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Pico della Mirandola - Sulla dignità dell’uomo Leggi con attenzione i seguenti brani tratti dall'opera

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Academic year: 2021

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Pico della Mirandola - Sulla dignità dell’uomo

Leggi con attenzione i seguenti brani tratti dall'opera De dignitate hominis scritta da Giovanni Pico della Mirandola intorno al 1486 (in appendice hai anche i corrispondenti brani in latino), e svolgi gli esercizi successivi.

Giovanni Pico della Mirandola – dal De dignitate hominis

1. Creazione dell'uomo (10 – 32)

Già il sommo Padre, già l'architetto divino aveva costruito, con le leggi della sua arcana sapienza, questa dimora terrena, questo tempio augustissimo della divinità, che è il nostro mondo. Già aveva posto gli spiriti ad ornamento della regione superna; già aveva seminato di anime immortali i globi eterei e riempito di ogni genere di animali le impure e lercie parti del mondo inferiore. Ma compiuta la sua opera, l'artefice divino vide che mancava qualcuno che considerasse il significato di così tanto lavoro, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandezza. Avendo, quindi, terminata la sua opera, pensò da ultimo – come attestano Mosè e Timeo – di produrre l'uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui dar forma alla nuova creatura, né dei tesori uno ve n'era da largire in eredità al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell'universo. Ormai tutto era pieno, tutto era stato occupato negli ordini più alti, nei medii e negl'infimi.

Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell'ultima realizzazione; non sarebbe stato degno della sua sapienza rimanere incerto in un'opera necessaria per mancanza di consiglio; non sarebbe stato degno del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso. Stabilì, dunque, il sommo Artefice, che a colui cui nulla poteva dare in proprio fosse comune ciò che aveva dato singolarmente agli altri. Prese pertanto l'uomo, opera priva di un'immagine precisa, e postolo in mezzo al mondo così parlò: «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né un'immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perché tu ottenga e conservi secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell'immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso. La natura limitata delle restanti cose è contenuta entro leggi da me prescritte. Ma tu, senz'essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell'arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.»

O somma liberalità di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato di poter avere ciò che desidera, ed essere ciò che vuole. I bruti nascendo, assorbono dal seno materno ciò che possederanno. Gli spiriti superiori furono invece, sin dall'origine, o poco di poi, ciò che saranno eternamente. Il Padre infuse all'uomo, sin dalla nascita, ogni specie di semi e ogni germe di vita. Quali di questi saranno da lui coltivati cresceranno e daranno i loro frutti: se i vegetali, sarà come pianta, se i sensuali, diventerà simile a un bruto, se i razionali, da animale si trasformerà in celeste; se gl'intellettuali, diverrà angelo e figlio di Dio. E se di nessuna creatura rimarrà pago, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nell'umbratile solitudine del Padre, colui che è collocato sopra ogni cosa su tutte primeggerà.

Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?

2. Riconoscere gli uomini (39 – 42)

Non è la corteccia che fa la pianta, ma una natura ottusa e insensibile, né la pelle che fa la giumenta, ma un'anima bruta e sensuale, né la sfericità che fa il cielo, ma il suo mirabile ordine, né è la privazione del corpo che fa l'angelo, ma il suo intelletto spirituale.

Se vedrai qualcuno dedito al ventre strisciare per terra, non è uomo quello che vedi ma pianta; se vedrai uno reso cieco dalle vane malie della fantasia e lusingato e soggetto alle blandizie dei sensi, è un bruto, non un uomo quello che vedi. Se vedrai un tale che è capace di discernere ogni cosa, secondo la retta ragione dei filosofi, onoralo: è questa una creatura celeste, non terrena. Se vedrai uno spirito contemplativo, tutto chiuso nei penetrali del pensiero, quasi assente dal corpo, costui non è creatura terrena, non è creatura celeste, ma è ben di più, è Dio vestito di umana carne.

3. Chi è il padrone del nostro destino? (47 – 51)

Ma a che proposito queste cose? Per comprendere che siamo nati a questa condizione, che noi saremo ciò che vogliamo essere. [...] Una sacra ambizione ci riempie l'animo, perché,

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insoddisfatti delle mediocri, aneliamo alle cose superne e ci sforziamo di conseguirle – lo potremo se lo vorremo – con tutte le nostre forze. Sdegnamo le cose terrene, aspiriamo alle celesti e, volgendo le spalle a tutto ciò che è di questo mondo, innalziamo al vestibolo della celeste dimora, ove abita l'eccelsa divinità.

4. La scala della saggezza (74 – 75)

Anche noi dunque, emulando in terra la vita cherubica, contenendo per opera della scienza morale l'impeto delle passioni, dissipando con la dialettica la caligine che ottenebrava la nostra ragione quasi lavandoci dalle impurità dell'ignoranza e dei vizi, purificheremo l'anima affinché né le passioni infurino all'impazzata, né la ragione abbia talvolta a deviare con imprudenza.

Inondiamo poi col lume della filosofia naturale l'anima ben ordinata e purificata, acciocché possiamo, da ultimo, perfezionarla con la cognizione delle cose divine.

5. La via alla pace e alla vita (92 – 99)

Molteplice senza dubbio è, o Padri, in noi la discordia; abbiamo gravi lotte interne e peggio che guerre civili; se a queste vorremo sfuggire, se aspireremo a quella pace, che ci sospinge così in alto da collocarci fra le creature più eccelse del Signore, soltanto la filosofia potrà dominarle completamente dentro di noi e sedarle. Che se l'uomo avrà ottenuto tregua da questi suoi nemici interni, la filosofia morale, anzitutto, reprimerà e rintuzzerà le sfrenate rivolte di tanti nostri appetiti carnali e gli assalti leonini del nostro animo iroso. Provvedendo meglio alla nostra salute avremo conseguito la sicurezza della vera pace, la quale verrà in soccorso e liberamente adempierà tutti i nostri voti.

Poiché l'uccisione di queste due fiere sarà per così dire il sacrificio della scrofa onde sarà sancito l'inviolabile patto di una santa pace fra lo spirito e la carne.

La dialettica ammansirà la ragione travagliata ansiosamente tra le contraddizioni del discorso e le capziosità del sillogismo. La filosofia naturale rappacificherà le liti e i dissidi dell'opinione che opprimono, distraggono e dilacerano qua e là l'anima inquieta. Ma la calmerà in modo da costringerci a ricordare che la natura è nata, come dice Eraclito, dalla guerra, e perciò è detta da Omero contesa. Tuttavia non può essere in sua facoltà di presentarci una vera quiete e una solida pace, essendo questo dono e privilegio della santa teologia. Solo questa c'indicherà la via alla pace e ci sarà di guida, come quella che, vedendoci affaticati e ancora lontani, esclamerà: «Venite a me voi tutti che vi affaticate, venite e io vi rifocillerò; venite a me e vi darò la pace che mai vi potranno dare il mondo e la natura».

Esercizi

1. Ricostruisci la gerarchia ontologica proposta da Pico. Fai un confronto con quella proposta da Ficino.

2. Trova le occorrenze ‘trinitarie’, riportandone i termini principali in una tabella ordinata appropriatamente. A chi esse sono attribuite? Rifletti su quale possa essere la ragione di ciò.

3. Come viene caratterizzato l’uomo in termini di ‘immagine’? Confronta questa caratterizzazione con quella biblica contenuta in Genesi 1.26.

4. Discuti, con specifici riferimenti testuali, se Pico esprima una concezione teologica prossima o remota rispetto a quella di Agostino a proposito del peccato originale e della predestinazione.

5. Pico sostiene che ci si può innalzare verso Dio praticando certe discipline: quali? Quale funzione esse svolgono? Vi è un senso nella successione in cui esse sono elencate?

6. In che cosa, da ultimo, consiste per Pico la dignità, ossia il valore, dell’uomo? Quali altre interpretazioni egli esclude?

7. La narrazione di Pico della Mirandola contiene degli evidenti rimandi alla narrrazione che Platone attribuisce a Protagora, circa un episodio mitico di cui erano stati protagonisti i fratelli Epimeteo e Prometeo. Fai un confronto, corredato dei dovuti commenti, fra i due testi.

Testo latino

1. (10 – 32)

Iam summus Pater architectus deus hanc quam videmus mundanam domum, divinitatis templum augustissimum, archanae legibus sapientiae fabrefecerat. Supercaelestem regionem mentibus decorarat; ethereos globos aeternis animis vegetarat; excrementarias et feculentas inferioris mundi partes omnigena animalium turba complerat. Sed, opere consumato, desiderabat artifex esse aliquem qui tanti operis rationem perpenderet, pulchritudinem amaret, magnitudinem admiraretur. Idcirco iam rebus omnibus (ut Moses Timeusque testantur) absolutis, de producendo homine postremo cogitavit. Verum nec erat in archetipis unde novam sobolem effingeret nec in thesauris quod novo filio hereditarium largiretur, nec in subsellis totius orbis, ubi universi contemplator iste sederet. Iam plena omnia; omnia summis, mediis infimisque

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ordinibus fuerant distributa. Sed non erat paternae potestatis in extrema faetura quasi effetam defecisse; non erat sapientiae, consilii inopia in re necessaria fluctuasse; non erat benefici amoris, ut qui in aliis esset divinam liberalitatem laudaturus in se illam damnare cogeretur.

Statuit tandem optimus artifex, ut cui dari nihil proprium poterat commune esset quicquid privatum singulis fuerat. Igitur hominem accepit indiscretae opus imaginis atque in mundi positum meditullio sic est alloquutus: «Nec certam sedem, nec propriam faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro tua sententia, habeas et possideas. Definita caeteris natura intra praescriptas a nobis leges cohercetur. Tu, nullis angustiis cohercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam prefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quidquid est in mundo. Nec te celestem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque lastes in quam malueris tute formam effingas. Poteris in inferiora quae sunt bruta degenerare; poteris in superiora quae sunt divina ex tui animi sententia regenerari». O summam Dei patris liberalitatem, summam et admirandam hominis foelicitatem! Cui datum id habere quod optat, id esse quod velit. Bruta simul atque nascuntur id secum afferunt (ut ait Lucilius) e bulga matris quod possessura sunt. Supremi spiritus aut ab initio aut paulo mox id fuerunt, quod sunt futuri in perpetuas aeternitates.

Nascenti homini omnifaria semina et omnigenae vitae germina indidit Pater. Quae quisque excoluerit illa adolescent, et fructus suos ferent in illo. Si vegetalia planta fiet, si sensualia obrutescet, si rationalia caeleste evadet animal, si intellectualia angelus erit et Dei filius. Et si nulla creaturarum sorte contentus in unitatis centrum suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus, in solitaria Patris caligine qui est super omnia constitutus omnibus antestabit. Quis hunc nostrum chamaeleonta non admiretur?

2. (39 – 42)

Neque enim plantam cortex, sed stupida et nihil sentiens natura; neque iumenta corium, sed bruta anima et sensualis; nec caelum orbiculatum corpus, sed recta ratio; nec sequestratio corporis, sed spiritalis intelligentia angelum facit. Si quem enim videris deditum ventri, humi serpentem hominem, frutex est, non homo, quem vides; si quem in fantasiae quasi Calipsus vanis praestigiis cecucientem et subscalpenti delinitum illecebra sensibus mancipatum, brutum est, non homo, quem vides. Si recta philosophum ratione omnia discernentem, hunc venereris;

caeleste est animal, non terrenum. Si purum contemplatorem corporis nescium, in penetralia mentis relegatum, hic non terrenum, non caeleste animal: hic augustius est numen humana carne circumvestitum.

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(47 – 51)

Sed quorsum haec? Ut intelligamus, postquam hac nati sumus conditione, ut id simus quod esse volumus, curare hoc potissimum debere nos, ut illud quidem in nos non dicatur, cum in honore essemus non cognovisse similes factos brutis et iumentis insipientibus. Sed illud potius Asaph prophetae: «Dii estis et filii Excelsi omnes», ne, abutentes indulgentissima Patris liberalitate, quam dedit ille liberam optionem, e salutari noxiam faciamus nobis. Invadat animum sacra quaedam ambitio ut mediocribus non contenti anhelemus ad summa, adque illa (quando possumus si volumus) consequenda totis viribus enitamur. Dedignemur terrestria [133r], caelestia contemnamus, et quicquid mundi est denique posthabentes, ultramundanam curiam eminentissimae divinitati proximam advolemus.

4. (74 – 75)

Ergo et nos Cherubicam in terris vitam emulantes, per moralem scientiam affectuum impetus cohercentes, per dialecticam rationis caliginem discutientes, quasi ignorantiae et vitiorum eluentes sordes animam purgemus, ne aut affectus temere debac[c]hentur aut ratio imprudens quandoque deliret. Tum bene compositam ac expiatam animam naturalis philosophiae lumine perfundamus, ut postremo divinarum rerum eam cognitione perficiamus.

5. (92 – 99)

Multiplex profecto, Patres, in nobis discordia; gravia et intestina domi habemus et plusquam civilia bella. Quae si noluerimus, si illam affectaverimus pacem, quae in sublime ita nos tollat ut inter excelsos Domini statuamur, sola in nobis compescet prorsus et sedabit philosophia:

moralis primum, si noster homo ab hostibus indutias tantum quesierit, multiplicis bruti effrenes excursiones et leonis iurgia, iras animosque contundet. Tum si rectius consulentes nobis perpetue pacis securitatem desideraverimus, aderit illa et vota nostra liberaliter implebit, quippe quae cesa utraque bestia, quasi icta porca, inviolabile inter carnem et spiritum foedus sanctissime pacis sanciet. Sedabit dyalectica rationis turbas inter orationum pugnantias et sillogismo captiones anxie tumultuantis. Sedabit naturalis philosophia opinionis lites et dis[s]idia, quae inquietam hinc inde animam vexant, distrahunt et lacerant. Sed ita sedabit, ut meminisse

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nos iubeat esse naturam iuxta Heraclytum ex bello genitam, ob id ab Homero contentionem vocitatam. Idcirco in ea veram quietem et solidam pacem se nobis prestare non posse, esse hoc dominae suae, idest sanctissimae th[e]ologiae, munus et privilegium. Ad illam ipsa et viam monstrabit et comes ducet, quae procul nos videns properantes: «Venite, inclamabit, ad me qui laborastis; venite et ego reficiam vos; venite ad me et dabo vobis pacem quam mundus et natura vobis dare non possunt».

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