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LA CONQUISTA OTTOMANA DI RODI (1522)

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LA CONQUISTA OTTOMANA DI RODI (1522)

di Lucio Martinelli

1.GLI ANTEFATTI. I CAVALIERI DI SAN GIOVANNI.

L’isola di Rodi, situata a meno di 20 miglia dalla Turchia era (ed è), per la sua posizione strategica, una spina nel fianco per i traffici marittimi dell’Impero Ottomano nell’Egeo. Misura soltanto 1400 kmq, ma da quando era nelle mani dei Cavalieri di San Giovanni era stata efficacemente fortificata tanto da renderla pressoché inespugnabile.

Ne aveva fatto le spese il sultano Maometto II che l’aveva cinta d’assedio dal 23 maggio al 17 agosto 1480. Gli Ospitalieri, guidati dal Gran Maestro Pierre d’Aubusson, con appena 500 cavalieri e 2000 uomini d’arme, avevano respinto tre furiosi attacchi da parte di oltre 70.000 soldati musulmani con 160 galee, costringendoli alla ritirata e ad abbandonare il progetto di conquista dell’isola, dopo aver lasciato sul terreno più di 10.000 morti.

I Cavalieri di Rodi potevano riprendere il controllo delle rotte nel mar Egeo, mantenere il primato di centro marittimo e commerciale e nel contempo riparare, rafforzare e potenziare tutte le difese.

Sul trono di Istanbul, nel 1520, saliva il ventiseienne Solimano I, meglio conosciuto come “il Magnifico”. In una delle prime riunioni del Divan, cioè l’area del palazzo dove si riunivano tutti i potenti dell’Impero alla presenza dl Sultano, l’Ammiraglio della flotta Cortug-Ogli suscitava sapientemente l’ambizione di Solimano proponendogli di conquistare Rodi, baluardo avanzato della cristianità, un ostacolo per l’accesso ai territori degli Infedeli e per il dominio dell’Egeo. Era ciò che, “disperato e in lacrime”, reclamava il popolo dal suo nuovo Sultano. Nonostante il parere contrario del gran Visir Piri Mehemed Pascià, già precettore di Solimano, la spedizione era ugualmente decisa e il comando delle truppe affidato allo stesso Piri e al Secondo Visir Mustafa Pascià. I Cavalieri di San Giovanni, avvertiti delle intenzioni del Sultano, inviavano messaggeri a tutti i compagni e ai regni cristiani che era possibile raggiungere, senza nessun risultato. Alcun rinforzo giungeva sull’isola. I cavalieri si preparavano a deporre i neri mantelli del tempo di pace e a indossare le tuniche cremisi con le bianche croci ad otto punte, il loro contrassegno di combattenti per la difesa della fede.

Gli OSPITALIERI, meglio conosciuti come i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme o Gerosolomitani, erano chiamati Cavalieri di Rodi da quando avevano occupato l’isola (poi Cavalieri di Malta). Erano un ordine cavalleresco e monastico che a Gerusalemme nel 1108 (?), avevano eretto un monastero-ospedale per assistere i pellegrini in terra santa. Fondato dal monaco amalfitano Gerardo de’ Sasso erano osservanti delle tre regole: castità, obbedienza e povertà. Insieme ai Cavalieri Teutonici, i Crociati del Nord erano sopravvissuti ai Templari i quali, affidati alle mani di quei raffinati torturatori che erano i domenicani in seno alla Santa Inquisizione, avevano ammesso colpe, non provate, sotto orribili supplizi ed erano stati annientati nel 1307 per ordine del Re Filippo il Bello per impadronirsi delle loro immense ricchezze. Lo stesso Filippo aveva poi mandato al rogo il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay ed altri insigni Cavalieri.

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Fra Gerardo, ottenuta la bolla pontificia che riconosceva l’ordine da lui fondato, ne diventava il primo Gran Maestro (1108-1120). Dalla gente era chiamato Beato Gerardo, poiché lo ritenevano in “odore di santità”. I Cavalieri, come insegna, adottavano la croce amalfitana a otto punte che, oltre a ricordare le loro origini, simbolizzava le otto beatitudini della fede. Lo stendardo era rosso e la croce bianca. I loro mantelli erano neri.

Dopo gli eventi in Terra Santa, culminati con la cacciata di tutti i crociati dall’ultimo baluardo di San Giovanni d’Acri nel maggio del 1291, la crociata interrotta riprendeva sul mare ad opera dei soli Cavalieri di Rodi che avevano armato una flotta per combattere sia gli ottomani sia i pirati barbareschi che infestavano l’Egeo. Nel 1308, infatti, aiutati dai genovesi di Vignolo de’ Vignoli, avevano conquistato l’isola e la mantenevano con grande coraggio, diventando ben presto famosi nel mondo della cristianità e in quello islamico che combattevano.

I templari, dopo una sosta a Cipro, avevano preferito rientrare nelle loro Commende nei Paesi europei e diventare i banchieri dei regnanti, suscitando la cupidigia di Filippo il Bello.

Nel 1512, Cavalieri di San Giovanni, Cappellani e fratelli serventi, erano guidati dal Gran Maestro Filippo Villiers de L’Isle Adam, un prode e vigoroso guerriero in età avanzata.

Filippo Villiers de L’Isle Adam.

Rodi e le sue fortificazioni nel 1480 (ìmmagine internet).

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2. LO SBARCO E L’ASSEDIO

All’alba del 6 giugno 1522, le vedette sulle mura del Catello di Sant’Elmo osservavano sgomente l’interminabile sequenza di galee che, a vele spiegate e a forza di remi, si avvicinavano all’isola. L’allarme era immediatamente suonato e le mura e le torri si riempivano di uomini armati.

Lo stesso Gran Maestro accorreva sugli spalti per prendere visione della minaccia e dare gli ordini conseguenti.

La torre di Spagna, la prima ad essere attaccata dai turchi.

I Cavalieri, dopo gli attacchi all’isola del 1480 aveva esteso e potenziato le difese, ancorandole il più possibile a quelle naturali. Sul promontorio e sulla punta dell’avamporto sorgevano, minacciose, le massicce torri di San Nicola e di Sant’Angelo, là dove un tempo sorgeva il Colosso, una delle meraviglie del mondo antico. Sui moli le torri di San Michele e di San Giovanni, parti integranti del castello di Sant’Elmo avevano il compito di difendere la parte più interna del porto dove era ancorata la flotta dei Cavalieri. Una grande catena sbarrava l’ingresso ai moli.

Doppi bastioni difensivi, raggiungibili attraverso camminamenti sotterranei.

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Una doppia cerchia di mura chiudeva tutto intorno la città a picco sulle acque, rinforzata su tre lati, lungo la terra ferma, da un fossato profondo oltre sessanta piedi (18 metri circa), ricavato sulla roccia naturale e da tredici torri incorporate nelle stesse mura da cui spuntavano le nere gole di numerosi cannoni. Dal litorale salivano le anguste vie, con ai lati le case dal tetto piatto e gli alberghi-monastero delle varie Langues dell’Ordine, con le divise araldiche degli occupanti incise sulle facciate, visibili ancora oggi. Da queste case erano usciti in tutta fretta i Cavalieri appartenenti a otto Langues per raggiungere i loro posti di combattimento sui bastioni che dovevano difendere: Provenza, Alvernia, Francia, Italia, Castiglia, Portogallo, Germania e Inghilterra.

Sul retro della città, nella collina degradante verso il mare, le rovine fumanti di numerose ville, residenze estive e fattorie che il Gran Maestro, a cominciare dalla sua, aveva fatto radere al suolo per non dare appigli o rifugi agli attaccanti. I contadini si erano rifugiati dentro le mura portando con sé le loro povere cose.

La guarnigione era costituita da seicento Cavalieri, quattromilacinquecento fanti e arcieri cretesi e oltre seimilacinquecento tra marinai delle galee, cittadini e contadini che si erano offerti volontari. Le forze turche in procinto di sbarcare ammontavano a centoquindici mila uomini, numerose artiglierie e tonnellate di materiali d’assedio.

Gli assediati erano però guidati da uno di quei comandanti che sanno ottenere prodigi di valore dai propri uomini: Filippo Villiers de L’Isle Adam. Alto, imponente e vigoroso, il vecchio guerriero aspettava impavido lo scontro da sopra le mura. I turchi, inoltre, dovevano fare i conti con i cannoni di Rodi che erano manovrati con micidiale precisione dal migliore artigliere e ingegnere d’assedio di quel tempo: Gabriele Martinengo. Chiamato dai Cavalieri allorquando si era delineata la minaccia, aveva lasciato Creta al servizio di Venezia, ed era accorso per partecipare alla difesa dell’isola, fiero di essere ammesso nelle file dell’Ordine. Martinengo aveva anche ideato un sistema per individuare i minatori avversari osservando le vibrazioni di una pelle di tamburo che rivelavano il lavoro di scavo del nemico per portarsi sotto le mura e far brillare le mine. Appena arrivato, aveva immediatamente rinforzato con delle barricate la fortezza alverniate, non ancora interamente ricostruita.

Centinaia di galee approdavano con una incredibile rapidità fuori della portata dei cannoni dei difensori. Genieri e schiavi sbarcavano pesanti pezzi di artiglieria, trascinandoli in postazione per cingere la città in un cerchio di fuoco. Le colline si coprivano di tende turche con le insegne sventolanti. In breve tempo l’artiglieria turca cominciava a tuonare contro le mura, ma i cannoni dei castelli rispondevano colpo su colpo, manovrati con incredibile precisione da Gabriele Martinengo. L’assedio era ormai una realtà e a breve i Cavalieri attendevano l’attacco delle truppe turche, precedute come sempre da quei formidabili guerrieri che erano i giannizzeri.

3. I PRIMI ATTACCHI OTTOMANI

I turchi, avevano adottato la tattica ormai consolidata di spostare in avanti le trincee e gli schieramenti per avvicinarsi sempre di più alle fortificazioni rodiesi. Da qui, una ondata dopo l’altra, si lanciavano all’attacco con la loro solita impetuosità ma ogni volta erano ricacciati indietro con pesanti perdite. Piri notava che le previsioni di una vittoria certa si allontanavano sempre di più, ma il secondo Visir Mustafà si era vantato con il sultano che avrebbe distrutto Rodi pietra su pietra. Ma per ogni pietra i

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turchi cadevano a decine! Un diluvio di fuoco partiva dai bastioni, e i turchi morivano a migliaia nelle trincee davanti alle mura ancora in piedi. Gli Ufficiali non riuscivano più trascinare i loro uomini all’assalto. Troppo sicura e inevitabile era la morte ai piedi delle mura. La spaventosa ecatombe provocava un ammutinamento. Il Gran Visir Piri era costretto ad informare Solimano dello smacco subito e chiedeva al Sultano di venire ad assumere personalmente il comando. Consci dei castighi che dovevano attendersi, i due capi turchi non avevano altra scelta.

4. ARRIVA SOLIMANO

Il 28 agosto 1522 i difensori di Rodi avvistavano all’orizzonte una nuova poderosa flotta turca. Solimano metteva piedi sull’isola con un altro esercito. Aveva inizio uno dei momenti più drammatici per i prodi Cavalieri. Lo stesso Sultano, ad ogni modo, doveva affrontare una vicenda tra le più rischiose della sua vita quale capo di un immenso impero.

Solimano il Magnifico.

Nella zona pianeggiante della campagna alle spalle della città, ancora piena di cadaveri, assiso su un trono d’oro, circondato da quindicimila archibugieri con la miccia accesa, Solimano guardava i resti di quella armata che era partita baldanzosa, i cui uomini ora, laceri e senz’armi, guardavano il viso torvo del Sultano. Nessuno capiva se avrebbe ordinato l’esecuzione dei capi responsabili oppure lo sterminio di massa di tutti i colpevoli di vigliaccheria e ammutinamento.

Finalmente il tremendo silenzio era rotto dalla voce vibrante di collera del sultano. Il suo discorso è giunto integralmente fino a nostri giorni e pertanto è storicamente interessante conoscerlo nella sua interezza.

Schiavi, perché non posso chiamarvi soldati, che razza di uomini siete diventati?

Siete turchi? Uomini infiammati dalla volontà di combattere e di vincere? Io qui vedo i corpi, i volti e le divise dei miei soldati ma le azioni, i discorsi i comportamenti di cui avete saputo dar prova sono quelli dei codardi e dei vili traditori. Ahimè! Come sono stato ingannato dal concetto che avevo di voi! La forza e il coraggio che hanno sempre distinto i turchi si sono dileguati. Il valore e lo strenuo vigore, fisico e morale, con i quali avete soggiogato gli Arabi, i Persiani, i Siriani, gli Egiziani, i Serbi, gli Ungheresi, I Bulgari, gli Epiroti, i Macedoni e i Traci sono andati perduti?

Dimenticando il vostro Paese, violando il vostro giuramento, ribellandovi agli ordini dei vostri capitani, sottraendovi al dovere dell’ubbidienza, avete agito contro la maestà del mio impero e vi siete rifiutati di combattere. Come un branco di vigliacchi vi siete dati alla fuga per paura del pericolo e della morte: una paura non certamente degna di guerrieri.

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A casa, bastava che qualcuno pronunciasse il nome di Rodi nei vostri banchetti e durante le vostre bevute, nelle riunioni e nelle assemblee e subito, prodi in lingua, vi vantavate di essere capaci di sgretolare quest’isola. Duravate fatica a tener ferme le mani. E qui, ora che avrei voluto vedere alla prova la vostra energia e il vostro coraggio…un bel nulla! Ma voi credevate forse che i difensori di Rodi, appena viste le vostre insegne davanti alle loro porte, avrebbero consegnato immediatamente la città e loro stessi in vostro potere? Lasciate che gli altri dicano o pensino quello che vogliono e credete a me che conosco la verità. Questo che avete davanti agli occhi è un abominevole e infame covo di bestie feroci, che non potrete mai domare senza molto sforzo e molto spargimento di sangue. E tuttavia le domeremo perché non esiste al mondo belva così furiosa che alla lunga non possa essere domata. Questo proposito sarà attuato; altrimenti io sono deciso, e l’ho giurato a me stesso, a morire qui o a restarvi fino all’ultimo dei miei giorni. Se mancherò a questo impegno, la maledizione e la sciagura cadano sul mio capo, sulla mia flotta, sul mio esercito e sul mio impero.

La voce del sultano si spegneva e le scimitarre della guardia del corpo venivano sguainate; la massa si prostrava al suolo implorando il perdono mentre Piri e gli altri Pascià chiedevano la grazia di lavare col sangue le loro colpe.

Il vostro perdono andate a cercarlo sui bastioni e sulle fortificazioni del nemico!

gridava Solimano e con un urlo immenso tutti giuravano di vincere o di morire.

I duelli di artiglieria tornavano ad essere micidiali e i soldati turchi cercavano i posti più pericolosi e scoperti. Gli attaccanti potevano contare su nuove artiglierie, bombarde e basilischi oltre all’esercito fresco che Solimano aveva portato con sé. La battaglia riprendeva più cruenta di prima. Una grandine di ferro e di pietre si abbatteva sulle mura e sulle case di Rodi sfondando i tetti e, per la prima volta, bombe esplosive colpivano i bastioni.

Dodici basilischi1, cannoni di rame, cannoni doppi, enormi mortai martellavano le mura. Dalle torri il Martinengo rispondeva colpo su colpo. Anche i genieri e gli zappatori turchi continuavano a scavare gallerie per portarsi sotto le mura ma le contro gallerie dei difensori facevano strage di attaccanti facendo brillare le mine prima che quelle dell’avversario potessero scoppiare a ridosso della barriera difensiva.

Martinengo, appiattito sul terreno, osservava le vibrazioni della pelle di tamburo e dirigeva gli scavi dei difensori per neutralizzare quelli fatti dai turchi. Il 4 settembre, tuttavia, sotto il bastione inglese esplodeva una possente mina tanto che lo storico turco Ahmed Hafiz scriveva: Gli infedeli vennero proiettati dalla mina verso il terzo cielo e le loro anime piombarono all’inferno.

Immediatamente il visir Mustafà, al suono di trombe e tamburi, guidava una carica verso la breccia, dove i giannizzeri piantavano sette stendardi. Si accendeva un furioso combattimento all’arma bianca, mentre le donne rodiesi, dall’alto delle mura gettavano massi, olio e pece bollenti, fuoco greco sulle teste della brulicante massa dei turchi. De L’Isle Adam, brandendo una picca, con la sua guardia del corpo, guidava il personalmente il contrattacco e i turchi cadevano a centinaia. Gli attaccanti erano costretti a retrocedere fino ad arrivare a una ritirata disordinata.

1 Dal nome del serpente che, come scriveva Livio, con il solo sguardo uccideva uomini e bestie.

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I temibili giannizzeri con i loro archibugi.

Mustafà, con la scimitarra sguainata, colpiva chi indietreggiava ma invano.

Duemila turchi e cinquanta Cavalieri giacevano sul terreno. Tra i caduti, il comandante dell’artiglieria turca, molto caro a Solimano.

Dopo sei giorni di intensi bombardamenti, Solimano dava l’ordine di un nuovo tremendo assalto con il risultato di lasciare sul terreno altri duemila uomini, tra i quali dei nobili suoi favoriti. Ma anche i difensori perdevano Gioachino Cluys, il porta insegna dell’ordine e lo stesso Martinengo veniva colpito da una palla di moschetto ad un occhio mentre, da una feritoia, spiava il nemico2.

Ma il nemico di Rodi era anche all’interno della città. Una schiava turca veniva sorpresa mentre cercava di appiccare il fuoco alla città. Un medico ebreo era sorpreso mentre guidava dalle mura il fuoco delle artiglierie turche. Forse senza il contributo dei suoi “ottimi servigi” i turchi avrebbero desistito dall’assedio. Ma quello che addolorava di più i Cavalieri di San Giovanni era l’aver scoperto che D’Amoral, Cancelliere dell’Ordine, rivale di de L’Isle Adam nella candidatura a Gran Maestro, non aveva provveduto ai rifornimenti di cui era responsabile, perché munizioni e viveri cominciavano a scarseggiare. Inoltre era accusato di aver mandato un proprio schiavo per consegnare a Solimano i piani di difesa dell’isola.

Tutti erano giustiziati.

La pestilenza colpiva il campo turco mietendo altre vittime. Solimano si aggirava come un leone in gabbia nel suo padiglione, corrucciato, irritabile, sfiduciato. Presagiva una seconda fine ingloriosa della spedizione da lui personalmente comandata.

Sotto il fuoco incessante delle batterie turche, più potenti per calibro e per numero, le mura e le fortezze della città cominciavano a sgretolarsi. Anche le gallerie turche riuscivano ad arrivare sotto le mura ora che il Martinengo era fuori combattimento. Solimano all'improvviso usciva dal suo stato di prostrazione e ordinava un attacco, promettendo il libero saccheggio e la distribuzione del bottino.

2 Martinengo riusciva miracolosamente a guarire ma doveva arrivare a Malta prima di impiegare altri cannoni e mine.

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Alle prime luci dell’alba, cinquantamila uomini divisi in cinque colonne assaltavano i bastioni di maggior resistenza. L’Agha (comandante) dei giannizzeri lanciava i suoi contro il bastione spagnolo nella più spaventosa carica dell’assedio.

I cadaveri si ammucchiavano sui cadaveri. Davanti alle brecce cinquemila uomini giacevano nel fossato, mentre le donne portavano ai difensori pane, acqua, vino, sacchi di terra e pietre. Le armi da fuoco non avevano ancora superato del tutto quelle bianche: giavellotti, verrettoni di balestre, frecce sibilavano nello spazio mescolandosi alle palle degli archibugi, dei moschetti e alle bombe. Le campane suonavano disperatamente l’allarme e i rodiesi uscivano dalle case con armi di fortuna e si lanciavano nella mischia per contrastare gli assalitori. Il bastione inglese veniva squarciato da due mine poderose. Il gran Maestro in preghiera, udito il fragore accorreva e i turchi cadevano come mosche davanti alla picca di questo campione.

Preti, donne, vecchi e perfino bambini si univano ai difensori mentre i giannizzeri si stracciavano le vesti di dosso nel diluvio di fuoco greco che li investiva. L’attacco al bastione spagnolo era respinto e i Cavalieri si spostavano da un punto all’altro delle mura là dove era più pericolosa la minaccia. I turchi, ancora una volta erano spazzati via da questi eroici difensori che lottavano con ogni mezzo.

Solimano, vinto da una violenta collera, era costretto ad ordinare la ritirata.

Ventimila i morti: il fior fiore del suo esercito era rimasto sotto le mura della città.

Lordi di sangue, tremanti, Visir e Generali si presentavano alla presenza del Sultano. La sua ira piombava su Mustafà, che aveva patrocinato la spedizione e che ora minacciava di offuscare l’onore degli ottomani e quella del Sultano. Solimano lo condannava a morte. Prima che la scimitarra del carnefice piombasse sul condannato, il Gran Visir Piri si gettava ai piedi del Sultano implorando pietà per un valoroso soldato, forse un po’ impulsivo e ottimista. Livido di rabbia per l’intrusione, Solimano ordinava l’esecuzione anche di Piri. Ed ecco che tutti i Consiglieri e i Generali si prostravano ai suoi piedi dicendo: la terra ha bevuto troppo sangue per inzupparla ancora di più con quello di due insigni personaggi. Ripreso il controllo di sé Solimano ordinava che Cortug-Ogli, che non era nemmeno sceso a terra dalla sua galea e che era stato il principale sostenitore dell’attacco a Rodi, ricevesse cento frustate a bordo della nave ammiraglia.

Solimano si chiudeva nel silenzio e nella solitudine. Mentre la flotta stava all’ancora per evitare le burrasche di ottobre, il Sultano radunava ancora una volta le truppe davanti al padiglione reale e le arringava con un nuovo infuocato discorso, anche questo giunto fino a noi: Conosco i vostri sforzi e quali logoranti sacrifici dovete sopportare. Se non fosse per il mio onore e per quello dell’Impero avrei già rinunciato all’assedio e abbandonato l’isola. Ma il nemico si poteva far beffe dei turchi chiamandoli uccelli d’estate? Si narra che i Greci, per una prostituta persistessero in un assedio per quattordici anni! E i turchi, vessati e oppressi con stragi, rapine e invasioni tanto per mare quanto per terra e, peggio ancora, sottoposti ad una schiavitù che dura da trecento quattordici anni, non avranno la forza e la costanza di protrarre un assedio per la durata di un inverno?

Terminato l’arringa, seguita dall’ovazione dei soldati rincuorati e incoraggiati, i cannoni turchi riprendevano a tuonare giorno e notte ma la risposta degli assediati era sempre più debole. Eppure, tutti gli attacchi condotti nelle numerose brecce delle fortificazioni rodiesi erano respinti. L’aria era satura di fumo e il cielo oscurato da nugoli di frecce mentre i tiratori ottomani abbattevano uno dopo l’altro i difensori a

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colpi di moschetto o archibugio. I turchi non riuscivano a sfondare le difese e i cadaveri si ammucchiavano nei punti più sensibili della difesa cristiana.

Solimano, dopo gli inutili attacchi delle proprie truppe, decideva di sollecitare l’orgoglio dei suoi uomini con un ulteriore proclama, allo scopo di lanciare un attacco ad una breccia dalla quale “potevano passare trenta cavalieri uno accanto all’altro”:

Soldati è il momento di farla finita con questa gente di razza spuria che ormai ha avuto più uomini uccisi di quanti ancora ne abbia vivi. Quelli non sono uomini ma ombre e spettri di uomini, indeboliti e fiaccati dalla fame, dalle ferite, dalle privazioni e dalla stanchezza.

Ondate e ondate di ottomani cercavano inutilmente di oltrepassare quella breccia! Davanti alla porta di Sant’Ambrogio i turchi riuscivano a piantare alcune insegne e le grida dei soldati, nella follia del combattimento, superavano il tuonare delle artiglierie e i gemiti dei feriti. Vittoria! Vittoria, urlavano, ma un torrente di fuoco si abbatteva su di loro da posizioni laterali uccidendo quasi cinquemila attaccanti.

Barcollanti e insanguinati i superstiti si dovevano ritirare e davanti a loro si paravano intrepidi quegli “spettri di uomini” attraverso i quali non riuscivano a passare. A Solimano, sconvolto dalle perdite, non restava che tentare la via diplomatica. Due parlamentari erano inviati a L’Isle Adam per esortalo ad affidarsi alla clemenza del Sultano. Non sia mai detto che il nostro onore debba soccombere se non con noi stessi, era la risposta del Gran Maestro. Ma la città era al collasso, senza viveri, polvere da sparo e aiuti esterni. Gli abitanti imploravano L’Isle Adam e i Cavalieri superstiti di accettare l’offerta di Solimano perché donne e bambini erano allo stremo delle forze. Il valoroso guerriero si rendeva conto che nessun soccorso sarebbe arrivato dalle Potenze della Cristianità, per l’onore delle quali si era intrepidamente battuto.

La caduta di Rodi era inevitabile.

Si iniziavano le trattative, al termine delle quali il Gran Maestro doveva affrontare un’ultima umiliazione. Solimano, prima di riceverlo, lo faceva attendere sotto la pioggia davanti al padiglione reale. Quando era fatto entrare, vedeva Solimano seduto su un trono d’oro in mezzo a due leoni anch’essi d’oro. Dopo un lungo e reciproco silenzio, il vecchio Cavaliere si chinava a baciare la mano del Sultano che, profondamente ammirato, donava a L’Isle Adam un prezioso mantello tessuto in oro, offrendogli, nel contempo, un’alta carica nel suo impero. Essere sconfitto, rispondeva il Gran Maestro, è solo il rischio di ogni guerra. Ma abbandonare la propria gente e passare al nemico è, per me, una vergognosa codardia e un abominevole tradimento.

Il giovane Sultano era talmente colpito e ammirato dalla fierezza e dal coraggio del Gran Maestro che, cosa senza precedenti per un discendente di Osman, soprattutto dopo il caro prezzo pagato per una vittoria politica e non militare, concedeva a L’Isle Adam, ai Cavalieri e a tutti i rodiesi che desiderassero partire, di abbandonare l’isola con le armi e i loro averi. Chi voleva restare non sarebbe stato ridotto in schiavitù e poteva continuare a praticare la propria religione.

E Solimano non tradì mai nel futuro questo impegno.

Il giorno di Natale del 1522, Solimano faceva il suo ingresso trionfale nella città.

Il giorno di Capodanno, L’Isle Adam, alla testa di un triste corteo di Cavalieri e di rodiesi, s’imbarcava per lasciare per sempre Rodi.

Nulla al mondo è stato perduto così valorosamente, era il commento dell’Imperatore Carlo V, ma si era ben guardato di inviare soccorsi all’isola. Come lui, altri regnanti e principi, compreso il Papa, avevano vergognosamente fatto mancare ai difensori di Rodi ogni aiuto. La risposta a tale ignominia la davano però i Cavalieri di

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San Giovanni. Ammainavano lo stendardo con la loro famosa croce bianca e, a testimonianza dell’abbandono nel momento del supremo bisogno, issavano sulle loro galee un nuovo stendardo che, a guisa di stemma, recava l’immagine della Vergine Maria che teneva tra le braccia il Figlio crocifisso.

Questa, in breve, la ricostruzione storica di quanto è accaduto. La possibilità di trascrivere alcune frasi pronunciate dai protagonisti, in corsivo nel testo, rende ancora più viva l’immagine di una sconfitta che poteva essere evitata se il mondo cristiano avesse realizzato cosa significava, all’epoca, la perdita di Rodi. Anche gli strateghi cristiani, a differenza di quelli ottomani, negli anni successivi, non si resero conto che la perdita di Rodi era la rinuncia ad un baluardo avanzato per contenere il predominio ottomano sul mare.

Per sette anni l’Ordine di San Giovanni peregrinava per vari luoghi (Creta, Messina, Viterbo, Nizza), fino a quando, nel 1530, Carlo V non consentiva ai Cavalieri di insediarsi sull’isola di Malta. Tra quelli che si imbarcarono a Rodi c’era il Cavaliere Jean Parisot de la Valette. Da quel momento l’Ordine prendeva il nome di Cavalieri di Malta e proprio Parisot de la Valette ne diventava il primo Gran Maestro. Solimano, nonostante gli sforzi compiuti, non riuscirà mai ad impadronirsi dell’isola come aveva fatto con Rodi.

Ma quella dei Cavalieri di Malta e del loro odierno Status giuridico é…..un’altra storia.

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