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SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI (Decreto Ministero dell Università 31/07/2003)

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SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI

(Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003) Via P. S. Mancini, 2 – 00196 - Roma

TESI DI DIPLOMA DI

MEDIATORE LINGUISTICO (Curriculum Interprete e Traduttore)

Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei Corsi afferenti alla classe delle

LAUREE UNIVERSITARIE IN

SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA

L

E CAPACITÀ DI SVILUPPO E ADATTAMENTO DEL CERVELLO UMANO

RELATORI: CORRELATORI:

Prof.ssa Adriana Bisirri Prof. Nicholas Farrell Prof. Carlos Medina Prof.ssa Claudia Piemonte

CANDIDATA:

ALESSANDRA ARENA

ANNO ACCADEMICO 2012/13

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A mio padre.

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Sommario

Introduzione ... 7

CAPITOLO I ... 8

1. Neuroanatomia e neurofisiologia dei processi di produzione del linguaggio ... 8

1.1. Struttura psicologica del linguaggio ... 15

2. Memorizzazione del linguaggio ... 19

3. Il cervello dell’interprete ... 25

CAPITOLO II ... 31

1. Il cervello umano e le funzioni motorie ... 31

2. I riflessi e i movimenti automatizzati ... 35

3. Il pilota di Formula 1 ... 41

3.1. Studio sulla guida passiva ... 43

3.2. Mental Economy Project... 45

4. La plasticità del cervello ... 46

CAPITOLO III ... 49

1. Uno sguardo d’insieme da una cabina a un abitacolo ... 49

2. Il pensiero ... 53

3. L’attenzione ... 56

4. Cervelli a confronto ... 59

Conclusioni ... 65

English section ... 67

CHAPTER I ... 68

1. Neuroanatomy and neurophysiology of language production’s process . 68 1.1 Psychological structure of language ... 73

2. Language memorization ... 77

3. The interpreter’s brain ... 81

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5

CHAPTER II ... 87

1. The human brain and motor functions... 87

2. The reflexes and reactive movements ... 90

3. The Formula 1 driver ... 94

3.1 Passive driving study ... 96

3.2 Mental Economy Project ... 98

4. Brain plasticity... 99

CHAPTER III ... 101

1. From a booth to a cockpit ... 101

2. The thought ... 104

3. The attention ... 106

4. Brains in comparison ... 109

Conclusions ... 113

Sección española ... 115

CAPÍTULO I ... 116

1. Neuroanatomía y neurofisiología de los procesos de producción del lenguaje ... 116

2. Memorización del lenguaje ... 119

3. El cerebro del intérprete ... 122

CAPÍTULO II ... 127

1. El cerebro humano y las funciones motoras ... 127

2. Los reflejos y los movimientos automáticos ... 129

3. El piloto de Fórmula 1 ... 132

3.1. Estudio de conducción pasiva ... 134

4. Plasticidad neuronal ... 135

CAPÍTULO III ... 137

1. Una visión general entre una cabina y un habitáculo ... 137

2. El pensamiento ... 139

3. La atención ... 140

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6

4. Cerebros en comparación ... 142 Conclusiones ... 145 Bibliografia ... 146

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Introduzione

Il nostro cervello è fatto per dare un senso a ciò che vediamo, ascoltiamo, odoriamo, tocchiamo e assaggiamo. È in grado di aggiungere i tasselli mancanti o che sfuggono alla nostra percezione con ciò che ci aspettiamo sia il quadro d’insieme. È l’organo del corpo che consuma più energia pur costituendo solo il 2% della massa corporea, ma che grazie alla sua evoluzione fa sì che l’uomo sia la specie più evoluta sulla terra. 1,400 grammi di sostanza che ci permettono di correre, reagire agli stimoli, immagazzinare informazioni di qualsiasi genere, pensare e soprattutto parlare.

Qui di seguito saranno analizzate due figure che apparentemente non hanno niente in comune, ma che in realtà a livello cerebrale presentano affinità affascinanti: l’interprete e il pilota di Formula 1. Vedremo come il nostro cervello lavora sul piano linguistico e motorio, tutte le varianti che influiscono non solo sull’attività cerebrale e sul risultato, ma anche sulla sua anatomia.

Una ricerca sperimentale che non può ancora portarci ad affermare quale dei due cervelli sia più evoluto o sfruttato, o chi dei due individui eserciti il lavoro più stressante, ma mette in evidenza la straordinaria potenza del cervello umano.

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CAPITOLO I

Nell'Ottocento Lewes1, nel suo The study of psychology si riferisce con questi termini alla capacità umana di organizzare suoni per comunicare significati ai propri simili: “Come gli uccelli hanno le ali, l'essere umano possiede il linguaggio. Le ali forniscono agli uccelli quel loro atteggiamento caratteristico che è la locomozione aerea. Il linguaggio fa sì che l'intelligenza e le passioni degli esseri umani acquisiscano quel loro carattere peculiare di intelletto e sentimento”.

Ed è senz'altro facile rendersi conto dell'importanza del linguaggio per la vita dell'uomo, senza di esso tante delle nostre attività quotidiane diventerebbero se non impossibili, certamente molto difficoltose. Sarebbe più complicato chiedere qualcosa, comunicare un bisogno, condividere ricordi, aspettative e opinioni.

1. Neuroanatomia e neurofisiologia dei processi di produzione del linguaggio

I centri nervosi responsabili delle vocalizzazioni acquisite, quali il linguaggio dell’uomo, sono situati nelle porzioni più alte del cervello, mentre le strutture più basse controllano le vocalizzazioni innate, cioè quelle non apprese quali il pianto. Inoltre tutti i tipi di vocalizzazione sono resi possibili dall’integrità dei nervi periferici che controllano la motilità laringea e sopralaringea.

1 Geroge Henry Lewes, Problems of life and mind v. 1 The study of psychology, Boston 1880.

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Studi di anatomia e fisiologia hanno messo in evidenza il ruolo di specifici centri nervosi legati alla produzione delle vocalizzazioni sia nel sistema nervoso centrale che nel sistema nervoso periferico.

Il grigio periacqueduttale mesencefalico è situato nella parte alta del tronco encefalico ed è in stretto contatto con altre strutture nervose che intervengono nel controllo della sensibilità dolorifica, questa relazione permette di vocalizzare dopo aver subito un’aggressione. Il grigio periacqueduttale riceve informazioni provenienti dall’ipotalamo, dall’amigdala, dalla corteccia anteriore del cingolo e dalle aree somatosensoriali della corteccia. Invia informazioni al centro ventrolaterale pontino e coordina l’attività dei nuclei dei nervi cranici coinvolti nella produzione delle vocalizzazioni. Una lesione del grigio periacqueduttale è causa di mutismo.

Il centro laterale pontino riceve informazioni dal grigio periacqueduttale, dalla corteccia anteriore del cingolo, dall’area corticale laringea e dalle aree somatosensoriali degli emisferi cerebrali. Da questo nucleo vengono inviate informazioni al talamo, al cervelletto e ad alcuni nuclei dei nervi cranici, la distruzione di questo nucleo altera notevolmente la capacità di vocalizzare.

Le aree della corteccia anteriore del cingolo sono essenziali per il controllo dell’affettività poiché fungono da collegamento fra le motivazioni che inducono alla vocalizzazione e la realizzazione di quest’ultima. La distruzione bilaterale di queste strutture elimina completamente la parola, pur riuscendo ancora a comprendere adeguatamente il linguaggio, questa situazione di mutismo però è fortunatamente transitoria.

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John Lamendella, un linguista statunitense, riteneva che poiché queste strutture intervengono sia nell’organizzazione delle emozioni, che nella produzione delle vocalizzazioni e della parola, esse sono diversamente coinvolte nella produzione della lingua madre rispetto ad altre lingue. In particolare, Lamendella sosteneva che una lingua appresa da adulti per mezzo di regole grammaticali non coinvolge probabilmente le strutture emozionali e richiede pertanto un continuo processo di traduzione dalla lingua madre verso la seconda lingua prima di essere prodotta.

L’area corticale laringea riceve informazioni dalla corteccia anteriore del cingolo e partecipa al controllo dell’attività nervosa delle strutture del grigio periacqueduttale e del centro ventrolaterale pontino. Anche la stimolazione dell’area motoria supplementare determina la produzione di vocalizzazioni.

Chiaramente nella produzione del linguaggio sono coinvolte numerose strutture cerebrali responsabili del controllo del movimento: durante la produzione concatenata di fonemi, ad esempio, la laringe e il tratto vocale sopralaringeo effettuano movimenti coordinati che generano le vibrazioni dell’aria percepite dal cervello come suoni del linguaggio. Per realizzare correttamente questi movimenti, il cervello deve essere costantemente informato sulla posizione degli organi articolatori. Nell’uomo la memoria delle sequenze sensoriali e motorie che formano il linguaggio è organizzata negli emisferi cerebrali, se le vie sensoriali e motorie vengono interrotte gli impulsi prodotti dagli emisferi cerebrali non raggiungono più i centri motori e sensoriali sotto il mesencefalo, che rappresentano la parte esecutiva di tali impulsi.

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Il sistema nervoso periferico è importante nella vocalizzazione sia perché invia al cervello informazioni sensoriali sulla posizione degli organi articolatori, sia perché veicola i comandi proveniente dai centri corticali per il controllo motorio fine delle strutture laringee e sopralaringee coinvolte nella produzione linguistica. Le informazioni afferenti sono veicolate dai nervi trigemino, glossofaringeo, vago e ipoglosso. Prima di giungere alla corteccia le informazioni sensoriali vengono riorganizzate nel nucleo sensoriale del rispettivo nervo cranico e nel talamo. Da qui raggiungono le aree corticali sensoriali, le aree premotorie ed infine le aree motorie della bocca, della faringe e della laringe. Dalle aree sensoriali, premotorie e motorie parte quindi una via nervosa, detta fascio piramidale, che controlla i nuclei motori dei nervi cranici coinvolti nella produzione del linguaggio. Il controllo corticale diretto sui motoneuroni dei nervi cranici sembra essere una delle basi nervose che permettono all’essere umano di apprendere con relativa facilità l’insieme dei movimenti che determinano la produzione del linguaggio.

Nella maggior parte della popolazione l’emisfero cerebrale sinistro viene definito dominante; è questo emisfero che diventa responsabile delle funzioni linguistiche mentre l’emisfero destro, non connesso con il linguaggio, rimane subordinato. Tale principio della lateralizzazione delle funzioni è diventato naturalmente un nuovo e decisivo principio dell’organizzazione funzionale della corteccia cerebrale.

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L’emisfero dominante gioca un ruolo importante anche nell’organizzazione cerebrale di tutte le più alte forme di attività cognitiva connesse al linguaggio, come la percezione organizzata in schemi logici, la memoria verbale attiva e il pensiero logico, mentre l’emisfero non dominante inizia sia a svolgere un ruolo subordinato di questi processi, sia a non svolgerne alcuno.

Esistono altre due aree definite cruciali per la produzione del linguaggio, entrambe situate nell’emisfero sinistro: l’area di Broca e l’area di Wernicke.

L’area di Broca è spesso chiamata area motoria del linguaggio ed è situata nella terza circonvoluzione frontale, subito davanti all’area motoria che controlla i muscoli del volto, corrisponde alle aree citoarchitettoniche di Brodman 44 e 45.

Prende il nome dal suo scopritore il fisico anatomista francese Paul Broca che successivamente a numerosi studi affermò che il linguaggio è controllato dall'emisfero sinistro. È stato stimato, a seguito di numerosi esperimenti e studi,

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che i centri di controllo del linguaggio sono situati nell’emisfero sinistro nel 96%

delle persone destrimani e nel 70% dei soggetti mancini. Il rimanente 4% dei soggetti destrimani mostra le aree del linguaggio a destra, mentre del 30% dei soggetti mancini un 15% mostra le aree del linguaggio a destra e un 15%

bilaterali.

L’area di Broca consta di due zone principali, con diversi ruoli nella produzione e comprensione del linguaggio. La pars triangularis (anteriore) è associata all’interpretazione di varie modalità di stimoli e alla programmazione dei condotti verbali. La pars opercularis (posteriore) è invece associata a un unico tipo di stimolo e presiede al coordinamento degli organi coinvolti nella riproduzione della parola.

Un danno funzionale in quest'area, provocato da ictus, ischemia o altro, causa la cosiddetta afasia di Broca, classificata tra le afasie non fluenti. I pazienti colpiti da afasia non fluente possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi con una struttura grammaticale complessa. Alcune forme di afasia legate a danni nell'area di Broca possono colpire solo determinate aree del linguaggio, come i verbi o i sostantivi.

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L’area di Broca è connessa per mezzo del fascio arcuato con l’area di Wernicke, una regione della corteccia cerebrale in cui è localizzata una parte dei centri per il linguaggio; fu scoperta dal neurologo tedesco Karl Wernicke e corrisponde alla parte posteriore dell’area 22 di Brodmann, nel lobo temporale superiore dell’emisfero sinistro. Le informazioni sensoriali relative alla percezione del linguaggio arrivano nell’area di Wernicke, che è in stretta associazione con l’area acustica primaria, dove avviene il processo di decodificazione, ossia la trasformazione degli stimoli uditivi in unità linguistiche.

Una lesione di quest’area provoca un danno enorme alla comprensione e all’uso mirato del linguaggio. Questi pazienti possono produrre suoni rapidi e ben articolati e perfino sequenze di parole o di frasi appropriate, ma ciò che essi dicono non appartiene alla sfera del linguaggio. Questi pazienti non comprendono per nulla il linguaggio parlato e scritto, sebbene la loro capacità di udire e di vedere sia fondamentalmente normale.

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L’area di Wernicke è la regione critica per la formazione concettuale e la produzione del linguaggio. Le frasi da pronunciare si formano in quest’area per poi essere trasmesse, tramite il fascio arcuato, all’area di Broca dove viene elaborata la sequenza corretta delle parole che viene infine inviata alla corteccia motoria che si occupa della pronuncia. La parola udita viene poi inviata dalla corteccia uditiva primaria all’area di Wernicke in cui si attua il processo di comprensione. Analogamente, la parola scritta va dalla corteccia visiva primaria alle aree associative visive al giro angolare, che si ritiene integri l’informazione visiva e acustica all’area di Wernicke.

1.1. Struttura psicologica del linguaggio

Considerando una parola come una matrice multidimensionale con diversi indizi e connessioni acustiche, morfologiche, lessicali e semantiche, sappiamo che in stadi diversi una di queste connessioni diventa predominante.

La psicologia considera il linguaggio come uno speciale mezzo di comunicazione che usa la competenza linguistica per la trasmissione dell’informazione stessa. Considera il linguaggio come una forma dell’attività cosciente complessa e organizzata, che implica la partecipazione del soggetto che formula l’espressione parlata e del soggetto che la riceve. Analogamente distingue due forme e due meccanismi dell’attività linguistica.

In primo luogo vi è il linguaggio espressivo che inizia con la motivazione, viene codificata in uno schema linguistico e attivata con l’aiuto del linguaggio interiore, tali schemi vengono poi convertiti in un linguaggio narrativo basato sulla grammatica. In secondo luogo vi è il linguaggio impressivo, che segue il

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corso opposto: parte dalla percezione di un flusso di linguaggio proveniente da un’altra fonte per poi provare a decodificarlo, ciò avviene per mezzo dell’analisi dell’espressione parlata che è percepita grazie all’identificazione dei suoi elementi significativi e alla loro riduzione a schemi linguistici. Questo viene convertito per mezzo dello stesso linguaggio interiore nell’idea dello schema generale che passa attraverso l’espressione e infine la motivazione che vi è alla base viene decodificata.

Tale attività linguistica è una struttura altamente complessa, vi sono tuttavia altri aspetti del linguaggio: può essere visto come strumento per l’attività intellettuale o come metodo per regolare e organizzare i processi mentali umani. Il linguaggio basato sulla parola, l’unità base della competenza linguistica e sulla frase come unità di base per l’espressione narrativa, usa automaticamente tali facilitazione come un metodo di analisi e generalizzazione dell’informazione in arrivo, e come metodo per formulare decisioni e trarre conclusioni. Ecco perché il linguaggio è diventato allo stesso tempo un meccanismo dell’attività intellettuale, un metodo per far uso delle operazioni di astrazione e generalizzazione oltre che mezzo di comunicazione.

Tuttavia il linguaggio umano, usando la sua competenza linguistica come uno strumento principale, ha anche il suo aspetto esecutivo o operativo. La prima componente di questa organizzazione è il meccanismo dell’aspetto acustico, il quale comprende l’analisi del flusso del linguaggio che trasforma un flusso continuo di suoni in fonemi, ognuno dei quali si basa sul fatto che l’isolamento dei suoni utili gioca un ruolo decisivo nella discriminazione del significato, e che essi differiscono in ogni lingua.

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La componente successiva è l’organizzazione lessicale-semantica dell’atto linguistico che utilizza la padronanza del codice lessicale morfologico del linguaggio per far sì che le immagini o i concetti siano trasformati nei loro equivalenti verbali. Il codice in se stesso è formato dalla simbolizzazione radicale del linguaggio e dalla funzione della sua generalizzazione, la formazione di tale reticolo di gruppi morfologici o semantici illustra solo esempi di categorie semantiche altamente complesse in cui è inclusa ogni parola che costituisce l’unità generalizzata del linguaggio. A seguire vi è la frase o espressione che può variare in complessità e che può essere trasformata in linguaggio narrativo, tale espressione è il processo di transizione dal pensiero al linguaggio.

La prima condizione per la decodifica del linguaggio in ingresso è l’isolamento di precisi fonemi dal flusso del linguaggio che arriva al soggetto, le zone postero-superiori della regione temporale sinistra sono particolarmente adatte a isolare e identificare le caratteristiche fonemiche fondamentali. Questa funzione fisiologica rappresenta il diretto contributo alla struttura dei processi linguistici. Il passo successivo nel linguaggio impressivo è la comprensione del significato di un’intera frase o espressione linguistica strutturata: l’organizzazione cerebrale di questo processo è molto più complessa di quella della semplice codificazione del significato delle parole. Durante l’apprendimento della scrittura sembra vi siano tre principali meccanismi implicati nel processo, essi dipendono dalla partecipazione di zone cerebrali diverse e assumono forme differenti.

La prima condizione necessaria per la decodificazione del linguaggio narrativo è la ritenzione di tutti gli elementi dell’espressione nella memoria linguistica, se questa condizione viene a mancare è impossibile la comprensione

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della frase. La seconda condizione essenziale è la sintesi simultanea degli elementi e l’essere in grado di riassumere simultaneamente la frase e organizzarla in uno schema logico percepito. Ciò è essenziale per la comprensione di molte forme di linguaggio narrativo semplice; viceversa questo esame simultaneo e la formazione di schemi logici simultanei sono assolutamente essenziali per la comprensione delle costruzioni linguistiche che comprendono relazioni logico- grammaticali complesse, espresse con l’aiuto di proposizioni, desinenze dei casi e dell’ordine delle parole.

La terza e più importante condizione per la comprensione del linguaggio narrativo è l’analisi attiva dei suoi elementi più significativi. Tale analisi attiva viene difficilmente richiesta per la codificazione delle frasi semplici, diventa tuttavia una condizione assolutamente indispensabile per codificare il significato di frasi complesse e, più specificatamente, per la comprensione del significato generale e in particolare, delle sfumature di un’asserzione narrativa complessa.

Il tipo di linguaggio espressivo più elementare è quello ripetitivo. La semplice ripetizione di un suono, una sillaba o una parola, richiede naturalmente la sua accurata percezione uditiva, chiaramente perciò i sistemi della corteccia temporale devono prendere parte all’atto di ripetizione degli elementi del linguaggio. È necessaria la partecipazione di un sistema sufficientemente preciso di articolazioni e questo dipende dalla partecipazione delle zone inferiori della corteccia postcentrale dell’emisfero sinistro. Per il linguaggio ripetitivo è essenziale l’abilità a cambiare da un articolema all’altro o da una parola all’altra.

La ripetizione di una qualsiasi struttura viene a trovarsi inevitabilmente in conflitto con la riproduzione di parole foneticamente simili ma significative e

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note. Perché tale prova sia eseguita correttamente sono necessari alcuni gradi di astrazione di questi stereotipi ben stabilizzati, la subordinazione dell’articolazione, un programma assegnato e l’inibizione di alternative rilevanti.

Un altro tipo di linguaggio espressivo è la denominazione degli oggetti. In questo caso non vi è alcun modello acustico della parola richiesta e il soggetto deve trovarlo da sé, partendo dall’immagina visiva dell’oggetto percepito e decodificando poi l’immagine per mezzo di una parola appropriata del linguaggio parlato.

Per un’adeguata denominazione degli oggetti è necessario un livello sufficientemente chiaro di percezione visiva: appena la percezione visiva perde la sua precisione la denominazione degli oggetti viene compromessa, avendo perso la sua concreta base ottica. Tale fenomeno viene descritto come afasia ottica e di regola si verifica in seguito a lesioni delle zone tempo-occipitali dell’emisfero sinistro. È fondamentale per una corretta denominazione degli oggetti la mobilità dei processi nervosi. La sua funzione essenziale è di assicurare che, una volta trovato il nome, esso non venga congelato, non diventi uno stereotipo inerte, cosicché quando il soggetto denomina un oggetto non è più in grado di passare facilmente a un altro nome. Suddetta condizione tuttavia viene alterata in lesioni delle zone inferiori dell’area premotoria sinistra.

2. Memorizzazione del linguaggio

La memorizzazione è un processo complesso consistente di una serie di stadi che differiscono nella loro struttura psicologica, nel volume di tracce che

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possono essere fissate, e nella durata del loro immagazzinamento che si estende su un certo periodo di tempo.

I processi di memorizzazione iniziano con l’imprinting della traccia verbale, le informazioni hanno carattere multiplo e l’imprinting permette la scelta di alcune facendo un’appropriata selezione. Gli stimoli percepiti a questo punto vengono convertiti in immagini visive, questo stadio viene considerato intermedio in quanto seguito dalla fase finale, la codificazione delle tracce o la loro inclusione in un sistema di categorie. I sistemi di connessione tramite cui sono introdotte le tracce dell’informazione che raggiungono il soggetto sono codificati in rapporto a indizi differenti, e di conseguenza formano delle matrici multidimensionali da cui il soggetto deve ogni volta scegliere il sistema che servirà per la codificazione. Questo approccio avvicina il processo di richiamo a un’attività investigativa complessa e attiva, permette al soggetto di usare le attività linguistiche e costituisce l’essenziale collegamento nel passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

La memoria a breve termine mantiene disponibili una quantità limitata di unità informazionali per periodi di tempo che vanno da alcuni secondi a qualche minuto, l’analisi delle diverse sottocomponenti di questa forma di memoria ha portato allo sviluppo del concetto di memoria di lavoro, ovvero di quel sistema che contiene ed elabora le informazioni solo temporaneamente e che partecipa anche ad altri compiti cognitivi essenziali come il ragionamento, la comprensione, l’apprendimento e la consapevolezza. La memoria di lavoro consta di un esecutore centrale e un circuito fonologico: il primo è un sistema che integra e controlla le informazioni contenute nella memoria a breve termine tramite la

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focalizzazione dell’attenzione, che controlla ed eventualmente modifica il comportamento in corso e che sembra legato all’integrità dei lobi frontali; il circuito fonologico invece è formato da due sottosistemi il magazzino fonologico e il processo di ripetizione sub vocalica.

Mentre l’input entra nel magazzino fonologico automaticamente, le informazioni da altre modalità entrano nel magazzino fonologico solo tramite la ricodifica in forma fonologica, un processo eseguito dalla reiterazione subvocalica. Poiché l’articolazione opera in tempo reale, la capacità del magazzino fonologico è limitata dal numero di elementi che possono essere articolati in tempo reale prima che le tracce mnestiche svaniscano. Il significato non interferisce notevolmente con il ricordo a breve termine, mentre diventa una variabile cruciale nel ricordo a lungo termine, il significato delle parole infatti attiva strutture di memoria a lungo termine che facilitano il ricordo. Il meccanismo di ripetizione è fondamentale per lo span vocale e permette di conservare una serie di stimoli verbali per circa dieci secondi.

La memoria a lungo termine è un magazzino in cui la conoscenza si organizza in modo permanente e duraturo, di cui tuttavia non è attualmente nota né la capacità né il tempo di conservazione delle informazioni. Nei sistemi della memoria a lungo termine è possibile operare una distinzione tra i cosiddetti sistemi di memoria implicita e memoria esplicita.

La memoria esplicita fa riferimento a quel tipo di conoscenza cui si può avere accesso consapevole, esempi di questo tipo di conoscenza sono le nozioni scolastiche sulla storia, oppure sapere ciò che si può acquistare in un negozio o i ricordi degli episodi della propria vita. È rilevante che i contenuti di questo tipo di

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memoria possono essere recuperati consapevolmente e verbalizzati. Nell’ambito della memoria esplicita si distingue la memoria semantica da quella episodica: la memoria semantica riguarda l’insieme delle conoscenze enciclopediche sul mondo che ci permette di sapere che Roma è la capitale d’Italia, mentre la memoria episodica riguarda le esperienze del passato che si è in grado di recuperare volontariamente e di raccontare. La memorizzazione di informazioni esplicite aumenta se il soggetto focalizza l’attenzione sul compito e se viene emotivamente coinvolto, le esperienze emotivamente neutre vengono invece dimenticate con più facilità. Il sistema affettivo gioca dunque un ruolo fondamentale nella scelta di ciò che vale la pena essere memorizzato, tuttavia le esperienze emotive estreme, come gli shock emotivi dovuti a violenze o traumi, provocano un completo collasso dei sistemi della memoria esplicita. Un grave evento traumatico può dunque causare una completa amnesia dell’episodio stesso, mentre permangono le memorie implicite dell’evento stesso.

La memoria implicita è legata ad un tipo di apprendimento e di conoscenza che dipendono dall’esecuzione ripetuta di un compito. Queste memorie si instaurano anche quando il soggetto non è consapevole della natura della conoscenza acquisita, o addirittura non ricorda gli episodi durante i quali ha appreso il compito, esempi di memoria implicita sono la capacità di suonare strumenti ad orecchio o l’acquisizione di abilità motorie.

Una caratteristica fondamentale di questo tipo di memoria risiede nel fatto che essa è acquisita in assenza di consapevolezza, ne consegue che questo tipo di memoria è usato automaticamente al di fuori del controllo consapevole e l’accesso ad esso non può avere luogo tramite introspezione cosciente. Le conoscenze

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acquisite in forma implicita non sono accessibili all’introspezione verbale, nessuno infatti è capace ad andare in bicicletta dopo aver seguito solo delle lezioni teoriche. Sembra inoltre che l’acquisizione di conoscenze implicite avvenga senza necessità di fare attenzione o di concentrarsi. Nell’ambito della memoria implicita si distinguono: procedure cognitivo-motorie quali quelle alla base della capacità di camminare, guidare, ecc.; il priming cioè il fenomeno per cui il rilevamento o il completamento di stimoli sensoriali è facilitato dalla presentazione subliminale di uno stimolo ad essi apparentato; il condizionamento classico o emozionale, ovvero l’associazione fra stimoli sensoriali e complesse risposte fisiologiche.

La consapevolezza di quello che viene appreso viene tipicamente espresso tramite il linguaggio, è per questo che sembra contro intuitivo che alcuni aspetti del linguaggio siano legati a memorie implicite. Studi clinici attestano che conoscenze necessarie alla comprensione e all’espressione in una lingua possono essere in larga parte di tipo procedurale; vi sono dati a favore dell’idea che non si è consapevoli dell’acquisizione e dell’uso della sintassi, specie quella della prima lingua, né delle attività sensomotorie necessarie alla produzione dei fonemi, questo perché la memoria implicita matura più precocemente di quella esplicita.

Sembra che alcuni aspetti del linguaggio possono essere appresi e utilizzati in forma implicita, tuttavia per apprendere in maniera consapevole il significato di nuove parole è necessario che siano integre le basi nervose che sostengono la memoria semantica, una componente della memoria esplicita. Studi hanno mostrato che la rappresentazione della morfosintassi, ma non quella del lessico, presentava gli stessi profili maturativi della memoria procedurale, e che la sintassi

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e il lessico erano rappresentati in zone diverse del cervello, rispettivamente nelle aree frontale e tempo-parietale sinistra.

È noto che l’acquisizione della sintassi di una seconda lingua è più difficile e raramente raggiunge livelli ottimali se la lingua viene acquisita dopo una certa età critica, che grossolanamente corrisponde alla pubertà. Questo perché le strutture del lobo frontale organizzano le componenti sintattiche di una lingua solo se questa è acquisita entro una certa età, dopodiché altre strutture del cervello si incaricano di organizzare gli aspetti grammaticali di una seconda lingua, ed è probabile che queste strutture sostitutive permettano un apprendimento soprattutto su base esplicita.

Michel Paradis2 ha suggerito che in un bilingue la lingua madre e la seconda lingua possono essere memorizzate in sistemi differenti della memoria, ad esempio se la lingua madre è una lingua acquisita solo nella forma orale essa verrebbe prevalentemente memorizzata con modalità implicite; per contro nell’apprendimento di una seconda lingua che si impara per regole grammaticali e nella quale si usano spesso i meccanismi di traduzione mentale per esprimersi, la memoria implicita è molto meno coinvolta.

Dunque l’acquisizione della lingua madre sembra maggiormente legata alla memorizzazione implicita rispetto alla seconda lingua. Tuttavia, anche nella prima lingua sono coinvolte costantemente sia componenti della memoria implicita che della memoria esplicita, ad esempio durante la comprensione vengono in genere attivate contemporaneamente componenti della memoria

2 Michel Paradis professore emerito di neurolinguistica alla McGill University di Montreal.

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semantica per il riconoscimento del lessico e componenti della memoria implicita per la comprensione sintattica.

3. Il cervello dell’interprete

Quella dell’interprete è un’immagine così consueta che spesso non si nota nemmeno: vediamo solo una figura discreta al fianco di un ospite straniero, oppure ascoltiamo una voce nelle cuffie durante una conferenza. Tradurre da una lingua all’altra è un’operazione apparentemente semplice, ma in pochi conoscono la complessità dei processi biologici che stanno dietro a tutto questo.

Se il valore del linguaggio sta nella capacità di risolvere pacificamente un contrasto, il lavoro dell’interprete è fondamentale, poiché serve ad aiutare la gente a capirsi, un’impresa che richiede attenzione e rispetto.

Gli interpreti esistono fin dall’inizio dei tempi, quando le tribù iniziarono ad incontrarsi durante il loro nomadismo e si resero conto di parlare lingue diverse e quindi di non poter comunicare. Furono motivi prettamente commerciali a spingere alcune persone ad imparare le lingue dei popoli vicini per poterne così sfruttare acqua e cibo. A testimonianza della loro esistenza sono stati ritrovati geroglifici rappresentanti gli interpreti sulle tombe dei faraoni risalenti al III millennio a.C., mentre in epoca romana diventa un impiego a tutti gli effetti, dove lo stato stipendiava gli interpreti per la pubblica amministrazione.

Oggigiorno in Italia sono numerose le scuole superiori a livello universitario e i corsi di laurea per interpreti e traduttori, ciononostante c’è chi si afferma nella professione senza aver seguito una formazione specifica; bisogna però fare una distinzione fra traduzione e interpretariato, poiché al di là delle

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conoscenze linguistiche, la preparazione, i fattori come tempo e prontezza di risposta e il risultato sono decisamente differenti.

Il lavoro dell’interprete richiede preparazione e studio dell’argomento che deve essere affrontato, questo permette di interiorizzare i concetti base e con un attento ascolto è più semplice cogliere le parole chiave del discorso.

L’interpretazione simultanea in particolare è uno dei lavori più stressanti “È come camminare su una corda senza vederla”3, si possono fare ipotesi ma non si sa come si evolverà il discorso, è dunque necessaria una costante attenzione e concentrazione. Nell’interpretazione consecutiva invece ci si aiuta con gli appunti, fatti non di parole ma di simboli, una sorta di codice ideografico che viene decodificato in modo più simmetrico dai due emisferi cerebrali.

Parlare di traduzione come di un mero processo linguistico è limitativo:

non solo lingue diverse attivano aree differenti del cervello, ma sembra che esistano moduli specializzati per tradurre in una direzione o l’altra, ovvero l’area impegnata a tradurre dall’italiano all’inglese non sarà la stessa usata per tradurre dall’inglese all’italiano. Questo porta a stabilire che, per quanto ci si possa avvicinare al perfetto bilinguismo, esiste sempre un idioma considerato come la propria lingua madre che ha delle connotazioni linguistiche che una lingua straniera non ha. Il modo in cui le informazioni vengono immagazzinate porta a consolidare la lingua con cui si cresce grazie ad un maggior livello di associazioni emotive, anche quando si tratta di parole del linguaggio burocratico apparentemente prive di connotazioni affettive, mentre in una lingua straniera, per quanto conosciuta a fondo, le parole restano semplici associazioni linguistiche.

3 M. Astrologo, Cervello da interprete, Mente e Cervello, n. 49, gennaio 2009.

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In passato si pensava che l’area deputata alla traduzione si trovasse nell’emisfero sinistro, dove vi sono i centri dell’elaborazione linguistica, oggi è noto che l’interpretazione (consecutiva o simultanea) è un compito complesso che coinvolge attenzione e memoria attivando entrambi gli emisferi. Alcuni studi hanno dimostrato come gli interpreti che traducono in simultanea preferiscano far entrare l’input dalle cuffie attraverso l’orecchio sinistro e controllare quello che dicono col destro, mentre nel parlato monolingue si tende ad usare in prevalenza il destro.

I meccanismi responsabili della comunicazione, quelli che ci permettono di scegliere la lingua da usare in modo coerente senza saltellare da un idioma all’altro si trovano nel lobo frontale, un’area non specificamente linguistica ma che ha a che fare con i processi decisionali. Il lavoro dell’interprete è una sorta di procedimento automatico che consente di tradurre senza ascoltare davvero, è ipotizzabile che esistano vie di traduzione che passano attraverso i centri del significato e altre che sono una specie di ecolalia, in cui si ripete una frase nell’altra lingua senza capirla.

La capacità di un interprete non sta solo nel tradurre ma nel come si traduce, ossia come vengono utilizzati tutti gli elementi di una frase, come la scelta dei termini, il registro linguistico, l’intonazione, che ne arricchiscono e a volte modificano il significato.

L’elemento base dell’interpretazione è la parola, questa rappresenta una matrice plurivalente che genera contemporaneamente un intero fascio di connessioni possibili tra le quali il parlante deve scegliere le une ed inibire le altre. Tale concezione si fonda sul fatto che la parola ha nello stesso tempo una

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complessa struttura semantica di cui fa parte sia un determinato rapporto concreto (parola-oggetto), sia un sistema di generalizzazioni noto in psicologia e in psicolinguistica come significato della parola. Proprio questa complessa struttura della parola presuppone necessariamente un processo di scelta nell’interprete che deve essere in grado di selezionare in brevissimo tempo il significato o il sinonimo più adatto ad un dato contesto. A ciò bisogna aggiungere che ogni parola, essendo un complesso sonoro, può generare una serie di parole di suono affine, si capisce dunque che la ricerca della parola non è affatto un processo di semplice reperimento del segno voluto in uno schedario di segni possibili, ma deve essere piuttosto rappresentato come un processo di scelta attiva della parola necessaria tra molte alternative possibili. Naturalmente l’atto di scegliere la parola necessaria presuppone un’elevata selettività nei processi nervosi e proprio questa selettività resta la caratteristica del normale svolgimento dell’attività nervosa superiore. In condizioni normali tale selettività è determinata dal fatto che la parola necessaria, consolidata nell’esperienza precedente, affiora con maggiore probabilità delle parole collaterali, ed è questo che rende possibile il processo di scelta della parola necessaria. Soltanto nella ricerca di parole rare questa probabilità dell’affiorare della parola necessaria scompare, la probabilità di affioramento delle varie connessioni che stanno dietro quella parola e delle parole che includono caratteri eguali si riducono allo stesso livello e la persona che cerca la parola necessaria inizia a trovarsi in difficoltà.

Se si confronta un soggetto naive con un interprete si nota come l’attività cerebrale differisca: il cervello dell’interprete è dotato di una maggiore capacità selettiva dei termini e una più celere connettività neuronale che gli permette di

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svolgere questo processo di selezione in un tempo minore. Questo vale però solo per la lingua madre, che come spiegato in precedenza presenta associazioni a livello emotivo, e non per la seconda o terza lingua appresa. La ricerca di un sinonimo nella seconda lingua richiede maggiore attenzione poiché le associazioni linguistiche non sono emotivamente radicate, ciò causa un brevissimo aumento nei tempi di risposta.

Tutti questi dati mettono in luce una complessa rete di comunicazioni cerebrali tra i due emisferi, ciascuna delle condizioni che partecipano al complesso processo di formazione dell’enunciato, decodificazione del pensiero e decodificazione della comunicazione, si realizza grazie alla stretta partecipazione di una serie di apparati del cervello che funzionano di concerto e che assicurano questo complicato processo. Il cervello dell’uomo lavora con la costante partecipazione di almeno tre dei blocchi fondamentali, il primo assicura la veglia della corteccia e rende possibile l’attuazione prolungata delle forme selettive di attività, il secondo riceve, rielabora e conserva le informazioni, mentre il terzo è l’apparato che assicura la programmazione, la regolazione e il controllo dell’attività in corso. Ogni atto del comportamento si fonda dunque sul lavoro comune dei fondamentali blocchi funzionali del cervello e ciascuno di questi assicura un aspetto diverso a tale processo.

Attualmente il 75% degli iscritti all’associazione interpreti di conferenza sono donne, questo dato non è un caso ma può essere scientificamente spiegato: il cervello femminile ha una maggior capacità di far interagire i due emisferi cerebrali, ma anche una maggiore velocità di elaborazione linguistica e sensibilità nel percepire l’intonazione prosodica del linguaggio.

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Il cervello dell’interprete può dunque definirsi per alcuni aspetti più sviluppato rispetto ai soggetti naive, poiché vi sono delle capacità da loro maggiormente sviluppate, come l’attenzione, permettendo così di sfruttare al meglio le energie nervose e concentrarle in processi di maggior interesse.

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CAPITOLO II

In un mondo in costante movimento il cervello umano ha dovuto sviluppare un sofisticato senso del movimento, il quale costituisce la principale forma di comunicazione e di espressione nonché la base della sopravvivenza.

Come le sensazioni riflettono la capacità dei sistemi sensoriali di prelevare, analizzare e valutare il significato degli eventi fisici, l’agilità e la destrezza riflettono la capacità dei sistemi motori di pianificare e di eseguire movimenti complessi in modo coordinato.

1. Il cervello umano e le funzioni motorie

Esistono diversi tipi di movimento che possono essere sviluppati:

movimenti riflessi cioè risposte brevi e involontarie a stimoli sensoriali;

movimenti semi-automatici ovvero movimenti ciclici o ripetitivi; movimenti volontari cioè innescati da un’autonoma iniziativa del soggetto, non sono movimenti innati ma esistono movimenti volontari che possono diventare automatizzati con l’esercizio.

Il sistema nervoso centrale si prefigura in modo astratto il risultato del movimento indipendentemente dai meccanismi che verranno effettuati per ottenerlo; a questo scopo viene messo in atto un piano motorio, un insieme di comandi già strutturati da indirizzare ai muscoli e che deve essere avviato secondo una temporizzazione ben precisa affinché tutta la sequenza motoria possa avvenire anche senza un feedback periferico. Il piano dunque specifica come, quando e dove muoversi.

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Il tempo di reazione, la precisione e la durata del movimento sono tutti fattori variabili, ovvero il tempo di reazione sarà maggiore in funzione alla quantità di informazioni elaborate e la velocità di esecuzione dei movimenti volontari è inversamente proporzionale alla precisione.

Il cervello umano è diviso in due ampi emisferi cerebrali separati da una scissura longitudinale, qui si originano complesse attività motorie regolate automaticamente dal cervelletto sulla base di informazioni sensoriali e ricordi di esempi di apprendimento del movimento. Ogni emisfero cerebrale riceve informazioni sensoriali e genera comandi motori che concernono il lato opposto del corpo; sebbene anatomicamente appaiano identici, i due emisferi presentano alcune differenze funzionali e l’assegnazione di una specifica funzione ad una specifica regione del cervello è sempre imprecisa.

I due emisferi sono a loro volta suddivisi in lobi, ognuno contenente delle regioni

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funzionali i cui confini non sono facilmente delineabili: il lobo frontale contiene l’area corticale motoria primaria che controlla i movimenti volontari; il lobo parietale contiene la corteccia sensoriale primaria a cui afferiscono gli stimoli tattili, dolorifici, pressori e termici; il lobo occipitale contiene la corteccia visiva, percezione conscia degli stimoli visivi che influenzano la postura e l’equilibrio; il lobo temporale contiene la corteccia uditiva e olfattiva, per una percezione conscia degli stimoli uditivi e olfattivi.

Le aree sensitive e motorie della corteccia sono connesse tra loro grazie alle aree associative, tali regioni sono deputate all’interpretazione delle sensazioni in ingresso o al coordinamento di impulsi motori in uscita.

Anche nel talamo sono presenti centri di controllo di informazioni sensitive e motorie, questo è un’importante stazione per le informazioni sensoriali ascendenti che devono essere proiettate alla corteccia sensoriale primaria e coordina le attività motorie a livello conscio e subconscio.

La comunicazione tra sistema nervoso centrale ed organi periferici avviene tramite vie in grado di correlare le informazioni sensitive e motorie tra la periferia e i centri superiori del cervello. Ogni via consiste in una serie di fasci e di nuclei associati, la processazione di solito si verifica in diversi punti lungo la via laddove le sinapsi trasmettono i segnali da un neurone all’altro.

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Tutti i fasci coinvolgono encefalo e midollo spinale e spesso dal nome si possono desumere origine e destinazione del fascio. I recettori di senso sono cellule specializzate, in grado di percepire quello che sta accadendo sia all’interno del corpo che nell’ambiente che lo circonda. Quando uno di questi recettori viene stimolato, esso passa l’informazione al SNC mediante potenziali d’azione che si muovono lungo l’assone del neurone sensitivo. L’insieme delle strutture che convoglia informazioni di senso al SNC è dunque composto dai recettori, dai neuroni sensitivi e dalle vie sensitive cioè dall’insieme degli assoni e dei nuclei che tali assoni raggiungono, aventi il compito di far giungere le informazioni di senso al SNC. Le informazioni sensitive somatiche (provenienti dal mondo esterno, dai muscoli e dalle articolazioni) giungono alla corteccia sensitiva primaria del telencefalo, mentre le informazioni sensitive viscerali fanno capo per lo più al diencefalo e al tronco encefalico. Il compartimento efferente del sistema nervoso è composto dai nuclei e dall’insieme degli assoni dei neuroni di moto, somatomotori o visceroeffettori; le vie motrici somatiche controllano i muscoli scheletrici, le vie viscero-effettrici controllano il comportamento degli organi (secrezione delle ghiandole, battito cardiaco, respirazione). I comandi

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visceroeffettori decorrono mediante il SNA. Le vie motrici somatiche si articolano su almeno due neuroni: un motoneurone superiore e uno inferiore. L’attività del motoneurone superiore può stimolare o inibire il motoneurone inferiore, ma soltanto l’assone del motoneurone inferiore si porta al di fuori del SNC per innervare la muscolatura scheletrica. Gli impulsi motori somatici raggiungono i bersagli attraverso tre sistemi integrati di vie motorie: la via corticospinale, deputata al controllo volontario della muscolatura scheletrica che muove occhi, mascella e viso; la via del cordone mediale, per il controllo del tono muscolare e movimenti grossolani di collo, tronco e muscoli degli arti prossimali; la via del cordone laterale, implicata nel controllo del tono muscolare e dei movimenti più precisi delle parti distali degli arti. L’attività di queste vie motrici è continuamente controllata e regolata dai nuclei della base e dal cervelletto, i loro impulsi in uscita possono stimolare o inibire sia i nuclei motori che la corteccia motrice primaria.

A livello anatomico e fisiologico dunque, il movimento può essere descritto come un continuo passaggio di informazioni tra i numerosi neuroni presenti nel nostro corpo, il tutto sotto la supervisione del cervello che coordina tutte le parti del nostro corpo.

2. I riflessi e i movimenti automatizzati

L’uomo riceve dall’ambiente innumerevoli stimoli sensoriali ai quali deve adattarsi rispondendo attraverso il proprio corpo con l’assunzione di posture o atteggiamenti o con l’esecuzione di movimenti. Ogni risposta di adattamento che avviene senza il controllo della coscienza o senza l’intervento della volontà viene detta reazione riflessa. Le attività motorie riflesse avvengono automaticamente,

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senza comandi precisi dai centri superiori encefalici, i centri superiori possono però avere un’importante effetto sulla funzionalità dei riflessi.

Il percorso di un riflesso inizia con l’arrivo dello stimolo e l’attivazione di un recettore che mediante le radici posteriori dei nervi spinali invia la informazione al SNC, qui avviene la sinapsi tra l’assone del neurone sensitivo e un neurone associativo il cui assone raggiunge un neurone motorio posto nel midollo spinale. L’assone del neurone di moto trasporta il potenziale d’azione verso la periferia e raggiunge il muscolo, la zona di contatto tra l’assone del neurone di moto e la superficie della fibra muscolare è una zona altamente specializzata detta placca motrice a livello della quale avviene il rilascio del neurotrasmettitore.

I riflessi possono essere così classificati:

 Dal loro sviluppo, acquisiti o innati;

 Dal luogo di elaborazione dell’informazione, midollo spinale o nervi cranici;

 Dalla natura della risposta motoria che ne deriva, somatica, viscerale o autonoma;

 Dalla complessità dei circuiti neuronali coinvolti, monosinaptici o polisinaptici.

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Nel più semplice arco riflesso un neurone sensitivo fa sinapsi su un neurone motorio, questo viene detto riflesso monosinaptico, ne è un esempio il riflesso rotuleo; la trasmissione attraverso una sinapsi chimica coinvolge sempre un ritardo sinaptico, ma in questo caso il ritardo tra stimolo e risposta è minimo.

Quando tra il neurone sensitivo e quello motorio si interpongono uno o più neuroni associativi invece, il riflesso viene detto polisinaptico. Questi riflessi hanno un ritardo più lungo tra stimolo e risposta, poiché la lunghezza del ritardo è proporzionale al numero di sinapsi coinvolte.

Alcuni riflessi però possono essere definiti come i predecessori della motricità automatica: esistono infatti dei movimenti detti riflessi di raddrizzamento, ovvero movimenti innati che il corpo compie sin dai primi mesi di vita per contrastare la gravità ed acquisire progressivamente una posizione eretta. La motricità riflessa viene dunque via via integrata dalle reazione di equilibrio, in quanto le esperienze di movimento portano il corpo ad acquisire nuove posizioni e nuove modalità di traslocazione attraverso un processo di apprendimento; durante tale processo la motricità riflessa innata si adatta e viene condizionata. I riflessi condizionati creano nuovi legami tra gli stimoli esterni e i

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processi fisiologici facilitando in tal modo un migliore adattamento dell’organismo alle diverse situazioni.

Perciò i meccanismi automatici e riflessi assumono un’importanza determinante nella conduzione e nella regolazione del movimento, ma sono una componente parziale del movimento umano, rapportabile ad un controllo nervoso che coinvolge le vie periferiche e i centri sottocorticali.

In contrapposizione alla motricità riflessa vi è la motricità volontaria e controllata, cioè tutti quegli atti motori intenzionalmente voluti e che richiedono all’uomo un certo grado di attenzione, cura e controllo. Tali movimenti si manifestano prevalentemente nelle situazioni di apprendimento motorio e vengono eseguiti con l’intenzione di raggiungere un fine programmato, quando vengono eseguiti per le prime volte appaiono poco fluidi, poco coordinati e comportano un maggior dispendio energetico. La padronanza del movimento è frutto di una elaborazione mentale controllata, che lascia progressivamente il posto alla motricità automatizzata. Il processo di consolidamento avviene fintanto che quella gestualità viene praticata ed utilizzata, in caso contrario le abilità acquisite possono essere poco per volta dimenticate rendendo il processo reversibile.

Le caratteristiche dell’attività automatizzata sono molteplici: velocità, bassi livelli di attenzione, consente il controllo agevole di più compiti o movimenti anche in competizione tra loro e comporta un basso dispendio energetico.

I movimenti automatizzati vengono immagazzinati nella memoria chinestesica, in seguito a determinati input abituali il sistema di controllo

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automatizzato reagisce attuando un programma motorio o pattern prelevato da questo sistema di memoria. Durante un atto automatizzato la nostra attenzione può essere rivolta ad altro, consentendo il concentrarsi su variabili ambientali e situazionali che possono modificare il programma motorio o, se è il caso, cambiarlo attivandone uno più appropriato.

La prestazione abile e automatizzata ha dunque un supporto neurofunzionale nel programma motorio che risiede nel sistema di memoria procedurale, ovvero la memoria a lungo termine. Questa risiede nella neocorteccia che si modifica strutturalmente ad ogni apprendimento motorio per adattarsi e ricordare le esperienze di vita; son ben tre i sistemi di memoria coinvolti nell’elaborazione dell’informazione che dà come risultato la produzione del movimento:

1. Il deposito sensoriale raccoglie tutti gli input cinestesici e ambientali, ha un tempo di ritenzione dell’informazione pari a 250 μs, attraverso un processo di selezione e filtraggio di queste informazioni le afferenze ritenute utili vengono immesse nella MBT;

2. La MBT (memoria a breve termine o memoria lavoro) ha un tempo di ritenzione di 30 secondi, è uno spazio di lavoro temporaneo che presenta limiti quantitativi nell’elaborazione delle informazioni sensoriali, elabora un programma di movimento che viene trasferito alla MLT;

3. La MLT (memoria a lungo termine) ha una capacità di ritenzione delle informazioni e del programma di movimento illimitato, attività motorie usuali e praticate per un periodo continuativo non vengono dimenticate anche se non eseguite per lunghi periodi.

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Un esempio di memoria automatizzata è la capacità di guidare. Un individuo per imparare a guidare necessita sì di lezioni teoriche, ma soprattutto pratiche; la costante ripetizione dei gesti adoperati durante la guida di un veicolo fa sì che rimangano impressi nella memoria. Come è stato spiegato precedentemente i movimenti automatizzati richiedono una minore attenzione, infatti un individuo mentre sta guidando non pensa alle procedure da eseguire per condurre il veicolo, guarda invece la strada, eventualmente parla con il compagno di viaggio, e fa attenzione a non fare incidenti e a raggiungere la sua destinazione.

In questa situazione è di rilevante importanza l’informazione visiva, la vista è infatti la fonte di informazione esterocettiva che tende a dominare sulle altre ed occupa una parte di rilievo nel controllo motorio, una menomazione visiva è ritenuta la più grave per il movimento e per l’interazione ambientale.

Ogni movimento si attua in un sistema tridimensionale di coordinate, l’analisi delle fondamentali coordinate spaziali e il loro mantenimento come struttura entro cui si eseguono i movimenti volontari e le azioni è associata con l’attiva funzione delle zone parieto-occipitali del cervello, che includono le strutture centrali dei sistemi visivi, vestibolari, cinestesici e motori che formano i livelli più elevati di organizzazione spaziale dei movimenti. L’analizzatore visivo è oltremodo determinante per inviare informazioni relative allo spazio e al tempo, ossia per la percezione delle distanze, delle traiettorie e delle velocità degli esseri animati e inanimati.

L’informazione visiva giunta alla corteccia visiva segue due vie separate per un diverso trattamento dell’informazione e con effetti diversi sulla persona:

una consente la visione focale per l’identificazione degli oggetti presenti nella

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zona centrale del nostro campo visivo, consentendo di metterli a fuoco; la seconda via consente la visione periferica utile al controllo dei movimenti, percezione non solo centrale ma anche periferica del nostro campo visivo.

La visione periferica durante la guida è determinante per la percezione del movimento permette all’individuo di evitare eventuali ostacoli improvvisi, come ad esempio un pedone distratto.

3. Il pilota di Formula 1

L’essere umano si muove a suo agio nelle tre dimensioni che definiscono il suo reale, ma questo non vuol dire che non ne esistano altre, del tutto fuori dalla sua capacità di comprensione, eppure egualmente rilevanti.

Come ha detto Stephen Hawking “Confinati in un mondo tridimensionale che fa parte di un mondo multidimensionale”4.

È quello che avviene in Formula 1 oggigiorno, la cui evoluzione tecnica l’ha definitivamente sottratta alla capacità di comprensione di uno spettatore abituato a valutare la prestazione in funzione delle sue esperienze sensoriali. Del tutto inadeguate quando vengono applicate ad uno scenario caratterizzato da accelerazioni continuamente variabili ed i cui valori assoluti sono multipli stupefacenti di quella gravità che rimane pur sempre l’unico strumento di valutazione a disposizione dello spettatore. Così capita che dell’impegno, questa volta terribilmente multidimensionale del pilota, solo la monodimensionalità del risultato in pista sia quello che effettivamente traspare.

4 Stephen Hawking, La teoria del tutto. Origine e destino dell’universo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2004.

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Basta osservare in qualunque camera car dove il pilota appare come un osservatore esterno della realtà che scorre intorno a lui, solo marginali interventi sullo sterzo, qualche regolazione dei comandi sul volante e traiettorie prive di qualunque drammaticità. Tutto semplice? Affatto, perché come l’impegno di una passeggiata nel parco non può essere paragonata ad un’attività extraveicolare nello spazio, allo stesso modo la guida di una monoposto ha tutte le difficoltà di un viaggio in un altro mondo che nulla ha che fare con l’esperienza dello spettatore. Un mondo dove l’istinto non aiuta ma inganna, e dove l’occhio deve rinunciare alla visione immediata ed analitica del tracciato per sintetizzare e condensare le informazioni in un ritmo che va ben al di là della semplice successione di curve e rettilinei, il ritmo di gara infatti è condizionato dalla perfomance mentale piuttosto che fisica.

Anche i migliori piloti di Formula 1 non sono in grado di reggere tutta una gara al limite estremo come quando sono in qualifica, e normalmente il loro ritmo è circa tre decimi inferiore al massimo potenziale. Lo testimonia il fatto che nei momenti in cui la strategia di gara gli richiede di cercare il limite, il loro tempo sul giro migliora immediatamente di qualche decimo. I dati raccolti da Formula Medicine5 durante numerose ricerche scientifiche sui circuiti, dimostrano che la frequenza cardiaca del pilota in questi frangenti sale in media di circa 15 battiti, indice di un netto incremento dello sforzo psico-fisico. Ulteriori e approfondite analisi hanno permesso di dimostrare che l’aumentato sforzo è quasi del tutto imputabile ad un maggior consumo del sistema nervoso e quindi del cervello.

5 Formula Medicine, centro medico di Formula 1 fondato nel 1994 a Viareggio dal Dottor Riccardo Ceccarelli.

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Utilizzando una risonanza magnetica funzionale (fMRI) sono stati valutati i flussi sanguigni cerebrali e le performance di alcuni piloti professionisti sottoposti a specifici test mentali, il gruppo dei piloti è stato poi confrontato con un gruppo di non atleti della stessa età. Gli esiti hanno dimostrato che non vi sono differenze in termini di risultati tra i naive e i piloti, ma questi ultimi attivano meno aree cerebrali e quindi risultano essere molto più economici in termini di dispendio di energie nervose. I piloti di Formula 1 infatti presentano una diversa connettività funzionale tra le distinte regioni cerebrali implicate nei processi visuo-motori rispetto ai soggetti naive, i dati ricavati dagli studi hanno suggerito una riorganizzazione funzionale dei network cerebrali visuo-motori in individui con particolari abilità, quali appunto i piloti.

3.1. Studio sulla guida passiva

Durante tutta la serie di studi condotti da Formula Medicine in collaborazione con l’Università di Pisa, quello che si può definire determinante è lo studio condotto su piloti professionisti e soggetti naive durante sessioni di guida passiva.

È stata utilizzata una fMRI per esaminare l’attività neuronale durante la visione di un gran premio di Formula 1 ripreso da una camera car su quattro diversi circuiti, chiedendo ai soggetti di immaginare che fossero loro stessi a guidare. In entrambi i gruppi la guida passiva ha notevolmente modificato l’attività cerebrale di una regione in una rete di connessioni corticali tra diverse aree cerebrali coinvolte nel comportamento di guida, tra cui la corteccia bilaterale visiva, la corteccia parietale superiore, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia

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prefrontale dorsolaterale destra e la zona precentrale sinistra. Ciononostante i piloti professionisti attivano anche altre aree corticali come l’area premotoria dorsale e ventrale e la regione parietale inferiore; durante ogni video i piloti mostrano un notevole aumento delle connessioni tra la corteccia motoria primaria sia di destra che di sinistra, mentre i soggetti naive al contrario mostrano un aumento nella corteccia visiva primaria (Fig.1).

È interessante notare che nei piloti i picchi di connessione delle aree motorie si registrano o immediatamente prima e/o in corrispondenza dei tratti del circuito che richiedono una maggiore attenzione.

Figura 1. Confronto tra le mappe delle correlazioni medie dei due gruppi: il blu indica un valore di correlazione più elevato nei soggetti naive, mentre il giallo indica un valore di correlazione più elevato nei piloti professionisti.

Questi risultati evidenziano dunque che l’organizzazione cerebrale sviluppata dai piloti di Formula 1 differisce da quella dei soggetti naive. Le diverse risposte riscontrate nelle aree visive e motorie indicano che i naive sono soggetti a maggiori modificazioni dell’attività cerebrale nella corteccia occipitale, mentre i piloti presentano un prevalente coinvolgimento delle aree dedicate al controllo motorio. Infatti, mentre i soggetti naive hanno solo una conoscenza basilare di guida, i piloti professionisti vengono addestrati per le corse

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automobilistiche e hanno competenze motorie per far fronte a situazioni specifiche che possono insorgere durante un gran premio di Formula 1. Inoltre, nonostante la richiesta fatta all’inizio dell’esperimento, i naive hanno semplicemente guardato la gara, mentre i piloti immaginavano di guidare.

3.2. Mental Economy Project

Da queste premesse è nato un ulteriore studio scientifico indirizzato a studiare il cervello dei piloti durante intenso impegno mentale: il Mental Economy Project.

Si tratta di un progetto che comprende una serie di strumenti per valutare le performance cerebrali e quantificare il dispendio energetico neurologico;

secondo i primi risultati è possibile allenare gli atleti ad ottenere prestazioni mentali sempre più elevate con un consumo di energie nervose sempre più basso.

Una delle parti integranti del progetto è il MentalBio, una consolle dotata di 4 schermi che permette di acquisire diversi parametri biomedici e trasmetterli via wireless mentre il pilota è impegnato ad eseguire delle perfomance mentali. La finalità del MentalBio è di valutare contemporaneamente prestazioni mentali e dispendio energetico, tutto ciò utilizzando strumenti quali: i Formula Test, specifici test per valutare tempi di reazione, concentrazione, capacità visuo- spaziale, memoria e capacità visuo-coordinativa; il Mind Band, un software di valutazione dell’attenzione, concentrazione, rilassamento e meditazione collegato ad una fascia elettroencefalografica che rileva le onde cerebrali e si connette direttamente al computer.

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Per la misurazione del dispendio energetico nervoso viene invece utilizzato un simulatore di guida, fedele riproduzione di una monoposto; un cardiofrequenzimetro; un BioStress, strumento che tramite vari sensori applicati al corpo è in grado di misurare temperatura corporea, frequenza cardiaca, sudorazione, cinetica respiratoria, livello di contrazione del muscolo frontale ed elettroencefalogramma; in fine una MultisensorBelt, una fascia toracica in grado di trasmettere via bluetooth tutti i dati raccolti, e che non necessitando di fili può essere utilizzata anche in gara.

Figura 2. Pilota durante una simulazione di guida al MentalBio con la monitorizzazione dei parametri psico-fisici.

4. La plasticità del cervello

Come spiegato in precedenza, il cervello dei piloti di Formula 1 presenta una diversa organizzazione dei network cerebrali, questo è possibile grazie all’affascinante capacità del cervello di modificarsi, di essere cioè plastico.

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