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Lo Stato dell’Arte

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Academic year: 2021

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Il Quadro Socio-Politico

Il termine italiano “profugo” deriva dal latino profugere (“cer- care scampo”) e si riferisce a una “persona costretta ad ab- bandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a ca- taclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc.”1 In realtà il termine italiano è fuorviante in quanto compren- de all’interno della stessa parola due significati diversi: quello di sfollato e quello di rifugiato. Il quadro legislativo attuale, regolato dalla Convenzione di Ginevra (1951) e dal successivo Protocollo (1967) riguarda esclusivamente lo status di rifugia- to (refugee), definito come:

any person who, […] owing to well-founded fear of being persecuted for reasons of race, religion, nationality,

membership of a particular social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is unable or, owing to such fear, is unwilling to avail himself of the protection of that country; or who, not having a nationality and being outside the country of his former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such fear, is unwilling to return to it.

(UNHCR, Convention and Protocol Relating to the Status of

Refugees, Geneva, UNHCR, 1951 (1967), art. 1)

Legalmente, il fatto di trovarsi oltre il confine dello stato na- zionale di appartenenza è determinante per il riconoscimen- to dello status di rifugiato. Persone costrette a fuggire dagli abituali luoghi di residenza (a causa di eventi catastrofici, ma anche per gli stessi motivi riguardanti conflitti, violazioni dei diritti umani e violenze), che tuttavia rimangono entro i con- fini nazionali, sono definiti IDPs (Internally Displaced Persons).

Essi sono in assoluto fra le persone legalmente più vulnerabili poiché rimangono sotto la protezione del proprio stato d’ori- gine, sebbene l’UNHCR abbia provveduto, quando possibile, a fornire aiuti umanitari anche a questa categoria.

Ancora, i termini “richiedente asilo” (asylum seeker) e “rifugia- to” (refugee) sono spesso confusi, ma si riferiscono a concetti diversi: un richiedente asilo è una persona che si presenta al governo ospitante come rifugiato, ma il cui stato di rifugiato non è stato ancora riconosciuto. Pertanto, solo i richieden- ti asilo in possesso dei requisiti descritti vengono effettiva- mente riconosciuti come rifugiati. Durante e specialmente allo scoppiare dei conflitti non è sempre possibile verificare tutte le richieste - né è necessario se si è certi che le persone

Il Campo come Tipologia Urbana

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tre: il rimpatrio, l’integrazione nel paese ospitante o lo sta- bilimento in un terzo paese. Tuttavia, essendo la prima e la terza di difficile applicazione – per protrarsi di situazioni di conflitto o per impossibilità giuridica o economica a stabilirsi nei paesi occidentali tradizionalmente metà di emigrazioni – l’implementazione della seconda viene a coincidere con una sorta di integrazione attraverso la segregazione, vale a dire di raggiungimento di un’autonomia in isolamento rispetto alla comunità ospitante. Da quel momento, l’aiuto umanitario è simboleggiato dal carattere temporaneo e isolato del campo profughi.2

Nel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, l’UNHCR continua la revisione delle politiche di gestione della crisi, puntando sul rimpatrio come soluzione più desiderabile a lungo termine.

Tutti i riferimenti a soluzioni di permanenza nello stato ospi- tante vengono rimossi dalle principali linee guida, in favore di una terminologia che allude quando possibile alla tempora- neità della situazione del rifugiato.3

lo stato di eccezione

Alcuni articoli della Convenzione di Ginevra affermano i do- veri dello stato ospitante nei confronti dei rifugiati:

(art. 3): applicare la Convenzione senza discriminazioni di razza, religione o paese d’origine;

(art. 17): applicare ai rifugiati trattamenti non più sfavorevoli di quelli applicati ad altri stranieri in materia di diritto ad ac- quisire un lavoro retribuito;

(art. 18): applicare ai rifugiati trattamenti non più sfavorevoli di quelli applicati ad altri stranieri in materia di diritto ad ac- quisire un lavoro nel campo dell’agricoltura, dell’industria e del commercio;

(art. 19): applicare ai rifugiati trattamenti non più sfavorevoli di quelli applicati ad altri stranieri in materia di diritto ad ac- quisire un lavoro nel campo della libera professione;

(art. 26): riconoscere ai rifugiati il diritto di scegliere il luogo coinvolte arrivano da località interessate dalla guerra e risulta

evidente che sono fuggiti. In tali casi, i richiedenti asilo ven- gono automaticamente riconosciuti come rifugiati e ammessi entro il confine dello stato ospitante.

il campo come compromesso politico

Da quando la Convenzione di Ginevra è stata firmata da 147 paesi, diverse politiche di gestione delle crisi umanitarie si sono susseguite, manifestazione di cambiamenti in ambito geopolitico di più ampio respiro.

Nella concezione originale delle cosiddette “soluzioni a lungo termine”, le Nazioni Unite favorivano l’integrazione nel paese ospitante come opzione preferita. L’ingresso dell’UNHCR nel- le dinamiche delle gestione dei profughi non cambia questo atteggiamento, e le sue politiche vengono a coincidere con quelle della World Bank, che promuoveva l’integrazione attra- verso progetti di potenziamento delle infrastrutture, educa- zione, apprendistato, salute e agricoltura. Tali miglioramenti venivano applicati su base regionale laddove fosse previsto lo stanziamento dei profughi, con l’idea di migliorare anche la vita delle popolazioni locali una volta che i profughi avessero raggiunto l’autonomia, che di fatto avrebbe annullato, per- lomeno su base giuridica, le differenze con i locali stessi. La politica degli stati ospitanti era infatti quella di lasciare che i profughi diventassero cittadini a tutti gli effetti, assicurando quindi diritto alla proprietà e alla cittadinanza. A partire dagli anni ’70, tuttavia, l’UNHCR spostò l’interesse verso soluzioni a “lungo termine”, interpretando il termine in senso lettera- le piuttosto che nella precedente accezione, che si riferiva a soluzioni “permanenti”. Ciò avviene a seguito dell’istituzione dell’Organization of African Unity (OAU), che nell’implemen- tazione delle proprie strategie regionali sceglie di perseguire politiche di rimpatrio piuttosto che d’integrazione, invitando le organizzazioni internazionali a fornire il loro aiuto in que- sta direzione. Le soluzioni a lungo termine potevano essere

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il campo è una città?

La domanda se il campo possa o meno essere considerato una città è qualcosa di più che una questione lessicale. Come spiega Sanyal, l’urbanizzazione dei profughi riguarda tanto le città, spesso interessate da alte concentrazioni di rifugiati, quanto i campi, che in certe condizioni tendono a formaliz- zarsi grazie all’azione degli abitanti. Questo processo di con- solidazione dal basso, per cui i rifugiati costruiscono col tem- po l’urbanità a partire dalla semi-urbanità, è riscontrabile in molti contesti ma non per questo generalizzabile e assimila- bile al processo di formazione delle città tradizionali.10 Nel suo studio etnografico sui campi profughi africani, Agier defnisce il campo come uno “schizzo di città continuamente abortito”, spiegando come, nonostante i profughi siano incredibilmente proficui nel trasformare territori desertici in luoghi simili a città, tali luoghi rimangano perennemente incompleti, città nude che mancano di una dimensione politica.11 Richiamando il concetto di nonluogo come teorizzato da Augè, vale a dire un posto in cui la modernità (intesa come coesistenza tra me- moria e identità) è di fatto inesistente, Agier indica piuttosto i campi di concentramento nazisti come paradigma insiediati- vo più vicino ai campi profughi.12

Prendendo le distanze dalla questione dell’eccezione politica dei profughi, Martin fa notare come il campo sia in realtà in molti contesti definibile come campscape, parola che indica la trasversalità etnica del campo, e come esso sia usato come strumento di segregazione economica prima ancora che po- litica. Citando l’esempio del campo profughi di Shatila (Liba- no), ormai fuso alla città di Beirut ma non per questo luogo di integrazione, Martin fa notare come in realtà il confine tra il campo e lo slum non possa essere facilmente tracciato, dato che l’urbanizzazione dei campi profughi vede permanere se- gregazione sociale e bassa qualità della vita anche dopo che le recinzioni sono rimosse.13

Secondo Ramadan, nonostante la segregazione, il campo è anche un luogo di autodefinizione e preservazione della pro- di residenza e muoversi liberamente all’interno del territorio

nazionale, sotto le restrizioni comunemente applicate ad altri nelle stesse circostanze.

In uno studio del 2009, Deardorff propone un’interessan- te chiave di lettura della situazione dei profughi che vivono in campi nelle cosiddette “protracted refugee situations”4. La sua tesi è semplice ma solida: la permanenza dei profughi nei campi per lunghi periodi pone questioni di violazione dei diritti umani ed è in disaccordo con la stessa Convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati. Queste affermazioni sono così argomentate in tre punti fondamentali.

In primo luogo, la definizione di “campo” non compare in al- cun modo nella Convenzione di Ginevra.5 Lo stesso UNHCR afferma in un documento del 2005 che i campi chiusi sono una forma di detenzione, che a lungo termine è fortemente denunciata dalle leggi sui diritti umani.6 In secondo luogo, il campo limita la libertà di movimento dei profughi all’interno dello stato ospitante, e per questo viola l’art. 26 della Conven- zione. In terzo luogo, dato che è limitata la libertà di movi- mento e in alcuni casi anche il diritto al lavoro, il campo viola gli art. 17-19 della Convenzione.7

Partendo da presupposti filosofici, Agamben lamenta allo stesso modo l’incapacità delle istituzioni di risolvere le gran- di crisi umanitarie e addirittura di confrontarsi con essi in maniera adeguata, negando gli stessi diritti umani sacri e inalienabili da cui le loro azioni prendono spunto.8 Agamben assimila la figura del profugo a quella dell’homo sacer roma- no, termine che indica non un uomo divino, ma al contrario un uomo che può essere ucciso senza essere sacrificato. L’i- stituto, applicato a criminali reputati degni di essere uccisi, prevedeva che l’esecuzione non fosse eseguita, ma che essi potessero essere in qualsiasi momento uccisi impunemente.

Questo parallelismo è utilizzato per spiegare il concetto di vita nuda (bare life), intesa come vita biologica separata dalla vita politica, e indicata come la condizione di eccezione che caratterizza alcune categorie, tra cui i rifugiati.9

F. 3

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pria identità, uno spazio che cresce organicamente dalle so- cietà dei profughi, e in cui le culture, i nomi, le tradizioni sono continuamente tramandati e reinventati.14

Un Secolo di Campi Profughi

Il pensiero teorico sulla progettazione degli insediamenti di emergenza è sempre stato fortemente influenzato da teorie provenienti da altri campi, principalmente l’igiene pubblico e l’urbanistica, sebbene spesso il cambio di correnti di pen- siero in tali campi non abbia coinciso con un adeguamento della teoria nell’ambito dei campi profughi. Ciò è da imputar- si a diversi fattori. In primo luogo, la risposta a situazioni di emergenza è tanto più efficace quanto più si basa su sistemi di rapida esecuzione, e in questo senso il pensiero teorico è volto alla produzione di un meccanismo di risposta che do- vrà attivarsi in luogo e tempo non ancora definiti: non è fa- cile trovare giustificazioni adeguate al cambiamento di tale meccanismo e della base teorica su cui è fondato, perlomeno senza esempi concreti che ne mettano in luce i difetti. Ciò è valido sia alla micro-scala, vale a dire quella della singola tenda o struttura d’emergenza,15 che alla macro-scala, cioè in ambito urbanistico.

In secondo luogo, storicamente, i termini “campi profughi” e

“campi d’emergenza” sono stati considerati come intercam- biabili, per cui alcuni sviluppi ottenuti nella gestione delle cri- si dovute a eventi naturali sono stati implementati anche nei campi profughi: questo ha evidentemente portato a ignorare alcuni aspetti che nella gestione dei disastri naturali rivestono spesso meno importanza, come la protezione dall’esterno e la gestione a lungo termine.

F. 999

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Alcune proposte riguardano soprattutto le singole unità abi- tative piuttosto che i campi nel loro insieme. La più famosa è probabilmente quella di Alvar Aalto per le popolazioni affet- te dai bombardamenti su Londra nel 1940, che consisteva in un agglomerato di quattro abitazioni di emergenza con ser- vizi comuni condivisi. La proposta raggiungeva buoni livelli di economia di risorse e garantiva flessibilità e privacy agli abitanti - tematiche non certo scontate per il periodo storico considerato - ma non comprendeva studi di come le unità si relazionassero l’un l’altra e di possibili configurazioni d’insie- me di un campo.

il modulo-comunità

I primi studi significativi sulla progettazione di campi pro- fughi come organismi insediativi unitari sono documentati a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Essi riguardano l’ope- rato di Frederick Cuny18 in Nicaragua, in risposta al terremoto del 1972, e in Bangladesh, in risposta alle inondazioni che col- pirono le popolazioni locali nel 1973-1974. Questi due esempi si sono certamente posti come paradigmatici negli anni se- guenti, influenzando tanto la progettazione pratica quanto la ricerca teorica fino ai giorni nostri.

Il sistema urbano proposto da Cuny nel campo di El Coyote- pe, in Nicaragua, si pone in stretta contrapposizione ai mo- delli precedenti impostati sulla griglia di derivazione militare, traendo ispirazione dagli scritti sulla progettazione bottom up che in quegli anni cominciavano a circolare19. Nonostante sia stato costruito in risposta a un’emergenza, il campo mostra numerose novità soprattutto a livello ideologico, basandosi sul concetto di comunità e condivisione delle funzioni princi- pali. Le principali caratteristiche di questo insediamento sono elencate di seguito.

1. Le singole unità non sono allineate alla strada principale esterna al campo, ma localizzate a una certa distanza da essa all’interno del perimetro.

In terzo luogo, il pensiero teorico è andato avanti per impulsi, trovando nuovo slancio in occasione di gravi disastri natura- li o conflitti armati, che spesso hanno costretto la comunità scientifica ad accettare determinate idee e applicarle rapida- mente. Questo ha generato due problemi: da una parte tali teorie non hanno avuto modo di essere ulteriormente appro- fondite prima di essere applicate, dall’altro se n’è giudicato il fallimento o la buona riuscita sulla base di uno o pochi casi particolari, tendendo a generalizzare situazioni con carattere di particolarità. Questo procedere discontinuo ha spesso por- tato la comunità scientifica a tenere per buone idee ritenute consolidate16 oppure a tornare sui suoi passi quando alcune teorie venivano ritenute errate sulla base di pochi dati.17 Di seguito si vuole proporre un’analisi storica ragionata sull’e- voluzione delle pratiche progettuali e costruttive che hanno interessato il settore. Ciò al fine di indagare i motivi alla base delle attuali problematiche che affliggono i campi profughi, e al tempo stesso recuperare buoni principi progettuali che le contingenze hanno portato a dimenticare.

l’assetto militare

Il campo costruito in risposta al terremoto di San Francisco del 1906 è universalmente riconosciuto come il primogenito degli insediamenti di emergenza, non tanto come paradigma quanto come primo esempio concreto. Di questo insediamen- to non rimangono copie di planimetrie né di mappe che ne at- testino l’esatta configurazione, tuttavia è possibile desumere dalle foto storiche la sua impostazione basata principalmente sull’uso della griglia e somigliante in parte agli accampamenti militari, senza alcune preoccupazioni di carattere culturale o ambientale.

Il periodo che va dal 1906 al secondo dopoguerra ha lascia- to una scarsa eredità documentaria sui campi profughi, che sicuramente hanno avuto luogo in gran numero, ma senza lasciare traccia riguardo alle strategie progettuali utilizzate.

F. 5 F. 4

F. 3

Il campo profughi di Shatila a Beirut (Libano), è stato attivato nel 1948 per rispondere alla crisi umanitaria provocata dalla Guerra di Palestina.

Dopo quasi 70 anni, il campo è integrato nel tessuto urbano di Beirut, ma rimane socialmente emarginato dal resto della città. (Bailey, 2014)

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2. Esiste una sola strada di accesso al campo, che conduce a una piazza centrale dove sono localizzati tutti gli edifici non residenziali e gli uffici amministrativi.

3. Le unità sono raggruppate e disposte a corte in piccoli ag- glomerati, composti da un numero di abitazioni variabile da 13 a 20. Ogni raggruppamento ha la stessa forma e rap- presenta un tassello di un sistema a griglia.

4. Gli agglomerati sono disposti lungo assi che si dipartono dalla piazza centrale lungo le quattro direzioni cardinali.

Questo minimizza la distanza degli agglomerati esterni dallo spazio comune centrale..

5. Riguardo all’aspetto funzionale, lo spazio è suddiviso in due parti: residenziali, che includono le abitazioni rag- gruppate a corte e gli spazi condivisi di ogni agglomerato, e non residenziali, dove si trovano tutti gli edifci ammini- strativi.

6. In ogni agglomerato i lotti hanno tutti la stessa superficie, per cui ogni famiglia ha la stessa quantità di terreno.

7. In nessuna corte sono previsti recinti fra un lotto e un al- tro, come pure non esistono confini fisici fra un agglome- rato di abitazioni e un altro.

8. C’è una certa flessibilità nell’organizzazione degli agglo- merati, ovvero essi presentano un numero di abitazioni variabile e pure sono di diversa forma.

L’altro importante esempio, che insieme a quello di El Coyo- tepe ha contribuito alla creazione di un modello urbano per i campi20, è quello dell’insediamento realizzato presso Khulna, nel Bangladesh meridionale, in risposta alle inondazioni del 1973-197421. Questo campo è riconosciuto fin da subito come una felice applicazione delle teorie espresse da Cuny e da- gli altri ricercatori del gruppo Intertect. Nel 1979, Hartkopf e Goodspeed22, pure facenti parte del gruppo di ricerca, evi- denziano le caratteristiche chiave di questo insediamento, cogliendo l’occasione per elaborare delle linee guida generali per la progettazione del campo sia alla grande che alla piccola scala23.

Di seguito sono elencate le caratteristiche del campo, messe F. 6

(7)

in relazione con i fattori predominanti che le hanno generate.

1. Il campo è inserito nel contesto, nel senso che la costru- zione ha seguito una fase di ricerca e informazione riguar- do alla densità di popolazione e la relazione tra la dimen- sione del nuovo insediamento e quella degli insediamenti esistenti nel luogo ospitante.

2. L’aspetto climatico ha un ruolo fondamentale nel proget- to, in quanto viene valutato l’effetto del vento su tre scale diverse. In primo luogo, le latrine sono poste in modo tale che il vento porti l’aria malsana lontano dalle abitazioni. In secondo luogo, le abitazioni sono sagomate e disposte in modo da facilitare la ventilazione incrociata, garantendo il raffrescamento naturale ed evitando che in nessuna area del campo vi sia aria stagnante. In terzo luogo, ogni unità è conformata in modo da permettere il raffrescamento per mezzo di correnti d’aria trasversali.

3. L’aspetto sociale è pure ripreso sia su piccola che su gran- de scala, considerando varie abitudini culturali della po- polazione per definire diverse caratteristiche morfologi- che. Le abitazioni sono organizzate in corti aperte dalla forma a U (chiamate da Cuny “wards”), cosa che secondo il progettista ricalca la tipica organizzazione della socie- tà bengalese. Il campo conta un totale di 7 agglomerati, ognuno comprendente 7 unità abitative capaci di ospitare fino a 6 famiglie, per un totale di circa 1500-1700 perso- ne. Un’altra abitudine sociale presa in considerazione è la netta separazione delle attività quotidiane in base al ge- nere, fattore che risulta determinante nell’organizzazione del campo: le corti sono pensate per ospitare le attività delle donne e dei bambini, mentre gli spazi fra un bloc- co di abitazioni e l’altro sono adibiti alle attività maschili.

In ultima analisi, anche la singola abitazione è pensata in funzione della separazione dei sessi, essendo organizzata su due piani, con gli spazi per le donne e i bambini posti al piano superiore. 24

Le esperienze maturate da Cuny in Nicaragua e Bangladesh sfociano nella prima pietra miliare della teoria progettuale di F. 4 (in alto a sinistra)

Campo profughi di Presidio Park a San Francisco (Stati Uniti), 1906. (California Historical Society, 1906)

F. 5 (in basso a sinistra)

Vista aerea del campo profughi di El Coyotepe (Nicaragua), 1972. (Cuny, 1977)

F. 6 (a destra)

Disegni tecnici a varie scale del campo profughi di Khulna (Bangladesh), 1973-74. (Hartkopf, Goodspeed, 1979)

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– Griglia ortogonale. Nonostante la semplicità di applicazio- ne e di integrazione con reti infrastrutturali, questa op- zione è indicata come la meno desiderabile per via dell’al- tissima densità e delle condizioni sociali poco desiderabili derivanti dalla mancata considerazione delle abitudini dei profughi. Ciò conduce, in ultima analisi, ad un aumento dei costi di gestione.

– Unità comunitarie. Questa opzione consiste nell’utilizzo di un modulo base, la comunità, come unità primaria per la progettazione. Questa consta di un numero variabile di abitazioni, disposte in maniera sfalsata a formare una cor- te centrale; il modulo si inserisce poi in una struttura che si sviluppa dall’area dei servizi centrali verso l’esterno, con possibilità di espansione progressiva. Questa opzione è indicata da Cuny come la migliore, in quanto permette di ricavare piccoli spazi comunitari all’interno di ogni unità, ma al tempo stesso non pone difficoltà nell’implementa- zione di infrastrutture.

– Impianto circolare. Questa opzione è dettata prevalente- mente dalla localizzazione in terreni scoscesi e può esse- re applicata suddividendo il campo in più villaggi disposti attorno a un’area comune centrale. Ciò è utile se esistono necessità di separare gruppi etnici, ed è comunque una soluzione efficiente per l’implementazione di infrastrut- ture.

– Impianto lineare. Dettato da vincoli derivanti dalla forma del sito, questo impianto è poco desiderabile in quanto li- mita l’accessibilità dei servizi, per cui si rende necessaria la loro decentralizzazione.28

In un documento del 1979 Hartkopf e Goodspeed, pure facenti parte del gruppo di ricerca Intertect, riassumono la lezione di Cuny nell’approccio olistico alla progettazione, indicando come la necessità di trovare una via di mezzo tra i vari fattori che influenzano la forma di un campo. Questi sono:

– politico, inteso come insieme di aspetti legali concernenti il campo (terreno, risorse), gli ospitati (se profughi o IDP), i rapporti con la comunità ospitante e con le organizzazioni settore, l’articolo “Refugee Camp and Camp Planning, the Sta-

te of the Art”25. Nelle raccomandazioni sull’approccio proget- tuale, Cuny esordisce in questo modo:

The design of refugee camp must be based on a realization that maximum density must be achieved within a limited area without creating detrimental social problems only by designing a community completely balanced within its primary borders. The development of the camp must create settlements rather than simply an area of emergency shelter.26 (CUNY, F., “Refugee Camp and Camp Planning, the State of the Art”, in Disasters, vol. 1, n. 2, Pergamon Press, London, 1977, p. 133.)

Il documento è una guida pratica alla progettazione pensata per urbanisti e tecnici, dove Cuny riassume i principi del suo metodo progettuale, e fornisce alcune opzioni urbanistiche alternative per i campi profughi. Per i primi, oltre agli aspetti pratici e ingegneristici, è introdotta un’importante nota sulla necessità di tenere in considerazione le caratteristiche della popolazione da ospitare nel campo, considerando:

– le abitudini socio-culturali;

– i mezzi di autosostentamento;

– le caratteristiche degli insediamenti dove risiedevano pri- ma dell’emergenza;

– le attitudini verso l’igiene personale;

– eventuali tabù di genere;

– le religioni praticate.

Ciò è giustificato da Cuny con l’evidenza del successo degli interventi in Nicaragua e Bangladesh: ad esempio, a differen- za di campi progettati negli stessi luoghi con impostazione militare, El Coyotepe ha avuto costi di gestione inferiori di circa un terzo, ha permesso agli abitanti di sviluppare stra- tegie di autosostentamento e ha garantito il loro benessere sanitario e psicologico.27 Per quanto riguarda la progettazione urbanistica Cuny fa una disamina critica dei possibili layout applicabili ai campi profughi.

F. 7, 8

F. 7

Varie opzioni per il layout dei moduli comunitari secondo le indicazioni di Cuny. (Cuny, 1977)

(9)

coinvolte nella missione;

– sanitario, comprendente i dispositivi e le strategie atte al mantenimento dell’igiene e alla prevenzione delle malattie epidemiche, nonché le strutture fisiche deputate alla cura dei malati;

– ambientale, riguardante le strategie di approvvigiona- mento e utilizzo delle risorse e di limitazione dell’impatto del campo sull’ecosistema;

– economico, sia nei confronti delle risorse monetarie che delle risorse umane;

– culturale, alla cui definizione concorrono le abitudini so- ciali e religiose, le gerarchie e le differenziazioni basate sul genere o sull’età, i mezzi di autosostentamento e le abilità. 29

A partire dagli anni successivi, il discorso teorico sulla pro- gettazione degli insediamenti di emergenza si instaura sta- bilmente nel settore tecnico-scientifico. In questa tratta- zione ci si riferisce in particolare alle implicazioni derivanti dall’urbanistica, dall’ingegneria e dall’architettura, ma occorre tener presente che un ruolo di primaria è stato rivestito dal settore della medicina e dell’igiene, e in misura minore e più di recente da altri settori come la sociologia e la psicologia.

In particolare, fino allo scorso decennio,30 il problema delle emergenze è stato affrontato nell’ottica del breve periodo, e ciò ha relegato in secondo piano l’apporto di materie come l’urbanistica e l’architettura, in favore di altre che risultavano più attinenti all’immediata sopravvivenza degli abitanti, quali l’igiene e l’ingegneria delle infrastrutture.

le prime linee guida

A partire dall’inizio degli anni ’80, si registra la tendenza a produrre linee guida omnicomprensive per la progettazione dei campi, come attestano le prime bozze del testo Handbook for Emergencies nel 1981 e nel 1982. L’Intertect continua pure a sviluppare manuali di progettazione, spingendo la ricerca F. 8Due opzioni per il masterplan di un

campo profughi: organizzazione per moduli comunitari (modified cross-axis plan) e impianto circolare. (Cuny, 1977)

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ciò accade è sempre in riferimento a direttive WHO32. Di se- guito gli standard numerici indicati nel manuale33:

superficie totale min 30 m2/ab.

superficie interna all’abitazione min 3,5 m2/ab.

abitanti per abitazione max 35

latrine min 1/20 ab.

distanza delle latrine dall’abitazione più lontana max 50 m larghezza strisce tagliafuoco min 50 m/300 m di

costruito

È lecito dire che, nella prima edizione delle linee guida UNHCR (1982), alcune misure progettuali sono prescritte, o talvolta riconosciute a priori come norme di buona proget- tazione, semplicemente sulla base dell’esperienza pratica di Cuny nei campi profughi degli anni ‘7034. Come visto per i campi di El Coyotepe e Khulna, tali insediamenti erano or- ganizzati in una serie di sotto unità, ognuna delle quali com- prendeva determinati servizi minimi. Già dalla prima bozza del manuale, datata 1981, sono proposti diversi schemi di ag- gregazione che riprendono l’impostazione a clusters, indican- do tre diverse possibilità di implementazione di tale modello a seconda delle caratteristiche del sito, che sostanzialmente ricalcano le opzioni fornite da Cuny nel documento prece- dentemente citato. Esse sono la griglia ortogonale, indicata come soluzione semplice ma problematica nell’adattamento alle abitudini dei profughi; l’impostazione a clusters comuni- tari, conveniente per la flessibilità e il maggior rispetto delle relazioni sociali e della privacy; l’impianto radiale, consigliato per terreni scoscesi e lodato per le ampie possibilità di de- centramento dei servizi, ma limitante per quanto riguarda le possibilità di espansione.

verso metodi generali capaci di definire la tipologia di rispo- sta più efficace per una determinata area. Negli anni ’80 si sviluppa pure la tendenza alla razionalizzazione della risposta alle emergenze, intesa come approccio quantitativo anco- ra oggi adottato dalle linee guida UNHCR con la definizione di standard minimi. Questa tendenza può essere attribuita sia all’influenza che le problematiche di carattere sanitario avevano già avuto sulla ricerca di Cuny, sia sullo sviluppo di teorie sull’urbanizzazione dei paesi in via di sviluppo,31 dove si sottolineava spesso la necessità di contenere i costi delle infrastrutture atte a distribuire i servizi base, che a loro volta erano oggetto di razionalizzazione attraverso gli standards.

La prima bozza delle linee guida UNHCR per la progettazio- ne dei campi profughi pure raccomanda di utilizzare l’ormai consolidata impostazione a clusters. I servizi comuni – uffici amministrativi, centro di accoglienza, magazzini, ambulatori – sono da posizionarsi preferibilmente al centro, intorno ai moduli residenziali, o se ciò non è possibile all’ingresso del campo. Nel manuale si raccomanda per quanto possibile il decentramento dei servizi, specialmente di quelli che pre- vedono un utilizzo intensivo da parte degli abitanti. Latrine, bagni, lavatoi, ambulatori, spazi ricreativi, scuole e altri servi- zi comunitari sono tanto più efficaci quanto possono essere posizionati vicino alle abitazioni, mentre gli edifici atti all’am- ministrazione del campo, i magazzini, e in generale tutti quel- li non destinati a un utilizzo frequente da parte dei profughi (centro di accoglienza, ospedale, riserve d’acqua, ecc.), posso- no essere efficacemente disposti al centro dell’insediamento, minimizzando la distanza da ogni punto. Nella bozza delle li- nee guida UNHCR non è specificata l’organizzazione interna dei clusters, cioè la posizione reciproca dei servizi comunitari e delle abitazioni, ma si fa riferimento in varie occasioni alla possibilità di autoregolamentazione dei profughi secondo gli schemi a loro più congeniali, per quanto concesso da limita- zioni riguardanti la sicurezza o l’igiene. Tali limitazioni sono peraltro espresse in maniera qualitativa, e solo raramente in termini di quantità minime o massime, e comunque quando

F. 9 T. 1

T. 1Standard quantitativi di riferimento nella prima versione di Handbook for Emergencies, 1982.

F. 9Schemi aggregativi di massima secondo la prima versione di Handbook for Emergencies. (UNHCR, 1982)

(11)

la standardizzazione

Negli anni successivi all’uscita del primo Handbook for Emer- gencies non si trovano grandi sviluppi teorici, e ciò è valido fino alle grandi crisi umanitarie degli anni ’90.

Come si è visto, nella metà degli anni ’80 l’UNHCR rivede le proprie politiche di gestione delle crisi, con uno spostamen- to verso il rimpatrio piuttosto che l’integrazione. Ciò porta a sostituire, nelle politiche urbanistiche (e successivamente anche nel vocabolario delle linee guida), ogni elemento di ri- ferimento a insediamenti permanenti – come strade, villag- gi, case – in favore di termini e soluzioni atti a sottolineare il carattere di temporaneità dell’insediamento. Allo stesso tem- po e in qualche modo contraddittoriamente, in un workshop organizzato dall’UNHCR per formare il personale umanitario vengono inclusi schemi e strategie per lo sviluppo degli inse- diamenti a lungo termine, sebbene la cosa sia presentata più come risposta alla realtà pratica dei fatti piuttosto che a un intento dichiarato. Tuttavia, l’idea che il campo possa essere suddiviso in comunità semi-autonome tende a scomparire in favore di un approccio progettuale deterministico applicato sia alla piccola che alla grande scala, e si registra un ritorno a impianti più rigidi e somiglianti alle griglie militari, sebbene gli schemi forniti siano relativi a insediamenti sensibilmente più grandi rispetto a quelli cui Cuny fa riferimento.35

Contemporaneamente, molti stati stavano attraversando un periodo di affaticamento dovuto al protrarsi delle crisi uma- nitarie e della permanenza dei profughi nel loro territorio. In questo contesto, si interpreta l’isolamento dei campi rispetto alle comunità locali come soluzione per ridurre i problemi, per cui i campi profughi vengono progressivamente spostati verso contesti isolati e inospitali. Ciò è verosimilmente dovu- to a limitare le possibilità che i profughi possano mescolarsi ai contesti urbani degli stati ospitanti come avvenuto nei casi palestinesi, ma in ultima analisi non ha niente a che vedere con la durata dei campi, che dipende da fattori esterni, e non fa altro che aumentarne i problemi e i costi di gestione.36

(12)

no schemi urbanistici a supporto delle indicazioni fornite, sebbene essi siano largamente basati sulla manualistica uf- ficiale dell’UNHCR oppure su casi particolari. In ogni caso, il design urbano torna ad essere inteso come uno strumento per raggiungere determinati standard qualitativi, piuttosto che l’obiettivo in sé, e sebbene non vi sia alcun riferimento a come i campi si possano evolvere nel tempo, si fa notare come soluzioni a lungo termine debbano essere considera- te fin dalla fondazione dell’insediamento.43 Accanto a queste considerazioni, tuttavia, gli standard sono largamente forniti come riferimenti progettuali, specialmente con indicazioni riguardo alle dotazioni di servizi e alle superfici minime di al- cuni di essi.44

Il manuale opera di Corsellis e Vitale, nella sezione dedicata alla struttura urbana del campo, si spinge in articolate con- siderazioni di tipo urbanistico, sebbene ciò avvenga più su piccola che su grande scala. Dal punto di vista dell’organizza- zione generale, l’approccio del cluster comunitario è ripreso dal lavoro di ricerca ed esperienza pratica di Cuny, ed è lodato per la sua flessibilità e adattabilità al contesto, per il senso di identità e appartenenza che è capace di sviluppare negli abitanti, e per la privacy garantita ai piccoli gruppi sociali. L’a- spetto interessante da notare è che allo schema di Cuny viene attribuita validità universale, sensa conisderare l’eventualità che per un dato gruppo sociale esso potrebbe non essere il più adatto. Segue poi una serie di schemi grafici con possi- bili configurazioni delle comunità, in ognuno dei quali sono indicate le posizioni delle abitazioni e dei principali servizi comunitari decentralizzati (latrine, docce, rubinetti d’acqua potabile, contenitori di rifiuti).

Nel raccomandare l’utilizzo del cluster piuttosto che del- la griglia viene addotta come motivazione, a livello grafico, l’adattabilità al terreno e l’efficacia in tal senso nel controllo dell’erosione.45 Inoltre, viene fornito uno schema urbanistico di massima in cui, in accordo con la suddivisione in comuni- tà, blocchi e settori, le singole unità vengono adattate a un terreno fittizio. Nella descrizione grafica, si evidenzia come Nella seconda edizione di Handbook for Emergencies i campi

sono addirittura indicati come “ultima risorsa”, ed accostate ad altre soluzioni equivalenti nella capacità di gestire la crisi ma largamente preferibili; ciò è confermato anche nella ma- nualistica attuale.

Successivamente, grandi crisi umanitarie come quelle del Rwanda a metà degli anni ‘90, insieme a forti critiche al si- stema di gestione delle stesse,37 si riflettono nella necessità di ridare ordine e credibilità alle agenzie umanitarie. Nel 2000, un vasto gruppo di agenzie umanitarie operanti nel settore si riunisce nel progetto Sphere, per dar vita a quello che diverrà il principale riferimento per la gestione delle crisi, Humanita- rian Charter and Minimum Standards in Disaster Response. Il documento contiene standard per la maggior parte qualita- tivi, in riferimento ad esempio al benessere e alla sicurezza delle persone, ma propone anche indicatori numerici a soste- gno di tali inidcazioni. Kennedy nota come il manuale prodot- to dal progetto Sphere sia quello che, se applicato ai campi profughi, produce situazioni più insostenibili a lungo termine, specialmente per quanto riguarda le opportunità di sviluppo personale dei profughi.38 Infatti, proprio a causa dell’orienta- mento al soddisfacimento dello standard, questo è visto come obiettivo piuttosto che come requisito alla base di un pro- cesso. Nelle 30 pagine della sezione “Shelter, Settlement and Non-Food Items”, ogni riferimento grafico a schemi urbani- stici è rimosso, e sono fornite solo indicazioni su standard di tipo qualitativo e operativo.39

Negli anni 2000 si registra nuovamente un cambio di pro- spettiva nei confronti della progettazione urbanistica dei campi profughi, con la redazione di diversi manuali ad ope- ra di organizzazioni non-governative, singoli professionisti o gruppi di ricerca. È il caso, ad esempio, di:

– Engineering in Emergencies (Ian Davis)40;

– Transitional Shelters Displaced Populations (Tom Corsellis e Antonella Vitale)41;

– Camp Management Toolkit (Norwegian Refugee Council)42. Questi manuali, sebbene diversi negli scopi, reintroduco-

F. 10

Organizzazione del campo profughi alla macro (sinistra) e alla micro- scala (destra), con indicazione di vari possibili layout per i moduli comunitari. (Corsellis, Vitale, 2005) F. 10

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l’amministrazione e i servizi principali siano centralizzati, mentre a livello di ogni settore siano previsti spazi ricreativi e commerciali decentralizzati.46

A un secolo dalla costruzione del primo campo profughi, l’ul- tima versione di Handbook for Emergencies47 è il principale testo di riferimento per la progettazione di campi profughi.

Lo Stato dell’Arte

Dopo aver trattato delle dinamiche che hanno portato all’at- tuale pratica progettuale dei campi profughi, si propone in questa sezione una breve disamina delle principali norme in materia di progettazione urbanistica fornite dal manuale Handbook for Emergencies, culmine di tali dinamiche e prin- cipale riferimento per la progettazione degli odierni insedia- menti d’emergenza. Il manuale è uno strumento approfondi- to e omnicomprensivo, che conta in totale circa 600 pagine.

In questa trattazione, ci si limiterà a considerare gli aspetti riguardanti la pianificazione urbana, contenuti nel capitolo

“Site Selection, Planning and Shelter”48, fornendo indicazioni di diversa natura solo quando strettamente legate a prescri- zioni di natura urbanistica.

il campo come ultima risorsa

Le soluzioni per gestire una crisi umanitaria sono diverse e la loro scelta dipende da vari fattori, fra cui i più importanti sono il numero di persone coinvolte, la disponibilità di risorse e i rapporti con il paese ospitante. Le opzioni fornite dal manuale possono essere riunite in tre macro-gruppi:

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struttura generale

La prima raccomandazione riguarda comprensibilmente la selezione del sito che ospiterà il campo. Su questo aspetto gli stati ospitanti hanno generalmente ampio potere decisiona- le; l’unica raccomandazione è che siano considerate le risorse disponibili, e in particolare che l’acqua presente sul sito sia suffciciente a garantire il minimo consentito senza bisogno di portare acqua via camion dall’esterno per un lungo periodo.

L’UNHCR raccomanda di evitare campi per più di 20.000 per- sone; per cui è indicata la dimensione massima di 90 ettari sulla base di un calcolo sommario che prevede l’allocazione di una superficie variabile fra i 30 e i 45 m2 a persona.

Le raccomandazioni generali sulla forma urbana proseguono indicando norme che si potrebbero definire “principi geneti- ci”. Il modello generale preferibile viene descritto come de- centralizzato e basato sulla comunità. Si raccomanda, nella redazione del masterplan, di prestare particolare attenzione agli elementi del contesto (curve di livello, corsi d’acqua, bo- schi, terreni rocciosi o sabbiosi elettrodotti e infrastrutture idriche), e procedere all’indicazione dei principali elementi fisici da realizzare: strade, sistemi di drenaggio, area da desti- nare alle abitazioni e alle future espansioni.

infrastrutture e impianti

Si raccomanda poi di considerare le infrastrutture viarie, il piano di gestione dell’igiene pubblico, di distribuzione dell’ac- qua e di illuminazione.

Secondo le indicazioni, le strade devono seguire il più possi- bile l’andamento del terreno per limitare l’erosione e la for- mazione di zone stagnanti. Gli edifici devono essere disposti ad almeno 5-7 m dal bordo stradale e, se è previsto un alto traffico veicolare, il traffico pedonale deve essere adeguata- mente separato. Per la prevenzione degli incendi, si fornisco- no due raccomandazioni: a livello generale, lasciare strisce – distribuzione nel territorio;

– localizzazione concentrata;

– campi profughi.

Il primo tipo consiste nella diffusione dei rifugiati nel territo- rio, in contesti rurali oppure urbani, presso famiglie ospitanti oppure in abitazioni condivise da famiglie estese. I vantaggi di questa soluzione sono i bassi costi, in quanto non è ne- cessario costruire appositi infrastrutture e impianti, il basso impatto sull’ambiente e l’influenza positiva sulla vita dei rifu- giati e sulla loro indipendenza. Gli aspetti negativi sono in- vece dati dal possibile aumento della popolazione rifugiata, che può causare notevoli pressioni sui sistemi amministrativi e sociali locali, e la difficoltà di raggiungere ogni beneficiario con i necessari aiuti.

Il secondo tipo consiste nella concentrazione dei rifugiati in edifici preesistenti, spesso vacanti, come scuole, caserme e magazzini. L’aspetto positivo, dato dalla facilità di erogazione degli aiuti e dai costi contenuti, è bilanciato dal rischi di so- vraffollamento, che può portare problemi sanitari e tensioni sociali.49

Il terzo tipo si divide in due ulteriori categorie: i campi auto- costruiti e i campi pianificati. I primi, noti anche come ITS (Informal Tented Settlements) sono generalmente da evitare, in quanto pongono problemi successivamente alla fondazio- ne per l’implementazione dei servizi base. I secondi possono essere a loro volta di diverso tipo: campi ad alta popolazio- ne e bassa densità, campi dispersi sul territorio e campi ad alta densità e popolazione. Questi ultimi sono considerati dall’UNHCR come l’ultima risorsa, in quanto richiedono un enorme supporto economico e mettono notevole pressione sull’ambiente e sulle popolazioni locali. Tuttavia, alcune situa- zioni straordinarie possono determinare la necessità di inse- diare i profughi in questo tipo di campi. Il campo profughi og- getto della presente tesi è ascrivibile a quest’ultima categoria.

servizio 1 per (ab.)

rubinetto d’acqua potabile 80-100

latrina 6-10

clinica 20.000

ospedale 200.000

complesso scolastico 5.000 centro di distribuzione 5.000

mercato 20.000

contenitori di rifiuti 40-50

modulo sottomoduli persone

famiglia 4-6

comunità 16 famiglie 80 blocco 16 comunità 1.250 settore 4 blocchi 5.000 campo 4 settori 20.000 T. 3

Indicazioni per la suddivisione del campo in moduli e sottomoduli urbani.

T. 2

Standard di riferimento per la fornitura di servizi alla comunità secondo Handbook for Emergencies.

(15)

tagliafuoco di 30 m ogni 300 m di spazio costruito. A una micro-scala, si raccomanda che la distanza fra gli edifici non sia mai minore di due volte l’altezza di essi.

Gli aspetti igienici sono indicati come preponderanti per la scelta del layout: i lavori di costruzione delle latrine e delle eventuali infrastrutture sono da eseguirsi prima dell’insedia- mento degli abitanti, e si deve prevedere l’accesso dei mezzi di manutenzione alle strutture sanitarie.

La fornitura d’acqua potabile deve avvenire alla minor distan- za possibile dalle abitazioni, possibilmente entro 100 m. La distribuzione dei rubinetti e dei serbatoi a servizio di picco- le comunità è indicata come misura per ridurre gli sprechi e gli atti vandalici. Se possibile, si raccomanda l’installazione di una rete di distribuzione interrata. Le quantità minime gior- naliere sono stimate in 7 l per la sopravvivenza, da aumentare a 20 il prima possibile.50

servizi agli abitanti

Contestualmente alle indicazioni per la redazione del master- plan, si indicano i principali servizi alla comunità come ele- menti fondamentali da pianificare:

– aree amministrative;

– strutture sanitarie;

– strutture per l’educazione;

– magazzini;

– centri di distribuzione;

– strutture comunitarie ricreative;

– edifici religiosi;

– mercato;

– terreno per l’agricoltura.

Le quantità per alcuni di questi servizi sono poi specificati in un’apposita tabella.

Le strutture comunitarie sono preferibilmente da realizzarsi in edifici non permanenti, per i quali si raccomanda di uti- lizzare schemi flessibili in modo che possano servire scopi F. 11

Schema grafico per del layout del modulo comunitario tipo secondo Handbook for Emergencies. (UNHCR, 2007)

T. 2

(16)

I Problemi del Campo

I problemi che affliggono i campi profughi sono di diversa natura, e molti di essi sono di difficile soluzione in quanto strettamente legati ad aspetti indipendenti dalla volontà delle organizzazioni preposte alla gestione delle crisi umanitarie.

Il fatto che i campi profughi siano insediamenti d’emergenza implica che questi siano costruiti con particolare urgenza. Ciò non ha necessariamente a che fare con la manualistica o il modo in cui l’assistenza è regolamentata: spesso gli eventi co- stringono alla fuga gruppi di persone oggettivamente troppo numerosi perché si possa gestire l’emergenza pensando an- che agli sviluppi futuri del campo, per cui i bisogni primari – acqua, cibo, igiene – sono giustamente messi al primo posto.

Inoltre la necessità di render conto ai donatori con dati og- gettivi non fa altro che legittimare l’approccio che vede gli standard come obiettivi, e non come mezzi. Il benessere dei profughi è indicato come missione principale dall’UNHCR nella prima pagina del manuale di riferimento,51 ma purtroppo questo ha poco a che vedere con calorie, litri d’acqua, metri quadri, latrine.

Infine, l’esistenza del campo profughi presuppone quella di un conflitto. Ciò implica bisogno di protezione per i profu- ghi, che fuggono lasciandosi letteralmente tutto alle spalle, e genera la grande incertezza data dal protrarsi del conflitto.

In queste situazioni, il campo profughi si rivela un sorta di limbo, uno spazio di eccezione anche temporale in cui la pre- carietà rischia assume le sembianze della normalità, e la vita precedente rischia di essere dimenticata. È stato ed è così per i campi profughi palestinesi sorti durante l’esodo del 1948, in cui intere vite si sono svolte e almeno tre generazioni si sono susseguite. Con la durata media di un campo stimata tra i 7 e 17 anni,52 potrebbe non essere legittimo parlare di insedia- menti temporanei.

Nonostante le difficoltà appena elencate, in molti casi i pro- diversi. Vengono poi indicati i servizi da realizzare in manie-

ra centralizzata (prevalentemente amministrativi, sanitari e grandi strutture sociali) e decentralizzata (piccoli servizi igie- nico-sanitari, scuole, centri di distribuzione).

moduli comunitari

Alla micro-scala, viene affermata l’importanza di applicare un approccio boottom-up, ovvero partire dai bisogni della singo- la famiglia, specialmente nella provvisione di servizi standard come latrine, docce e contenitori di rifiuti. Il campo è visto come un insieme di moduli urbani che condividono spazi fi- sici o servizi, secondo una struttura gerarchica che parte dal modulo più piccolo (comunità) per arrivare alla totalità del campo, passando da moduli intermedi (blocchi e settori).

La forma raccomandata per le singole comunità è semi-chiu- sa (o semi-aperta, che dir si voglia), per garantire privacy e al tempo stesso interazione con le altre comunità. Si evidenzia in diversi punti che ogni sforzo deve essere fatto per evita- re un rigido schema a griglia, per le difficoltà di individuare i servizi allocati ad ogni comunità e per le difficoltà di intera- zione sociale. Lo schema grafico allegato mostra una comu- nità composta da 16 abitazioni su due file parallele a condivi- dere uno spazio centrale in cui è schematicamente indicata la presenza di vegetazione e del rubinetto d’acqua potabile; le latrine e le docce sono invece posizionate a un’estremità del lato corto, suddivise per genere e separate da una partizio- ne opaca. Inoltre, si fa riferimento alla necessità di informarsi sulle abitudini culturali dei profughi prima della pianificazio- ne, attraverso documenti e discussioni con i profughi stessi.

T. 3

F. 11

F. 12

Vista aerea di uno dei campi profughi di Dadaab (Kenya), fondato nel 1992 e che oggi ospita complessivamente circa 330.000 rifugiati somali. (Mukoya/

Reuters, 2015)

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(18)

insostenibilità sociale

Per insostenibilità sociale si intende l’impatto negativo che il campo profughi ha sul benessere fisico e psicologico suoi abitanti. La constatazione più banale, valida specialmente in campi profughi che si protraggono per lunghi periodi, è che essi sono insediamente spesso incredibilmente popolosi (e talvolta anche sovraffollati) in cui gli abitanti si trovano a condividere servizi minimi in condizioni di assoluta povertà ed emarginazione sociale. Tuttavia, il campo può non essere sostenibile socialmente anche se sono rispettati gli standard settoriali e i servizi forniti sono adeguati: Za’atari, come si ve- drà, ne è un perfetto esempio.

L’insostenibilità sociale di un campo profughi deriva da due aspetti diversi ma fondamentalmente collegati: la mancan- za di concrete indicazioni, nella manualistica di settore, sul rispetto delle abitudini sociali e culturali delle popolazioni ospitate; e l’esclusione delle stesse dai processi decisionali riguardanti la progettazione del campo, secondo quella defi- nita da Cuny come “we know best” syndrome.53 I profughi sono generalmente considerati come incapaci di gestire la crisi, e per queste si tende a pianificare ogni aspetto della vita del campo, creando un circolo vizioso in cui l’assenza dai processi decisionali genera letargia nei profughi, rinforzando l’assun- zione che essi non siano in grado di prendersi cura di sé. Ciò porta all’aumento delle spese, in quanto gli abitanti del cam- po si adattano a ricevere aiuti umanitari invece di sviluppare strategie di autosostentamento. La progettazione degli spazi fisici pure gioca un ruolo fondamentale per l’autonomia dei profughi, in quanto non sempre l’applicazione degli standard garantisce adeguati spazi per le attività che i profughi inten- dono praticare (ad esempio agricoltura e pastorizia), oppure gli spazi aperti sono eccessivi e non permettono lo sviluppo di relazioni sociali e commerciali.

Esiste anche un altro aspetto negativo: la mancata partecipa- zione dei profughi alla progettazione del campo porta spesso a errori facilmente evitabili, che generano alti costi aggiuntivi blemi di gestione che si verificano nel lungo periodo sono ef-

fettivamente evitabili attraverso la conoscenza completa dei vari aspetti concernenti la crisi. Questi altro non sono che quelli già indicati da Cuny nei suoi primi scritti la politica e i rapporti con la comunità ospitante, l’ambiente circostante e le risorse, l’economia e i fondi a disposizione, la cultura e le abitudini delle popolazioni in fuga. La mancata considerazio- ne di questi aspetti nel loro insieme reca danni spesso diffi- cilmente riparabili, che interessano i profughi, l’ambiente, le comunità ospitanti.

insostenibilità economica e ambientale

I problemi di insostenibilità economica dei campi profughi ri- guardano sia aspetti diretti che indiretti. Per quanto riguarda i primi, gli enormi costi di gestione sono dati dal fatto che le strutture e gli impianti presenti in un campo sono inefficien- ti e facilmente deteriorabili, in quanto pensati per servire un breve periodo di tempo. Sebbene convenienti perché meno costosi di elementi permanenti, gli impianti dei campi profu- ghi si rivelano assolutamente insostenibili nel lungo termine, perciò devono essere sostituiti, riparati oppure riprogetta- ti. Ciò riguarda indirettamente anche l’ambiente, in quanto l’inefficienza energetica si riflette nello spreco di risorse e nell’inquinamento. Ad esempio, l’utilizzo di stufe e altri si- stemi inefficienti può portare a deforestare ettari di bosco in poco tempo; oppure il trasporto di acqua potabile via camion può causare l’inquinamento e l’erosione del suolo. Inoltre, i bassi costi di trasporto dati dall’alta densità abitativa sono solo una faccia della medaglia: l’altra, quella peggiore, è l’alta produzione di rifiuti concentrati in uno stesso luogo, che può portare all’inquinamento degli acquiferi e a problemi sanitari che si estendono ben oltre i confini del campo.

F. 12

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di gestione. Cuny, ad esempio, cita il caso di un campo profu- ghi in Pakistan dove le latrine, nonostante fossero funzionanti e ben mantenute, non venivano utilizzate perché costruite verso la Mecca, senza precedentemente consultare gli abi- tanti.54 Kennedy, invece, pone l’esempio del campo profughi di Largo (Sierra Leone), in cui gli spazi aperti interni alle co- munità, inizialmente progettate per assolvere funzioni socia- li, erano in realtà sotto-sfruttate, mentre le strade intese per agire da cuscinetto fra le comunità erano invece i luoghi più utilizzati per la vita quotidiana, ospitando spazi commerciali, giardini, attività produttive e sociali. Il motivo che Kennedy adduce, e che sembra ragionevole, è che gli abitanti di Largo, non interpellati sul layout delle loro comunità, non avessero avuto modo di manifestare il dissenso verso il dover svolgere le proprie attività vicino alle latrine e all’immondizia.55 Lo stesso Kennedy, parlando del campo profughi di Ifo (Ken- ya), evidenzia una concezione totalmente sbagliata del mo- dulo comunitario da parte dei progettisti. A una prima de- marcazione attraverso siepi, intrapresa dall’UNHCR seguendo i confini dei settori così come pianificati, ne è seguita un’altra messa in atto dai profughi attorno alle loro case, risultato di negoziazioni private e perciò morfologicamente differente dalla prima. La sovrapposizione dei due livelli di demarcazio- ne ha creato sentieri stretti e privi di accessi a edifici pub- blici o privati, che espongono chi li percorre alla minaccia di attacchi senza la possibilità di trovare aiuto nelle immediate vicinanze.56 Questi sono tutti esempi di come la mancata con- siderazione del contesto e delle abitudini degli abitanti possa trasformare un’azione progettuale da migliorativa a peggio- rativa della vita nel campo, risultando di fatto anche in uno spreco di risorse.

insostenibilità politica

Il campo profughi provoca infine pressione sui sistemi po- litici, governativi e sociali degli stati ospitanti, i quali sono

chiamati a rispondere alle esigenze di un numero di persone spesso dello stesso ordine di grandezza di quella locale. Oltre a mettere pressione sui sistemi assistenziali ed educativi, le popolazioni insediate in campi profughi hanno spesso la pos- sibilità di lavorare illegalmente a costi più bassi di quelli del mercato locale, in quanto beneficiari di assitenza umanitaria.

Ciò crea squilibri nel mercato del lavoro locale e comprensi- bili tensioni. Inoltre, la presenza di un alto numero di persone economicamente svantaggiate crea terreno fertile per orga- nizzazioni criminali, che colpiscono naturalmente sia i profu- ghi che la comunità locale. In questo clima, l’intolleranza delle popolazioni ospitanti mette ulteriore pressione sui governi, i quali tendono ad isolare ancor di più i profughi in territori nudi e inospitali, non facendo altro che aumentare i problemi ambientali e sociali appena descritti.

Gli Sviluppi Futuri

La dimensione delle recenti crisi umanitarie ha contribuito se non altro a sensibilizzare la comunità scientifica sul problema dei campi profughi, dando nuova linfa a un filone di ricerca che da qualche decennio sembrava essersi arenato.

Un nuovo ramo di ricerca, in particolare, si pone come sco- po l’unificazione degli approcci alla progettazione dei campi profughi sotto l’ombrello dell’ecologia e degli aspetti sociali.

EnneadLab, studio americano attivo nel settore, lavora insie- me all’università di Stanford e all’UNHCR allo sviluppo di uno strumento parametrico capace di risolvere i problemi di pro- gettazione dei campi a partire dalle caratteristiche morfolo- giche dell’ambiente circostante.57 L’aspetto importante è che lo strumento può e deve essere utilizzato in anticipo rispetto

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alla crisi, costruendo database che contengano informazioni utili sulle eventuali crisi umanitarie e i possibili siti utilizzabili per i campi profughi.

Nel 2015 l’autore di questa tesi ha avuto modo di lavorare a un progetto di ricerca,58 insieme all’arch. Battistella dello studio Arcò – Architettura e Cooperazione, riguardante la definizio- ne di un approccio alla progettazione dei campi profughi sen- sibile alle questioni ambientali e al background culturale delle popolazioni insediate. L’approccio proposto consiste nell’in- terpretazione dell’ecosistema come layer di base per la pro- gettazione del campo, al quale sovrapporre strutture spaziali topologiche derivate dallo studio delle abitudini insediative dei profughi, rimanendo comunque nel rispetto degli aspet- ti qualitativi dettati dalle linee guida. Ogni elemento naturale (curva di livello, corso d’acqua, vegetazione, venti prevalen- ti) sono ridotte a geometrie elementari (curve chiuse, linee, superfici, vettori), che vengono successivamente sfruttati per adattarvi le strutture topologiche derivanti dall’analisi sociale della popolazione da insediare. L’aspetto cui viene dato par- ticolare rilievo è la possibilità, in fase transizionale, di appli- care strategie ecologiche su larga scala, contando sul riciclo del materiale umanitario in combinazione con le risorse del luogo, e sulla partecipazione attiva dei profughi, appropria- tamente istruiti grazie a programmi di apprendistato. L’appli- cazione di queste strategie si basa sulla preservazione delle risorse naturali avvenuta nella prima fase d’emergenza, e resa possibile dalla conoscenza degli elementi base dell’ecosiste- ma e alla loro attenta combinazione con le strutture sociali degli abitanti. Nella fase di sviluppo a lungo termine, invece, si prevede che i profughi siano in grado di sviluppare strate- gie di autosostentamento e una certa autonomia, grazie a un rapporto di sinergia con l’ecosistema.

La sfida maggiore consiste nel riuscire a rendere l’approccio descritto applicabile su larga scala, e a creare le condizioni politiche per la revisione degli standard in favore della salva- guardia dell’ecosistema e del benessere dei profughi.

F. 13

Schema del processo di strutturazione di un campo profughi nel rispetto dell’ecologia del luogo, nella fase di emergenza (sopra), transizione (centro) e sviluppo a lungo termine (basso). (Battistella, Buonocore, 2015) F. 13

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note

1 “Profugo” Def. Vocabolario Treccani, 2013, treccani.it, web.

2 VOUTIRA, EFITHIA, e BARBARA HARRELL-BOND,

““Successful” Refugee Settlement: Are Past Experiences Relevant?”, in Reconstructing Livelihoods, Cernea, M e C. Macdowel (ed.), World Bank, Washington, 2000, pp.

72,73.

3 KENNEDY JAMES, Structures for the Displaced: Service and Identity in Refugee Settlements, Master Thesis of Architecture, Katholieke Universiteit Leuven, International Forum of Urbanism, 2008, p. 107.

4 La situazione è definita come “one in which refugees find themselves in a long- standing and intractable state of limbo. Their lives may not be at risk, but their basic rights and essential economic, social and psychological needs remain unfulfilled after years of exile.”. Si indica tale situazione come una in cui una popolazione di almeno 25.000 persone si trova a risiedere per più di 5 anni in esilio in un paese in via di sviluppo. Cfr. UNHCR,

“Protracted Refugee Situations”, Executive Committee of the High Commissioner’s Programme, 10 giugno 2004, doc. n. EC/54/SC/CRP.14.

5 DEARDORFF, SARAH, How Long is Too Long? Questioning the legality of long-term encampment through a human rights lens, Refugees Studies Center Working Papers Series n. 54, RSC, Oxford, 2009, p. 8.

6 Ibidem, p. 16.

7 Ibidem, pp. 14-17.

8 AGAMBEN, GIORGIO, Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press, Stanford, 1998, p. 78. 

9 Ibidem, p. 12. 

10 SANYAL, ROMOLA, “Refugees and the City: An Urban Discussion”, in Geography Compass, vol. 6, n. 11, pp. 633- 644.

11 AGIER, MICHEL, “Between War and City. Towards an Urban Anthropology of Refugee Camps”, in Ethnography, vo. 3, no. 3, p. 337.

12 Ibidem, p. 323.

13 MARTIN, DIANA, “From spaces of exception to

‘campscapes’: Palestinian refugee camps and informal settlements in Beirut”, in Political Geography, n. 44, 2015, pp. 9-18.

14 RAMADAN, ADAM, (2013) “Spatializing the refugee camp”,

Displaced Populations, Oxfam GB, Oxford, 2005.

42 NRC, Camp Management Toolkit, The Camp Management Project, Oslo, 2008.

43 CORSELLIS T., VITALE A., Transitional Settlements, p. 376.

NRC, Camp Management Toolkit, p. 188.

44 NRC, Camp Management Toolkit, The Camp Management Project, Oslo, 2008, pp. 205-206.

CORSELLIS T., VITALE A., Transitional Settlements, pp.

377-379.

45 Ibidem, p. 376.

NRC, The Camp Management Toolkit, p. 384.

46 Ibidem, p. 376.

47 UNHCR, Handbook for Emergencies.

48 Ibidem, pp. 204-225.

49 Ibidem, pp. 207-208.

50 Ibidem, p. 244.

51 Ibidem, p. XI.

52 KENNEDY, JAMES, “Challenging Camp Design Guidelines”, in Forced Migration Review, 23, 2005, pp.

46–47.

MCINTYRE, PAUL, “Hard Reality of a Refugee Camp”, Australian Broadcasting Corporation, 25 febbraio 2008, http://www.abc.net.au/local/

stories/2008/02/25/2171319.htm

53 CUNY, F. Refugee Participation in Emergency Relief Operations, Refugee Policy Group, Washington, 1986, p.

54 3.Ibidem, p. 17.

55 KENNEDY, JAMES, Towards a rationalisation of the construction of refugee camps, Thesis (Master of Architecture), Katholieke Universitiet Leuven (ASRO), 2004, p. 100.

56 KENNEDY JAMES, Structures for the Displaced, p. 153.

57 ENNEADLAB, STANFORD UNIVERSITY, UNHCR, Toward a Unified Approach, Workshop Document, 2014.

58 BATTISTELLA, A. e M. BUONOCORE, “New Ways to Design in Emergency. A Sustainable Approach to Refugee Camp Design”, in Proceedings of the 31th International PLEA Conference, Bologna, 9-11 settembre 2015.

in Transactions of the Institute of British Geographers, vol.

38, n. 1, pp. 65-77.

17 KENNEDY JAMES, Structures for the Displaced, p. 80.

18 Frederick C. Cuny è stato uno dei protagonisti assoluti del campo umanitario, svolgendo anche importante lavoro di ricerca con il gruppo di professionisti associati da lui fondato e denominato Intertect Relief and Reconstruction Corporation. Il suo intenso lavoro nella progettazione e ricerca sui campi profughi copre circa 25 anni, dagli inizi degli anni ’70 fino al 1995, quando scompare durante un’operazione umanitaria in Cecenia.

19 Kennedy cita opere come Urban dwelling environments:

An elementary survey of settlements for the study of design determinants di Caminos, Turner e Steffian, pubblicato nel 1969.

20 KENNEDY JAMES, Structures for the Displaced, p. 88.

22 HARTKOPF, V., GOODSPEED, C., “Space enclosures for emergencies in developing countries”, in Disasters, vol. 3, n. 4, pp. 443-455, Pergamon Press Ltd, Oxford, 1979.

24 HARTKOPF, GOODSPEED, “Space enclosures for emergencies in developing countries”, p. 448.

25 CUNY, F., “Refugee Camp and Camp Planning, the State of the Art”, in Disasters, vol. 1, n. 2, Pergamon Press, London, 1977, pp. 125-143.

26 Ibidem.

27 Ibidem, p. 129.

28 Ibidem, pp. 137-142.

29 HARTKOPF, GOODSPEED, “Space enclosures for emergencies in developing countries”, p. 449.

31 KENNEDY JAMES, Structures for the Displaced, p. 97.

32 UNHCR, Handbook for Emergencies, UNHCR, Geneva, 1982, p.59.

33 Ibidem, pp. 57-67.

34 KENNEDY, Structures for the Displaced, p. 106.

35 Ibidem, p. 108.

36 Ibidem, p. 113.

37 Un noto esempio è Imposing Aid, di Barbara Harrell- Bond, che denuncia l’inefficienza e la corruzione diffusa del sistema.

38 KENNEDY, Structures for the Displaced, p. 118.

39 THE SPHERE PROJECT, Humanitarian Charter and Minimum Standards in Humanitarian Response, Practical Action Publishing, Rugby, 2011, pp. 238-267.

40 DAVIS IAN, Engineering in Emergencies, RedR, 1995, London.

41 CORSELLIS T., VITALE A., Transitional Settlements.

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