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L’ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE:
DEAD CONTRACT WALKING?
di Gabriele Bubola
Il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, nel panorama dei contratti utilizzati per il reperimento di “manodopera”, ricopre un ruolo tutto sommato marginale, essendo utilizzato principalmente in determinati settori o per lo svolgimento di attività ben precise, riconducibili soprattutto alla figura del “venditore”, che si caratterizzerebbe, nell’associazione in partecipazione, per la sussistenza di maggiori margini di autonomia e di coinvolgimento nell’impresa dovuti anche e soprattutto alla partecipazione agli utili ed al diritto a ricevere un rendiconto di gestione.
A tale marginalità del fenomeno è però corrisposto, da parte degli operatori del settore, un interesse che, sebbene a fasi alterne, potrebbe addirittura definirsi inversamente proporzionale. Ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che il contratto di associazione in partecipazione (la cui disciplina di base è tutt’ora contenuta all’interno degli artt. 2549 – 2554 del cod. civ.), che nasce come contratto di compartecipazione riconducibile ad un contratto associativo o ad uno oneroso di scambio, esce dall’anonimato proprio “grazie” all’utilizzo dello stesso per apportare anche esclusivamente lavoro, rendendo per tale via del tutto trascurabili le altre tipologie di apporto (in natura o in capitale). Tale “mutazione” appare sintomatica della fuga dal rapporto di lavoro subordinato, tanto è vero che il Legislatore, conscio del moltiplicarsi di procedimenti giudiziari in tema di corretta qualificazione dei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, ha ritenuto opportuno ricondurre tale tipologia contrattuale tra quelle certificabili, sin dalle origini dell’istituto (ovvero dal 2003).
In effetti, appare plausibile ritenere che l’interesse verso tale tipologia contrattuale sarebbe scemato laddove si fosse proceduto efficacemente ad un abbattimento del costo del lavoro in caso di utilizzo dei contratti di lavoro “standard”, eventualmente accompagnato da una complessiva riduzione delle molte rigidità normative ad essi correlate.
Il Legislatore, però, ha preferito incentivare l’utilizzo del contratto di lavoro subordinato anche (o soprattutto) attraverso una pluralità di interventi di vario genere indirizzati verso tutte le tipologie di lavoro atipiche, inclusa l’associazione in partecipazione con apporto lavorativo. A seguito del primo riconoscimento formale ad opera della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza del 15 luglio 1992, n. 332, ha equiparato, ai fini della iscrizione all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gli associati che apportano lavoro al socio d’opera, il Legislatore è intervenuto estendendo la tutela previdenziale (inclusa quella ricollegata alla maternità) dell’associato ed equiparandolo al lavoratore ai fini della tutela della salute e sicurezza. Tali interventi, volti – per certo correttamente – a tutelare maggiormente gli associati, al contempo miravano a disincentivare, almeno astrattamente, tale tipologia contrattuale rendendola di fatto molto più onerosa.
Alla luce dei fatti, i suesposti interventi non hanno peraltro avuto alcun apprezzabile risultato in termini di contenimento dell’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione, cosicché il Legislatore del 2012 ha mutato il proprio approccio, approntando modifiche normative volte ad incidere direttamente sull’utilizzabilità della tipologia contrattuale. In questo senso, l’intervento principale in tema di associazione in partecipazione con apporto di lavoro operato dalla Riforma Fornero, la quale, a fianco alla introduzione di presunzioni relative di subordinazione ricollegate alla mancata partecipazione all’utile, alla mancata consegna del rendiconto e ad un apporto lavorativo non qualificato (elementi, peraltro, sostanzialmente coerenti con la tipologia contrattuale trattata e l’orientamento giurisprudenziale), ha introdotto un secondo comma all’art. 2549 cod. civ., secondo il quale nel caso «l’apporto dell’associato consista anche in una
prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Tale precetto ha creato
notevoli dubbi applicativi. Anzitutto, la norma appare potenzialmente incostituzionale dal momento che impone una determinata tipologia contrattuale (contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato), sulla base di un mero dato quantitativo oggettivo esterno al rapporto e
prescindendo dalla verifica circa la genuinità o meno dell’associazione in partecipazione. Inoltre, la limitazione appare talmente incisiva da rendere impossibile la riproduzione di un modello organizzativo su larga scala e basato sulle associazioni in partecipazione; ciò in quanto sembra doversi interpretare restrittivamente il riferimento alla medesima attività (ovvero come riferita all’impresa nel suo complesso e non invece ad ogni singola unità operativa – laddove gli associati svolgano le medesime attività –), non potendosi ignorare la Relazione illustrativa al disegno di legge nel quale si legge, tra l’altro, che il tetto massimo di associati con apporto di lavoro «è finalizzato ad evitare fenomeni elusivi della disciplina del rapporto di lavoro subordinato» e che «si è
ritenuto opportuno utilizzare, ai fini dell’individuazione dei familiari, i parametri codicistici previsti per l’impresa familiare, sia per ragioni di coerenza sistematica, sia in quanto appariva piuttosto restrittivo il criterio previsto dal documento approvato dal Consiglio dei Ministri in data 23 marzo 2012 (in base al quale l’istituto dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro sarebbe stato preservato solo in caso di associazioni tra familiari entro il primo grado o coniugi)».
Che tali restrizioni siano poi risultate eccessive, mancando tra l’altro la previsione di un periodo transitorio che in qualche modo “preparasse” la entrata in vigore delle nuove norme, è il dato attuale a darne conferma. Infatti, il Legislatore è nuovamente dovuto intervenire all’interno del Pacchetto Lavoro su due fronti (senza considerare la contestuale estensione della disciplina in tema di convalida anche a – tutte – le associazioni in partecipazione con apporto lavorativo). Il primo di questi è costituito dalla introduzione di un ulteriore comma, il terzo, all’art. 2549 cod. civ., che prevede una non applicazione del limite dei tre associati «limitatamente alle imprese a
scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall’organo assembleare di cui all’articolo 2540, il cui contratto sia certificato dagli organismi di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento». Sorvolando
sulle perplessità ricollegate ad una complicazione delle regole conseguenti all’introduzione delle eccezioni (e l’associazione in partecipazione si trova tra l’altro in buona compagnia sul punto, considerata la tutt’altro che chiara formulazione della norma specifica per le collaborazioni coordinate e continuative per attività di vendita di beni e di servizi presso call center, tanto da essersi resa necessaria l’introduzione di una norma di interpretazione autentica all’interno del Pacchetto Lavoro), che denotano anche una mancanza di visione sistematica dei problemi che affliggono il nostro mercato del lavoro, i dubbi maggiori si addensano sulle imprese a scopo mutualistico e sul richiamo dell’assemblea separata di cui all’art. 2540 cod. civ. (al cui confronto, l’esenzione delle attività artistiche appare, tutto sommato, sufficientemente chiara). Non è
infatti per nulla scontato, anzitutto, che i soci di cooperativa possano essere, contemporaneamente, associati in partecipazione della medesima (nel qual caso l’esenzione rimarrebbe valida ma limitatamente alla stipula di contratti con soggetti non soci). Inoltre, non è ben chiaro a cosa (a chi?) serva il richiamo al meccanismo dell’assemblea separata, tanto è vero che, per quanto consta, il collegamento non pare essere stato esaminato approfonditamente neppure dalla dottrina giuslavorista; il che appare comprensibile, ove si consideri che il citato art. 2540 cod. civ. prevede la possibilità (che si tramuta in obbligo nel caso di società cooperativa con, alternativamente, più di tremila soci che svolge la propria attività in più province ovvero più di cinquecento soci con contestuale realizzazione di una pluralità di gestioni mutualistiche) di istituire assemblee separate «anche rispetto a specifiche materie ovvero in
presenza di particolari categorie di soci». Peraltro, le assemblee separate sembrano funzionare,
sostanzialmente, come organi di primo livello senza vera e propria autonomia decisionale, posto che la decisione finale viene assunta dalla assemblea generale (tanto è vero che all’assemblea generale devono partecipare i soci delegati e deve essere assicurata, in ogni caso, la proporzionale rappresentanza delle minoranze espresse dalle assemblee separate) e che le deliberazioni delle assemblee separate non possono essere autonomamente impugnate. Sfugge, dunque, il motivo di tale collegamento normativo che priverebbe della possibilità di stipulare contratti di associazione in partecipazione le piccole imprese a scopo mutualistico carenti dell’assemblea separata (essendo la stessa inutile, dato il requisito dimensionale), anche laddove si sia espressa sul punto l’assemblea generale.
Un secondo intervento, invece, opera promuovendo una “sanatoria” (che ricorda nella sostanza quella effettuata per il tramite della Finanziaria 2007 in tema di contratti di collaborazione coordinata e continuativa), prevedendo la possibilità per le aziende di stipulare con le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale specifici contratti collettivi volti alla riconduzione dei rapporti nell’alveo del lavoro subordinato con onere di deposito della documentazione conseguente (oltre al contratto collettivo: atti di conciliazione, contratti di lavoro subordinato ed attestazione dell’avvenuto versamento della somma indicata dalla norma a titolo di “sanatoria” contributiva) presso le competenti sedi INPS. Tentativo di “salvataggio” in extremis che ha trovato impreparata la generalità delle imprese (escluse le poche, si potrebbe dire lungimiranti, che si erano mosse proprio in questo senso e proattivamente anche in data antecedente all’entrata in vigore della norma stessa), tanto è vero che i termini di stipula dell’accordo collettivo e di deposito della documentazione sono stati posposti dalla Legge di Stabilità 2014, rispettivamente, al 31 marzo ed al 31 luglio 2014.
In definitiva, il trend normativo porterebbe a ritenere che la stella dell’associazione in partecipazione stia per eclissarsi. L’esperienza, però, insegna che non sia ancora giunto il momento di dare tale tipologia contrattuale per morta e sepolta. Infatti, risulta astrattamente possibile la sottoscrizione di un elevato numero di contratti di associazione in partecipazione con apporto lavorativo non solo per le attività di contenuto artistico, ma anche da parte delle grandi imprese a scopo mutualistico, con conseguente obbligo, in quest’ultimo caso, di attivazione delle procedure di certificazione dei contratti. Inoltre, posto che il Legislatore appare piuttosto “umorale”, il dietrofront effettuato con il Pacchetto Lavoro potrebbe non costituire, effettivamente, un episodio isolato.
Nel breve termine, per comprendere se davvero l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro ha davvero davanti la fine che ad oggi appare annunciata, non resta che attendere di vedere in quale direzione si incamminerà il nuovo Governo.