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“CORRETTEZZA PROFESSIONALE E DIRITTO DELLA CONCORRENZA

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CAPITOLO I

“CORRETTEZZA PROFESSIONALE E DIRITTO DELLA CONCORRENZA

1- 1” ARTICOLO 2598 N°3 DEL CODICE CIVILE: INTRODUZIONE 2- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: RINVIO AGLI USI

COMMERCIALI

3- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE ORIENTAMENTO DEONTOLOGICO:

4- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TESI INTERMEDIE

5-

PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TESI ECONOMICA

6-

PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TEORIA DELL’AUTOINTEGRAZIONE

1-

ARTICOLO 2598 N°3 DEL CODICE CIVILE:

INTRODUZIONE

L’articolo 2598 del codice civile elenca una serie di atti di

concorrenza sleale con una tecnica legislativa diversificata allorché, elencati ai numeri 1 e 2 rispettivamente le fattispecie tipizzate di tipo confusorio e denigratorio, prosegue col numero 3 qualificando come atto di concorrenza sleale quelle condotte

contrarie ai principi di correttezza professionale e idonee a danneggiare l’altrui azienda.

La tecnica legislativa, pertanto, cui si fa ricorso al numero 3 del

2598 del codice civile, è quella della cosiddetta norma in

(2)

bianco(

1

): cioè di una norma priva di una autonoma fattispecie e che è aperta a recepire dall’esterno dell’ordinamento giuridico

gli strumenti per effettuare una valutazione della contrarietà a legge dei comportamenti concorrenziali (

2

).

Oggetto di studio in dottrina sono state le varie questioni che la

norma in esame ha sollevato, in particolare quale fosse la ragione della diversità di formulazione rispetto all’articolo 10

bis della convenzione unionista (

3

), quale il rapporto esistente tra il n°3 e le fattispecie tipiche dei numeri precedenti (

4

) ed infine quale il contenuto da assegnare ai principi di correttezza

1

Trattasi della nozione di clausola generale in senso tecnico: cfr Mengoni spunti per una teoria delle clausole generali, in riv. Crit. Dir. Priv. 1986

2

Da tener presente e vedi infra, che recentemente si è affermato un orientamento cosiddetto “autointegrativo” per il quale, invece è all’interno dell’ordinamento che vanno cercati e trovati gli strumenti per dare contenuto alla clausola generale dell’art. 2598 n°3 c.c.

3

Art. 10 bis introdotto a seguito della convenzione dell’Aja stipulata il 16/11/1925 ad integrazione della convenzione unionista per la protezione della proprietà industriale stipulata a Parigi il 20/03/1883. L’art. 10 bis, fino all’entrata in vigore del codice civile del 1942, costituì la sola normativa vigente nell’ordinamento italiano in tema di concorrenza sleale. Per una analisi più approfondita cfr Vanzetti, Di Cataldo manuale di diritto industriale ult. Ed

.

4

In particolare, se gli elementi caratterizzanti il numero 3 debbano considerarsi implicitamente richiesti anche dai numeri 1 e 2, oppure se le fattispecie tipiche introducono nel sistema ipotesi di responsabilità oggettiva diversamente dal numero 3 che invece, facendo derivare l’illiceità dell’atto dalla contrarietà di questo ai principi di correttezza professionale (oltreché alla idoneità del danno), implicherebbe anche la presenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa). Cfr.

Guglielmetti “l’elemento soggettivo nell’atto di concorrenza sleale”

(3)

professionale con riferimento ai quali, nei paragrafi che seguono, verrà dato conto dei principali orientamenti formatisi in dottrina nel corso del tempo.

2-PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: RINVIO AGLI USI

COMMERCIALI

Un primo orientamento dottrinale vede nei principi di correttezza professionale dell’articolo 2598 n°3 c.c. un richiamo agli usi in senso tecnico (

5

), quindi a comportamenti tenuti

5

Cfr nota 13 pag. 38 di ALVISI “L’illecito concorrenziale” nella quale si fa rimando a FRANCESCHELLI, “Sulla concorrenza sleale”. Nella suddetta nota si effettua una ricostruzione storica della concorrenza sleale e, in particolare, delle ragioni per le quali prese campo l’idea della identificazione dei principi di correttezza professionale con gli usi onesti cui fa riferimento la convenzione unionista sulla protezione della proprietà intellettuale innovata con il testo dell’Aja del 1925. In particolare “……partendo dalla considerazione storica dell’istituto della concorrenza sleale quando la sua repressione era, sotto la vigenza del codice civile del 1865 affidata alla norma generale sull’illecito aquiliano (l’art. 1151 c.c.)……Questa, in quanto norma secondaria, richiedeva ai fini della sua applicazione l’accertamento della violazione di una norma primaria che stabilisse la tutela di un diritto soggettivo. Poiché una norma specifica per la repressione della concorrenza sleale non esisteva, si supplì ponendo al centro dell’azione di concorrenza sleale, prima la tutela dell’avviamento e, poi, dopo il suo recepimento in Italia, l’art. 10-bis della convenzione di Unione di Parigi nel testo dell’Aja del 1925, che concerneva specificamente la disciplina della concorrenza sleale, definita come l’atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale e commerciale. Cosicché quando, con il codice del 1942, fu introdotto l’art. 2598 e con esso la clausola generale che definisce sleale l’atto di concorrenza idoneo a danneggiare l’altrui azienda e non conforme ai principi di correttezza professionale, doveva ritenersi in esso implicito, sotto la novità della formula, il riferimento agli usi di cui all’art. 10-bis della Convenzione d’Unione”.

L’A., inoltre, supporta tale tesi con il convincimento della perdurante vigenza nel

nostro ordinamento di quella norma, in posizione preminente sul diritto

interno,dalla relazione al testo unificato del codice al n° 1048 dove si afferma che

(4)

abitualmente in determinati ambienti con il convincimento della loro vincolatività giuridica.

Il contrasto con una prassi generalmente osservata in ambito concorrenziale porterebbe a qualificare come scorretto un certo tipo di comportamento; questa prassi consuetudinaria non

potrebbe tuttavia legalmente attuarsi contro il buon costume, l’ordine pubblico o in contrasto con un diritto soggettivo (

6

).

Ravvisare nei principi di correttezza professionale una regola

consuetudinaria, permetterebbe di rendere determinabile il loro contenuto, evitando così che questo sia rimesso all’opera interpretativa del giudice, contravvenendo ai principi

“ il principio generale che condanna gli atti di concorrenza in quanto non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda risulta dall’art. 2598 n. 3 c.c. con un implicito riferimento agli usi delle diverse attività professionali”….inoltre l’Autrice Alvisi fa riferimento a App. Genova 13- 02-1956 in riv. dir. Ind. 1957 “una precisa determinazione del contenuto normativo dell’art. 2598 n.3 c.c. risulta dal fatto che esso non eleva a fonte di obbligazione giuridica la morale in genere, ma la correttezza professionale che, come tutte le deontologie particolari, non è un’idea pura ma un concetto concreto risultante dal comportamento medio degli esercenti la professione commerciale nei loro reciproci rapporti” e a Guglielmetti che, in Violazione di norme di diritto pubblico e concorrenza sleale in riv. Dir. Comm. 1965, afferma doversi fare riferimento a “un giudizio storico del ceto imprenditoriale basato sul costume”

6

Cfr Alvisi “Concorrenza sleale, violazione di norme pubblicistiche e

responsabilità” 1997

(5)

fondamentali delle norme giuridiche, della certezza e della anteriorità della norma al fatto.

Facendo derivare i principi di correttezza professionale dagli usi in senso tecnico, e questa è l’obiezione principale (

7

), si rischierebbe tuttavia di vanificare l’elasticità della norma voluta

dal legislatore, la quale permette l’inclusione nello schema dell’art. 2598 n. 3 c.c. di tutte quelle pratiche concorrenziali nuove altrimenti tagliate fuori da questo schema(

8

).

In giurisprudenza hanno mostrato di aderire alla tesi della correttezza professionale come “uso in senso tecnico”App.

Genova 13/02/1956 RDI,1957,II e Trib.Genova 21/04/1958 RDI,1958III (

9

).

7

Si veda su tutti Pasteris “ la correttezza nella disciplina della concorrenza sleale” 1962.

8

Mansani Riv.dir.ind. 1985. L’autore evidenzia le criticità della teoria che fa rinvio agli usi in senso tecnico per la determinazione del contenuto delle regole di correttezza professionale, giacché in base ad essa “ verrebbe delegata alla classe imprenditoriale l’attività di autoregolamentazione secondo codici interni (insuscettibile tra l’altro di essere applicata alle nuove forme concorrenziali che per ciò soltanto apparirebbero sleali)”

9

Si fa presente e si rimanda ai paragrafi che seguono per una spiegazione

esaustiva, che la tesi fenomenologica più estrema, e cioè quella che per dare

contenuto alla correttezza professionale rimanda agli usi in senso tecnico, ha

avuto uno scarso peso in giurisprudenza e soltanto fino agli anni sessanta, posto

che successivamente, affermatosi in dottrina l’orientamento cosiddetto intermedio

(6)

3 -PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: ORIENTAMENTO

DEONTOLOGICO

In opposizione alle tesi cosiddette fenomenologiche (che

rinviano agli usi in senso tecnico o al buon costume commerciale per l’individuazione dei principi di correttezza

professionale, ed esposte nei paragrafi che precedono) si pone l’orientamento deontologico che, nel giudizio relativo alla

correttezza professionale, promuove la valutazione dei canoni della morale.

Nell’orientamento deontologico possono individuarsi due tesi

che fanno rinvio, rispettivamente, alla morale sociale o professionale dovendo essere la morale individuata dal giudice che si fa interprete della coscienza collettiva dei consociati(

10

)

(intermedio cioè tra l’orientamento fenomenologico e quello deontologico), la giurisprudenza di merito e di legittimità ha abbracciato pressoché costantemente quest’ultimo. Vedi per la ricostruzione dottrinale e della giurisprudenza Sanzo

“La Concorrenza Sleale” Cedam 1998

10

Cfr. Auletta-Mangini “Della Concorrenza”. Il criterio del 2598 n.3 c.c. coincide

con la categoria degli usi onesti propri della convenzione unionista (art. 10-bis)

quando si parla dell’onestà dell’uso “il convincimento sull’onestà o meno deve

essere tratto da una collettività diversa da quella che opera, che cioè pratica l’uso,

(7)

oppure della morale professionale (

11

) e quindi, in questo secondo caso, rifacendosi a regole che sono proprie della categoria degi imprenditori concorrenti.

Nel caso del rinvio ai canoni dell’etica sociale, si argomenta

facendo un collegamento tra l’art. 2598 n. 3 c.c. e l’art. 10-bis Convenzione Unionista, e affermando che il legislatore italiano

ha voluto regolare la materia concorrenziale adeguandosi ai dettami della convenzione Unionista (innovata col testo dell’Aja

del 1925), la quale, parlando di usi onesti, rimanderebbe ai puri principi dell’etica individuati dal giudice che si fa interprete della coscienza collettiva (

12

).

Tuttavia per alcuni (

13

), il riferimento alla coscienza comune va temperato in presenza di chiare scelte legislative desumibili da altre norme (ad esempio la legge Antitrust che qualifica come

cioè dalla collettività dei consociati, di cui il giudice si fa interprete”, facendo così coincidere i principi con la coscienza collettiva.

11

Pasteris “La correttezza nella disciplina della concorrenza sleale” Milano 1962, “ il legislatore ha voluto assicurare l’effettiva realtà ed onestà nei rapporti tra imprenditori”. Si parla così di onestà in senso relativo, riferendosi così all’onestà cha appare praticabile nel mondo degli affari.

12

Cfr. Auletta Mangini “Della concorrenza…”op. cit.

13

Vedi Vanzetti Di Cataldo “Manuale di Diritto Industriale” ult. Ed.

(8)

illeciti gli accordi sui prezzi, laddove un accordo di questo tipo, poi violato, potrebbe considerarsi eticamente riprovevole).

Facendo riferimento invece a regole di deontologia professionale, quindi a principi etici di un determinato ambiente lavorativo, si rinuncia ad attribuire alla correttezza professionale un contenuto etico assoluto, facendo invece richiamo alle

valutazioni morali di un determinato ambiente ed espressive dell’etica commerciale (

14

).

La clausola generale dell’art. 2598 c.c. si dovrebbe così interpretare come “un principio etico universalmente seguito dal

ceto dei commercianti sì da diventare costume (

15

), mentre la dimostrazione dell’esistenza di un principio etico professionale

può essere data solo attraverso la prova di una prassi generale e costante.

14

Vedi Grieco “Corso di diritto commerciale”

15

Viene considerata anche come tesi intermedia tra l’orientamento fenomenologico e quello deontologico, ed è una concezione propria della giurisprudenza prevalente. Identificare i principi di correttezza professionale con

“i principi etici, universalmente seguiti dalle categorie dei commercianti si da divenire costume” porterebbe a considerare, come tali, i principi desunti dalle valutazioni operate nell’ambito professionale in ordine a specifiche situazioni ed applicabili quindi anche per una valutazione dei nuovi comportamenti Cass. N°

1616 anno 1963, Cass. 752 anno 1962

(9)

Secondo questo orientamento, richiamando la prassi del ceto dei commercianti, si rinvia in realtà ad una sostanziale esclusione di ogni implicazione ideologica, facendo richiamo alla peculiare mentalità del mondo degli affari e alla conformità di certi comportamenti a quelli approvati in un determinato ambiente lavorativo, dove il costume ha avuto origine.

Entrambi gli orientamenti (entro il generale orientamento

deontologico) hanno il merito di attribuire alla normativa l’elasticità necessaria per un adeguamento tempestivo alla

rapida evoluzione della realtà, ma, al contempo, si rimettono in modo accentuato all’opera interpretativa del giudice

(vanificando così le esigenze di oggettivazione avvertite in dottrina).

E’ stato infine dato risalto (

16

) ai codici autodisciplinari, considerati come espressione dell’etica professionale e

16

Trib. Torino 1958 in Riv.Dir. Ind.

(10)

commerciale e, quindi, come parametri di valutazione della correttezza professionale(

17

).

In giurisprudenza hanno aderito alla tesi della correttezza

professionale come principio etico assoluto (cioè riconosciuto come tale dall’intera collettività e non solo dal ceto

imprenditoriale) C 1334/57, App. Milano 1963. Si sono invece riferiti all’etica imprenditoriale, per dare contenuto a principi di correttezza professionale, C 116/58, App. Bologna 1956 (

18

).

4

- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TESI INTERMEDIE

Vengono definite intermedie le concezioni proprie della giurisprudenza prevalente la quale, rinunciando ad attribuire alla correttezza professionale un contenuto etico assoluto e

17

Cfr. Ghidini “Profili evolutivi del diritto industriale”, per il quale i codici etici non possono essere considerati come indici autentici delle valutazioni deontologiche degli operatori di un certo settore, ma necessitano “ di un vaglio alla luce dei principi costituzionali rilevanti in materia di concorrenza potendo anzi essere censurabili secondo le disposizioni in materia Antitrust”

18

Come riportato in Sanzo, op. cit.

(11)

rifacendosi alle valutazioni morali proprie di un determinato ambiente, fa riferimento alla cosiddetta etica commerciale.

I principi di correttezza professionale si identificherebbero così in “principi etici universalmente seguiti dalle categorie dei commercianti sì da divenire costume”(

19

): ciò perché “la dimostrazione dell’esistenza di un principio etico professionale

può essere data solo attraverso la prova di una prassi generale e costante”.

In dottrina (

20

) è stato posto l’accento sul costume del mondo imprenditoriale “per formulare i principi di valutazione idonei

ad essere applicati ad ogni futuro comportamento”. Quindi

partendo dalle valutazioni di certi comportamenti operanti in un dato settore economico, si deve risalire “ai principi comuni di

valutazione che, in quanto principi, si potranno e dovranno

applicare a fatti e comportamenti nuovi sui quali in concreto non si abbia avuto un giudizio di approvazione o disapprovazione”

19

Cfr C 1610/63, C 752/62, C 3270/57

20

Cfr Marchetti Riv.dir.ind 66

(12)

La tesi intermedia si caratterizza per richiamarsi alla consuetudine accettata dal ceto dei commercianti (

21

), escludendo così ogni implicazione deontologica. Questa tesi condurrebbe direttamente dalla formulazione di un criterio deontologico ad uno d’effettività (

22

). Pertanto la valutazione è lasciata alla coscienza propria del mondo degli affari, ed è data

dalla conformità al complesso di norme etiche che valgono nello specifico campo dell’attività commerciale e che rappresentano

quel modo di sentire comune che, secondo la valutazione propria dell’ambiente dei commercianti e degli industriali,

induce ad approvare o a disapprovare il comportamento tenuto dagli individui nei loro rapporti.

La più recente dottrina(

23

) critica la teoria intermedia per essersi risolta in un mero espediente semantico privo “di contenuto

effettivo, per la già rilevata omissione di ogni ricerca volta ad identificare l’effettiva esistenza dei costumi imprenditoriali”. La

21

Santagata “Concorrenza sleale e interessi protetti”

22

Cfr Scirè “Concorrenza sleale nella giurisprudenza”. L’autore si dice non persuaso dalla ricostruzione operata dal Santagata

23

Scirè la concorrenza sleale nella giurisprudenza

(13)

formula “principio etico universalmente seguito sì da divenire costume”, lungi dal rappresentare la sintesi di contrapposte esigenze, “rivela l’impossibilità di un coordinamento tra prassi ed etica”, risolvendosi pertanto nell’accentuazione dell’uno o dell’altro aspetto del dilemma.

La tesi intermedia manifesterebbe così una netta propensione verso l’affermazione di un giudizio schiettamente deontologico,

a discapito di quello fenomenologico “rimanendo così il rinvio ai dati della prassi confinato al ruolo di semplice e non

impegnativo termine di riferimento”(

24

). E questa conclusione non deve sorprendere perché “costituisce lo sbocco naturale di

un presupposto su cui si adagia, più o meno consapevolmente, l’opinione in esame, la convinzione cioè di una coincidenza tra essere e dover essere”.

24

Scirè op. cit

.

(14)

Si afferma(

25

) così che “l’astrattezza e il temuto arbitrio della tesi etica ritornano inesorabilmente anche nella tesi intermedia”.

Facendo riferimento infine al buon costume commerciale, in dottrina ci si è posto il problema dell’individuazione in concreto

del gruppo qualificato ad esprimere valutazioni che acquistano rilievo giuridico per il rinvio operato dalla norma. In dottrina (

26

) si ritiene necessario far riferimento a parametri che tengano conto del diverso contesto in cui le imprese si trovano ad

operare, oltre che delle differenti dimensioni e ubicazioni delle stesse, considerando opportuna “ una verifica sperimentale dell’esistenza dei parametri di giudizio sulla correttezza della concorrenza elaborati dalla dottrina “(

27

).

25

Scirè op. cit.

26

Cfr. UBERTAZZI “i principi di correttezza professionale: un tentativo di rilevazione empirica, in Riv. Dir. Ind. 1975, il quale tenta una verifica sperimentale dei parametri di giudizio sulla correttezza professionale elaborati dalla dottrina; JAEGER Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind. 1970, il quale afferma che il parametro della correttezza non potrebbe ricercarsi nella valutazione della maggioranza degli imprenditori della categoria, perché l’impiego del dato numerico è subordinato all’uguaglianza delle condizioni economiche che, in un mercato a concorrenza imperfetta, per definizione, manca.

27

UBERTAZZI “i principi della correttezza professionale” nella nota di ALVISI

“ Concorrenza sleale..” op. cit., dove viene riportata l’opera di ricostruzione dell’

A. dei metodi di accertamento dei principi di correttezza professionale, facendo

rimando alle raccolte di usi tenuti presso le camere di commercio e dalla

(15)

Merita di essere richiamato l’orientamento giurisprudenziale della suprema corte, che fa proprie le teorie intermedie, orientamento maggioritario da circa un quarantennio. Come già

precisato, questa teoria elabora i principi in esame attraverso un procedimento induttivo con l’accertamento dei comportamenti

che si riscontrano nella prassi imprenditoriale e, successivamente, deducendo dagli elementi della prassi i

principi generali che vengono qualificati come usi onesti dell’imprenditore e che possono servire da guida per eventuali comportamenti nuovi, non ancora oggetto di attenzione. Si riporta, per opportuna conoscenza, la sentenza C 3270/57 (

28

).

commissione speciale presso il Ministero dell’Industria e del Commercio, ai codici etici, ai trattati degli studiosi di economia aziendale, alle indagini demoscopiche per la rilevazione quantitativa di opinioni e prassi, e preferendo quest’ultimo metodo ( e rilevando infine che in Italia nessuna inchiesta è stata mai condotta per rilevare le valutazioni degli imprenditori in merito alla correttezza delle varie attività concorrenziali).

28

RDI 1957, II, 219

“ E’ da ricordare che l’articolo2598 n°3 c.c.

riproduce sostanzialmente l’art.10 –bis della convenzione d’unione di

Parigi rivista col testo dell’Aja…… e poiché tale ultima norma fa

riferimento agli usi onesti in materia industriale e commerciale, è proprio

ad essa che bisogna far capo per l’interpretazione dei principi di

correttezza professionale di cui al 2598 n° 3 c.c.. Si potrà discutere se la

dizione dell’art. 10 bis della convenzione di Parigi sia più ampia di quella

del codice civile ed in un certo senso sia comprensiva del concetto

espresso per quest’ultima, ma non potrà contestarsi che, essendo le due

norme dirette al medesimo scopo, debbano essere allo stesso modo

interpretate. E la interpretazione più corretta sembra quella che non fa

(16)

Il concetto “Principio etico universalmente seguito dal ceto degli imprenditori sì da divenire costume” entra così

stabilmente nelle motivazioni delle sentenze del giudice di legittimità e di quelli di merito.

Altre sentenze che hanno fatto applicazione di detto principio sono : C 752/1962(

29

).

riferimento ad una consuetudine accettata dal ceto dei commercianti, ma

piuttosto ad un principio etico universalmente seguito da tale categoria si da diventare costume”.

29

RDI 1962 II,12 “Come è noto l’art. 2598 n° 3 c.c. riproduce sostanzialmente

l’art. 10 bis della convenzione internazionale di Parigi, riveduta all’Aja…….,

norma che fa riferimento agli usi onesti in materia industriale e commerciale e ad

essa in ultima analisi occorre far capo per l’interpretazione dei principi della

correttezza professionale. All’uopo l’interpretazione più corretta……è quella che

fa riferimento non già ad una consuetudine accettata dal ceto dei commercianti,

ma piuttosto ad un principio etico universalmente seguito da tale categoria, si da

diventare costume, che il giudice deve adeguare a fatti ognora mutevoli della vita

economica, si da trarre in relazione al caso concreto sottoposto al suo esame, le

conseguenze di valutazione che rispondono alla coscienza collettiva di quel

particolare momento. Così inteso il concetto di correttezza professionale e

facendo riferimento alla coscienza sociale dell’epoca in cui viviamo, appare

esatto quanto ha ritenuto la corte di merito nella denunciata sentenza, e cioè che

esso non vada interpretato in senso restrittivo, e cioè come applicabile soltanto in

caso di inosservanza di una norma giuridica, ma in senso ampio, sicché possano

sussistere atti che, benché conformi alle disposizioni di legge, siano tuttavia tali

da potersi considerare non onesti e non corretti perché improntati a frode o ad

astuzia. Non solo ma poiché…..normalmente ricorre una attività continuata di

concorrenza e poiché nel giudizio di concorrenza sleale non va isolatamente

preso ciascun atto, che può essere anche lecito, ma va compiuto un

apprezzamento complessivo dei fatti, ai fini della loro valutazione rispetto ai

principi della correttezza professionale, la combinazione di essi può essere

rivelatrice della manovra ordinata ai danni del concorrente, in quanto quegli atti

nella loro coordinazione mettano capo all’attuazione di un mezzo sleale. In tema

di concorrenza si usa parlare di criterio teleologico funzionale, perché l’illiceità

non va ricercata episodicamente, ma desunta dalla qualificazione tendenziale

(17)

Il concetto di correttezza professionale così inteso risulta ribadito da C 1125/64 (

30

) e ritorna pressoché costantemente nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Nel settore maggioritario delle teorie intermedie, può ascriversi la sentenza di merito App. Roma 05/12/1988 (

31

).

Si riporta infine la sentenza di merito che meglio ripropone l’orientamento della Suprema Corte relativamente alla cosiddetta teoria intermedia (

32

).

dell’insieme della manovra posta in essere per demolire il concorrente o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato”.

30

RDI 1964, II, 229

31

GADI 1989 191 “ Alla luce di tali circostanze, appare del tutto corretto l’inquadramento della condotta degli appellanti nella fattispecie della concorrenza sleale ipotizzata dall’art. 2598 n.3 c.c.. Tale norma sanziona come atto di concorrenza sleale………l’uso di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda, mediante un richiamo di carattere generico, ma sufficientemente delimitato con riferimento a consuetudini generalmente affermate e storicamente variabili, quali quelle del buon costume commerciale, costituente, ad un tempo, il parametro più valido ai fini della differenziazione degli atti concorrenziali leciti da quelli illeciti e lo strumento più appropriato per il necessario adeguamento della disciplina della concorrenza alla evoluzione della vita economica”.

32

App. Milano 16/01/1981, RDI, 1982, II, 306 “…..lo stesso concetto di correttezza professionale assunto dal tribunale, inteso in senso restrittivo di conformità ad una consuetudine, non sembra aderente alla genesi della disposizione del n. 3 dell’art. 2598 c.c.. Questa riproduce sostanzialmente l’art.

10 bis della Convenzione internazionale di Parigi, riveduta all’ Aja…….che fa

esplicito riferimento agli usi onesti in materia industriale e commerciale, onde

occorre far capo a detta norma per interpretare i principi della correttezza

professionale di cui al ripetuto art. 2598 n. 3 c.c. Ed allora, il concetto della

correttezza professionale è più incisivo di quanto ritenuto dal primo giudice e va

inteso nel senso di aderenza ad un principio etico universalmente seguito dalla

categoria dei commercianti, con la conseguenza che possono sussistere atti i

(18)

5- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TESI ECONOMICA

Per i sostenitori di questa teoria (

33

), la clausola generale dell’art. 2598 n.3 c.c. rinvierebbe ad un giudizio di natura economica. Questa teoria ha il merito di superare l’alternativa

etica-prassi per la determinazione dei principi di correttezza

professionale riconoscendo, per la definizione di questi, come necessario l’ancoraggio alla struttura economica della società

che esprimerà il giudizio di valore su un determinato comportamento.

Si afferma, così (

34

), che i principi di correttezza professionale devono essere correlati al modello economico nel quale operano

quali, benché conformi alle disposizioni di legge…… siano tuttavia da considerare non corretti, in quanto in contrasto con il richiamato principio e idonei a danneggiare l’altrui azienda”.

33

Marchetti Riv. Dir. Ind 1966

34

Marchetti Riv. Dir. Ind 1966. L’autore nell’identificare le regole di correttezza

professionale con le regole di comportamento coerenti ad un determinato sistema

economico, afferma che “…per una precisa comprensione della giurisprudenza in

materia….il momento essenziale della motivazione della sentenza non è più un

giudizio morale….ma un giudizio di conformità ad un modello economico che si

ritiene ottimo, e cioè al sistema della libera concorrenza”. Nell’intento di spiegare

la ragione della valutazione a volte opposta da parte dei giudici di un medesimo

comportamento, l’autore afferma che dipenda “….assai più che da una diversa

sensibilità morale ovvero su di una non coincidente rilevazione delle valutazioni

morali operate in un determinato ambiente, su di una opposta interpretazione del

sistema economico che oggi deve valere”

(19)

i destinatari della norma e funzionalmente intesi a salvaguardia del mercato di libera concorrenza.

L’ancoraggio a criteri di mercato, per contro, viene criticato (

35

)

perché considerato troppo pericolosamente svincolato da valutazioni di ordine deontologico. Le tesi economiche potrebbero portare a giudicare, infatti, come lecite tecniche concorrenziali che possono anche essere riprovevoli (

36

).

In dottrina (

37

), infine, si è proposto di ricostruire i principi di correttezza professionale valutando i costi di reazione che un atto di concorrenza impone al suo soggetto passivo, per affermare la scorrettezza del comportamento fronteggiabile con oneri superiori ai benefici ricavati dal soggetto attivo della concorrenza.

35

Santagata Concorrenza sleale e interessi protetti 1975

36

Santagata op. cit. Per l’autore far derivare i principi di correttezza professionale dal mercato comporterebbe l’apertura “ di un pericoloso varco a giudizi di legittimità del più spietato ed egoistico abuso di quelle tecniche concorrenziali che sfruttassero il meccanico evolversi delle leggi di mercato a danno degli interessi di coloro sui quali direttamente ( o di riflesso) incide il comportamento imprenditoriale”

37

Mansani Riv. Dir. Ind. 1985

(20)

Relativamente alla giurisprudenza(

38

), in epoca recente si sono affermati orientamenti che hanno fatto propri gli orientamenti (

39

)di quanti vedono, nella coerenza al sistema economico, il paradigma della correttezza professionale. Nella sentenza di merito Trib. Verona 1985(

40

) dopo l’esposizione di una premessa di ordine economico sociale, viene poi formulata la teoria circa il contenuto dei principi di correttezza professionale.

38

Nella ricostruzione operata da Sanzo op. cit.

39

Marchetti Op. cit.

40

GADI, 1986,294 ““….convenzione di Parigi….recepita dal nostro ordinamento, amplia la finalità ed il contenuto dell’art. 2598 n°3 c.c., clausola generale e norma in bianco della disciplina legislativa del fenomeno concorrenziale, in modo che non ne discenda la sola tutela corporativa dei singoli concorrenti, ma anche, e peculiarmente, l’immediata tutela dell’interesse del consumatore e della collettività nei loro multiformi interessi. Interpretazione confortata dal collegamento tra il citato art. 2598 e il 2595 c.c., ove chiaramente si prescrive che la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale, così ponendo l’accento sulle modalità della concorrenza ed offrendo all’interprete i criteri più utili per l’identificazione di quella correttezza professionale che costituisce il fulcro, in definitiva, del sistema.

Detti criteri rendono, peraltro, più agevole l’identificazione delle condotte sleali,

che non possono essere tuttora ancorate al contrasto con gli usi ed i precetti

etici….bensì alla non conformità al sistema economico in atto, così come regolato

e ritenuto il più vantaggioso dall’ordinamento giuridico…. Diversamente

opinando, si riterrebbe la prevalenza di meri interessi corporativi su quelli

generali della collettività…..In tale prospettiva, se conforme agli indirizzi ed ai

programmi determinati dallo stato, la condotta concorrenziale ancorché non

rispondente alle rette regole dell’imprenditore nei termini di cui in citazione, per

ciò stesso settoriali e limitati alla azienda singola, non può che essere lecita. Ed

in tale contesto, nella visione di un disegno che supera il particolare per investire

il tessuto della comunità, è perfettamente razionale vendere un bene, con margine

non retributivo e sopportazione di perdite monetarie se detto comportamento

stimola(nella valutazione del legislatore) lo sviluppo complessivo, di modo che la

perdita sia solo aziendale e non economica”.

(21)

6- PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE: TEORIA DELL’AUTOINTEGRAZIONE

Dopo gli orientamenti cosiddetti eterointegrativi (che per la

determinazione dei principi di correttezza professionale si rifanno a fonti esterne all’ordinamento statale) si sono succeduti di recente quelli cosiddetti autointegrativi che, invece, qualificano la clausola generale della correttezza professionale

come regola suscettibile di essere integrata con i principi generali dell’ordinamento.

Tra i sostenitori di questo orientamento vi è chi (

41

) afferma che il giudice debba effettuare una valutazione comparativa degli interessi in gioco, dovendo dare prevalenza a quello in grado di realizzare un vantaggio collettivo (

42

).

41

Jaeger Riv.dir.ind. 1970

42

Jaeger Op. cit. Secondo l’autore gli interessi facenti capo ai consumatori o alla

collettività dei consociati “assumono il ruolo di parametri di valutazione degli

interessi degli imprenditori in conflitto, nel senso che il giudice dovrà, tra le

posizioni in conflitto, assegnare la prevalenza a quella che riterrà più conforme (o

meno difforme) al vantaggio collettivo o all’utilità sociale”. Secondo l’autore,

quindi, il giudizio concerne un rapporto di strumentalità tra interessi che porta a

concludere che “ gli interessi collettivi sono tutelati non in maniera immediata, ma

solo attraverso la diretta difesa di interessi propri del singolo o di singoli

concorrenti”.

(22)

Per altri (

43

) l’attenzione deve essere focalizzata sull’incidenza della costituzione economica nella disciplina della concorrenza sleale. Il principio di correttezza professionale sarebbe così

inevitabilmente condizionato dal principio di utilità sociale di cui all’articolo 41 c. 2 cost.. Partendo dalla considerazione

preliminare della presenza di comportamenti concorrenziali

confliggenti perché rispondenti ad una diversa strategia seguita dall’impresa sul mercato, e posto che l’ordinamento costituzionale disciplina l’attività economica (della quale l’attività concorrenziale fa parte) garantendone il libero

esercizio nel rispetto di preminenti interessi costituzionali

(riconducibili alla difesa del libero mercato e alla sfera dell’utilità sociale), si afferma che la superiorità gerarchica della

norma costituzionale su quella ordinaria deve portare il giudice a qualificare illecito quel comportamento concorrenziale lesivo di interessi costituzionalmente garantiti.

43

Ghidini Slealtà della concorrenza e costituzione economica

(23)

Altro filone interpretativo (

44

), cosiddetto dell’autointegrazione, è quello che vede, nel sistema giuridico economico attuale, la massima attenzione per gli interessi dei consumatori, attraverso il richiamo della disciplina antimonopolistica, la quale traduce le direttive di ispirazione pubblicistica in norme dirette alla individuazione dei comportamenti concorrenziali illeciti (

45

).

Per altri (

46

), più di recente (a seguito dell’entrata in vigore nel nostro ordinamento della normativa antitrust), le regole di correttezza professionale devono essere coerenti con la normativa antitrust, arrivando così a considerarsi professionalmente scorretti quei comportamenti che impediscono lo svolgimento della concorrenza, o che la ostacolino senza alcun miglioramento (da parte del soggetto

44

Santagata Concorrenza sleale e interessi protetti 1975

45

Santagata Op. cit. L’autore offre una nuova lettura dell’articolo 2595 c.c.

richiamando la normativa comunitaria della concorrenza, riconoscendo a questa “ la portata integrativa del precetto dell’utilità sociale in materia di concorrenza a tutti i livelli della nostra economia integrata”. Quindi, secondo l’autore, il 2595 c.c. stabilirebbe che “ la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere l’utilità sociale che, nella specifica materia, si identifica nel contemperamento degli interessi, così come emergono e sono precisati dalla disciplina comunitaria.

Il precetto di correttezza recepisce così, al suo interno, siffatto modulo di contemperamento degli interessi dalla cui lesione o difformità consegue automaticamente la qualificazione di slealtà e l’irrogazione delle sanzioni previste all’art. 2599 c.c., ad iniziativa dei soggetti titolari degli interessi protetti”.

46

Libertini Eur. D. priv. 1999

(24)

attivo del rapporto di concorrenza) dell’offerta commerciale sul mercato.

Relativamente alla giurisprudenza(

47

), si riporta Trib. Milano 1976 (

48

) che era pervenuto alla affermazione della illiceità, sul piano

concorrenziale, di comportamenti filo monopolistici, perché contrari al precetto costituzionale dell’utilità sociale.

Si riporta infine C. 1983 (

49

), dove viene messo in rilievo l’orientamento più recente il quale, rifacendosi alla teoria

47

Nella ricostruzione di Sanzo, op.cit.

48

Trib. Milano 22/3/73, GADI 1973 “una ricostruzione della disciplina giuridica del rifiuto di contrattare in qualsiasi forma posto in essere tra imprenditori, non può che prendere l’avvio dalla considerazione dell’art. 41 Cost. quale norma sovraordinata ad ogni altra dell’ordinamento che pone il principio generale di ordine pubblico della libertà di iniziativa economica( comprensiva sia della libertà di accesso sul mercato che di quella di continuare ad operare nello stesso), quale premessa strumentale rispetto al funzionamento di un sistema di economia di mercato fondato sulla competizione degli operatori economici, al quale, a torto o a ragione, sono state affidate dal costituente le sorti della cosiddetta utilità sociale o del benessere collettivo.”

49

C 2634/1983 , GADI 1983, nello studio di Sanzo op. cit. “E’ tuttavia

necessario affermare che, nell’attuale sistema di concorrenza imperfetta, le intese

settoriali tra associazioni o altre coalizioni di produttori e di rivenditori in tema

di selezione distributiva, comportanti taluni effetti restrittivi della concorrenza,

non per questo si possono ritenere senz’altro illecite, tali non essendo, di per sé,

quelle dirette a ridurre i costi gestionali e organizzativi connessi all’apertura di

nuovi sbocchi di vendita e, in genere, quelle finalizzate al miglioramento della

distribuzione. Siffatte intese, anzi possono consentire alle associazioni la

composizione di contrastanti interessi di un determinato settore economico e

risultare conformi, sotto il profilo del contenimento dei prezzi o per altri aspetti,

agli interessi collettivi coinvolti nella dinamica economica, dei quali occorre

tener conto nella valutazione dei comportamenti concorrenziali, in adesione alla

direttiva costituzionale emergente dall’art. 41 Cost., che impone di privilegiare

modelli coerenti con il precetto della utilità sociale”.

(25)

autointegrativa, concentra la propria attenzione sull’interesse del

consumatore (che certamente è il soggetto più interessato al miglior

funzionamento del mercato).

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