di Bruna Bocchini Scamaiani e Anna Scattigno, Macerata: Quodlibet,  1998, pp. 109‐116. 

14  Questo  è  un  concetto  schiettamente  giansenistico:  evidenzia  il  ritorno  alla  verità  crocifissa.  Manzoni  non  fa  menzione  di  Cristo  nella  narrazione  dell’Innominato,  ma  la  figura  di  Cristo  è  incarnata dall’ umiltà necessaria all’Innominato per uscire dall’abisso dell’orgoglio.  

15 Cfr. Angelo Pupino, Religione e romanzo, Roma: Salerno editrice, 2005, pp. 103‐118.  16

  Cfr.  Monica  Barbi,  Il  terribile  uomo,  lo  sconosciuto  potente,  il  tiranno  selvatico:  nomi  e  volti 

dell’Innominato, in Prospettive sui Promessi Sposi, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia, 

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caratteristica che i Giansenisti, seguendo Sant’Agostino 17, condannavano più di ogni altra come propria del maligno e di chi agisce da lui ispirato, trovava il suo opposto proprio nell’umiltà, che invece è incarnata da Cristo 18. Secondo una topica tutta giansenistica, Cristo è l’umile per eccellenza in quanto, essendo Dio, non ha trovato disdicevole divenire uomo e morire sulla croce per salvarci 19. Ora, poiché la conversione è innanzitutto per Agostino, e quindi per i Giansenisti, un νόστος in Dio operato dalla Grazia tramite Cristo, l’atto che comincia questo ritorno deve essere prima di ogni altra cosa frutto di umiltà: si ritorna in Dio specchiandosi in Cristo come in un modello ed imitandone lo spirito e le qualità

20. A ben vedere, proprio in questa maniera ha agito l’Innominato, personaggio, in

fondo tragico, che collocandosi dopo Carmagnola ed Adelchi può divenire nuova

figura Christi: furono atti di estrema umiltà giudicare con sincero pentimento il

proprio operato ed aborrirlo, affidarsi al cardinale, piangere di fronte a lui, chiedere perdono a Lucia e infine raccogliere l’occasione offerta dalla provvidenza per operare il primo atto di misericordia.

Sembra difficile negare l’ispirazione giansenistica di questo evento focale del romanzo: la conversione dell’Innominato, pur non avendo i connotati del miracolo in senso stretto, che forza la natura a violare le proprie leggi, è comunque un evento anomalo. L’elemento straordinario sta nella sorprendente distanza tra lo

      

17

    Cfr.  De  Civitate  Dei,  XIII,  13 ;  14  ;  15,  pp.  395‐396 ;  XIX,  27,  p.  697.  Citato  sempre  da  Sancti 

Aurelii Augustini De civitate Dei (fa parte di Corpus Christianorum Series Latina, voll. XLVII (Aurelii  Augustini opera,  Pars  XIV, libri I‐X) e XLVII (Aurelii Augustini opera,  Pars XIV, libri XI‐XXII)), a cura 

di Bernardus Dombart e Alphonsus Kalb, Turnholti: Typographi Editores Pontificii, 1955. 

18 Cfr. Confessiones, VII, 8, 14, pp. 101‐102 : “Indagavi quippe in illis litteris varie dictum et multis  modis,  quod  sit  filius  « in  forma  patris  non  rapinam  arbitratus  esse  aequalis  Deo »,  quia  naturaliter id ipsum est, sed quia « semet ipsum exinanivit formam servi accipiens, in similitudine  hominum  factus  est  et  habitus  inventus  ut  homo,  humiliavit  se  factus  oboediens  usque  ad  mortem, mortem autem crucis: propter quod Deus eum exaltavit a mortuis et donavit ei nomen,  quod est super omne nomen, ut in nomine Iesu omne genu flectatur caelestium, terrestrium et  infernorum et omnis lingua confiteatur, quia Dominus Iesus in gloria est Dei patris » (...)”. Citato  sempre  da  Sancti  Augustini  Confessionum  libri  XIII,  quos  post  Martinum  Skutella  iterum,  edidit 

Lucas  Verheijen  (fa  parte  di  Corpus  Christianorum  Series  Latina,  vol.  XXVII,  Sancti  Augustini  Opera),  Turnholti:  Typographi  Brepols  Editores  Pontificii,  1981.  Queste  erano  anche  le  idee  di 

Paolo di Tarso: l’autore cita infatti dalla lettera ai Filippesi (12.6 et passim).  19

  L’humilitas  secondo  Agostino  è  una  delle  caratteristiche  principali  di  Cristo.  Cfr.  Cornelius  Mayer,  Humiliatio,  humilitas,  in  Augustinus  Lexikon,  III  fasc.  3  /  4 :  Hieronymus‐Institutio, 

institutum, Wuerzburg: Schwabe Basel, 2006, pp. 443‐456; 449. 

20

  Questo  era  sostenuto  da  Agostino  che  si  rifaceva  a  S.  Paolo,  da  Pascal,  Senault  e  Bossuet  (Parisi, op. cit. (2003), p. 65. Pascal scrive: “C’est un des grands principes du christianisme, que  tout ce qui est arrivé à Jésus Christ doit se passer dans l’âme et dans le corps de chaque Chrétien;  que,  comme  Jésus‐Christ  a  souffert  durant  sa  vie  mortelle,  est  mort  à  cette  vie  mortelle,  est  ressuscité d’une nouvelle vie, est monté au ciel, et sied à la dextre du Père; ainsi le corps et l’âme  doivent souffrir, mourir, ressusciter, monter au ciel, et seoir à la dextre”. Lafuma, Pensée 278b.  

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stato degradato di orgoglio e di peccato in cui l’Innominato inizialmente viene presentato e quello di giustizia e nobiltà d’animo che raggiunge 21. In un salto così grande, per quanto descritto con tutto il realismo manzoniano, va rivisto l’enigma del segreto operare della Grazia che trasforma gratuitamente il peggiore dei potenti in un uomo giusto 22.

Proprio nel contemplare questo stacco il lettore avverte il mirum che solitamente connota il miracolo 23: di questo si era accorto anche il Visconti che, quando lesse quelle pagine, trovò giusto invitare l’autore a rivederle e ad attenersi maggiormente al Ripamonti che aveva rimesso la conversione del Conte quasi interamente nelle mani di Borromeo 24.

Molta più importanza ha il ruolo del Cardinale nel Fermo e Lucia (1821): in questa prima stesura è infatti Federico Borromeo che, attraverso un illuminante colloquio, ottiene la conversione del Conte inducendolo a trarre le conclusioni più giuste da quello stato di agitazione e rimorso in cui egli è precipitato, dopo aver udito le parole di Lucia 25. Nei Promessi Sposi (1827) invece la conversione viene più efficacemente narrata dando maggior spazio al potere iniziale di quegli improvvisi rimorsi, che precedono l’incontro con Lucia; l’Innominato già prima di incontrarla è assalito da sentimenti dolorosi che faticano a tramutarsi in prosa: il peso del giudizio divino sul proprio capo, il presagio di un avvenire incerto, un senso amletico di morte 26. In questa versione del Romanzo sono proprio le parole

      

21

 Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), p. 117. 

22 Come scrive Jemolo: “Il perché gli uni si salvino e gli altri periscano è inesplicabile. È vero, chi  ha la volontà buona, la sottomissione, può essere percosso, ma non si perde. Peraltro la volontà  buona  non  è  l’effetto  di  una  causa  umana,  è  un  dono  di  Dio.  Invano  si  vuole  scorgere  nell’innominato qualcosa di grande che non c’è in don Rodrigo, nel conte Attilio, in Egidio, in tutti  i personaggi per cui non si dà salvezza”. Jemolo, op. cit. (1973), p, 38.  

23

  Ulivi  ha  studiato  attentamente  e  con  estrema  acutezza  il  miracolo  della  conversione  dell’Innominato  spiegandolo  alla  luce  di  quanto  asserito  dai  moralisti  francesi,  Ulivi,  op.  cit.  (1974), pp. 115‐129. 

24

 Pistelli Rinaldi, op. cit. (1985), pp. 433‐458.  25

 Ibidem  

26  “Invecchiare,  morire!  E  poi?”  I  Promessi  Sposi,  XX,  p.  784.  I  Promessi  Sposi  saranno  citati  sempre nella versione del 25‐27 da Alessandro Manzoni, Tutte le opere, a cura e con introduzione  di  Mario  Martelli,  Firenze:  Sansoni,  1973,  vol  I.  Cfr.  Geno,  Pampaloni  I  Promessi  Sposi, 

Introduzione, commento critico e note di Geno Pampaloni, Novara: Istituto Geografico, 1988, p. 

394. Cfr. Monica Barbi, Il terribile uomo, lo sconosciuto potente, il tiranno selvatico: nomi e volti 

dell’Innominato in Prospettive sui Promessi Sposi, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia 

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di Lucia ad avere caratteri decisivi per la conversione dell’Innominato 27, ed esse si impongono per importanza sul colloquio successivo con Borromeo.

L’ispirazione giansenistica è, però, molto più forte nel Fermo e Lucia 28, dove la crisi psicologica del Conte e di Gertrude, quando vengono assorbiti dalle idee di pentimento e contrizione, viene descritta dettagliatamente da una penna che ricorda da vicino quella di Dostoevskij 29, quando si tratta di disegnare l’immagine vivida della sofferenza in “un’anima caduta nelle mani del Dio vivente” 30. Proprio come quella notte terribile, che Mitja avrebbe voluto fosse l’ultima 31, la veglia tormentata del Conte del Sagrato porta il lettore dritto nei meandri della sua mente: l’analisi psicologica, che lascia poco ai silenzi rispetto alla futura stesura del Romanzo, segue tutti i sentieri verso cui si spinge il pensiero umano, quando è assillato dal rimorso e dalla colpa, e mostra in maniera analitica e dettagliata il dispiegarsi di una lacerazione interiore.

Proprio come rivela il Cardinale al Conte, la fonte di quel tormento è Dio: non può che trattarsi del Dio terribile dei Giansenisti, che dai suoi fedeli esige vera contrizione per i peccati commessi. Il Conte neoconvertito assume un atteggiamento di umiltà, così vicina all’umiliazione, che i Giansenisti non avrebbero potuto non approvare 32: tale atteggiamento si evince con forza quando, giunto all’ora di pranzo nella cucina di Perpetua, il Conte si ostina a rosicchiare il proprio tozzo di pane nel segno di una frugalità ostinata, declinando con

      

27

 Ibidem, p. 151.  28

  Si  citerà  sempre  l’edizione  diretta  da  Dante  Isella.  Alessandro  Manzoni.  I  Promessi  Sposi, 

Edizione  critica  diretta  da  Dante  Isella,  Prima  minuta  (1821‐1823).  Fermo  e  Lucia,  a  cura  di 

Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni, Milano: Casa del Manzoni, 2006.  29

  Espressione  del  tormento  cui  va  incontro  un’anima  sofferente  per  la  propria  miscredenza  è  certo  la  figura  di  Ivan  Karamazov:  il  suo  appuntamento  con  il  diavolo  è  quello  a  cui  si  accosta  chiunque metta alla prova razionalmente gli argomenti della fede, forse per cederle. Cfr. Vladimir  Laksin, Il giudizio su Ivan Karamazov in F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Torino: Einaudi, 2005  5, pp. XII‐XLIII. 

30  Durante  il  colloquio  con  Borromeo  il  conte  ammette  di  avere  “l’inferno  nel  cuore”  eppure  afferma di non riuscire a comprendere dove stia quel Dio, “parola che termina tutte le quistioni”.  “‐ Voi me lo domandate, rispose Federico, voi? E chi l’ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore,  che  vi tormenta, che  vi  opprime,  che  vi  abbatte,  che  v’inquieta,  che non  vi  lascia  stare;  e  vi dà  nello stesso tempo una speranza ch’Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che  lo confessiate?”, Fermo e Lucia, III, I, p. 286. Cfr. Manzoni, Tutte le opere. Introduzione di Mario 

Martelli premessa di Riccardo Bacchelli, I, Milano: Sansoni, 1973, p. 403. 

31

  Il  senso  di  colpa  per  aver  colpito  il  vecchio  e  la  convinzione  di  averlo  ucciso  porta  Mitja  a  propositi di suicidio. 

32  Barbi  non  può  fare  a  meno  di  vedere  del  ridicolo  nell’immagine  del  Conte  neoconvertito,  proprio  come  De  Gubernatis  non  si  spiegava  le  parole  degradanti  che  Giulia  Beccaria  scrive  a  Degola dopo aver ricevuto il sacramento della confermazione: in realtà si tratta di una modalità  tutta giansenistica di rapportarsi al divino e al momento del pentimento.  

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un’ostinazione quasi ridicola l’insistente proposta della donna di unirsi alla mensa

33. Infine il Conte stesso insiste, proprio in conformità alla figura del penitente

giansenista, sulla necessità del proprio volontario ostracismo di fronte a coloro che festeggiano la liberazione di Lucia e chiede a Borromeo:

“approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente, ch’io

mi umilij dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e che riceva

dalla sua bocca innocente dei rimproveri che non saranno certo condegni

alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad espiarla” 34.

È poi la stessa voce del narratore a sottolineare la necessità di questa giansenistica umiliazione:

“Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte (…) per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza umiliata volontariamente sarebbe un

conforto, un rincoramento dopo tanti terrori” 35.

Infine suona intriso di volontaria mortificazione giansenistica il discorso fatto a Lucia pubblicamente, che nei Promessi Sposi verrà condensato in un’unica ed icastica parola “Perdonatemi” 36, lasciando così la figura dell’Innominato alle austere altezze, che gli sono universalmente riconosciute 37, e che il Conte non può azzardarsi a sfiorare dopo esser caduto nello stato di penitente:

“Perdono; io son quello che v’ha offesa, tormentata = ho messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà, senza un pretesto, perché era un iniquo = ho sentite le vostre preghiere, e le ho rifiutate; ho vedute le vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi. Vi ho fatta tremare senza che voi m’aveste offeso, perché era pù forte di voi, e scellerato.

       33 Barbi, op. cit. (1991), pp. 158‐159.  34  Fermo e Lucia, III, IV, 43c, p. 346.  35  Ibidem  36 I Promessi Sposi, XXIV, p. 814. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 460.  37  Per un confronto tra l’Innominato e Napoleone: Carlo Annoni, La superbia e l’altezza. Saggio  critico sul cinque maggio, in Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, Milano: Vita  e Pensiero, 2010, pp. 683‐714. 

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Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio, perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete” 38.

Nei Promessi Sposi del 1827 il colorito giansenistico tinge ancora la prosa, ma in tonalità diverse e più pallide. Il senso di indegnità che trascinava nell’umiliazione il Conte del Sagrato, qui si presenta come un sentimento più sobrio, che, del tutto immune da qualsiasi sfumatura parodica, si ferma sulle labbra stesse dell’Innominato 39:

“Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato vi aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti di lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete … con chi!” e ancora “le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso” 40.

La tragicità della crisi psicologica dell’Innominato è certo maggiore rispetto a quella del Conte: l’Innominato ha pensieri di morte e ad un certo punto la portata della colpa, per delitti la cui entità è lasciata all’immaginazione, conduce il personaggio ad una risoluzione estrema: quella del suicidio. Benché, però, le tormentate volute dei pensieri dell’Innominato si innalzino alla tragedia molto più di quanto non avvenga per il Conte del Sagrato 41, la mancanza di una descrizione dettagliata dei delitti compiuti sfuma ogni cosa: essa spersonalizza la figura del personaggio 42, sottraendo elementi concreti, tangibili al pentimento e alla contrizione giansenistica, che comunque è presente (“Ho ribrezzo di me stesso”). Inoltre, i picchi tragici fanno sì che i pensieri del personaggio insistano in maniera shakespeariana sui grandi quesiti dell’esistenza, trasformando di fatto la tragedia

      

38 Fermo e Lucia, III, IV, 44b‐44d, p. 348.  39

 Ulivi, op. cit. (1974), pp. 120‐121. Questo senso di indegnità era stato teorizzato per esempio  da  Nicole,  come  scrisse  Ulivi:  “Nicole,  citando  e  parole  di  San  Pietro  dopo  la  pesca  miracolosa  « Eloignez‐vous  de  moi,  Seigneur,  parceque  je  suis  pêcheur  »:  che  « c’est  le  premier  des  mouvemens  que  Dieu  a  accoutumé  d’inspirer  aux  pécheurs  qu’il  convertit »”  Citato  da  Ulivi,  Ibidem. Per approfondire i rapporti tra Manzoni e Nicole si rimanda al lavoro di Ulivi. 

40 I Promessi Sposi, XXIII, p. 806. Proprio come Degola per Manzoni, è il Cardinale che traccia il  programma di vita per il futuro dell’Innominato. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni,  nota 22. 

41  Barbi,  op.  cit.  (1991),  pp.  152‐153.  Nel  Fermo  e  Lucia  l’introspezione  segue  tracce  concrete:  “Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un giorno, era  meglio che avessi pensato così sempre.” Manzoni, Fermo e Lucia, II, 10, 108a, p. 266. 

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di un uomo nella tragedia dell’Uomo. In questo modo l’Innominato, divenendo modello di ogni uomo, acquisisce una grandezza senza volto e senza nome sconosciuta al Conte del Sagrato, il quale nella resa artistica è in fin dei conti un cattivo qualsiasi 43: il risultato ottenuto da Manzoni è unico, e il giansenismo diviene solo una delle tante sorgenti a cui egli attinse per cesellare questo personaggio 44.

Rispetto al Fermo e Lucia nel Romanzo del 1827 il lavorio di sintesi ha dato alla luce una storia più lineare, dove la riflessione, condotta dai rimorsi, emerge diversamente, divenendo un dissidio del silenzio: è infatti il gioco dei silenzi, che tacciono sulle azioni malvagie dell’Innominato e che molto sottraggono all’introspezione analitica, a fare di quella conversione un enigma assoluto, di fronte a cui l’attenzione di un qualsiasi lettore è portata ad arrovellarsi su quanto di umano e di divino ci sia in quella vicenda …

Un’altra storia interna al Fermo e Lucia che pare veramente di impostazione giansenistica, è il racconto del difficile, lento e tormentato pentimento di Gertrude, donna caratterizzata da un’indole conflittuale, divisa spesso tra il male delle proprie scelte e improvvisi rimorsi 45. La storia della monaca si presenta estremamente sfaccettata e complessa e la conduce in entrambe le versioni del Romanzo alla trasformazione da vittima in carnefice. La donna viene presentata come un personaggio dalla volontà ammutolita 46: il principe padre, che sin dall’inizio decide il destino della figlia, ha nei suoi confronti pretese di onnipotenza divina 47, e detiene pieno controllo sulla sua volontà. In seguito, per interessi ben precisi, il principe cede il proprio potere sulla volontà di Gertrude

      

43 Cfr. Pupino, op. cit. (2005), pp. 303‐316.  44

 Cfr. Ulivi, op. cit. (1974), p. 33.   45 Ibidem, pp. 98‐100. 

46  Zama,  op.  cit.  (2013),  pp.  115‐139.  Rimando  al  suo  studio  per  un  confronto  dettagliato  tra  il 

Fermo e Lucia e I Promessi Sposi a proposito della vicenda di Gertrude. 

47

  Nei  Promessi  Sposi  la  responsabilità  del  padre  appare  molto  più  accentuata  rispetto  alla  versione  del  Fermo  e  Lucia.  Nella  quarantana  Manzoni  scrive:  “la  nostra  infelice  era  ancora  nascosta  nel  ventre  della  madre,  che  la  sua  condizione  era  già  irrevocabilmente  stabilita.”  I 

Promessi Sposi (1840), IX, p. 1023. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, pp. 189‐190. 

 Ancora  nel  secondo  Romanzo,  al  cap.  X,  il  principe  si  paragona  al  Dio  evangelico  (che  è  anche  quello di Nicole), come nota Zama. Il Principe dice: “avete sperimentato in parte il padre severo;  ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.” Ibidem, X, p. 1030, cfr. I Promessi Sposi a 

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alle monache, a cui è stato delegato il compito di compiere la fatidica scelta al posto della figlia 48.

Zama ha studiato i meccanismi psicologici che si attuano nella vicenda di Gertrude, comparando la versione del Fermo e Lucia a quella della quarantana. La sua analisi sottolinea all’interno l’esistenza di un equilibrio del gioco narcisistico del potere 49, basato sulla supremazia del più forte e sull’assoggettamento del più debole: prima è il padre padrone ad avere potere sulla volontà di Gertrude, in seguito le monache e in fine lei stessa. Zama evidenzia come ogni cessione di potere sulla volontà di Gertrude indichi il passaggio allo stato di superbia di ciascun personaggio che con lei interagisce; come si è detto, questo processo termina proprio in Gertrude.

La donna, quando prende finalmente possesso della propria volontà, acquisisce lo stato di superbia e supremazia proprio del padre, materialmente rappresentato da quelle “distinzioni e finezze”, conferite dal grado di badessa. Una volta assunto il potere, Gertrude attua ciò che ha imparato:

“La vista di quelle monache che avevan tenuto in mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera e le pagava con tante sgarbatelle, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti” 50.

Come dimostra il suo comportamento nei confronti delle educande sue coetanee, Gertrude precipita ulteriormente nello stato di superbia, tramite una vendetta non meritata nei confronti di tutte coloro che potranno godere di “quel mondo dal quale essa era stata esclusa per sempre” 51. Il salto definitivo dallo stato di superbia a quello di umiltà e Grazia, raccontato compiutamente solo nel Fermo e

       48 Questo è ben visibile nella quarantana: “(Il principe) pensò che lì meglio che altrove (a Monza)  la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla  e scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né si ingannava: la badessa e alcune altre  monache faccendiere (…) esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile (…);  accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate per quanto fossero forti; e  corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento  stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro”. I Promessi Sposi (1840),  IX, p. 1024.  49  Cio è presente in entrambe le versioni del Romanzo. Zama, op. cit. (2013), pp. 122‐141.  50  I Promessi Sposi (1840), X, p. 1038. Cfr. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 220.  51 Ibidem, p. 1038. 

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Lucia, non avviene nell’incontro con Lucia, ma le premesse perché esso si compia

cominciano a nascere proprio in quel momento.

La monaca, prima di inviare Lucia su quel sentiero che sarà sfondo del suo rapimento, avverte per un momento l’ispirazione irresistibile della Grazia che le porta alle labbra parole in grado di salvare: “sentite, Lucia”. La monaca è lì per lì sul punto di tradire Egidio e salvare la giovane donna, ma per paura rinuncia 52. L’occasione di “quell’opera di misericordia” 53 è persa, ma la Grazia ha già posto in quel cuore indurito il suo seme destinato a maturare nel modo più doloroso possibile, forse proprio a causa di quell’aiuto che Lucia da lei non ricevette. Quando, perciò, dopo l’insorgere di alcuni sospetti, Borromeo si presenta dalla monaca per accertarsi di come stiano le cose, il discorso con lui non le dà giovamento, ma la porta a sentire tutto il peso delle “certezze” che agitano “la coscienza” 54. La crisi interiore di Gertrude, che per il Conte dura solo una notte,

per lei ha tempi molto più lunghi, e raggiunge i suoi picchi più alti in seguito ai provvedimenti che il cardinale prenderà nei suoi riguardi, trasferendola in un convento in città: la donna, di fronte alle sue colpe, esprime il suo turbamento attraverso l’insulto, i discorsi furiosi, la bestemmia contro il vescovo 55; è questa la soluzione inefficace che la sua anima trova per combattere il demone interiore che inevitabilmente la sconvolge.

Solo dopo aver udito la notizia delle atrocità compiute da Egidio a danno delle sue compagne di un tempo, la monaca improvvisamente prova orrore per sé stessa:

“La signora all’annuncio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si mutò: rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile in lagrime inesauste tutto quell’impeto di furore; e da quel momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare. Il cardinale ch’ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch’ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente” 56.

      

52 Il timore per sé stessi porta in Manzoni alla dannazione e va in conflitto con il timore verso Dio.  Questa  immagine  ricorre  identica  anche  nel  Romanzo  del  1827‐28,  ma  descritta  più  sinteticamente.  53 Fermo e Lucia, II, 9, 95½b‐ 95½c, pp. 347‐348.  54  Ibidem  55  Ibidem  56 Ibidem 

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Con queste parole Manzoni, traendo materiale dalla storia vera, nel Fermo e Lucia riabilita il personaggio della monaca 57 attraverso la cifra di un dolore immenso e di quel pentimento ostinato e mai pago di sé che è proprio della contrizione giansenistica: l’autore ha fatto così della monaca di Monza, pur con le dovute differenze 58, una novella Mère Angélique, il miglior esempio possibile di contrizionismo giansenistico.

Nella stesura del Romanzo del 1840 si allude soltanto di sfuggita al futuro della monaca. Nel capitolo XXVII dei Promessi Sposi, Manzoni scrive citando il Ripamonti 59:

“(Lucia) seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare uno più severo” 60.

La sintesi in questo caso è essenziale ed efficace, ma il dramma, con cui si esplicò il ravvedimento, e il dettaglio della storia non vengono raccontati affatto; per questa ragione parte della critica ha rivisto nella vicenda di Gertrude una storia inconclusa, e in lei un non finito michelangiolesco 61; a proposito del pentimento della monaca, rimane nei Promessi Sposi, già dalla versione del 1827, soltanto una riflessione di sapore quasi gnomico 62, che aveva già avuto una sua versione

      

57

Cfr.  I  Promessi  Sposi  a  cura di  Geno  Pampaloni, X,  p. 734, nota  75.  Come  scrive  Pampaloni    il  Manzoni, informandoci del ravvedimento della signora ha voluto far trasparire la sua pietà per la  sciagurata”. Ibidem, p. 735. 

58

 Non sembra che la monaca si convertì. 

59 Queste sono per lo più parole del Ripamonti. Il suo resoconto sembra curiosamente dipingere  in  maniera  esatta  il  modello  di  contrizione  che  avevano  in  mente  i  giansenisti.  La  storia  del  ravvedimento  di  Gertrude  apparteneva  anche  alla  vera  storia  di  Marianna  de  Leyva,  che  è  l’exemplum  a  cui  Manzoni  attinge  per  creare  la  monaca  di  Monza.  Cfr.  Paola  Mastrocola, 

Gertrude  e  “la  signora”:  due  storie,  nessuna  fine,  in  Prospettive  sui  Promessi  Sposi  a  cura  di  G. 

Barberi Squarotti, Torino: Tirrenia, 1991, p. 163‐178.   60  I Promessi Sposi (1840), XXXVII, p. 2066.  61 Mastrocola, op. cit. (1991), pp. 163‐178.  62  “E’ una delle facoltà singolari ed incomunicabili della religione cristiana, questa: di poter dare  indirizzo e quiete a chiunque in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa.  Se al passato v’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, presta lume e vigore per metterlo in 

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precedente nel Fermo e Lucia 63: Manzoni in entrambe le versioni allude al futuro ravvedimento di Gertrude e racconta il momento in cui la donna, illuminata finalmente dal potere rivelativo della Religione, seppe fare di necessità virtù, trasformando la propria monacazione forzata in un mezzo per espiare le proprie colpe. Questa riflessione si dipana partendo da una fiduciosa convinzione che a Manzoni derivava da Massillon 64, cioè che la verità della fede, persuadendo della propria intrinseca giustizia, ripaga sempre con le sue grazie il dolore di una scelta ingiusta 65: la penitenza è infatti un dono della Grazia di Dio.

Dopo il ravvedimento di Getrude, assimilabile per certi versi ad una conversione, è necessario parlare del passaggio alla fede di Ludovico, futuro Fra Cristoforo 66. La sua conversione non è narrata né nel Fermo e Lucia, né nei Promessi Sposi con quell’attenzione estremamente minuziosa alla psiche del personaggio che caratterizza il pentimento di Gertrude o la conversione del Conte del Sagrato / Innominato. Anche questa conversione, come quella dell’Innominato si delinea chiaramente come un passaggio dalla condizione di superbia a quella di umiltà, un salto dal mondo gerarchico e clientelare istituito dalla legge del più forte, a quello della carità cristiana 67.

       

opera a qualunque costo; se non v’è essa da il modo di fare realmente e in effetto, ciò che l’uom  dice  in  proverbio,  della  necessità  virtù.  Insegna  a  continuare  con  sapienza  ciò  che  è  stato  intrapreso con leggerezza, piega l’animo ad abbracciare con propensione ciò che è stato imposto  dalla prepotenza, e dà ad una elezione che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità,  tutto il consiglio, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione”. I Promessi Sposi X, p.  876. Cfr I Promessi Sposi di Geno Pampaloni, p. 220.  63 “è uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque  circostanza dare all’uomo che ricorra ad essa un rimedio, una norma e il riposo dell’animo. (…)  Poiché se la la via che egli ha intrapresa è (…) difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al  ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei  mezzi  per  poter  renderla  regolare,  praticabile  (…)  Disapprovando  i  motivi  che  l’hanno  fatta  intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed incusso per continuarla,  e dà ad una scelta temeraria o infelice, ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la  sapienza della vocazione”. Fermo e Lucia II, IV, 43b, p. 176. 

64

 Il confronto è stato studiato da Pupino: Massillon sostiene che a prescindere da quale possa  essere  la  sorte  d’una  creatura,  essa  non  sarà  mai  abbastanza  disperante  che  Dio  non  possa  “accorder à la douleur d’un choix injuste les graces qu’il aurait accordées à un choix légitime” J‐B  Massillon,  Sermons,  III,  Carème,  Paris,  Estienne  et  Herissant,  1746,  pp.  175‐76.  Cfr.  Angelo  Pupino, op. cit, (2005), p. 27. 

65 Ibidem.  66

  Il  pentimento  di  Gertrude  viene  posto  sullo  stesso  piano  di  una  conversione,  perché  esso  è  operato  dalla  Grazia  e  il  suo  snodarsi  segue  lo  stesso  meccanismo  che  si  attua  secondo  i  giansenisti ogniqualvolta la Grazia decida di operare sul cuore umano. La conversione è l’esempio  più eclatante del suo intervento. 

67

 Langella, Il modello della Conversione: Papini e Manzoni in Manzoni tra due secoli, Milano: Vita  e Pensiero, 1986, p. 175. 

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L’evento che scatena la crisi è in questo caso il delitto perpetrato dal futuro frate durante il duello intrapreso con l’intento di difendere il proprio padrone. In entrambi i Romanzi quell’evento non fu fortuito: generò “una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti”, fu perciò strumento della Grazia che ab origine sceglieva di chiamare a sé l’anima di Ludovico 68.

Pur essendosi riassopiti, quei sentimenti troveranno irresistibilmente il modo di tornare alla mente di Cristoforo, richiamati dalle parole di un prete che assistette l’ucciso in punto di morte e che, nel consolare il dispiaciuto assassino, gli parlò di perdono: “almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono e di portarvi il suo”. Sono queste le parole che per Ludovico portano lume, risvegliando distintamente quei sentimenti prima confusi: il pentimento, il rimorso, la forte commiserazione e l’amore verso l’ucciso. L’atto di umiltà che contraddistingue la conversione, e che fa da contrappeso al passato, si compone in questo caso di molti elementi: la donazione del proprio patrimonio alla famiglia dell’ucciso, la richiesta pubblica di perdono e, soprattutto, il cambiamento del nome in Cristoforo. La decisione di cambiare il nome indica il desiderio, insito nella conversione, di evertere dalle fondamenta un’identità per costruirne un’altra. L’umiltà dimostrata è certo massima: all’ucciso il frate dona tutto di sé, persino il proprio nome. La contrizione giansenistica del pentimento non sembra, però, emergere qui con la stessa forza con cui si presenta al lettore nel caso del Conte e di Gertrude, ma è pur sempre presente.

Anche nel caso di Fra’ Cristoforo emergono alcune differenze dal confronto tra le due versioni del Romanzo. Innanzitutto nei Promessi Sposi, rispetto al racconto del Fermo e Lucia, i tempi della conversione di Ludovico si dilatano 69: già prima

      

68  Scrive  Manzoni  nel  Fermo  e  Lucia  :  “l’impressione  che  Ludovico  ricevette  dal  veder  l’uomo  morto per lui e l’uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu una rivelazione di sentimenti ancora  sconosciuti. Il cadere del suo nimico, l’alterazione de’ suoi tratti che passavano in un momento  dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in  un  punto  l’animo  dell’uccisore.”  (Fermo  e  Lucia,  I,  4,  40b,  p.  52).  Scrive  Manzoni  nei  Promessi 

Sposi: “l’impressione che egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui e l’uomo morto da lui fu 

nuova ed indicibile: fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico,  l’alterazione  de’  suoi  tratti  che  passavano  in  un  momento  dalla  minaccia  e  dal  furore,  all’abbattimento e alla severa debolezza della morte, fu una vista che cangiò in un punto l’animo  dell’uccisore”. I Promessi Sposi (1827), IV, p. 646. 

69  Adolfo  Jenni  aveva  notato  come  questa  conversione  avvenga  sulla  via  di  Damasco:  in  realtà  anche qui la Grazia offre più di una folgorazione improvvisa; essa guida un risveglio improvviso, si  riassopisce  e  poi  desta  di  nuovo  l’uomo,  questa  volta  definitivamente  utilizzando  le  parole  del  prete  come  suo  strumento.  Cfr.  Adolfo  Jenni,  Il  motivo  della  conversione  nel  Manzoni  e  nella 

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del fatidico delitto, Dio lo aveva potuto chiamare a sé facendogli sovvenire più volte il proposito di farsi prete:

“Riflettendo quindi ai casi suoi sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli s’era girato per la mente: gli parve che Dio stesso lo avesse messo sulla strada (…)” 70.

Inoltre il Fermo e Lucia conferma ancora una volta, anche a proposito di Fra Cristoforo, la propria maggiore vicinanza alle idee giansenistiche. In questa versione del Romanzo il sentimento di espiazione si lega ad una contentezza della pena, che nella successiva redazione del Romanzo appare smorzata, e che si sposa bene con le istanze del rigorismo morale propugnato da Degola. Nel Fermo e

Lucia Ludovico, dopo aver preso la decisione di farsi cappuccino, è “finalmente

contento” per questa ragione:

“non desiderava altro che di cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che potesse compensare il male ch’egli aveva fatto e raddolcire il sentimento insoffribile del rimorso” 71.

La contentezza per la possibilita di espiazione ricevuta ritorna altre due volte nel passo e, agli occhi di un paradosso solo umano, si unisce alla sofferenza e da essa scaturisce: “il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al timore lo afflisse per un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa ingiustizia” 72. E, ancora, quando si tratta di riparare all’offesa, Ludovico prova gioia al pensiero dell’umiliazione che gli ha preparato il “signore superbo” 73, che, al fine di soddisfare al meglio la vendetta, diede alla faccenda molta solennità:

“Fra Cristoforo, arrivò, vide tutto l’apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento che la riparazione fosse clamorosa” 74.

        letteratura italiana, in Atti del VI convegno nazionale di studi manzoniani, Lecco: Annone, 1964,  pp. 47‐70: 61.  70  I Promessi Sposi (1827) IV, p. 647. D’ora in poi, come scrive Pampaloni, Ludovico dialogherà con  “Dio medesimo”. I Promessi Sposi a cura di Geno Pampaloni, p. 80, nota 77.   71  Fermo e Lucia, I, IV, p. 55, 42c.  72  Ibidem  73 Ibidem, p. 56, 43a.  

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Questa dolorosa contentezza può essere a ragione definita giansenistica, in quanto Ludovico accoglie felicemente le nuove possibilità di sofferenza come mezzo della propria espiazione, in perfetta armonia con gli insegnamenti del portorealismo: l’umiliazione è, infatti, soprattutto un mezzo per rimarcare la propria indegnità di fronte a Dio e ha valore di espiazione.

Nei Promessi Sposi (1827), anche a proposito della storia di Fra Cristoforo, si osserva un’ammorbidirsi delle spigolature giansenistiche: dei tre passi sopra citati, in cui Manzoni parlava della contentezza dell’espiazione nei Promessi Sposi, ne vengono soppressi due e solo il primo dei tre rimane, per altro notevolmente modificato:

“contento finalmente e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Ludovico, il quale cominciava una vita di espiazione e di servigio che potesse, se non riparare, pagare almeno, il mal fatto e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso” 75.

Nei Promessi Sposi la contentezza ha certo un colore diverso: il desiderio fortissimo di espiazione, misto a piacere, che aveva il Ludovico del Fermo e

Lucia scompare lasciando spazio ad un’austera ed impellente necessità, dove il

dolore prevale su tutto.

Al di là delle differenze, si può quindi concludere che in entrambe le redazioni del Romanzo la conversione e il pentimento vengano descritti come miracoli, nelle modalità che si è detto, operati dalla Grazia a prescindere dai meriti. Soprattutto per quanto riguarda la conversione, il miracolo si configura come un salto dallo stato di orgoglio a quello di umiltà, che coincide giansenisticamente 76 con la mimesi di Cristo. Perciò, ogni personaggio che nel Romanzo si converte, è anche “Figura Christi”, ovvero immagine vivente di Cristo, come lo erano anche i protagonisti delle Tragedie manzoniane 77. Questo è valido soprattutto per l’Innominato, apoteosi di tale processo.

        74 Ibidem, 43b.  75  I Promessi Sposi (1827), p. 648. cfr. Fermo e Lucia, p. 55, 42c.  76  Si intende soprattutto il pensiero di Degola e  dei giansenisti vicini a Manzoni.  77 Questo è valido sopratutto, per Adelchi, Ermengarda, Conte di Carmagnola. 

(20)

Il balzo compiuto dall’Innominato in una sola notte è certo il cambiamento più grande di tutti, quello che esplicitamente sembra richiamare il miracolo in senso stretto. La differenza si può apprezzare paragonando all’Innominato la versione precedente del Conte del Sagrato: il silenzio, con il suo lavoro di intarsio, ha scolpito nel primo un gigante capace di infinito male, e, quindi, poi, di infinito bene, che ha poco da spartire con il profilo ancora misurabile del Conte del Sagrato 78.

La rappresentazione di un personaggio letterario come Figura Christi è uno stilema che ha profonde radici nella letteratura cristiana. Esso si sposa, però, perfettamente anche con le concezioni giansenistiche e con l’agostinismo; in particolare i giansenisti del Sinodo di Pistoia vedevano nel giansenista il giusto, immagine di Cristo, chiamato a dissipare l’oscurantismo che aveva gettato ombre sulla morale evangelica e sulla vera fede. Manzoni si appropria di questo stilema79

tramite diverse fonti tra le quali spiccano gli scritti dei moralisti francesi, e soprattutto i lavori di Pascal e Racine 80. È probabile che altra fonte per il paradigma della mimesi di Cristo attuata da Manzoni nei suoi personaggi siano anche i testi di Quesnel e Duguet 81, autori carissimi al Degola; l’abate infatti impartiva i loro insegnamenti ai propri catecumeni e si era servito dei loro testi come fonte di ispirazione per la compilazione dell’Instruction ai Réglements dati ad Enrichetta. In Manzoni lo stilema della “Figura Christi” aveva precisi intenti apologetici e doveva servire a veicolare il messaggio morale.

       78  Barbi, op. cit. (1991), p. 153.  79 Era molto apprezzato da Papini: cfr Langella, op. cit. (1986), p. 172.  80  Cfr. Maria Caffiero, La verità crocefissa, in Il Sinodo di Pistoia del 1786 a cura di Lamioni, Roma:  Herder, 1991, pp. 315‐325.  81 Cfr. Rosa, op. cit. (2014), pp. 154‐157. 

(21)

3.3

LA CONVERSIONE, COME GRAZIA OFFERTA

DA DIO PER MISERICORDIA; UNA DIFFICILE

DOTTRINA E IL SUO LESSICO

Analizzando le conversioni nelle varie stesure del Romanzo, non si parla mai di miracolo tout court. Secondo Manzoni per quanto l’onnipotenza della Grazia possa dare improvvisa ed efficace prova di sé, non c’è nessuna necessità che essa si manifesti attraverso questo iter: anzi, più spesso, essa lavora sulle anime portandole all’esame di sé, ed è una forza irresistibile che opera all’interno della coscienza 82. Su questo concordavano i Giansenisti, che attingevano da Sant’Agostino 83. Si consideri che ogni conversione nella topica giansenistica è comunque sorprendente, un miracolo se si vuole, perché effetto della Grazia: i “signa”, per i Giansenisti e per l’ “altro Agostino”, quello delle Confessiones e del

De Civitate Dei 84, sono sempre elementi secondari, che mantengono un valore

meramente ausiliario rispetto alla forza irresistibile della Grazia. Quando ci si converte, è infatti sempre opera della Grazia di Dio, che agisce sulla volontà umana, ricreandola e trasformandola al fine di renderla sensibile alla Rivelazione. L’operazione della Grazia è però spesso un’eccezione normale. Come scrive Nicole: “Dieu veut que les opérations de la grâce ne se distinguent sensiblement de celles de la nature” 85.

Tutto questo è valido anche per i giansenisti di fine Settecento, che considerano Dio come onnipresente nelle cose, in quanto fonte suprema del bene che esiste nel mondo, e rivedono in ogni evento la traccia della sua imperscrutabile volontà 86: per questa ragione il drappello degli ultimi giansenisti tendeva a far ricadere sul

      

82

  Questa  convinzione  è  espressa  anche  da  Cottignoli:  Alfredo  Cottignoli,  Manzoni:  Guida  ai 

Promessi  Sposi,  Roma:  Carocci,  2002,  p.  43  e  ss.  cfr.  Gaetano  Lettieri,  L'  altro  Agostino.  Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Brescia:  Morcelliana, p. 117.   83  Si sta parlando, come sempre a proposito dei Giansenisti, di quello che Lettieri chiama l’ “Altro  Agostino”, cfr. Lettieri, op. cit. (2001), pp. 115‐117.   84

  Tra  le  due  opere  c’è  un  grande  scarto  cronologico,  ma  esse  si  collocano  entrambe  nella  cronologia della vita di Agostino dopo Ad diversis quaestionibus ad Simplicianum. 

85 Citato da Ulivi, op. cit. (1984), p. 122.  86

  La  tendenza  alla  profezia  può  essere  rivista  nel  discorso  di  Abiura  che  Degola  redige  per  Enrichetta,  quando  tutti  gli  eventi  precedenti  alla  sua  vita  vengono  riletti  come  in  funzione  a  quell’evento fondamentale che è la sua conversione. Cfr. Salvadori, op. cit. (1929),  p. 80 e ss. 

(22)

dipanarsi degli eventi e della storia un valore profetico, presagio dell’adempimento di promesse bibliche 87. Per un giansenista ogni volta che un miscredente o un eretico si avvicina alla vera fede è sempre un miracolo perché la Grazia ne ha cambiato straordinariamente il cuore 88.

Di questo parere era in particolare Eustachio Degola, che nella Instruction ai suoi

Réglemens insiste moltissimo sull’importanza di essere grati a Dio per qualsiasi

ispirazione alla fede. Di questo parere era anche Massillon, caro tanto al Degola quanto al Manzoni, secondo il quale nessun miracolo è più mirabile e difficile del cambiamento di un’anima che, finalmente liberata dalle passioni cambi radicalmente le proprie inclinazioni fino a darsi solo al bene, alla preghiera e all’amore di Dio. Una simile, prodigiosa trasformazione (“la gloire de ces prodiges”) va naturalmente attribuita, scrive Massillon, “à la grâce” 89.

La convinzione che sia la Misericordia di Dio a donare la fede è una concezione cristiana molto diffusa 90. I Giansenisti però insistono particolarmente su questo

concetto contrapponendo la Misericordia di Dio alla sua Giustizia: come dimostra Ruffini 91, l’idea della Misericordia divina agli occhi dei giansenisti si lega indissolubilmente al concetto della gratuità della Grazia, che nel momento della conversione agisce sul cuore umano in modo irresistibile e a prescindere dai meriti o dai demeriti dell’uomo 92. La fede, come anche la salvezza eterna, è un dono, non un premio: perciò non è dovuto da Dio all’uomo, ma viene concesso

      

87

 Lo scisma della Chiesa di Utrecht veniva letto per esempio come indice del futuro decadimento  della  Chiesa  Romana,  in  quanto  discendente  dagli  antichi  popoli  pagani  unitisi  con  il  vecchio  ceppo del popolo ebraico. Cfr. Pietro Stella, Il giansenismo in Italia – III Crisi finale e transizioni,  Roma: Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 2006, pp. 129; 134‐135.  

88 Luciano Parisi, Manzoni, il Seicento francese e il giansenismo, in “MLN”, Vol. 118, No. 1, Italian  Issue, 2003, pp. 111 – 112. 

89

 Massillon, Sermons, tomo IVme . Citato da Ulivi, op. cit. (1984), p. 123. 

90  La  matrice  di  questo  pensiero  è  agostiniana:  Agostino  sostiene  infatti  che  solo  grazie  alla  Misericordia di Dio egli poté scrivere le sue confessioni; la gloria che gli deriva dall’averle scritte  va attribuita a Dio. “Ecce narravi tibi multa, quae potui et quae volui, quoniam tu prior voluisti, ut  confiterer  tibi,  domino  deo  meo,  quoniam  bonus  es,  quoniam  in  saeculum  misericordia  tua”, 

Confessiones, XI, 1, 1, p. 194. Agostino afferma che se egli ha potuto narrare molte cose nelle sue 

confessioni  è  merito  della  misericordia  divina.  Secondo  Agostino  la  più  grande  prova  della  Misericordia  di  Dio  è  la  morte  di  Cristo  in  Croce,  che  ha  permette  la  remissione  dei  peccati.  Volker  Henning  Drecoll,  “Misericordia”  in  Augustinus  Lexikon,  Würzburg:  Schwabe  Basel,  2012,  vol. 4, fasc. 1/2, p. 34. 

91

 Ruffini, op. cit. (1931), II, p. 353.  92 Ibidem 

(23)

per sola misericordia 93. Inoltre l’espressione “Misericordia di Dio” richiama alla mente il Dio che, avendo compassione per la sua creatura, suscita quel senso di umiltà, tanto caro ai giansenisti, che l’uomo, in nome della sua piccolezza, deve provare verso Dio : l’uomo è un monstrum, come diceva Pascal, e, di fronte a questo essere miserabile, Dio non può provare altro che compassione. Non è perciò un caso che le correnti del cristianesimo pessimista seicentesco avessero particolarmente a cuore il concetto di “Misericordia di Dio” 94: essa, ben diversa dalla Misericordia divina della teologia gesuitica 95, richiama l’attenzione su quell’enorme debito ricaduto sulle spalle umane e quasi impossibile da saldare. Solo con una vita rigorosamente pia – sosterrebbero i Giansenisti – si può tentare di pareggiare i conti con Dio. Inoltre, cosa forse non secondaria, come mostra Bruni 96 l’espressione “opera di misericordia” deriva dal linguaggio prettamente religioso e catechistico: da chi, perciò, Manzoni poté apprenderla meglio se non dai suoi catechisti, Degola e Tosi?

L’ultimo giansenismo italiano e pavese, cui era legato il Tosi, proseguiva di fatto, a proposito della visione dell’uomo, sulla stessa linea del Degola e si faceva portavoce ultimo del portorealismo, e, quindi, del misticismo antiumanistico del Seicento 97. Testimonianza di ciò è la dottrina dell’annientamento di Giuseppe Parona, uno dei Macolatisti Pavesi, amico del segretario di Monsignor Tosi, Giovanni Emanuel 98. Secondo Parona (m. 1871), contemporaneo di Manzoni, l’uomo senza Dio è niente: le sue parole, ispirate da una voce cupa come quella di Pascal, parlano dell’uomo come di un essere che è contenitore vuoto, sola cassa di

       93  Questa era la teoria di Quesnel insegnata da Degola. Nelle sue Réflexions Morales Quesnel lega  la misericordia di Dio all’efficacia della Grazia. Un esempio per tutti è quanto Quesnel scrive nel  suo commento alla lettera ai Filippesi di Paolo di Tarso:   “Que peut s’attribuer la volonté présomptueuse de l’homme, si le commencement et le progrès,  la perfection et la persévérance sont l’effet de l’opération de Dieu dans le cœur? Le premières  grâces  sont  un  gage,  non d’assurance,  mais  de  confiance pour  la dernière.  Achevez, mon  Dieu,  l’œuvre de votre miséricorde que vous avez commencé en moi”. Pasquier Quesnel, Le Nouveau  Testament en français avec des Réflexions Morales sur chaque verset, Paris: chez André Palard,  1706, p. 49.  94  Luciano Parisi, Manzoni, il Seicento francese e il giansenismo, in “MLN”, Vol. 118, No. 1, Italian  Issue, 2003, p. 111.  95 Per i gesuiti la Misericordia di Dio coincide con la sua giustizia.  96

  Francesco  Bruni,  Intorno  alla  prosa  delle  “Osservazioni  sulla  morale  cattolica:  implicazioni 

linguistiche  e  filosofiche”,  in  Manzoni.  “L’eterno  lavoro”,  Atti  del  Congresso  internazionale  sui  problemi della lingua e del dialetto negli studi del Manzoni , Milano 6/7/8/9 Novembre . Milano: 

Centro Manzoniano di Studi, 1987, p. 107.  97

 Parisi, op cit. (2003), pp. 111‐112.  98 Stella, op. cit. (2006), pp. 148‐149. 

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