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2 Il nome dell’artista è assume nelle fonti forme piuttosto varie, a volte troncate, altre abbreviate

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Academic year: 2021

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Prefazione

1- In una bella pagina della Novella seconda, Carlo Emilio Gadda portò ad esempio delle follie razionaliste la pretesa di sottoporre tutte le forme al rigore della squadra, che non si fermava di fronte a niente, neppure ai begl’angioletti nudi e inerpicati chissà dove: farebbero “rettangolari anche le ruote delle biciclette, i culi dei Serafini e i vasi da notte…”1.

L’idea insomma che tra le rotondità più espressive e tipiche vi fossero anche i glutei dei Serafini è circostanza non priva d’interesse, perché segnala come per la cultura novecentesca – specie per chi come l’Ingegnere era imbevuto della lettura del suo Leibnizio – quello degli angioletti in volo, magari tra le nubi di qualche dipinto o cornice di specchiera, fosse uno dei luoghi comuni visivi più forti.

La soluzione dell’angioletto sorridente o sofferente, visto da tergo ma anche no, fu del resto ben sviluppata dalla pittura settecentesca, e in questa da colui che è al centro della nostra ricerca:

Giovanni Battista Tempesti2.

Artista di forte e compunta intonazione classica (ma non filologicamente Neo-classica), impegnato a riempire pareti e pareti di affreschi che necessitavano anche di clausole ritmiche e di pause, ma anche autore di tele per chiese e altari, dove insomma gli angioletti ci stavano come dire al bacio, l’artista fu quasi immediatamente depresso dalla critica in un ruolo secondario, come il pittore dei serafini festosi, dalle carni sode ed evidenti. Un pittore noioso insomma, per donne pie e un poco bigotte, e per persone facili da compiacere. Non c’era, nel Tempesti, il rovello della Storia, il plutarchismo declamato dei peintres d’académie, ma solo la scontata postura del santo al limite delle forze e dunque di se stesso e del Cristo ispirato e ammonitorio. Tutti scortati, si badi, dagli angioletti.

La circostanza gaddiana assunse del resto il valore di un’involontaria chiusa adatta alla nostra bisogna, in relazione ad una stravagante ma strepitosa interpretazione che del Cherubino tempestiano (dunque del putto angelico), in una Pisa devastata dalla guerra aveva dato nientemeno che Alberto Savinio. Quando nel novembre del 1946 il fratello di De Chirico visitò la Mostra                                                                                                                

1 GADDA 1971, p. 136.

2 Il nome dell’artista è assume nelle fonti forme piuttosto varie, a volte troncate, altre abbreviate. Abbiamo inteso uniformarle nella forma estesa di Giovanni Battista.

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dell’Università di Pisa per conto del Corriere d’Informazione, nell’aggirarsi nelle stanze deserte di palazzo Toscanelli che della mostra era sede, egli rimase affascinato dalla piccola immagine su stoffa dipinta dal Tempesti, e che dello Studio pisano era diventata un poco l’insegna (fig.141). Per l’Hermaphrodito, per il più surrealista dei surrealisti italiani, quella “testina angelica isolata nello spazio e chiusa dentro tre paia di ali”, separata dal corpo e inghirlandata dalle sole “aluzze”, poteva

“essere preso a simbolo delle inibizioni sessuali”, dunque evocante una impotente e anodina condizione esistenziale e, si direbbe, artistica3.

2- La sfortuna del Tempesti andò del resto di pari passo con la sfortuna dell’arte toscana settecentesca che risultava troppo estenuata per parer degna di fare da antiporta alla pittura macchiaiola, e troppo priva di personalità straordinarie e dirimenti per far da controcanto al Cinquecento, al punto che a confronto anche la pittura del Seicento, con i suoi echi e premonizioni caravaggesche, sembrò di ben altra pasta.

Lui vivente, Giovanni Battista era stato oggetto di una biografia da parte dell’ecclesiastico lucchese Sebastiano Donati (1711-1787), professore di Sacri Canoni presso lo Studio pisano, ma soprattutto erudito ed epigrafista, in contatto di personaggi non banali come i cardinali Alessandro Albani, Neri Corsini e Domenico Passionei, ma pure con Anton Francesco Gori, Giovanni Lami e Philipp von Stosch, e curatore di quei “Nuovi Miscellanei Studi lucchesi” nella cui seconda edizione comparve la biografia tempestiana, che fecero parte della biblioteca personale di Gotthold Ephraim Lessing nel corso del suo viaggio italiano tra 1775 e 17764.

Era come detto il 1775, e l’artista, ormai emancipatosi dalle cure giovanili, aveva bisogno di un monumento di carta che ne esaltasse la personalità artistica. Si trattò di un testo importante, anche se fu curiosamente pubblicato anonimo e senza titolo, come se fosse stato inserito nella rivista solo                                                                                                                

3 L’articolo di Savinio uscì sulle pagine del Corriere d’Informazione del 4-5 novembre 1946 col titolo di Cambiare il nome all’Università di Pisa. Noi lo abbiamo letto nella più recente raccolta degli scritti più eccentrici e rari dello scrittore, in SAVINIO 1989, pp. 405-08 (cit. alla p. 407).

4 Sul Donati v. FAGIOLI VERCELLONE 1992. Per la biografia DONATI 1775 b. Essa uscì anonima nell’edizione della rivista del 1775 (la prima era del 1773), ma l’identificazione dell’autore nello stesso curatore e redattore della rivista si deve a Giovanni Mariti (Settecento Pisano 1990, p. 414). Devo la segnalazione della biografia all’amico Emanuele Pellegrini, che ne ha poi accennato in PELLEGRINI 2006, p. 200; PELLEGRINI 2008, p. 167 n. Sul Lessing possessore della rivista cfr. Da Vienna a Napoli 1991, vol 2, pp. 704-5.

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all’ultimo momento. E fu interessante non solo per le notizie che forniva (piuttosto precise e comunque fededegne, se consideriamo che furono scritte vivente l’artista), ma soprattutto per il fatto stesso che un artista pisano contemporaneo pareva degno di un racconto, di una ricostruzione analitica.

In ambito non locale invece, di Giovanni Battista si persero quasi subito le tracce. Certo, un coraggioso Zani lo onorò con la doppia B5, che voleva dire l’eccellenza, ma fu quasi un caso. Nel Dizionario Biografico Universale del Predari se ne compitò un discreto profilo, ma attento ai fatti e non alle intenzioni6; il Saltini solo pochi anni prima ne aveva apprezzato le capacità di affreschista, ma in pochissime righe di testo, con l’aria di uno che vuol fare alla svelta e togliersi il pensiero7. Il tentativo della rilettura della carriera dell’artista ebbe però luogo principalmente a Pisa, sebbene con una misura e un tenore diversi. Gli allievi, ovviamente, parlarono benissimo del loro maestro, a testimonianza di una qualità umana e comunicativa che nel secolo delle buone maniere e dei fazzoletti profumati fu dote rara e da segnalare. Così Alessandro Da Morrona, che onorò le sue ambizioni di storico fornendo del maestro una biografia assai articolata e ricca di giudizi, per quanto tesa implicitamente a svalutarne la scuola, la capacità insomma intimamente pedagogica8. Fu questa una circostanza che fece infuriare il discreto pittore Giovanni Stella, che in una lettera scritta in una grafia nitida ed elegante, come di chi sperava di esser letto da molti, col puntiglio iroso di chi si riteneva defraudato fece le pulci alla critica malevola9, perché fosse chiaro a chi spettavano meriti e colpe. Ma era già il segno di una crepa, perché non vi è difesa se non dopo un attacco, che con tutta probabilità era stato per primo portato dall’incisore trevigiano Carlo Lasinio, che appena giunto a Pisa – dove poi rimase tutta una vita come Conservatore del Camposanto -, in una “Informativa” dell’ottobre del 1808 siglò i risultati della scuola tempestiana come catastrofici

10.

                                                                                                               

5 ZANI 1820, p. 148.

6 PREDARI 1867, p. 676.

7 SALTINI 1862, p. 44.

8 DA MORRONA 1812, II, pp. 546-53.

9 La lettera dello Stella è stata pubblicata in Settecento Pisano 1990, pp. 409-11.

10 OPA, Carte Lasinio 1, lettera dell’ottobre del 1808.

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Ecco allora che nel disegnatore Baldassare Benvenuti, che coronò una esistenza artistica di secondo piano ma interamente devota alla memoria del maestro, il profilo che ne stilò fu pensato come una lapide eretta alla sua memoria, che dietro una sintassi non proprio elegante nascondeva un amore autentico e qualche nota importante. Si trattò sostanzialmente di un elenco di cose e di persone, un monumento costruito passo a passo e pronto al dettaglio, ma senza amplificazioni retoriche, né di significato. Difficile capire qualcosa del suo Settecento dalla lettura di quelle note; più facile semmai intendervi il carnet di appuntamenti del maestro, scanditi quando serviva dagli avverbi giusti - “indi”, e “poi” – perché fosse chiaro che la vita è fatta di cose e non di pensieri. Cosa tuttavia importante, ma che teneva più della cronotassi che non dell’interpretazione storica 11. Il fatto è che nella prosa sciatta del Benvenuti, la riduzione della carriera del Tempesti ad una successione di occasioni prefigurava già l’emergere di un danno alla memoria del maestro, e forse non se ne accorse Bartolomeo Polloni, quando per parlar bene di colui che gli aveva insegnato il disegno, non trovò di meglio che di segnalarne la fama raggiunta “per le angeliche fisionomie dei putti”12.

Così fu anche per gli anni successivi del primo Ottocento. La biografia di Ferdinando Grassini fu encomiastica, ma impoverita da errori – anche cospicui – e fraintendimenti, come di chi si era valso d’informazioni di seconda mano, non avendo più la possibilità d’informarsi da chi Tempesti lo aveva direttamente conosciuto. Semmai c’è da segnalare il dato importante che il testo del Grassini venne inserito in un lavoro che raccoglieva le Biografie dei pisani illustri13, a testimonianza di come l’artista ormai fosse ritenuto degno di essere posto tra i padri della Patria; la qual cosa, negli anni dello scavo romantico sulle radici dei popoli e delle Nazioni, non fu evento marginale.

Giovanni Battista come uomo degno dell’Enciclopedia.

Cosa che venne in qualche modo ufficializzata pochissimi anni dopo, nel 1841, quando lo scienziato Giuseppe Giuli (nobile Pisano di campagna: era di Lorenzana), stilò del Tempesti una circostanziata biografia per la Biografia degli italiani illustri curata da Emilio De Tipaldo14. Fu un testo importante, quasi epigrafico nell’esemplare volontà di definirne la vocazione creativa, ma                                                                                                                

11 La biografia manoscritta redatta dal Benvenuti, conservata nell’archivio dell’Università di Siena, è stata trascritta e attentamente commentata solo nel 1993 da Marco Ciampolini (CIAMPOLINI 1993).

12 POLLONI 1837, pp. 86-7.

13 GRASSINI 1838.

14 GIULI 1841.

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ancora una volta autoriflesso, nel senso che la vicenda dell’artista, tra quadri fatti e angioli in volo, diventava autosufficiente, esistendo il resto come sullo sfondo, a far d’orizzonte al genio di casa.

In questi casi ci troviamo davanti ad una tipologia di medaglione biografico che si profilava come un compromesso tra la narrazione evenemenziale ‘classica’, vasariana, tesa all’individuazione di una parabola artistica nel personaggio raccontato, e la struttura della memorialistica settecentesca, dove il punto di vista narrativo cercava di sovrapporsi alla vicenda dell’eroe. Ma la sostanziale ambiguità del racconto rivelava un’indecisione che diceva anche qualcosa su come – e dove, e in che modo – fosse possibile rubricare il fardello tempestiano.

Il fatto comunque è che, appena passata la foga descrittiva di coloro che Tempesti lo avevano conosciuto direttamente, tesi a stabilire il canone del pittore, le cose cominciarono a cambiare anche nella storiografia locale. Ranieri Grassi ad esempio, autore di una importante guida di Pisa, dedicò a Giovanni Battista pochissimo spazio e per giunta banalmente disposto15. Così fu anche per il Bellini Pietri, che sebbene abitasse in un palazzo affrescato da Giovanni Battista (l’ex palazzo Malaspina), non sembrò particolarmente emozionarsi di fronte all’artista, di cui annotò i lavori ma senza indagarne il senso, e forse senza chiedersi se ne avessero. Ne siglò il carattere nell’aggettivo di

“eclettico”, che nella metodologia neopositivista del Bellini voleva dire che tutto valeva e che niente valeva, e infatti, perché il concetto fosse chiaro, ammise sì che Tempesti fu “lodato dai concittadini suoi contemporanei”, ma, si badi, “oltre il merito”16. Non deve allora stupire, per meglio perimetrare la disattenzione di una critica attenta al Medioevo e per tutto il resto appagata dei ”si dice”, se al passaggio dei secoli lo stesso Bellini Pietri e perfino Igino Benvenuto Supino attribuiranno a Tempesti una diretta frequentazione romana della scuola di Benedetto Luti17: morto, come è noto, oltre trent’anni prima del soggiorno di Giovanni Battista a Roma! Del resto se nel 1904 lo stesso Supino, oramai Direttore del Bargello e prossimo a ricoprire la cattedra di Storia dell’Arte a Bologna, pubblicherà per i prestigiosi tipi dei fratelli Alinari un ponderoso volume intitolato Arte pisana18 arrestandone la narrazione al 1399, viene il sospetto che quel confine non avesse funzionato come una pur discutibile sineddoche, ma come una realistica, convinta e assertiva

                                                                                                               

15 GRASSI 1838, vol. 3, p. 80

16 BELLINI PIETRI 1913, p. 28.

17 SUPINO 1894, p. 137; BELLINI PIETRI 1906, pp. 250-51.

18 SUPINO 1904.

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convinzione che tutto quello che veniva dopo il Trecento fosse folklore, passatempo, bizzarria. Per Giovanni Battista non vi era davvero spazio19.

Il problema della sfortuna critica di Giovanni Battista Tempesti tra Otto e Novecento si può del resto concludere che fosse sorto proprio appena dopo la sua morte; anzi, con la sua morte. A ben vedere, nelle pagine pensate per celebrarlo appena scomparso si assisté alla deriva di un fenomeno che fu tipico della cultura settecentesca, che fu poi quello dell’enfatizzazione di una qualità, o di un soggetto, trascurabile come la giornata del Giovin signore del Parini, forse, o The rape of the lock di Alexander Pope, ma allora anche gli angioletti del Tempesti, e i suoi santi mielosi. Il nulla che accade o che succede: ma ben detto, benissimo detto. Non vorremmo attribuire alla sparuta critica tempestiana un problema che fu semmai di tutto il Settecento, ma non possiamo non pensare a quanto bene avrebbe fatto all’artista il vantaggio di un’impostazione interpretativa non diremmo alla Winckelmann, ma almeno alla Tiraboschi. Tra tutti i tentativi di ridare dignità artistica alla patria, condotti dalla storiografia pisana settecentesca attraverso il recupero del Medioevo, un artista che come Giovanni Battista ebbe sempre un occhio rivolto alle origini della cultura locale, modulandone l’interesse con una pratica pittorica allineata all’arte del suo tempo, avrebbe ben potuto suggerire qualche pagina a chi avesse voluto riflettere su come i rapporti tra individuo e cultura che esprimeva fossero assai complessi.

Il fatto è che alla critica ottocentesca applicatasi nella successione delle minute vicende biografiche e nel medaglione, sfuggiva ad esempio il senso di una pittura dalla pochissima tempra civile e ben poco premonitoria di riscosse nazionali: Giuseppe Mazzini, nel suo disagio pisano, ben difficilmente avrà avuto modo di notarlo, se pensiamo alla sua idea di pittura e al suo Hayez.

La critica poi, pisana o straniera che fosse, per tutto l’Ottocento cercò nelle cose locali il Medioevo, sottoponendolo per giunta ad una lettura in cui un intero periodo diventava segnato da un linguaggio scabro come sinonimo di Verità e di forte e corretto sentire, che ovviamente non poteva, se solo se ne fosse accorta, non giudicare quello del Nostro come artificioso e falso, perfino blasé.

                                                                                                               

19 Fa riflettere semmai l’inclusione di un dipinto di Giovanni Battista – il Ritratto di Ferdinando III – nella notevole Mostra del Ritratto Italiano che si tenne a Firenze nel 1911 a palazzo Vecchio (Mostra del Ritratto 1911, p. 89). La circostanza potrebbe infatti essere stata determinata non solo dal ruolo svolto nell’iniziativa da Ugo Ojetti, presidente della Commissione Esecutiva e attento conoscitore del Museo Civico di Pisa; ma dall’inclusione nel Comitato Centrale della mostra del pittore pisano Francesco Gioli, che nonostante il suo domicilio fiorentino non smise mai d’intrattenere importanti rapporti con l’ambiente pisano.

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In questo panorama locale della storiografia ottocentesca fece curiosamente eccezione Giovanni Rosini, che quando pur brevemente si occupò del Tempesti nella sua monumentale Storia della pittura italiana, fece notare come in uno dei suoi più celebri affreschi – il Transito di S. Ranieri – (fig. 161.1), l’artista avesse attinto all’analoga scena trecentesca affrescata in Camposanto da Domenico (in realtà Antonio) Veneziano; che non sembrò l’accusa di un plagio, ma l’accorgersi di un’attenzione del Tempesti verso la pittura medievale che era, ad un passo dai disegni di Humbert de Superville tratti dai pittori pisani dell’età di mezzo (ma anche nel vivo della loro rivalutazione operata dal Della Valle, Da Morrona e Ranieri Tempesti), una circostanza non banale, indizio di un’aggiornata coscienza critica e di una laicità di pensiero che non cedeva di fronte alle più banali richieste della committenza20.

Nonostante queste sottili distinzioni, come dicevamo, i giudizi furono assai ambigui, e che qualcosa non avesse funzionato a dovere lo si era del resto notato subito. A redigere un piuttosto cospicuo necrologio dell’artista con benevolo tempismo era stato il “Diario Ordinario” di Roma, che dopo aver ripercorso la carriera dell’artista (ricordando con un certo sussiego gli anni romani, perché più chiara ne risultasse la nobilitazione), terminava con una indicazione che lasciava trasparire una qualche tensione, dal momento che si sentiva il bisogno di ricordare come le più belle opere del Tempesti, “attirando prepotentemente gl’occhi degli stranieri e dei raffinati discernitori dell’Arti dotte”, imponessero “silenzio al livore, ed alla critica maligna”21.

Il perplesso epicedio dell’importantissimo giornale non fu la spia di una dubbiosa valutazione del pittore, ma lo specchio esatto di umori sviluppatisi in città subito dopo il decesso. Dove, sia detto di passaggio, nessuna notizia del lutto comparve sul “Giornale de’ Letterati”, mentre vi trovarono ampio agio alcune colte lettere di Gherardo de’ Rossi, e una addirittura coltissima di Luigi Lanzi22. Ranieri Tempesti, il fratello fedele e affettuoso di Giovanni Battista (cui spettò l’incarico di sorvegliarne il declinante stato di salute, senza risparmiare parole e incoraggiamenti e qualche sospiro di apprensione), si può ben dire che quando il corpo del pittore era ancora caldo espresse                                                                                                                

20 ROSINI 1857, pp. 48, 53.

21 “Diario Ordinario”, n. 1, 2.1.1805, pp. 7-10. La corrispondenza da Pisa è datata 17 dicembre 1804, pochissimo dopo la morte del pittore.

22  Sulla  rivista  pisana  v.  CASINI  2002.  I  primi  contributi  del  de’  Rossi  sulla  rivista  pisana  risalgono  al  1804,  v.  la   Lettera  di  Gio.  Gherardo  de’  Rossi  al  Ch.  Sig.  Abbate  D.  Luigi  Lanzi  sopra  un  frammento  di  vaso  antico  di  vetro  (…)  (t.  

IX,  pp.  29-­‐33)  

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sentenze assai dure, lamentandosi per il trattamento ricevuto in patria dal fratello appena deceduto, anche se cristianamente sperava nella resipiscenza dei propri concittadini, perché “se non lo facessero, lo farò io a suo tempo in un elogio filosofico e stravagante, che serva ad emendare l’ingratitudine della nostra età; giacché si voglia, o no, singolarmente per il buon fresco, egli è stato il primo valentuomo del nostro secolo, sebbene o mal conosciuto, o lasciato in una ingrata oblivione”23.

Ranieri riuscì a mettere insieme un gruppo di cittadini disposti a celebrare il ricordo del fratello in un marmo il Camposanto, in quel luogo cioè che lo stesso Giovanni Battista aveva contribuito a trasformare in un museo, e che stava diventando il pantheon dei Pisani illustri.

A scolpire il ricordo fu chiamato Tommaso Masi, l’amico di famiglia24, che si era ben distinto nel bellissimo monumento al gran mentore di Giovanni Battista, l’Arcivescovo Angelo Franceschi, posto sopra una delle porte laterali della Cattedrale.

Non fu però una cosa facile. Progettato il monumento, Masi lo sottopose all’attenzione dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, perché a questa spettava concordarne l’autorizzazione; e fu un disegno redatto appositamente a Roma “ove me ne fu data la commissione”, luogo del resto dove lo scultore “per tre volte riport[ò] i primi premj in quell’Accademia”, prima di essere costretto per motivi di famiglia “a ritornare in Pisa mia patria”; e fu un disegno che nell’Urbe venne “approvato da persona d’autorità irrefragabile, di cui mi farò ognora un pregio di seguire le traccie”. Purtroppo questa pur importante raccomandazione non risultò decisiva, perché tra gli accademici fiorentini vi fu chi si accorse che il progetto mancava di originalità, “estratto da un deposito esistente in Roma nella chiesa di S.a Maria in via Lata fatto da Michellon”25. Si trattava del monumento tuttora esistente scolpito da Claude Michallon a Jean-Germain Drouais, che probabilmente piacque al Masi                                                                                                                

23 BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, 3.12.1804. Lo stesso Baldassare Benvenuti aveva del resto notato che Tempesti fu “Amante della sua patria, che non volle abbandonare giammai, abbenché ingrata le fosse

…”: CIAMPOLINI 1993, p. 168. Bartolomeo Polloni, che pure si dichiarerà suo allievo, non poté fare a meno di notare come Tempesti avesse fatto egli molte belle opere “che se fossero altrove gli si presterebbe una più alta venerazione, nonostante l’animosa guerra che al suo bel dipingere ingiustamente facevasi” (POLLONI 1837, p. 88 n.).

24 Per un cenno all’attività del Masi v. cap. 9. Qui basti ricordare come egli fosse uno di coloro che frequentemente erano ammessi da Ranieri Tempesti nella sua casa di Crespina, dove si alternavano cure amichevoli ad accademie arcadiche (v. BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, 16.8.1801).

25 Per la documentazione relativa alle censure dell’Accademia di Belle Arti di Firenze nei confronti del monumento, e le vicende di cui nel testo, v. A. A. B. A. F. , I, aff. 14, 29.

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non solo per quel nitore neoclassico che sarà una delle sue caratteristiche fondamentali e mai abbandonate, ma anche perché le Tre Arti che si abbracciavano scrivendo sul marmo il nome del giovanissimo allievo di David, ricordavano soluzioni grafiche già sperimentate, e dunque grate, al Tempesti, sebbene il Drouais fosse stato artista da questi assai lontano.

Ci rimise comunque le mani il Masi, e nel 1813 ne venne fuori una stele con scolpito il rilievo dell’Amicizia piangente, e tutto sommato il monumento non ne patì, che anzi l’allegoria era senz’altro più accostante e veridica, scolpita come fu per iniziativa dagli amici ed estimatori, e aveva qualcosa di canoviano (del Canova della Stele Volpato ai Santi Apostoli), che bene si addiceva all’ambiente pisano, ormai dominato da Giovanni Rosini26. L’amico Giovanni Battista Fanucci per l’occasione scrisse anche dei versi sciolti, perché all’eternità del marmo si aggiungesse anche quello del carme poetico27, e la risarcita fama del pittore sembrò avere finalmente la cuna necessaria.

Tuttavia il cenotafio appena inaugurato venne immediatamente demolito dalla verve polemica dell’abate pistoiese Sebastiano Ciampi. Il professore dello Studio pisano, dopo aver l’anno precedente polemizzato duramente con Alessandro Da Morrona sulle inesattezze della sua Pisa illustrata (tra l’altro anche per aver accennato all’esistenza del monumento Tempesti, che invece non era stato ancora posto in Camposanto)28, proseguì nella demolizione di quell’ambiente erudito locale che aveva in gran dispitto servendosi proprio del marmo funebre del Masi, non solo per alcune Pathosformeln irrisolte (“Si fa questione se il detto simulacro dell'Amicizia mostri nel suo volto il riso od il pianto”); non solo per essere stata l’inaugurazione una sorta di sagra di paese, dove il discorso funebre era stato letto da Baldassare Benvenuti, indicato per l’occasione non come artista, ma come borghesissimo negoziante. Ma soprattutto perché l’erezione del cenotafio aveva dato adito al professore pistoiese di scagliarsi contro “la negligenza” dei Pisani nella scelta degli artisti da sotterrare e da celebrare nel loro Camposanto. Benozzo Gozzoli ad esempio, ma non “i gran nomi di Niccola e di Giovanni in onor dei quali nel detto Camposanto non si legge neppure una sillaba; sebbene non ne abbisognino, perché parlano abbastanza le Loro opere; ed è forse questa

                                                                                                               

26 Sul monumento v. SPALLETTI 1996, pp. 181-82.

27 FANUCCI 1813.

28 CIAMPI 1812.

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la ragione per cui poco fu fatto a Benozzo e nulla a Niccola ed a Giovanni; non avendo essi bisogno che gli amici pensassero a scamparli dal temuto oblio”29.

Tempesti dunque artista davvero minore, par di capire, che aveva avuto bisogno del monumento che ne eternasse il nome perché non si sarebbe raggiunto lo stesso risultato con la sola scarsa eloquenza del magistero artistico. Anzi, meglio: il marmo di altri – del Masi, nel caso -, a ricordarne il nome ai posteri, perché altrettanto non avrebbero potuto le sue opere. Il monumento dunque non come illustrazione, ma come pietà e sostituzione!

Con queste premesse non vi è chi non veda come l’avventura critica del Tempesti sia un esercizio frustrante e malinconico, e come il suo garbo pittorico, nelle epoche via via succedutesi del realismo più feriale, del simbolismo più lambiccato, dell’espressionismo più aggressivo, avesse recitato con malavoglia un ruolo perennemente inattuale. Al punto che anche per i suoi moderni concittadini, innamorati della propria città riscritta nelle pietre medievali, nei tornei con i vestiti sgargianti, più simili a quella descritta da Cesare Cantù nella Margherita Pusterla che non al luogo ricordato nei codici raccolti da Ludovico Antonio Muratori, anche ai moderni pisani dicevo, il suo nome finisce tuttora con l’evocare qualcuno che poi, a guardar bene, non si sa bene chi sia. Come nei versi celeberrimi di Metastasio: che Tempesti sia bravo “ciascun lo dice”, dove e come lo sia,

“nessun lo sa”.

3- La storia critica di Giovanni Battista Tempesti è dunque in gran parte una vicenda inesistente, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando Dino Frosini, con una scelta che dice molto non solo sulle sue propensioni di studioso, ma anche sull’apertura del pensiero del suo relatore – Carlo Ludovico Ragghianti -, discusse una tesi di Perfezionamento in Storia dell’arte presso l’Università di Pisa proprio sul nostro pittore30. Fu questo un passo importante, che venne poi formalizzato pochi anni dopo in un articolo davvero pionieristico, ma che rimase come lettera morta, anche a causa, forse, di un apparato fotografico assai carente, che non rendeva giustizia all’artista. E anche perché ne veniva fuori un pittore che molto aveva lavorato in grandi cicli di affreschi realizzati in residenze private, dunque in luoghi spesso inaccessibili o di difficilissima

                                                                                                               

29 CIAMPI 1813.

30 V. rispettivamente FROSINI 1967-68; FROSINI 1974.

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consultazione. Come bene sappiamo noi stessi, riflettendo sulle fatiche e sulle preghiere per visitare nobili e meno nobili abitazioni affrescate da Giovanni Battista.

A sanzione della sfortuna critica del pittore si arrivò poi addirittura al paradosso - che nella sua incredibile definizione ci pare degno di essere annotato in qualche corso di storia della fortuna artistica -, di vedere ancora attribuiti a Giuseppe Maria Terreni gli affreschi che invece il Pisano aveva eseguito nella prestigiosa Sala della Musica di Palazzo Pitti, anche dopo che il Mulders, pubblicando i documenti31, ne aveva per l’appunto stornato l’autografia sul Nostro, con tanto di esaurienti didascalie. Ci vorranno quasi altri venti anni di studi per rimettere le cose come stavano, e riportare Tempesti all’onor del mondo32.

Giovanni Battista ricadde dunque nella morta gora di sempre, fino a quando nel 1990 un importantissimo volume curato da Roberto Paolo Ciardi33 – frutto di studiosi che orbitavano intorno al Dipartimento di Storia delle Arti e alla Soprintendenza ai Beni Artistici di Pisa – ne rilanciò la figura, esperita questa volta non nel ritratto in piedi dell’encomiastica, ma in quella dell’approccio storico a tutto tondo, rileggendo l’attività del pittore sullo sfondo della storia della cultura cittadina.

Non fu la concessione ad un sociologismo in quegli anni già in declino, ma la risposta all’intuizione, davvero prepotente, che la vicenda dei centri minori non fosse un aspetto gregario della storia generale, ma un momento avente una propria peculiare identità; che insomma la periferia, di qualunque impero si trattasse, declinava in modo autonomo un linguaggio significativo e con una lingua sua propria. Si trattò di una delle prime applicazioni operative sul campo vivo non della divulgazione, ma dell’autentica e originale ricerca scientifica, di quella strada che solo una decina di anni prima aveva avuto un punto fermo nella Storia dell’arte italiana einaudiana, in un volume d’indagine proprio sui cosiddetti centri minori.

In queste nuove ricerche settecentiste emergeva finalmente l’idea che Pisa non fosse solo Medioevo, che la sua esistenza, come pare finanche lapalissiano, si fosse sviluppata nei secoli con raggiungimenti suoi propri e perfino con qualche apice (basti pensare alla straordinaria importanza                                                                                                                

31 MULDERS 1989.

32 SPALLETTI 1995; VIALE 1995.

33 Settecento Pisano 1990. Il volume, scritto col finanziamento di un istituto di credito, puntualizzò i propri risultati in una importante mostra, tenutasi a Pisa tra 1990 e 1991 (Da Cosimo III 1990), mentre un convegno a cura di R. P.

Ciardi, A. Pinelli e C. M. Sicca fu l’occasione per rimeditarne i risultati in una prospettiva nazionale (Pittura toscana 1993).

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del suo Studio), e che dunque Giovanni Battista Tempesti trovasse un posto significativo nella formulazione di un linguaggio colto e raffinato, denso di suggestioni romane e culturalmente intrigante, per quel limite sottile che divideva l’elaborazione di un linguaggio classico come misura e fascinazione emotiva, dall’assunzione di una scelta diversamente filologica e metodologica.

Ma l’avventura critica di Tempesti presso la critica moderna ha conosciuto ulteriori modulazioni, e perfino tratti di ‘fortuna’.

Tra anni Ottanta e Novanta del Novecento il pittore è stato visto come uno dei più interessanti artisti che, sebbene in modo forse fin troppo disciplinato e fermo, innestò su di una gora legata al cortonismo toscano le novità del “protoneoclassicismo romano”, mitigandolo con “raffinatezze di chiaro stampo rococò” 34. Secondariamente, sulla scia degli studi locali, anche quella storiografia interessata ad approfondire l’influenza della cultura figurativa romana settecentesca nella penisola ha finito col leggere nel Tempesti uno dei protagonisti di questo fenomeno di rielaborazione della lingua figurativa romana tra Classicismo e Barocco, individuando nel ciclo dei quadroni del Duomo di Pisa uno dei “principali cantieri di arte romana fuori Roma” nell’orbita dell’Arcadia settecentesca, 35.

La vicenda dell’artista negli ultimi anni è dunque stata lambita dalla necessità di uno studio sistematico e approfondito, monografico, che ne ricostruisse in qualche la fisionomia, senza peraltro che questo sia poi avvenuto.

Tempesti, in virtù dell’orientamento della sua pittura, piano e privo di nodi problematici clamorosi, è stato in genere valutato come il pittore che esauriva se stesso in una pittura facile, divulgativa ed elegante, senza intoppi e contraddizioni. Uno dei fatti più evidenti del percorso artistico del pittore è del resto la sua sostanziale mancanza di cambiamenti radicali, di profonde rivoluzioni linguistiche, di risorse espressive periodicamente innovative, circostanza che ha reso difficile stabilirne un catalogo al minuto, perché i confronti e gli apparentamenti di stile, l’approfondimento delle evoluzioni formali, appaiono spesso assai complicati. Una tale linearità linguistica è risultata paradossalmente moderna, perché bene si prestava – per sottrazione – all’interpretazione tutta otto-                                                                                                                

34 SESTIERI 1988, p. 316. Segno della recente ‘fortuna’ tempestiana è anche la sua inclusione, con tanto di foto a piena pagina dell’Eugenio III – ritenuto il suo capolavoro -, nel volume sul Settecento della Storia della Pittura italiana curata per Electa da Giuliano Briganti, dove Chiarini ribadì come Tempesti “si orientò soprattutto verso la pittura romana nel robusto disegno e nel classico comporre”: CHIARINI 1990, p. 338 (v. foto a p. 350).

35 BARROERO - SUSINNO 1999, pp. 123-25, 145 n.    

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novecenteca della pagina artistica come flusso di coscienza, come testimonianza di una sensibilità e, in ultima analisi, di una vita. Il catalogo insomma come Bildungsroman, la mancanza di episodi di vita clamorosi che si rifletteva su di una pittura dal tono altrettanto costante (mai troppo basso, mai troppo alto), a conferma di un’idea della produzione artistica come intensamente tessuta dai percorsi esistenziali.

La vita di Tempesti come lineare e senza cesure significative e così la sua pagina dipinta, perché nelle escatologie storiografiche comme il faut tutto si tiene e la vita di una persona, di un artista, in fondo non è che la conferma di quel contrassegno originario, di quella predisposizione giovanile, qualunque essa fosse. Non era dunque abbastanza per favorirne lo studio monografico, ma l’ininterrotta parabola di un’esistenza e di un mestiere artistico trovò, come necessità ultima e dirimente, almeno il trucco dell’alterazione biografica, dell’accidente da romanzo.

Giovanni Battista fu figlio d’arte, essendo stato suo padre Domenico pure lui pittore. A dar retta ai suoi biografi fu un personaggio curioso, uno di quelli che avranno di certo dormito nelle locande del gran corsiero, avrà saputo un po’ di latinorum, e che se fosse stato inglese avremmo riconosciuto in qualche romanzo, minore, di Defoe. Si vestiva con la cappa agitando la spada, fino ad attribuirsi un confino a Volterra dettato da questioni d’onore, per aver affrontato a duello un pezzo grosso di Pisa, per questioni di donne, e per cos’altro sennò. Circostanza avventurosa, certo, se non fosse che, come vedremo, fu totalmente inventata. La leggenda, per quanto modesta, nacque alla morte Giovanni Battista, che per l’appunto era nato a Volterra, e non si capiva bene perché. Fino a far venire il sospetto allora che quella bugia fosse un espediente letterario non proprio asettico per costruire una esistenza alla maniera delle Vies authentiques de peintres imaginaires di William Beckford, ma soprattutto per dare un qualche alibi, una possibilità romanzesca insomma, al destino appena concluso dell’altrimenti borghese e noioso Giovanni Battista: un padre senza scrupoli, un’infanzia errante, la pittura come salvezza espressiva ed esistenziale.

Le pagine che seguono sono il tentativo di spiegare quell’artista che poi fu anche un uomo, in relazione al tempo e all’ambiente che lo vide vivere e morire. A partire per l’appunto dal padre Domenico, pittore anch’egli e suo primo maestro. Perché ogni storia deve sempre cominciare dall’inizio.

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