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Negli ultimi decenni si stanno sempre più affermando terapie innovative, capaci di coadiuvare i trattamenti classici, al fine di migliorarne l’efficacia e di ridurre i tempi necessari per la guarigione delle pseudoartrosi.

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INTRODUZIONE

Le pseudoartrosi rappresentano delle temibili complicanze delle fratture caratterizzate dalla mancata consolidazione di una frattura dopo 6 mesi dall’evento traumatico, in associazione all’assenza di segni di guarigione nei tre mesi precedenti [1]. L’incidenza delle pseudoartrosi è stimata intorno al 5-10% di tutte le fratture [2] .

Il trattamento delle pseudoartrosi costituisce un reale problema per i chirurghi ortopedici a causa della refrattarietà di queste patologie verso le terapie convenzionalmente utilizzate e a causa della mancanza di linee guida esaurienti e complete che ne stabiliscano la modalità di trattamento.

Negli ultimi decenni si stanno sempre più affermando terapie innovative, capaci di coadiuvare i trattamenti classici, al fine di migliorarne l’efficacia e di ridurre i tempi necessari per la guarigione delle pseudoartrosi.

Il sempre maggiore interesse verso la medicina rigenerativa e l’ingegneria tissutale ha portato alla nascita e allo sviluppo delle terapie cellulari.

Le terapie cellulari hanno come razionale quello di indurre e promuovere i processi biologici riparativi, che si attivano fisiologicamente in seguito ad una frattura, attraverso l’utilizzo di cellule mesenchimali multipotenti e di fattori di crescita.

In relazione proprio a questa attività biologica, le terapie cellulari suscitano un grande interesse sia nell’ambito della ricerca che dell’utilizzo clinico.

Sebbene ad oggi siano ancora agli albori della loro evoluzione, probabilmente negli anni a venire le terapie cellulari potranno rivestire un ruolo predominante nella medicina del futuro.

Lo scopo di questa tesi è la valutazione dell’efficacia dell’utilizzo di cellule staminali

mesenchimali con la metodica del Regenkit Extracell® BMC nel trattamento delle

pseudoartrosi atrofiche delle ossa lunghe trattate nel reparto dell’Unità Operativa di Ortopedia

e Traumatologia I dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana.

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Capitolo 1 TESSUTO OSSEO

1.1 Struttura del tessuto osseo

Il tessuto osseo rappresenta un tessuto connettivale altamente specializzato, metabolicamente attivo e in continuo rimodellamento. L’osso presenta molteplici funzioni tra cui funzioni meccaniche e funzioni metaboliche. Le prime sono rappresentate dalla capacità di sostegno, di movimento del corpo e quella di protezione degli organi interni, mentre le seconde sono costituite dalla regolazione delle concentrazioni di calcio, di fosfato o dalla funzione di sistema tampone nelle alterazioni dell’equilibrio acido-base; l’osso ospita inoltre a livello trabecolare il midollo osseo, che ha una funzione emopoietica.

Il tessuto osseo è costituito da una componente cellulare e da una componente extracellulare, chiamata sostanza fondamentale (fig. 1.1).

La componente cellulare è rappresentata da cellule osteoprogenitrici, osteoblasti, osteociti e osteoclasti, mentre la sostanza fondamentale è formata da una matrice organica e una matrice inorganica.

1.1.1 Le cellule progenitrici o preosteoblasti

Le cellule progenitrici o preosteoblasti sono cellule multipotenti di forma fusata od ovalare.

Presentano un citoplasma scarso e basofilo con all’interno un grande nucleolo e molti poliribosomi liberi.

Queste cellule sono presenti soprattutto a livello dello strato osteogenico di Hollier (lo strato più interno del periostio) e a livello dell’endostio (tessuto connettivo lasso che riveste le cavità interne dell’osso).

Le cellule progenitrici sono dotate di capacità proliferativa, che si esplica sia durante

l’accrescimento, che durante la vita adulta. Questi preosteoblasti hanno la capacità di produrre

vari fattori di crescita, fattori di differenziazione ed inoltre producono bone morphogenetic

proteins (BMP), una famiglia di proteine essenziali per il loro differenziamento in

osteoblasti [3] .

(3)

Figura 1.1 – Sezione trasversale di tessuto osseo Figura 1.2 – Tessuto osseo lamellare compatto

1.1.2 Gli osteoblasti

Gli osteoblasti sono cellule derivate da precursori mesenchimali multipotenti, sono cellule voluminose e di forma cuboidale. Gli osteoblasti presentano sottili e brevi prolungamenti, hanno un citoplasma basofilo ricco di ribosomi, di cisterne ergastoplasmatiche, di granuli PAS positivi e con un apparato del Golgi ben sviluppato. Il nucleo è rotondeggiante, chiaro e disposto a livello basale, ovvero dal lato opposto rispetto al polo secretivo della cellula [4] . All’interno dei granuli citoplasmatici sono presenti enzimi (come la fosfatasi alcalina e la pirofosfatasi) e substrati, che, una volta esocitati, andranno a costituire la matrice organica (ad esempio i glicosaminoglicani, proteoglicani, molecole di tropocollagene di tipo I).

Gli osteoblasti producono e secernono alcuni fattori solubili, tra cui il fattore di crescita trasformante (TGF-ß), che è un potente stimolatore degli osteoblasti stessi. Il TGF-β fa parte della stessa famiglia delle BMP e possiede sia un’azione paracrina che una autocrina; il TGF- β modula la proliferazione delle cellule osteoprogenitrici, promuove il loro differenziamento in osteoblasti ed incrementa il metabolismo e la capacità di sintesi degli osteoblasti maturi. Il TGF-ß viene secreto in forma di precursore inattivo e viene attivato da proteasi presenti nell’ambiente extracellulare.

Gli osteoblasti producono anche insulin-like growth factors (IGF), cioè delle molecole proteiche molto simili tra loro, con una spiccata azione stimolatrice nei confronti della crescita e del metabolismo osteoblastico [5] .

Le funzioni delle cellule osteoblastiche sono quelle di produrre matrice organica, contribuire alla mineralizzazione dell’osteoide e favorire il rimaneggiamento osseo.

Il processo di mineralizzazione avviene normalmente attraverso una prima formazione di osso non lamellare e successivamente la sua sostituzione con osso lamellare.

La prima fase è mediata dagli osteoblasti grazie all’esocitosi di granuli, definiti calcificanti,

provvisti di un involucro membranoso; l’iniziale deposizione di minerale si verifica a ridosso

(4)

della membrana interna di questi granuli, le cui componenti agiscono da catalizzatori per questo processo di mineralizzazione. Quando la membrana si disgrega queste molecole si disperdono nella sostanza intercellulare dove mantengono le loro proprietà catalizzanti.

I precipitati di minerale neoformati vanno a costituire i centri di nucleazione dei cristalli di apatite.

Sono meno chiari i ruoli della fosfatasi alcalina e della pirofosfatasi: la prima sembra permettere la formazione di matrice inorganica liberando ioni fosfato, così da renderli disponibili all’associazione con gli ioni calcio; la seconda sembra consentire l’allungamento dei cristalli grazie all’idrolisi dei pirofosfati organici, azione che comporta la perdita della loro affinità per i cristalli di apatite.

La formazione di osso lamellare sembra non essere portata avanti dalla liberazione di granuli calcificanti, ma pare che il processo di mineralizzazione sia avviato da componenti delle fibre collagene e da molecole della sostanza fondamentale associate alle fibre collagene (fig.1.2).

Sembrano inoltre avere un ruolo chiave i cristalli di idrossiapatite già presenti, che potrebbero fungere da catalizzatori per la deposizione di nuovi cristalli [5].

In entrambi i casi la mineralizzazione sembra regolata da proteine prodotte dagli osteoblasti, come l’osteonectina e l’osteocalcina. L’osteonectina favorisce la nucleazione dei cristalli, mentre l’osteocalcina inibisce la precipitazione dei fosfati di calcio.

La produzione della matrice ossea e la sua mineralizzazione avviene secondo un preciso orientamento: inizialmente l’osteoblasto depone osso dal lato rivolto verso la superficie ossea preesistente, successivamente depone matrice ossea da ogni lato, in modo tale che ciascuna cellula si allontani progressivamente dalle circostanti. A questo punto l’osteoblasto rallenta la sua attività metabolica e si trasforma in osteocita.

Il rimaneggiamento osseo è mediato dagli osteoblasti attraverso un’azione diretta ed una indiretta.

L’azione diretta è mediata dalla produzione di enzimi litici come le collagenasi, che agiscono rimuovendo lo strato di tessuto osteoide non mineralizzato dalla superficie dell’osso, consentendo così agli osteoclasti di aderire alla matrice mineralizzata e di dissolverla [5] . Le collagenasi sono secrete sottoforma di procollagenasi inattive e sono attivate dalla plasmina, che a sua volta è precedentemente attivata dall’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA), prodotto dagli osteoblasti stessi.

L’azione indiretta corrisponde all’attivazione degli osteoclasti (fig. 1.3).

(5)

L’attivazione osteoclastica è mediata dagli osteoblasti attraverso 3 fenomeni [2] :

• il contatto diretto tra l’osteoblasto e il precursore osteoclastico: questo avviene tramite il legame tra il recettore RANK del precursore e il contro-recettore L-RANK dell’osteoblasto. Il legame porta all’attivazione di una cascata di trasduzione del segnale mediata da fattori di trascrizione tra cui NF-kB, che, migrando nel nucleo cellulare, stimolano la trascrizione di geni implicati nella differenziazione cellulare.

• l’inibizione della produzione di osteoprotegerina: questa è una proteina che funge da falso recettore legandosi al L-RANK impedendone così il contatto con il RANK.

• la produzione di un fattore di differenziazione osteoclastica(M-CSF): questo fattore stimola la differenziazione di precursori monocito-macrofagici in cellule della linea osteoclastica.

Figura 1.3 - Schema dell’attivazione osteoclastica

1.1.3 Gli osteociti

Gli osteociti sono cellule derivanti da osteoblasti rimasti intrappolati all’interno di lacune della matrice ossea al termine del processo di ossificazione. Sono cellule ovalari provviste di lunghi prolungamenti ramificati, presentano un citoplasma scarsamente basofilo con un numero esiguo di ribosomi e un apparato di Golgi poco sviluppato.

Gli osteociti sono disposti con asse maggiore parallelo al decorso dei fascetti di fibre prodotte dall’attività fibrillogenetica degli osteoblasti [6] .

Le lacune, all’interno delle quali sono presenti gli osteociti, sono in comunicazione tra loro

attraverso dei canalicoli che formano una fitta rete. Attraverso questi canalicoli i

prolungamenti cellulari dei vari osteociti vengono a contatto tra loro, generalmente attraverso

giunzioni di tipo nexus. Attraverso il tessuto osteoide delle lacune e dei canalicoli ossei,

(6)

l’acqua e le sostanze disciolte (gas respiratori e metaboliti) riescono a raggiungere tutti gli osteociti [3] .

Le funzioni fondamentali degli osteociti sono due:

La prima è rappresentata dalla regolazione del metabolismo del calcio e del fosforo, che si esplica liberando tali ioni dalla matrice attraverso l’osteolisi osteocitica.

La seconda funzione è costituita dalla capacità degli osteociti di agire da meccanocettori, favorendo o meno il rimodellamento osseo in relazione a stimoli meccanici.

1.1.4 Gli osteoclasti

Gli osteoclasti invece sono cellule di derivazione differente rispetto alle cellule viste precedentemente, infatti originano da precursori monocito-macrofagici.

Sono cellule di dimensioni elevate (da 40 a 90 µm di diametro, sebbene possano raggiungere dimensioni di oltre i 100 µm), presentano una forma rotondeggiante e una sorta di cuticola striata formata da espansioni digitiformi, che fanno assumere alla cellula un contorno irregolare [6] .

Gli osteoclasti sono considerati dei sincizi cellulari e sono ottenuti dalla fusione di cellule di derivazione monocito-macrofagica; sono multinucleati, presentano il citoplasma debolmente acidofilo, ricco di ribosomi liberi e lisosomi.

Queste cellule sono mobili, si ritrovano nei siti di rimodellamento osseo e in particolare sono contenute nelle lacune di Howship, cioè delle piccole cavità formate dall’erosione della matrice, prodotta dalle cellule stesse.

La funzione principale degli osteoclasti è quella di riassorbire il tessuto osseo, processo fondamentale in tutte le condizioni di rimodellamento e nella regolazione del metabolismo del calcio.

L’attivazione degli osteoclasti avviene tramite l’azione degli osteoblasti che inducono il differenziamento dei precursori monocito-macrofagici. Come visto precedentemente l’attivazione è dovuta sia al contatto diretto, tramite le molecole di segnale RANK e L- RANK, sia alla produzione di fattori di crescita (come M-CSF). Una volta attivati, gli osteoclasti, attraverso l’integrina α

v

β

3,

, aderiscono all’osteopontina e alle sialoproteine (BSP) della matrice sigillando la zona dove si avrà l’azione erosiva.

Successivamente l’osteoclasto libera idrolasi acide ed esprime pompe protoniche ATPasi

dipendenti, attraverso le quali estrude idrogenioni. Questi sono precedentemente prodotti a

livello intracellulare dall’acido carbonico grazie all’azione dell’enzima anidrasi carbonica

(con formazione consensuale di ione bicarbonato).

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Tutto ciò comporta l’acidificazione dell’ambiente circostante così da permettere la dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite. La matrice organica viene demolita dall’azione dei lisosomi attivati dal ph acido. La matrice demolita viene esocitata dal polo opposto della cellula mediante un processo di transcitosi.

1.1.5 Interazioni cellulari a livello del tessuto osseo

Le cellule presenti a livello osseo interagiscono tra loro attraverso la produzione di citochine, di fattori di crescita, di fattori di differenziamento e attraverso contatti diretti.

Molte interazioni si verificano tra gli osteoblasti e gli osteoclasti, finalizzate nella maggior parte dei casi a regolare l’azione osteoclastica. Infatti sia la differenziazione, sia la migrazione che l’attivazione degli osteoclasti richiede la presenza degli osteoblasti (come riportato precedentemente). Gli osteoblasti inoltre liberano fattori e citochine chiamati osteoclast activating factors (OAF) che attivano gli osteoclasti e che sono responsabili dell’induzione del riassorbimento osseo.

Rilevanti sono anche le interazioni tra gli osteociti e le altre cellule ossee. Gli osteociti stimolano o inibiscono l’attività osteoblastica ed osteoclastica in relazione a stimoli meccanici. L’inibizione dell’attività osteoblastica avviene grazie alla produzione di sclerostina, una proteina che inibisce la via canonica del Wnt. La sclerostina favorisce la degradazione delle β-catenine, ostacolando così il differenziamento degli osteoblasti, la proliferazione e l’aumento della loro sopravvivenza.

Inoltre è importante ricordare che le cellule ossee interagiscono anche con altre cellule che non fanno parte intrinsecamente del tessuto osseo; queste cellule possono essere per esempio di natura endoteliale o linfo-monocitica.

Le cellule endoteliali ossee producono fattori solubili, come le IGF, che promuovono la crescita delle cellule osteoprogenitrici e il loro differenziamento in osteoblasti; rilasciano inoltre fattori chemiotattici per i precursori circolanti degli osteoclasti ed inducono espressione di molecole di adesione che consentono ai precursori osteoclastici di arrestarsi e di migrare nel tessuto osseo.

Anche i macrofagi e i linfociti T producono fattori capaci di influenzare le cellule ossee.

Queste cellule producono per esempio l’interleuchina 1 (IL-1) e l’interleuchina 6 (IL-6).

Queste citochine probabilmente attivano gli osteoclasti in modo indiretto, cioè tramite gli

osteoblasti.

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I linfociti T producono inoltre l’interleuchina 3 (IL-3), che promuove la differenziazione dei preosteoclasti in osteoclasti maturi, il tumor necrosis factor (TNF) e le prostaglandine (PG), che si ritengono essere induttori del riassorbimento osseo.

Nella matrice ossea mineralizzata sono inoltre intrappolati fattori di crescita o provenienti dal circolo o prodotti dalle cellule ossee. Tra questi si ritrovano il TGF-ß, gli IGF osteoblastici, il platelet-derived growth factor (PDGF), l’epidermal growth factor (EGF) e il fibroblast growth factor (FGF). Questi fattori si liberano quando gli osteoclasti riassorbono la matrice ossea ed agiscono a livello locale sulle cellule dell’osso, stimolando l’angiogenesi o promuovendo la proliferazione e il differenziamento degli osteoblasti [5].

1.1.6 La matrice organica

La matrice organica dell’osso è costituita fondamentalmente da quattro componenti.

Si ritrovano le fibre collagene di tipo I, i proteoglicani, le glicoproteine e proteine contenenti acido γ-carbossiglutammico.

Le fibre collagene di tipo I sono catene polipeptidiche intrecciate tra loro in modo da formare una superelica compatta. Sono formate da triplette ripetute di amminoacidi formate da glicina e nella maggior parte dei casi da prolina e idrossiprolina. Il collagene è costituito da unità strutturali chiamate tropocollagene. Quest’ultimo è formato da tre catene polipeptidiche con andamento sinistrorso che si associano a formare una tripla elica destrorsa.

Tra i proteoglicani si ritrovano il biglicano (ricco di leucina e presente sia nella matrice mineralizzata che nell’osteoide) e la decorina (associata a microfibrille collagene e presente solo nella matrice mineralizzata, tanto da essere ipotizzata una sua funzione nell’orientamento della deposizione dei cristalli minerali lungo le microfibrille collagene).

Tra le glicoproteine si ritrovano l’osteonectina, la fibronectina, la fosfatasi alcalina e le sialoproteine (BSP). L’osteonectina presenta una funzione pronucleante nei riguardi dei cristalli minerali, mentre la fibronectina è una molecola di adesione capace di legarsi al collagene e mediare la migrazione e l’adesione cellulare a livello della matrice.

La fosfatasi alcalina è un enzima che idrolizza gruppi fosfato legati a substrati organici, si attiva a ph alcalino (ph 8-10) e gioca un ruolo nei processi di mineralizzazione mettendo a disposizione ioni fosfato per la formazione di cristalli minerali.

Le sialoproteine sono glicoproteine contenenti residui di acido sialico che hanno la funzione

di mediare l’adesione delle cellule alla matrice cellulare; tra queste si ritrovano l’osteopontina

(BSP-I), la BSP-II e la glicoproteina acida dell’osso (BAG-75).

(9)

Tra le proteine contenenti acido γ-carbossiglutammico è presente l’osteocalcina che è prodotta dagli osteoblasti ed ha un’affinità per il calcio e una forte tendenza a legarsi all’idrossiapatite non cristallizzata.

L’osteocalcina è un indicatore di attività osteoblastica e gioca un ruolo chiave nell’inibizione della mineralizzazione in quanto ritenuta capace di legarsi allo ione calcio impedendone la combinazione con il fosfato. Questo impedisce l’accrescimento dimensionale dei cristalli minerali.

1.1.7 La matrice inorganica

La matrice inorganica dell’osso rappresenta il 65% del peso secco ed è formata principalmente da cristalli di idrossiapatite di lunghezza di 20-40nm e di spessore di 1,5-3nm.

La componente minerale è formata da cristalli di fosfato di calcio e in minore quantità di carbonato o altri sali come fluoruro di calcio e fosfato di magnesio. La componente maggioritaria è composta da fosfato di calcio, presente sottoforma di cristalli di apatite.

Questi possono essere legati a due ioni ossidrile (formando i cristalli di idrossiapatite) o a ioni carbonato (carbonatoapatite) o a ioni fluoruro (fluoroapatite).

I cristalli di idrossiapatite sono fortemente elettrondensi, si dispongono parallelamente tra loro e alle microfibrille collagene, ricoprendone la superficie e permeandone le porosità.

Il fosfato di calcio precipita inizialmente sottoforma di minutissimi aggregati amorfi;

successivamente sono rimpiazzati da sottilissimi cristalli aghiformi disposti parallelamente a molecole di decorina, detti filamenti assili (crystal ghosts) [3] .

La sostanza fondamentale si può distinguere in una forma lamellare e una forma non lamellare.

La forma non lamellare è scarsamente presente nell’uomo adulto, si divide in una varietà a fibre parallele ed una a fibre intrecciate. La prima è presente in zone circoscritte, ad esempio nelle zone di inserzione dei tendini; la seconda varietà invece costituisce tutti gli elementi scheletrici durante la vita fetale e nell’adulto persiste in particolari regioni, ad esempio in corrispondenza delle suture delle ossa del cranio o delle inserzioni dei tendini e dei legamenti [6] .

La forma lamellare costituisce la maggior parte dell’osso del nostro organismo ed è formata dall’insieme di lamelle ossee che possono assumere grandezza, sviluppo e direzione differenti.

La lamella ossea è formata da una componente amorfa e da una componente organizzata.

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La componente organizzata è formata da fibrille collagene disposte parallelamente tra loro in uno o più strati sovrapposti e concentrici.

La componente amorfa è presente tra gli spazi lasciati liberi dalla componente organizzata.

Due o più lamelle sono tra loro saldate da sostanza amorfa, chiamata sostanza cementante, formata da mucopolisaccaridi e cristalli di idrossiapatite [4] .

A livello dell’osso compatto le lamelle assumono una disposizione regolare e molto precisa.

Nel dettaglio le lamelle si organizzano in modo tale da formare lamelle circonferenziali esterne, il sistema degli osteoni, lamelle interstiziali e lamelle circonferenziali interne (fig.

1.4).

Le lamelle circonferenziali esterne sono situate subito al di sotto del periostio e sono formate da 5-7 lamelle concentriche disposte parallelamente alla superficie ossea.

Il sistema degli osteoni rappresenta la componente predominante del tessuto compatto ed è costituito dall’insieme degli osteoni separati da lamelle interstiziali.

Gli osteoni sono delle strutture di forma cilindrica di diametro di 0,18-0,225mm e di lunghezza di 1,2-9mm, sono formati da lamelle concentriche disposte intorno ad un canale centrale chiamato canale di Havers.

All’interno dei canali di Havers decorrono i vasi sanguigni; i canali sono collegati tra loro attraverso canalicoli chiamati canali perforanti o del

Volkmann, contenenti piccoli vasi sanguigni o tessuto connettivo; i canali perforanti si formano a livello dell’osso maturo per fenomeni di riassorbimento tissutale e si distinguono dai canali di Havers perché non sono contornati da lamelle concentriche.

Le lamelle interstiziali vanno a costituire “la breccia” o

“sistema interstiziale”, sono contenute negli spazi tra i vari osteoni e sono formate da lamelle disposte irregolarmente. Le lamelle interstiziali sembrano derivare da osteoni in fase di riassorbimento.

In profondità rispetto il sistema degli osteoni sono

presenti lamelle circonferenziali interne che sono formate da 2 o 3 file di lamelle

concentriche.

Le lamelle ossee a livello del tessuto osseo spongioso non vanno a costituire sistemi Haversiani ma si dispongono in maniera tale da formare lamine o trabecole ossee riunite in una rete tridimensionale e delimitanti areole intercomunicanti ripiene di midollo osseo.

Figura 1.4 – Schema che illustra la sezione

longitudinale e trasversale di un osso lungo

(11)

Queste trabecole sono orientate secondo direzioni ben precise, cioè seguendo le linee di forza a cui è sottoposto il tessuto osseo.

1.1.8 Periostio

La superficie delle ossa, ad eccezione delle cartilagini articolari, è rivestita da una membrana connettivale riccamente vascolarizzata chiamata periostio.

Il periostio è una struttura che assolve a numerose funzioni tra cui quella di provvedere alla nutrizione dell’osso e quella di accrescere e rinnovare il tessuto osseo.

Il periostio aderisce al tessuto osseo sottostante tramite le fibre di Sharpey, che sono fasci di fibre collagene di variabile grandezza, in parte calcificate e in parte no. Queste fibre originano dal periostio e penetrano nell’osso periostale attraversando le lamelle fondamentali esterne, i sistemi concentrici ed interstiziali più periferici.

L’adesione del periostio non è omogenea in tutte le ossa ma è più o meno tenace in base al numero di vasi sanguigni che lo attraversano e in relazione al numero e alla robustezza delle fibre di Sharpey.

In linea generale l’adesione periostea aumenta all’incrementare dell’età.

Da un punto di vista macroscopico il periostio ha un colorito bianchiccio o modicamente giallino e presenta uno spessore variabile in rapporto al volume dell’osso [6] .

Il periostio da un punto di vista microscopico invece è formato da due strati:

• Lo strato esterno: è di natura fibrosa ed è costituito da una robusta rete di fibre collagene; è attraversato da numerosi vasi sanguigni diretti verso lo strato profondo.

Lo strato esterno per queste sue caratteristiche assume fondamentalmente una funzione di rivestimento e protezione nei riguardi dello strato interno.

• Lo strato interno: è rappresentato dallo strato osteogenico di Hollier ed è costituito da

cellule osteocondrogeniche e da cellule progenitrici sostenute da numerose fibre

reticolari che si dispongono a formare un singolo strato cellulare [3] .

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1.2 Ossificazione

L’ossificazione è un processo molto complesso caratterizzato dalla formazione del tessuto osseo per una peculiare modificazione e differenziazione di tessuto mesenchimale. Questo processo è massimo durante la vita intrauterina ma è fortemente presente anche in tutto il periodo di sviluppo somatico.

Il tessuto osseo per formarsi ha bisogno di un substrato idoneo e consistente, rappresentato da tessuto cartilagineo o da connettivo fibroso.

Sulla base del substrato utilizzato l’ossificazione si può distinguere in diretta (o membranosa) oppure in indiretta (o condrale).

Il processo di ossificazione inizia in sedi particolari chiamati centri di ossificazioni, che sono responsabili di provvedere all’ossificazione di un determinato territorio; i centri di ossificazione si espandono ed incontrando altri centri, si fondendo con essi.

I nuclei di ossificazione possono distinguersi in base all’epoca di insorgenza in centri principali, che sono i primi a comparire e in centri complementari, che originano più tardivamente [6] .

1.2.1 Ossificazione membranosa

L’ossificazione membranosa avviene solamente in localizzazioni particolari, come ad esempio la clavicola ed alcune ossa del viscero e del neuro-cranio.

L’ossificazione membranosa è chiamata anche diretta perché è caratterizzata da un processo di ossificazione che avviene direttamente a partire da tessuto connettivo fibroso, senza la necessità di utilizzare tessuto cartilagineo come stampo.

Questo processo inizia a livello dei nuclei di ossificazione grazie ad una neoangiogenesi e al differenziamento di cellule mesenchimali in cellule osteoprogenitrici. Queste si raggruppano insieme, aumentano di volume e acquisiscono le caratteristiche degli osteoblasti.

Gli osteoblasti iniziano a produrre matrice osteoide ed iniziano a formare delle trabecole disposte irregolarmente, separate da tessuto mesenchimale, il quale potrà evolvere in tessuto emopoietico.

A questo punto gli osteoblasti iniziano a deporre sali di calcio a livello dell’osteoide portando

alla formazione di tessuto osseo non lamellare. Successivamente gli osteoblasti rimangono

intrappolati in lacune immerse nella matrice in fase di ossificazione e si trasformano in

osteociti.

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A questo punto inizia un processo di rimodellamento osseo mediato dall’attività catabolica degli osteoclasti e dalla nuova apposizione di tessuto osseo da parte degli osteoblasti [3] . Questo processo di rimodellamento è fondamentale perché porta a sostituzione del tessuto osseo non lamellare in tessuto osseo lamellare, che assolve in maniera migliore alle funzioni del tessuto stesso. Il rimodellamentro inoltre permette di modellare precisamente la forma e il raggio di curvatura delle ossa.

1.2.2 Ossificazione condrale

L’ossificazione condrale è un processo di formazione del tessuto osseo che avviene grazie ad un substrato cartilagineo, che rappresenta un vero e proprio modello sul quale l’osso si plasma.

L’ossificazione condrale si distingue in ossificazione pericondrale e in ossificazione endocondrale.

L’ossificazione pericondrale è caratterizzata dalla presenza dei nuclei di ossificazione a livello della superficie della cartilagine.

Il processo origina a livello del pericondrio, in cui si avrà un aumento della componente vascolare, una differenziazione di cellule progenitrici in osteoblasti, sino ad una trasformazione in periostio.

Questi osteoblasti iniziano a deporre un sottile strato di tessuto osseo chiamato manicotto o collare periostale.

Il manicotto si forma per ossificazione membranosa, si estende e si ispessisce con l’avanzare dell’ossificazione. Il periostio per tutto il periodo fetale e postnatale continua ad apporre sulla superficie nuovi strati di osso membranoso.

Contemporaneamente, al di sotto del pericondrio, si ha l’ossificazione di tipo endocondrale (fig. 1.5).

L’ossificazione endocondrale è caratterizzata dalla presenza di nuclei di ossificazione all’interno del tessuto cartilagineo. Tale processo inizia durante il periodo intra-uterino e ad eccezione delle ossa lunghe, insorge più precocemente rispetto all’ossificazione pericondrale [5].

L’ossificazione endocondrale consiste in una modificazione dei condrociti: infatti i condrociti diventano ipertrofici, iniziano ad accumulare glicogeno e riducono il loro indice mitotico.

Queste cellule iniziano a produrre collagene di tipo X e fattori di crescita, tra cui il vascular

endothelial growth factor (VEGF); a questo punto la cartilagine comincia ad assotigliarsi e a

presentare segni di calcificazione, iniziano inoltre a penetrare vasi sanguigni derivati dal

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manicotto osseo superficiale. I vasi sanguigni causano l’alterazione del microambiente comportando una forte azione condroclastica che è la causa della degradazione della matrice e dell’amplificazione delle cavità. Successivamente l’azione degli osteoblasti porterà a formazione di tessuto osseo non lamellare sino alla sua sostituzione con tessuto lamellare [3].

Figura 1.5 – Sezione longitudinale di una diafisi in fase di ossificazione condrale

Nel tessuto osseo non lamellare si possono ritrovare osteoni primitivi, che sono degli abbozzi degli osteoni, formati dalla deposizione di lamine mal definite orientate in maniera irregolare che circondano un canale vascolare [6].

Una quota di cellule mesenchimali penetrate assieme ai vasi sanguigni daranno origine a nuovi vasi e al midollo osseo emopoietico.

Tra la parte calcificata e il periostio rimane una fila di cellule osteoblastiche che provvedono all’accrescimento in spessore dell’osso pericondrale. Il processo di ossificazione si estende verso le estremità. In questo modo il manicotto cresce sia in spessore che in lunghezza.

1.2.3 Accrescimento in lunghezza e in larghezza di un segmento scheletrico

L’accrescimento in lunghezza e in larghezza avviene a livello di ogni segmento osseo, sebbene con caratteristiche diverse tra le ossa lunghe e quelle corte.

Per quanto riguarda le ossa lunghe, l’accrescimento in lunghezza della diafisi dipende dalla presenza della cartilagine di coniugazione, che è costituita da un disco cartilagineo presente a livello delle metafisi (fig. 1.6).

Questa cartilagine per tutto il periodo di sviluppo continua ad allungarsi per accrescimento

interstiziale dal versante epifisario ed ad essere contemporaneamente sostituita da osso dal

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versante diafisario. Nella cartilagine di coniugazione, facendo una sezione longitudinale, si possono ritrovare tutte le fasi dell’ossificazione endocondrale.

Infatti in una sezione longitudinale, partendo dal versante epifisario sino a quello diafisario, si riscontrano 5 zone che corrispondono ai diversi stadi di ossificazione:

• Zona della cartilagine a riposo.

• Zona di proliferazione.

• Zona di ipertrofia

• Zona della cartilagine calcificata

• Zona di invasione vascolare e di deposizione di osso.

Nell’adulto, al termine del periodo di sviluppo, i condrociti del disco cessano di proliferare, mentre il processo di ossificazione continua sino alla completa sostituzione della cartilagine di coniugazione con tessuto osseo, determinando così la chiusura delle epifisi.

A livello epifisario i centri di ossificazione appaiono più tardivamente rispetto a quelli diafisari; in questi centri si ritrovano gli stessi stadi dell’ossificazione endocondrale presenti a livello diafisario, ma con delle sostanziali differenze:

la prima differenza è data dal fatto che la proliferazione dei condrociti avviene in modo diverso dal punto di vista spaziale; infatti si formano gruppi isogeni radiali anzi che longitudinali (come avviene invece nelle diafisi); questo assicura un accrescimento delle epifisi in tutte le direzioni.

Un'altra differenza riguarda le trabecole ossee neoformate, che a livello epifisario non vengono completamente riassorbite (come accade invece nelle diafisi) ma vengono rimaneggiate e trasformate in osso spugnoso maturo.

L’ultima differenza riguarda la formazione della cartilagine articolare, dovuta dalla parziale ossificazione del tessuto cartilagineo epifisario [2] .

L’accrescimento in larghezza della diafisi è favorito dall’accrescimento membranoso del manicotto periostale.

Quest’ultimo origina precocemente nella porzione centrale della diafisi cartilaginea e si estende sia verso le epifisi che in spessore. Inizialmente è costituito da trabecole irregolari, che delimitano delle cavità ripiene, inizialmente di vasi sanguigni e di tessuto connettivo e successivamente di tessuto osseo compatto lamellare.

Il processo di rimodellamento periostale è caratterizzato da 2 stadi principali: la prima fase è

caratterizzata da obliterazione progressiva degli spazi vascolari per deposizione di lamine

mal definite ed orientate in maniera irregolare (sistemi Haversiani primitivi); la seconda fase

(16)

è caratterizzata dall’erosione dell’osso compatto immaturo da parte degli osteoclasti con formazione dei canali di Havers, che verranno successivamente circondati da lamelle concentriche prodotte dagli osteoblasti [3].

L’ossificazione delle ossa corte è simile a quella epifisaria, è costituita da ossificazione endocondrale che origina al centro della cartilagine ialina e si estende in tutte le direzioni.

Questo porta a formazione di trabecole ossee che vengono secondariamente rimaneggiate in tessuto spugnoso maturo, il quale viene rivestito da tessuto osseo compatto di origine periostale.

Figura 1.6 – Processo di ossificazione di un osso lungo da 8 settimane di

vita intrauterina a 10 anni dalla nascita.

(17)

1.3 Biologia della riparazione delle fratture

La riparazione delle fratture è un processo molto lungo e complesso che inizia subito dopo l’evento traumatico e cessa con la restitutio ad integrum dell’osso fratturato dopo un lungo processo di rimodellamento che può durare anche anni. Questo processo quindi non porta a formazione di cicatrici, come avviene in molti altri tessuti dell’organismo, ma porta a formazione di nuovo tessuto osseo. In questo modo non viene compromessa la funzione di resistenza ai carichi tipica di questo tessuto.

Un trauma, a livello del sito di frattura, causa una serie di eventi che innescano il processo di guarigione. Questi eventi sono la formazione di un ematoma (che invade tutta la sede di frattura), la lesione dei tessuti molli e della componente vascolare ed in fine l’interruzione della continuità del periostio, dell’endostio e della corticale ossea (con la presenza di canali di Havers vuoti a causa della morte di osteociti) [7].

La lesione dei tessuti molli e della componente vascolare riveste un ruolo molto importante nel processo di guarigione perché condiziona l’irrorazione del sito di frattura. Questo è vero perché l’irrorazione della corticale dipende, nei suoi due terzi più interni dal circolo midollare, mentre il terzo più esterno e il periostio dipendono da vasi periostali che derivano dalla circolazione muscolare; subito dopo una frattura, sono i vasi periostali che garantiscono l’irrorazione del callo osseo periostale e dei segmenti ischemici, sino a quando non si recupererà un flusso sanguigno midollare normale; è proprio per questo motivo che una lesione che comporta una massiva distruzione dei muscoli può ostacolare e rallentare la guarigione della frattura.

Una frattura causa sempre lesioni e lacerazioni vascolari che comportano la formazione dell’ematoma e la necrosi ischemica dei tessuti irrorati dai vasi danneggiati. La componente ossea che risente maggiormente di questa ischemia è la corticale, infatti frammenti corticali non più comunicanti con il periostio andranno incontro a necrosi, visto che non potranno beneficiare dell’apporto ematico dei vasi periostali.

La velocità di guarigione di una frattura è influenzata da vari fattori che riguardano

principalmente il tipo di frattura e il trattamento effettuato. Tra i fattori che favoriscono la

guarigione si ritrovano: l’adeguata vascolarizzazione dei frammenti, minime lesioni dei

tessuti molli, assenza di infezioni, fratture spiroidi e fratture articolari (per l’interessamento di

osso spongioso e la ricca vascolarizzazione). I fattori che ostacolano la guarigione sono le

fratture comminute con gravi lesioni ai tessuti molli, la perdita di sostanza ossea, la

distrazione dei capi ossei, l’inadeguata stabilizzazione della frattura, la ridotta o assente

(18)

vascolarizzazione di uno o più frammenti, le infezioni del sito di frattura e l’eccessiva diastasi dei capi ossei [7].

Il processo di guarigione di una frattura presenta delle differenze in rapporto al tipo di trattamento a cui si sottopone il paziente. Si considera una guarigione spontanea, che avviene con la sola immobilizzazione e una guarigione dopo osteosintesi, che avviene per fissazione rigida e compressione interframmentaria o per inchiodamento endomidallare.

1.3.1 Guarigione spontanea di una frattura

La guarigione spontanea di una frattura consiste di tutti quei processi biologici che avvengono nel sito di frattura in condizioni naturali, senza l’utilizzo di mezzi di sintesi. Questo tipo di guarigione viene chiamato anche indiretta perché si attua grazie alla formazione del callo osseo.

Il processo di guarigione di una frattura in base alle caratteristiche anatomopatologiche può essere schematicamente suddiviso i quattro fasi (fig. 1.7) [7] :

• Fase dell’infiammazione.

• Fase della formazione del callo molle.

• Fase della formazione del callo duro.

• Fase del rimodellamento.

a) b) c) d)

Figura 1.7 - Schema delle fasi di guarigione di una frattura: a) fase dell’infiammazione, b) fase del callo molle

c) fase del callo duro, d) fase del rimodellamento.

(19)

Se si considera invece il processo di guarigione da un punto di vista funzionale si possono ritrovare cinque fasi principali [8] :

• Stabilizzazione interframmentaria: è garantita dalla formazione del callo osseo periostale, del callo osseo endostale e dalla formazione di fibrocartilagine interframmentaria.

• Ripristino della continuità e della consolidazione ossea: è dovuta all’ossificazione intramembranosa ed endocondrale.

• Sostituzione di aree necrotiche ed ischemiche: processo che avviene grazie al rimodellamento haversiano.

• Modellamento della rima di frattura.

• Adattamento funzionale.

La fase dell’infiammazione inizia subito dopo l’evento traumatico, clinicamente rappresenta il periodo in cui è presente il dolore, ha una durata che varia da qualche giorno (normalmente 1-7 giorni) sino a qualche mese (in caso di complicazioni come infezioni o spostamento dei frammenti) e termina generalmente con l’inizio dei processi di formazione dell’osso o della cartilagine.

Nella fase dell’infiammazione l’ematoma presente nel sito di frattura comincia ad essere sostituito dal tessuto di granulazione grazie all’azione dei macrofagi, dei fibroblasti e della neoangiogenesi. I macrofagi passano dal torrente circolatorio alla sede della lesione, nella quale cominciano a fagocitare i tessuti necrotici, i resti del coagulo, a riassorbire emosiderina ed iniziano a produrre fattori di crescita e citochine. Questi fattori di crescita sono responsabili del richiamo di fibroblasti, di cellule mesenchimali indifferenziate e della neoangiogenesi ed agiranno insieme a fattori di crescita intrappolati nella matrice ossea.

Questi fattori vengono liberati dal riassorbimento dei frammenti ossei da parte di cellule osteoclastiche (tale azione in questa fase iniziale può essere visualizzata all’esame radiografico come un transitorio aumento della rima di frattura).

Questa osteolisi libera vari fattori di crescita di derivazione ossea (BDGFs) intrappolati nella matrice.

I fattori maggiormente coinvolti nella formazione di nuovo osso sono il TGFβ, l’IL-1, la vitamina D 3 , il paratormone, e il fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGF) [6].

Contemporaneamente alla formazione del tessuto di granulazione si riscontrano anche una

reazione periostale ed una endostale; queste comportano una produzione di tessuto osseo per

apposizione, utilizzando le estremità dei frammenti come basi su cui deporre nuovo osso.

(20)

La reazione periostale rispetto a quella endostale non presenta sostanziali differenze, se non sotto l’aspetto topografico.

La reazione periostale inizia dopo poche ore dalla frattura e si caratterizza per la trasformazione in osteoblasti di cellule mesenchimali pluripotenti, presenti a livello dello strato più profondo del periostio. Queste cellule iniziano ad apporre nuova matrice ossea al di sopra del vecchio osso corticale; il tessuto osseo che si forma è costituito da osso primario non lamellare, formato da fibre intrecciate e grandi lacune osteocitarie [9].

Questa precoce reazione periostale è visibile alla microscopia ottica come un sollevamento del periostio e un ispessimento dello strato osteogenetico di Hollier [7] .

Questi processi comportano l’inizio della formazione del callo osseo, che nella fase iniziale viene definito molle, perché non ancora calcificato.

Il callo molle normalmente ha una durata che può variare da tre settimane a tre mesi ed è caratterizzato dalla formazione di tessuto fibrocartilagineo a livello del focolaio di frattura.

Questo tessuto sarà secondariamente sostituito da tessuto osseo, formando così il callo duro. Il callo osseo in base alla sede si distingue in indotto (di derivazione dal tessuto di granulazione), in esterno (derivato dal periostio) e in callo endostale (prodotto dalle cellule dell’endostio). Il callo indotto viene formato in sostituzione al tessuto di granulazione. A tale livello i fattori di crescita prodotti dai macrofagi o liberati dalla matrice ossea e il microambiente che si viene a creare in questo sito, favoriranno la trasformazione delle cellule mesenchimali indifferenziate in osteoblasti, i quali cominceranno a produrre matrice ossea.

Il callo esterno forma una struttura conica intorno ai frammenti, con il diametro maggiore disposto verso il piano della frattura. Il callo esterno svolge un ruolo importante nella stabilizzazione biologica di una frattura. La stabilizzazione avviene perché il callo osseo aumenta la sezione trasversale e il braccio di leva del tessuto interframmentario, così da ridurre il movimento dei frammenti ed opporsi alle forze deformanti (la rigidità in flessione dipende dalla quarta potenza del raggio); per questo motivo, sino a certi limiti, maggiore è il movimento e l’instabilità dei frammenti, maggiore sarà il diametro del callo osseo (se la vascolarizzazione non è alterata) [8] .

Mentre nella parte più interna del callo esterno le cellule progenitrici del periostio si differenziano in osteoblasti, nella parte più periferica del callo queste cellule si differenzieranno in cellule della linea cartilaginea. Queste cellule formano la cartilagine che costituisce il callo esterno molle.

La formazione della cartilagine rispetto al tessuto osseo dipende sia dalla vascolarizzazione

sia da sollecitazioni meccaniche.

(21)

La scarsa vascolarizzazione favorisce la formazione di tessuto cartilagineo, che per le sue caratteristiche è più resistente all’ischemia, mentre le regioni ben vascolarizzate portano a formazione di tessuto osseo.

Le sollecitazioni meccaniche inducono a formare nuovo tessuto cartilagineo, così da aumentare le dimensioni del callo esterno, stabilizzare la frattura e consentire successivamente la sostituzione con tessuto osseo.

Il callo endostale si sviluppa a livello del canale midollare ed è prodotto da cellule progenitrici presenti a livello dell’endostio con meccanismi simili a quelli del callo periostale.

Il callo endostale dal punto di vista della stabilizzazione biologica della frattura assume una importanza minore rispetto al callo esterno.

La formazione del callo duro ha una durata di tre, sei mesi dall’evento traumatico ed è caratterizzata dall’ossificazione del callo molle.

La creazione del callo duro rappresenta la fase della consolidazione della frattura, in cui il callo osseo (sia esterno che endostale) forma un ponte osseo che unisce le corticali dei due capi della frattura.

L’ossificazione dei tessuti presenti a livello della rima di frattura può avvenire o per diretta apposizione di osso sulla superficie dell’estremità dei frammenti o per sostituzione della fibrocartilagine e del tessuto fibroso con tessuto osseo lamellare [8]. L’apposizione diretta di osso sulla superficie dell’estremità dei frammenti è confinata solo ad aree ben vascolarizzate e non esposte a sollecitazioni meccaniche. La sostituzione del tessuto fibrocartilagineo avviene con meccanismi simili a quelli dell’ossificazione encondrale, cioè attraverso l’ipertrofia dei condrociti, la deposizione di sali di calcio, l’invasione capillare, la differenziazione osteoblastica e la deposizione di matrice ossea [9].

L’ossificazione del tessuto fibroso segue le fasi dell’ossificazione membranosa. Questo tessuto prima di andare incontro all’ossificazione è formato da fibre di collagene di tipo I e presenta una componente minerale, che occupa in parte lo spazio interfibrillare ed in parte è disposta in maniera casuale sulle fibre collagene; inizialmente sono presenti fibrociti circondati da matrice mineralizzata, successivamente questi vengono sostituiti da osteoblasti prodotti dalla differenziazione di cellule mesenchimali pluripotenti [8].

Il rimodellamento osseo costituisce l’ultima fase della guarigione delle fratture, inizia

quando i frammenti ossei sono saldati e può durare anche molti anni. Nei bambini

normalmente ha una durata di sei, dodici mesi. Il rimodellamento osseo può essere

considerato concluso quando sarà completamente ripristinato il canale midollare e quando

(22)

verrà completamente riassorbito il callo esterno, in modo tale da riportare la conformazione ossea al suo aspetto originale.

Il rimodellamento avviene grazie all’azione catabolica degli osteoclasti e alla contemporanea nuova apposizione di tessuto osseo lamellare da parte degli osteoblasti.

La descrizione della guarigione sopracitata si riferisce prevalentemente alla riparazione di osso corticale, mentre per quanto riguarda l’osso spongioso bisogna evidenziare delle differenze. La guarigione dell’osso spongioso avviene senza la formazione di un importante callo osseo esterno, probabilmente perché nella maggior parte dei casi sono fratture più stabili; inoltre nella spongiosa la formazione di nuovo osso si verifica per ossificazione membranosa. Questo tipo di ossificazione si crea perché l’osso spongioso presenta una enorme potenzialità angiogenetica [10].

1.3.2 Guarigione dopo fissazione rigida o inchiodamento endomidollare

La guarigione di una frattura dopo fissazione rigida viene definita anche guarigione diretta perché non è costituita dalla formazione del callo osseo periostale.

La fissazione rigida consiste nell’utilizzare viti o placche a compressione che hanno lo scopo di ridurre perfettamente la frattura e di garantirne una stabilità completa. Questo sistema ostacola l’azione delle forze deformanti, eliminando così ogni movimento interframmentario.

L’assenza di questi movimenti interframmentari è la causa principale che impedisce la formazione del callo osseo esterno.

Affinché si verifichi la guarigione diretta, sono necessarie diverse condizioni, tra cui [10] :

• Una perfetta riduzione anatomica della frattura.

• Un precarico (ottenuto dalla compressione esercitata dalla placca) sufficiente ad impedire movimenti tra i frammenti.

• Un’adeguata vascolarizzazione .

Quest’ultima condizione dipende dalla gravità della frattura ma anche dalla manipolazione ossea che si è avuta durante l’applicazione della placca.

In queste fratture, sebbene la riduzione possa essere stata perfettamente eseguita, la continuità

microscopica dei frammenti ossei non sarà mai completamente ristabilita. Infatti alla

microscopia possono vedersi sia delle zone di contatto che delle zone di incongruenza,

definite lacune. Queste lacune in base alla loro dimensione vengono colmate in modo

differente: per le lacune di piccole dimensioni (da 150-200µm) si avrà direttamente un

riempimento con osso lamellare, mentre per le lacune più grandi si ritroverà prima la

(23)

deposizione di osso primario non lamellare e solo successivamente la sostituzione con osso lamellare. Il riempimento di lacune di diametro massimo di circa 1mm avverrà nel giro di quattro, sei settimane, mentre per quanto riguarda lacune di più grandi dimensioni il tempo necessario alla loro guarigione sarà molto più lungo [8].

Una volta che le lacune sono state riempite, inizia la fase del consolidamento che è un processo molto simile al normale processo di rimodellamento osseo. In tale processo si avrà il riassorbimento delle estremità dei frammenti non vascolarizzate e necrotiche, la sostituzione dell’osso primario a livello delle lacune e la formazione di osso lamellare haversiano.

Questo processo si compie grazie alla presenza di unità rimodellanti l’osso (BMU) a livello delle estremità dei frammenti, che sono costituite da coni taglienti di osteoclasti, da vasi sanguigni e da osteoblasti.

Nello specifico gli osteoclasti delle BMU riassorbono il tessuto in senso longitudinale formando dei tunnel, all’interno dei quali penetrano vasi sanguigni; a questo punto si attiveranno degli osteoblasti che produrranno lamelle ossee concentriche intorno ai tunnel dando vita alla formazione di osteoni.

Secondo Frost la cinetica del rimodellamento osseo dipende dal reclutamento delle BMU e dalla loro durata di vita [8]. Non ci sono evidenze che nel corso delle fratture aumenti la durata della vita delle BMU, per questo, ad oggi, si ritiene che l’aumentato rimodellamento durante la guarigione di una frattura sia garantito da un incremento del reclutamento di queste unità.

Il reclutamento delle BMU è stato analizzato in vari studi attraverso una colorazione sequenziale con fluorocromi. Si è visto in esperimenti sui cani, dopo osteotomia del radio, che l’attivazione delle BMU iniziava in maniera modesta nelle prime due settimane, cresceva nella terza, quarta settimana, raggiungeva il picco tra la quinta e sesta settimana e poi cominciava nuovamente a ridursi [8].

Un altro mezzo di sintesi utilizzato per alcuni tipi di fratture diafisarie è il chiodo

endomidollare. Questo garantisce una stabilità minore rispetto alle placche e alle viti,

soprattutto per quanto riguarda la torsione e il carico assiale. La guarigione delle fratture

trattate con questa metodica prevede la formazione del callo osseo esterno e del callo osseo

indotto. Il primo si crea a causa della mancanza di completa stabilità della frattura (sempre

che sia garantita una corretta vascolarizzazione), mentre il secondo deriva dal tessuto di

granulazione. Generalmente il callo endostale non è presente a causa della presenza del

chiodo endomidollare e dell’utilizzo, in certe circostanze, dell’alesaggio. L’alesaggio è una

procedura di ingrandimento del canale midollare che determina un’importante distruzione

della vascolarizzazione midollare. Per questi motivi la consolidazione della frattura inizierà

(24)

dal callo osseo esterno, visto che riceve l’apporto ematico dai vasi periostali. In ogni caso,

grazie alla grande capacità angiogenetica midollare, nel giro di poco tempo i vasi sanguigni

del circolo midollare si rigenereranno e si estenderanno verso l’esterno dell’infibulo

giungendo a livello della parte più interna della corticale.

(25)

Capitolo 2

RITARDI DI CONSOLIDAZIONE E PSEUDOARTROSI

Il ritardo della consolidazione e le pseudoartrosi rappresentano due complicanze tardive e locali delle fratture, caratterizzate dall’alterazione della guarigione di una frattura. Si parla di avvenuta consolidazione quando la formazione dei ponti ossei tra i monconi di frattura sono tali da stabilizzare il segmento osseo e permettere a quest’ultimo di sopportare le normali sollecitazioni meccaniche [9].

2.1 Ritardo della consolidazione

Il ritardo della consolidazione rappresenta una complicanza tardiva locale caratterizzata da una mancata consolidazione di una frattura nel tempo normalmente necessario alla guarigione di quel particolare segmento osseo [11] . Non esiste un limite netto oltre il quale si possa parlare sicuramente di ritardo di consolidazione perché la guarigione di una frattura presenta innumerevoli fattori che ne condizionano la durata. Infatti il tempo necessario ad ottenere una consolidazione dipende dalla sede della frattura, dal tipo di lesione, dall’età del paziente e dal tipo di trattamento utilizzato. I fattori che più frequentemente sono alla base dei ritardi di consolidazione sono:

• La presenza di mobilità a livello dei frammenti: tipicamente causata da una inadeguata stabilizzazione della frattura.

• La presenza di una diastasi tra i frammenti: causata o da perdita di sostanza ossea, o dallo spostamento dei monconi ossei, o dall’interposizione dei tessuti molli, oppure da trazioni o distrazioni dovute alla fissazione interna.

• Il ridotto apporto ematico al sito di frattura: è tipico di traumi di entità elevata ed è causato dalla perdita dei tessuti molli adiacenti e dalla formazione di frammenti liberi e comminuti, non vascolarizzati, nel sito di frattura.

• La lesione estesa del periostio: causata o dal trauma oppure da una eccessiva deperiostizzazione avvenuta durante la sintesi a cielo aperto; la lesione del periostio causa una ridotta vascolarizzazione del focolaio di frattura e una ridotta o assente formazione del callo osseo periostale.

• L’infezione del focolaio: nonostante non sia una causa primaria e diretta del ritardo

di consolidazione, ne favorisce l’insorgenza perché predispone alla mobilizzazione

(26)

del focolaio, alla formazione di sequestri necrotici, o alla diastasi dei margini per la presenza di tessuto purulento o di granulazione [11].

Il ritardo di consolidazione è anche favorito da alcune condizioni generali del paziente come l’età avanzata, la malnutrizione, il fumo di sigaretta, le ustioni oppure dall’utilizzo di anticoagulanti, di FANS come l’indometacina, o dall’esposizione a radiazioni ionizzanti.

Il ritardo di consolidazione è più frequente in alcuni segmenti ossei, come per esempio nella tibia (in caso di fratture esposte e comminute), nel femore distale (per fratture comminute), oppure nel collo del femore o nello scafoide carpale (queste ultime due hanno una maggiore incidenza di ritardi di consolidazione a causa della mancanza del periostio, che comporta una minima formazione del callo esterno) [6] .

In ogni caso il fattore più importante nell’insorgenza di questa complicanza è rappresentata dall’entità del danno iniziale, sebbene una corretta terapia della frattura possa ridurne l’incidenza. In casi di trattamento conservativo bisognerebbe ridurre al meglio la frattura e utilizzare apparecchi gessati o tutori in grado di garantire una certo carico, mantenendo comunque una discreta funzionalità muscolare. Queste due accortezze facilitano la vascolarizzazione del focolaio, la formazione del callo esterno e la giusta compressione e stabilizzazione dei frammenti [6].

In casi invece di trattamento cruento bisogna ridurre correttamente la frattura, stabilizzarla, evitare eccessive deperiostizzazioni ed eliminare le eventuali diastasi tra i frammenti. Questo ha una sua rilevanza perché, al fine che si attivino gli osteoblasti e che producano matrice ossea, sono necessari una buona vascolarizzazione, una stabilità della frattura e un grado di tensione capace di stimolarne la crescita cellulare. Quest’ultimo concetto fu ipotizzato da Perren, il quale sostenne che gli osteoblasti si attivano e proliferano solo in presenza di una giusta tensione (di cui non se ne conosce ancora il valore preciso), per cui in caso di diastasi, in cui la tensione è molto bassa, o in caso di eccessiva compressione, in cui la tensione è troppo alta, non si ha l’attivazione degli osteoblasti [11].

Il ritardo di consolidazione da un punto di vista radiografico si presenta con l’estremità dei frammenti di aspetto lanuginoso, con un lieve riassorbimento osseo, la linea di frattura ampia e ben visibile, la presenza del canale midollare aperto su entrambi i versanti e una minima presenza del callo osseo [6].

La diagnosi dovrebbe essere essenzialmente clinica visto che in certi casi all’esame radiografico alcune fratture consolidate possono ancora mostrare alcuni dei segni sopracitati.

I sintomi e i segni che si possono manifestare riguardano soprattutto il dolore nel momento

in cui si applica il carico e i movimenti preternaturali. Questi ultimi possono essere percepiti

(27)

dall’esame obiettivo grazie alla mobilizzazione passiva del segmento interessato o attraverso il riscontro in scopia.

I ritardi della consolidazione sono processi che possono essere reversibili ma, se non trattate adeguatamente, possono evolvere verso la mancata consolidazione e la pseudoartrosi.

Il trattamento del ritardo di consolidazione è rivolto all’impedire la progressione verso la mancata consolidazione. Nelle forme precoci e senza deformità può essere effettuato con stimolazione elettromagnetica oppure semplicemente con l’aumento della stabilizzazione, la limitazione del carico e l’applicazione di un apparecchio gessato.

Nel caso in cui sia stata utilizzata una fissazione con placca si può togliere una vite e reinserirla con una direzione differente in modo da migliorare la stabilità della frattura. Nel caso in cui sia stato utilizzato un chiodo endomidollare si può bloccarlo attraverso l’utilizzo di viti aggiuntive (in modo da ridurre le forze di rotazione, di taglio e di flessione) oppure rimuovere il chiodo, provvedere ad una alesatura del canale midollare e reinserire un chiodo endomidollare di diametro maggiore, con eventualmente degli innesti ossei [12].

2.2 La pseudoartrosi

La pseudoartrosi è la mancata consolidazione di una frattura in un tempo superiore ai 6 mesi dall’evento traumatico in associazione alla mancanza di segnali di guarigione negli ultimi tre mesi [1] . Tra tutte le fratture che si verificano ogni anno, le pseudoartrosi presentano un’incidenza di circa il 5-10% [2] .

La pseudoartrosi è causata dall’alterazione dei processi di guarigione, in particolar modo di quelli che si verificano in una delle fasi della formazione del callo osseo.

La pseudoartrosi da un punto di vista anatomo-patologico si caratterizza dalla presenza di tessuto fibrocartilagineo o fibroso tra i frammenti di frattura [8].

La pseudoartrosi è un processo irreversibile a differenza invece dei ritardi della consolidazione in cui un intervento tempestivo ed adeguato può permettere una ripresa della normale guarigione.

Classificazione

Classicamente le pseudoartrosi si suddividono in ipertrofiche, atrofiche od oligotrofiche.

Queste tre tipologie differiscono sia da un punto di vista patogenetico, sia anatomo- patologico, che radiografico.

Le pseudoartrosi ipertrofiche vengono definite anche ipervascolari, sono caratterizzate dalla

presenza di estremità ampie e voluminose (a clava), dalla presenza del canale midollare

(28)

obliterato alle estremità (segno di un deficit del callo osseo endostale) e dal riscontro di ingente sclerosi. All’esame radiologico si ritrovano i monconi ossei addensati e deformati a

“zampa di elefante”, con numerosi osteofiti marginali reattivi; inoltre la struttura del canale midollare per 2-3cm può non essere più visibile (fig. 2.1).

Figura – 2.1 Pseudoartrosi Figura 2.2 - Pseudoartrosi atrofica della diafisi ipertrofica di tibia. femorale.

La pseudoartrosi atrofica può essere a sua volta divisa in pseudoartrosi senza perdita di sostanza e pseudoartrosi con perdita di sostanza.

All’interno delle pseudoartrosi atrofiche senza perdita di sostanza si possono ritrovare [13] :

• Le pseudoartrosi distrofiche: caratterizzate dalla presenza di un frammento intermedio con ridotto apporto ematico.

• Le pseudoartrosi necrotiche: caratterizzate dalla presenza di un frammento necrotico.

• Le pseudoartrosi atrofiche: caratterizzate dalla presenza dei capi ossei atrofici e osteoporotici e dalla mancanza di frammenti intermedi.

Quest’ultima è caratterizzata da una estesa atrofia ossea a partenza dal focolaio della frattura,

dalla mancanza della formazione del callo osseo e dei processi reattivi e dalla presenza di

tessuto fibroso lasso nello spazio interframmentario. Dal punto di vista radiologico si

riconosce in maniera evidente la rima della frattura e si individuano i monconi ossei ridotti,

atrofici e smussati (fig. 2.2).

(29)

Le pseudoartrosi con perdita di sostanza sono delle mancate consolidazioni in cui si presenta una perdita di sostanza estesa, tale, in certe circostanze, da ridurre l’osso coinvolto a due esili monconi metafisari [13].

L’esame radiologico mostra i monconi di frattura atrofici, appuntiti ed assottigliati con un aspetto tipico a “fiamma di candela”.

Le pseudoartrosi oligotrofiche presentano delle caratteristiche intermedie tra le forme ipertrofiche e le forme atrofiche. Infatti sono delle pseudoartrosi che possiedono i frammenti ancora vitali e non atrofici, ma non evidenziano la presenza del callo osseo.

Le pseudoartrosi possono anche classificarsi in lasse o serrate in relazione alla presenza o meno di movimenti preternaturali dei frammenti ossei. Le caratteristiche che permettono la formazione dell’una o dell’altra tipologia sono rappresentate dall’istologia e dalla quantità del tessuto interframmentario. Le pseudoartrosi lasse, dal punto di vista istologico, si avranno più facilmente se sarà presente tessuto fibroso; in presenza di tessuto fibrocatilagineo invece prevarranno le pseudoartrosi serrate. Se si considera invece la quantità di tessuto interframmentario, si nota che maggiore è lo spessore, maggiore è la probabilità di avere una pseudoartrosi serrata.

Alla luce di queste considerazioni si evince che le pseudoartrosi ipertrofiche saranno sempre serrate mentre quelle atrofiche potranno essere sia lasse che serrate in relazione al grado di atrofia, di perdita di sostanza e delle caratteristiche del tessuto interframmentario.

Eziopatogenesi

Sono presenti evidenze che le pseudoartrosi derivino dall’alterazione dei normali processi di formazione del callo osseo.

Secondo Judet e Judet la normale evoluzione del callo osseo può essere suddivisa in tre fasi principali [13] :

• la fase di latenza: caratterizzata dalla presenza dell’ematoma e dalla mancanza di risposte reattive.

• la fase ipervascolare: caratterizzata dalla neoangiogenesi che comporta l’organizzazione dell’ematoma e la formazione di un nuovo tessuto connettivo ricco di cellule.

• La fase di metaplasia ossea: caratterizzata dall’involuzione del processo di

vascolarizzazione .

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