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2. TRATTAMENTO MEDICO DELLE PAZIENTI CON DIAGNOSI DI CARCINOMA MAMMARIO CON HER-2 IPERESPRESSO

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2. TRATTAMENTO MEDICO DELLE PAZIENTI CON DIAGNOSI DI CARCINOMA MAMMARIO CON HER-2 IPERESPRESSO

Al momento di decidere quale terapia utilizzare nella singola paziente occorre una attenta valutazione dei fattori prognostici, dei fattori predittivi di risposta ai trattamenti, nonché degli effetti collaterali attesi, della comorbidità della paziente e naturalmente della sua preferenza. Ancora oggi per la scelta del trattamento abbiamo solo due fattori predittivi accettati universalmente: lo stato dei recettori ormonali e quello di HER-2. Oltre a questi, abbiamo a disposizione altri fattori prognostici che ci permettono di definire l’entità del rischio di ripresa nella singola paziente oltre che una stima di sopravvivenza:

- Diametro del tumore

- Stato e numero di linfonodi metastatici

- Istologia (duttale; lobulare; mucinoso, tubulare, papillare; midollare, adenoido-cistico, apocrino)

- Grado istologico

- Attività proliferativa (Ki67/MIB-1)

- Stato dei recettori ormonali e livello dei recettori ormonali

- Stato di HER2

- Invasione vascolare

- Età della paziente

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2.1 Meccanismo d’azione di trastuzumab

Trastuzumab (Herceptin®) è un anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante (mAb) diretto contro il dominio extracellulare della proteina HER-2 (16). La sua azione antitumorale non è ancora completamente conosciuta ma sappiamo che è mediata da diversi meccanismi.

Questi meccanismi includono la citotossicità cellulo-mediata dipendente dall’anticorpo (ADCC), l’inibizione del clivaggio del dominio extracellulare (ciò previene la formazione di una forma tronca ma costitutivamente attiva del recettore), l’inibizione della dimerizzazione di HER2 legando-indipendente e quindi della successiva trasmissione del segnale a valle (coinvolgente molteplici vie cellulari, ad esempio le vie delle PI3K e delle MAPK), l’induzione dell’arresto del ciclo cellulare, l’induzione dell’apoptosi, l’inibizione dell’angiogenesi e l’interferenza con la riparazione del DNA (17,13).

Inoltre, dati provenienti da studi preclinici suggeriscono che tra i meccanismi d’azione siano inclusi anche una down-regulation di HER2 attraverso l’endocitosi Trastuzumab-indotta del recettore (con conseguente incremento della degradazione intracellulare) (18).

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2.1 Setting adiuvante

Secondo linee guida AIOM, il trattamento sistemico adiuvante deve essere preso in considerazione dopo il trattamento chirurgico in considerazione della significativa riduzione del rischio di recidiva e di morte ottenuta con la polichemioterapia (19), con la terapia endocrina(20) e con la terapia biologica (trastuzumab) (21). Sia le linee guida americane (NCCN) sia quelle europee (St. Gallen) raccomandano l’uso di Trastuzumab nel setting adiuvante.

Vari studi randomizzati hanno valutato l’utilizzo del trastuzumab somministrato in sequenza o in concomitanza alla chemioterapia adiuvante rispetto alla sola chemioterapia nelle pazienti con HER-2 positivo (IHC 3+ oppure FISH/CISH amplificato) (22). Negli studi NSABP B-31 e N9831 (nati inizialmente come trials separati ma poi analizzati congiuntamente per ottenere una più precoce valutazione degli outcomes clinici), i pazienti sono stati randomizzati a ricevere doxorubicina e ciclofosfamide per 4 cicli seguite da paclitaxel (AC-T) per 4 cicli ogni 3 settimane oppure lo stesso regime seguito da Trastuzumab (AC-TH) una volta alla settimana per 52 settimane (12 settimane concomitante a paclitaxel, 40 settimane in monoterapia in sequenza alla chemioterapia). Nell’analisi combinata dei due bracci di Trastuzumab concomitante a paclitaxel verso la sola chemioterapia, si è osservato un vantaggio significativo in termini di DFS (HR 0.52, p<0.001) e una riduzione del rischio di morte del 39% (OS, HR 0.61, p< 0.001) (23).

In uno dei due studi (NCCTG 9831) (24), era presente anche un terzo braccio in cui le pazienti ricevevano il Trastuzumab al termine della chemioterapia, in sequenza ad essa senza nessun periodo di concomitanza (AC-T-H) e una volta analizzato, questo ha rivelato un chiaro vantaggio in DFS per i pazienti che avevano ricevuto Trastuzumab concomitante (84.4% vs 80.1%, HR 0.77, p=0.022) mentre non è stato osservato nessun beneficio in termini di OS. Questi dati supportano il fatto che lo schema AC-TH sia oggi l’approccio maggiormente adottato. Esso riduce anche la durata della terapia intravenosa di 3 mesi circa e ciò potrebbe incrementare la compliance del paziente.

In un altro studio condotto in Europa (HERA) le pazienti con linfonodi ascellari positivi oppure negativi ad alto rischio (tumore> 1cm) sono state randomizzate, dopo chemioterapia e radioterapia adiuvanti, a ricevere trastuzumab ogni 3 settimane (per 1 o 2 anni) o a nessun trattamento. Ad un follow up mediano di 4 anni, Trastuzumab ha condotto a una riduzione del rischio di recidiva del 24% (HR 0.76, p< 0.0001). Il vantaggio in OS non è però risultato statisticamente significativo, ma questa analisi è stata influenzata dal fatto il 52% delle pazienti nel braccio di controllo ha ricevuto trastuzumab dopo la diffusione dei risultati iniziali dello studio (25). Un recente aggiornamento, effettuato dopo un follow up di 8 anni ha confermato un vantaggio statisticamente sia in DFS (HR=0,76; p<0,0001) che in OS (HR=0,76; p=0,0005) del trastuzumab somministrato per un anno rispetto al braccio di controllo. Non è stato invece evidenziato alcun vantaggio statisticamente significativo con la somministrazione di trastuzumab per due anni totali rispetto alla

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somministrazione di trastuzumab per un anno, né in DFS (HR=0,99; p=0,86) né in OS (HR=1,05; p=0,63)230, ed è stato invece riportato un numero maggiore di eventi cardiaci avversi (26).

In accordo con i risultati dei maggiori trials clinici, trastuzumab è generalmente ben tollerato in concomitanza, oppure somministrato sequenzialmente ad un regime di chemioterapia. Nelle pazienti che hanno ricevuto trastuzumab in contemporanea ai taxani dopo un regime contenente antracicline è stato registrato tuttavia un significativo aumento della cardiotossicità (27). Trastuzumab, somministrato al termine di tutti i trattamenti adiuvanti come nello studio HERA, ha determinato solo un lieve aumento di eventi cardiaci reversibili dopo sospensione del farmaco e adeguata terapia cardiologica (28) . Sebbene la potenziale cardiotossicità (mediata dall’inibizione del pathway HER2 nei miociti cardiaci) (29) rappresenti dunque un aspetto problematico, la maggior parte degli eventi cardiaci correlati si limitano comunque a una diminuzione asintomatica della frazione di eiezione del ventricolo sinistro (LVEF). Inoltre, sia gli effetti collaterali asintomatici che quelli sintomatici (compresa anche l’insufficienza cardiaca congestizia [CHF]) sembrano essere trattabili e soprattutto reversibili. Il rischio di grave CHF o di altri eventi cardiaci in pazienti che hanno ricevuto antracicline prima del trastuzumab rimane in un range compreso fra 0.6% e 3.9% (30). Una metanalisi che ha coinvolto 10,955 donne da vari trials adiuvanti ha mostrato che il rischio di eventi cardiaci clinicamente significativi (grado 3 o 4) correlato con chemioterapia più 1 anno di terapia con trastuzumab era 1.9% vs 0.3% nei pazienti che non avevano ricevuto l’anticorpo (31).

Per minimizzare il rischio di cardiotossicità, alcuni studiosi hanno proposto un regime non contenente antracicline associato a Trastuzumab. Nei tre bracci dello studio BCIRG 006, ad esempio, le pazienti hanno ricevuto AC seguito da docetaxel, AC seguito da docetaxel con 52 settimane di Trastuzumab, oppure docetaxel più carboplatino e Trastuzumab seguiti da Trastuzumab per completare un anno di terapia (TCH). Ad un follow-up mediano di 65 mesi, un vantaggio significativo in DFS ed in OS è stato osservato con entrambi i regimi contenenti trastuzumab (con o senza antraciclina) rispetto alla sola chemioterapia e con una differenza non significativa tra i due bracci. A rigore, il braccio con antracicline e trastuzumab è risultato associato ad un vantaggio numerico in termini di eventi di ricaduta (incremento della DFS a 5 anni del 3%) e di morte (con incremento della OS a 5 anni del 2%). Tuttavia , il disegno dello studio non prevedeva una valutazione di non inferiorità dei due bracci. (32). Il regime contenente antracicline ha presentato peraltro una maggiore incidenza di effetti collaterali cardiaci (2% vs 0.4%; p<0.001).

Anche se 1 anno di terapia con Herceptin adiuvante ha mostrato un vantaggio significativo in termini di DFS e OS, i problemi riguardanti la cardiotossicità permangono. Lo studio FINHER ha cercato di testare una minor durata di Trastuzumab: 1010 pazienti con linfonodi positivi o linfonodi negativi ad alto rischio sono state randomizzate a ricevere 3 cicli di vinorelbina o docetaxel, seguiti da (in entrambi i gruppi) 3 cicli di FEC. Il sottogruppo con tumore HER-2 positivo è stato poi randomizzato ulteriormente a ricevere

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o meno trastuzumab per complessive nove settimane in contemporanea a vinorelbina o decetaxel e ad un follow up mediano di 62 mesi, una analisi esploratorio ha mostrato un vantaggio statisticamente significativo in termini di DFS nel braccio trattato con docetaxel e trastuzumab (22,33). La potenziale equiefficacia di una somministrazione di più breve durata evidenziato dallo studio FINHER pone la valutazione del trattamento con trastuzumab per meno di un anno come importante obiettivo di ricerca. In quest’ottica, si è inserito appunto lo studio PHARE (34), disegnato per valutare la non inferiorità di 6 vs 12 mesi di trattamento con trastuzumab aggiunto alla chemioterapia. I pazienti trattati per 6 mesi hanno mostrato un incremento del 28% del rischio di ricaduta (HR=1,28; 95% CI 1,05-1,56) e, sebbene l’intervallo di confidenza includa il valore 1.15 scelto dagli autori come limite al di sotto del quale 6 mesi potrebbero essere considerati non inferiori a 12, questi risultati in realtà sembrerebbero consolidare i 12 mesi di trastuzumab come standard terapeutico. Tuttavia l’aspetto della cardiotossicità e la presenza di sottogruppi di pazienti (in particolare coloro che effettuano Trastuzumab concomitante a CT e nei pazienti ER+) in cui potrebbero essere sufficienti 6 mesi, spingono gli studiosi a richiedere ulteriori studi.

I dati riguardanti il ruolo di trastuzumab nei tumori <1 cm linfonodo-negativi rimangono scarsi. studi retrospettivi hanno evidenziato che questi tumori hanno una prognosi peggiore rispetto alle controparti HER2 negative (35,36). Analisi di sottogruppo ottenute da diversi studi randomizzati hanno mostrato un beneficio con trastuzumab in adiuvante a prescindere dalle dimensioni del tumore, sebbene non esistano dati prospettici validi nei tumori più piccoli di stadio 1 (pT1a e pT1b con pN0). 4 studi retrospettivi con casistiche limitate suggeriscono che questi pazienti possono ottenere benefici con l’utilizzo di una terapia adiuvante comprendente trastuzumab, anche se la stima di tale beneficio varia da studio a studio e non è sempre significativa (37). Nella pratica clinica quindi, pur potendo ragionevolmente considerare l’uso del trastuzumab adiuvante nei tumori pT1a/b, è importante prendere in considerazione anche altri fattori quali il grado di differenziazione, attività proliferativa, l’età della paziente e le comorbidità eventualmente presenti. Il valore dello stato dei recettori ormonali è invece in questo caso più controverso (38). A questo proposito, dati provenienti da uno studio di fase II non randomizzato presentato dal gruppo cooperativo US oncology (39) suggeriscono, anche se il livello di evidenza non è alto, l’utilizzo di un regime TCiclo (Docetaxel 75 mg/mq e Ciclofosfamide 600 mg ogni 3 settimane) + Trastuzumab nei pazienti con carcinoma della mammella a basso rischio (T<2cm, N0) e/o non candidabili per un trattamento con regimi con antracicline o più tossici. Un altro gruppo (44) ha proposto recentemente l’utilizzo in adiuvante di paclitaxel più trastuzumab per 12 settimane, seguiti da 9 mesi di trastuzumab in monoterapia, mostrando una sopravvivenza libera da malattia a 3 anni del 98.7% (CI 95%, 97.6-99.8); solo il 6% dei pazienti è uscito dal protocollo a causa di eventi avversi.

Con gli studi più recenti si è cercato di migliorare ulteriormente la prognosi dei pazienti HER2-positivi. ALTTO (Adjuvant Lapatinib and/or Trastuzumab Treatment Optimisation) è uno studio di fase III a quattro braccia che mette a confronto trastuzumab e lapatinib come agenti singoli di terapia con la combinazione

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trastuzumab più lapatinib concomitanti o in sequenza in aggiunta ad altri trattamenti standard (chemioterapia, ormonoterapia, radioterapia) (40). Lapatinib è un doppio inbitore reversibile tirosin-chinasico di HER1/EGFR ed HER2, che esercita la sua funzione sulla serina/treonina chinasi intracellulare e sui protoncogeni Akt e MAPK. Tuttavia, la precoce chiusura del braccio Lapatinib nello studio ALTTO, abbinata ai dati provenienti dallo studio TEACH (41) (lapatinib vs placebo) in cui non si è riscontrato un miglioramento dell’outcome dei pazienti ad un follow up mediano di 4 anni e al minor tasso di pCR nel braccio Lapatinib dello studio neoadiuvante NeoALTTO, induce a pensare che lapatinib come agente singolo non rappresenti una valida opzione nel setting adiuvante. Per quanto riguarda gli altri bracci dello studio ALTTO, buoni dati si sono riscontrati in quello L+T in termini di DFS, mentre il braccio TL è risultato non-inferiore rispetto a T, ma nessuna conclusione è risultata statisticamente significativa e questo era inaspettato considerando la frequenza raddoppiata di pCR riscontrata con L+T nello studio NeoALTTO. Dati provenienti da trials metastatici relativi a pertuzumab e ado-trastuzumab emtansine (T-DM1) hanno condotto a successivi studi nel setting adiuvante, che sono ancora in corso. Pertuzumab è un anticorpo monoclonale completamente umanizzato che lega il dominio II della proteina HER2. APHINITY (42) pone in confronto chemioterapia standard (con antracicline o meno) più trastuzumab con o senza pertuzumab. Lo studio KATHERINE invece sta esaminando il ruolo del T-DM1 (un’immunotossina formata dalla coniugazione del trastuzumab con la citotossina DM1, inibitrice della polimerizzazione dei microtubuli) (43) in pazienti con malattia HER-2 positiva che hanno mostrato tumore residuo nella mammella oppure linfonodi positivi dopo terapia preoperatoria.

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2.2 Setting neoadiuvante

Tradizionalmente, il trattamento neoadiuvante per il tumore alla mammella era riservato alle forme localmente avanzate (stadio IIIB, IIIC e carcinoma infiammatorio), con lo scopo di convertire il carcinoma da inoperabile a resecabile chirurgicamente. Negli anni recenti, la terapia primaria è diventata un’opzione accettata anche per le forme tumorali più precoci nell’ottica di incrementare il numero di trattamenti conservativi (BCT: breast conserving therapy) e di ridurre l’impatto della chirurgia. Gli obiettivi della chemioterapia primaria sono quindi:

Tumori operabili: se la paziente è giudicata operabile (stadio I, II, IIIA) ma candidata a mastectomia, la terapia sistemica primaria incrementa le possibilità di chirurgia conservativa, potendo quindi convertire l’intervento di mastectomia in chirurgia conservativa (quadrantectomia, escissione) (45,46). La possibilità di effettuare un intervento conservativo nei casi candidati alla mastectomia è variabile dal 20 al 40%, a seconda dell’istotipo (duttale vs. lobulare) e delle caratteristiche biologiche della neoplasia. E’ sempre consigliato ricorrere comunque a una valutazione multidisciplinare del caso. Le pazienti con carcinoma infiammatorio inoltre non sono mai candidate ad un intervento conservativo.

Tumori localmente avanzati non operabili (IIIB, IIIC e carcinoma infiammatorio): in questi casi, dato che la paziente è considerata non operabile in modo radicale (per le dimensioni e/o la presenza di N2/N3 clinico), si ricorre al trattamento primario con la finalità di permettere la successiva chirurgia, la quale, nel caso della mastite carcinomatosa, sarà sempre la mastectomia associata a dissezione ascellare omolaterale. Una chirurgia di tipo conservativo può essere comunque presa in considerazione per coloro che hanno un’ottima risposta dopo il trattamento neoadiuvante, eccetto le pazienti con mastite carcinomatosa.

In una metanalisi condotta da Mauri e al. su 3.946 pazienti che vedeva coinvolti 9 studi randomizzati, la terapia primaria non ha evidenziato rispetto alla terapia adiuvante alcuna differenza statisticamente significativa in termini di mortalità, progressione di malattia e progressione a distanza (47). Un maggior rischio di recidiva locale è emerso fra le pazienti sottoposte a trattamento neoadiuvante, ma questo è principalmente da rapportare agli studi nei quali la chirurgia è stata evitata in caso di risposta clinica completa. E’ vero tuttavia che, se andiamo a vedere nel singolo paziente, il ritardo della chirurgia dovuto al trattamento preoperatorio potrebbe comportare qualche problema: i risultati globali ottenuti dai vari trials randomizzati infatti non riflettono gli svantaggi a livello di singolo paziente. Fortunatamente, la percentuale di tumori che progrediscono durante la terapia neoadiuvante è molto bassa, ma ipoteticamente anche se la massa tumorale nel complesso si riduce, le singole cellule potrebbero rispondere diversamente. Cellule parzialmente resistenti potrebbero acquisire una resistenza completa durante il trattamento neoadiuvante

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e generare micro metastasi. In conclusione, l’obiettivo primario di mostrare un vantaggio dovuto ad una più precoce terapia sistemica non è stato raggiunto, ma si è visto che il trattamento neoadiuvante è tanto efficace quanto quello adiuvante. In aggiunta, è possibile aumentare la percentuale di chirurgie conservative nelle malattie operabili, anche se il rischio di recidiva locale potrebbe essere leggermente superiore (48).

Rispetto al trattamento adiuvante classico, l’approccio neoadiuvante offre ad ogni modo diversi vantaggi:

1. Esso consente di monitorare la risposta durante il trattamento e permette di cambiare o interrompere la terapia in caso di mancata risposta; anche se un reale vantaggio con il cambio della terapia non è ancora stato provato, si può evitare la tossicità dovuta ad un trattamento non efficace; l’evidenza di una terapia efficace può, al contrario, motivare il paziente a continuare la terapia nonostante la tossicità.

2. Aumenta il numero di interventi conservativi sulla mammella; inoltre, si può ottenere un downsizing dei tumori primariamente non operabili che permette un intervento curativo.

3. Il residual cancer burden (RCB) è un ottimo marcatore prognostico.

4. Nel setting neoadiuvante marcatori prognostici, biologia del tumore, meccanismi di resistenza e nuovi trattamenti possono essere studiati più rapidamente e con meno pazienti rispetto agli studi adiuvanti.

Ad oggi, non è stato identificato un regime chemioterapico ottimale da impiegare quale trattamento neoadiuvante. Vengono generalmente raccomandati i regimi di chemioterapia di ultima generazione che hanno ottenuto un beneficio terapeutico di primo piano nel setting adiuvante. La percentuale di pCR più elevate è stata osservata con regimi contenenti antracicline e taxani somministrati in sequenza e con un numero di 6-8 cicli prima della chirurgia (49). Sette studi randomizzati includenti 2.455 pazienti sono stati riassunti in una metanalisi basata sulla letteratura nell’ottica di verificare se l’aggiunta dei taxani a un regime basato sulle antracicline comporti un vantaggio nel trattamento primario per le forme localizzate. La percentuale di interventi conservativi (BCT) e di pCR (risposta patologica completa) è risultata più alta nei pazienti che hanno ricevuto taxani, ma la significatività statistica si è ottenuta solo nella schedula sequenziale con una differenza assoluta (AD) del 2,4% (p=0.013) (50).

Per quanto riguarda il trattamento del carcinoma mammario con stato di HER2 positivo (3+ di iperespressione del recettore all’immunoistochimica o amplificazione genica), la terapia sistemica primaria basata sull’associazione di chemioterapia e trastuzumab è riconosciuta come opzione standard (51). Il trattamento con trastuzumab adiuvante è indicato per un anno dopo la chirurgia se non era stato somministrato nel piano di trattamento preoperatorio o neoadiuvante; nel caso in cui trastuzumab fosse stato somministrato durante il trattamento neoadiuvante esso va somministrato in monoterapia per

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completare un anno totale di trattamento (compreso il tempo di somministrazione in concomitanza con la chemioterapia eseguita prima della chirurgia).

Uno studio randomizzato di fase II eseguito in un singolo centro sulle pazienti operabili (stadio II-IIIA) HER-2 positive è andato a valutare l’aggiunta concomitante di trastuzumab ad una chemioterapia preoperatorio con paclitaxel per 4 cicli e FEC per 4 cicli. Lo studio è stato chiuso prematuramente dopo sole 42 pazienti randomizzate per il riscontro di un alto tasso di pCR in coloro che avevano ricevuto trastuzumab (65% vs 26%). Un aggiornamento successivo ha poi confermato un miglioramento in termini di DFS con l’aggiunta di trastuzumab, avvalorando il fatto che la pCR possa rappresentare un utile indicatore per la prognosi a lungo termine dopo chemioterapia pre-operatoria (52).

Pazienti con tumori HER2-positivi localmente avanzati o infiammatori sono stati inclusi nello studio NOAH (NeOAdjuvant Herceptin) che ha confrontato la sola chemioterapia (doxorubicina-paclitaxel x 3 cicli seguita da paclitaxel x 4 cicli seguita da CMF x 3 cicli) con la stessa terapia in combinazione con il trastuzumab. Quest’ultimo ha quasi raddoppiato la percentuale di pCR (43% vs 23%, p=0,0007). Inoltre, si è registrato un incremento della sopravvivenza libera da eventi a 3 e 5 anni a favore di trastuzumab, confermando così l’associazione tra pCR ed event free servival (53).

In questi due studi, Trastuzumab è stato somministrato in concomitanza con le antracicline e, sebbene un decremento della LVEF sia stato registrato nel 27% delle pazienti, eventi cardiaci sintomatici sono stati riportati solo nel 2% dei casi. Nonostante questo, il regime da preferire consiste nella sequenza antraci cline- taxani con il trastuzumab somministrato in concomitanza con i taxani. Globalmente il numero di cicli ottimale è 6-8.

Infatti, lo studio randomizzato di fase III di Buzdar e coll. (54) che ha confrontato un regime pre-operatorio a base di FEC-75 seguito da paclitaxel più trastuzumab versus paclitaxel più trastuzumab seguito da FEC-75 più trastuzumab, ha rivelato un medesimo tasso di risposte patologiche complete nel protocollo sequenziale (56.5%) e in quello concomitante (54.2%), concludendo che la somministrazione contemporanea di trastuzumab e antracicline non offre alcun beneficio addizionale e non è autorizzata.

Ottimi valori di pCR si sono ottenuti anche in uno studio di fase II chiamato TECHNO, nel quale trastuzumab veniva aggiunto a 4 cicli preoperatori di paclitaxel preceduti da 4 cicli di EC (55). Dei 1.509 partecipanti allo studio GeparQuattro, 445 avevano tumori HER2-positivi e hanno ricevuto trastuzumab in concomitanza con docetaxel oppure docetaxel più capecitabina. La percentuale di pCR nella mammella e nell’ascella (ypT0/N0) ottenuta in questi pazienti differiva in maniera significativa da quella dei pazienti HER2-negativi (32% vs 16%, p<0.001), senza tuttavia influenzare il numero di interventi conservativi (56).

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Studi recenti hanno valutato il ruolo di altri farmaci anti-HER2 (lapatinib e pertuzumab) nel trattamento primario del carcinoma HER2-positivo, evidenziando che la combinazione di chemioterapia con due agenti anti-HER2 (doppio blocco) produce i tassi di pCR più elevati fino ad oggi osservati (intorno al 50-65%) (57,58).

Nello studio GeparQuinto, 620 pazienti sono state randomizzate a ricevere 4 cicli di EC seguiti da 4 cicli di docetaxel con trastuzumab o lapatinib: un più alto tasso di risposte patologiche complete è stato osservato nel braccio che aveva ricevuto trastuzumab (30,3% vs 22,7%, p=0,04) e ciò ha alimentato i dubbi riguardanti l’utilizzo di lapatinib come singolo agente anti-HER2 (59).

Lo studio NeoALTTO condotto da Baselga e al. (57) ha invece studiato la combinazione di trastuzumab e lapatinib. Un totale di 455 pazienti hanno ricevuto lapatinib, trastuzumab oppure la combinazione per un totale di 6 settimane, seguiti dalla stessa terapia e da paclitaxel per altre 12. Come nello studio adiuvante ALTTO, la terapia a bersaglio molecolare nel NeoALTTO è stata continuata per un totale di 1 anno dopo l’intervanto, con l’obiettivo di incrementare la prognosi a lungo termine, in particolare in caso di mancato pCR. L’endpoint primario dello studio era rappresentato dalla risposta patologica completa sulla mammella; quelli secondari includevano il tasso di risposta obiettiva (ORR) dopo 6 settimane. Il disegno dello studio prevedeva così di valutare l’effetto del singolo o del doppio blocco di HER2 senza il fattore confondente della chemioterapia. Di fatto, a 6 settimane per trastuzumab, lapatinib e per la combinazione dei due farmaci venne riscontrato un tasso di risposta obiettiva rispettivamente del 52,6%, 30.2%, 67,1% (p<0,001 per entrambi i confronti) e ciò mostrò che il doppio blocco con trastuzumab e lapatinib aveva una miglior attività biologica rispetto agli agenti presi singolarmente. Anche la percentuale di pCR risultò maggiore nel braccio di combinazione (dove raggiunse il 51,3%) rispetto gli altri due (29,5% con Trastuzumab e 25% con Lapatinib, p=0,0001), sebbene 30% delle pazienti abbiano dovuto stoppare la terapia per la grave diarrea e la tossicità epatica provocata dal lapatinib.

Nello studio CHER-LOB, i 121 pazienti con tumore operabile (stadio II-IIIA) sono stati sottoposti a paclitaxel per 12 settimane seguito da 4 cicli di FEC in combinazione con trastuzumab, lapatinib oppure con entrambi, prima della chirurgia. Le percentuali di pCR sono risultate differenti nei diversi gruppi di trattamento, con valori del 25% e del 26% rispettivamente per trastuzumab e lapatinib, rispetto al 47% del braccio di combinazione (60).

Dati preliminari da altri studi, come il NSABP-B41 (nel quale tuttavia non si è ottenuta la significanza statistica) (61), hanno confermato la superiorità della combinazione rispetto agli agenti singoli anti-HER2. Questo “doppio blocco” potrebbe dunque rappresentare il nuovo standard nel trattamento neoadiuvante del cancro HER2-positivo, ma fino ad oggi, non sono disponibili dati sulla sopravvivenza e lapatinib non è ancora approvato per questa indicazione.

NEOSPHERE è invece uno studio multicentrico di fase II condotto da Gianni e al. (58), in cui si è valutata la combinazione di pertuzumab+trastuzumab nel setting neoadiuvante. Sono stati arruolati 417 pazienti con

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tumore >=2cm includendo le forme localmente avanzate e il carcinoma infiammatorio. I quattro bracci di trattamento prevedevano 4 cicli di docetaxel con trastuzumab, con pertuzumab, con entrambi oppure il doppio blocco anti-HER2 senza chemioterapia. La percentuale più alta di pCR (la quale rappresentava l’endpoint primario dello studio) è stata ottenuta nel trattamento combinato con il 46%, significativamente più alta rispetto al 29% e al 24% del primo e del secondo braccio rispettivamente. Degno di nota è il 17% di risposte patologiche complete raggiunto nel braccio senza chemioterapia. Ciò suggerisce che un determinato sottogruppo di pazienti potrebbe essere trattato con successo solamente con il doppio blocco anti-HER2, saltando in questo modo la chemioterapia. Tuttavia, questi risultati da soli non sono in grado di apportare cambiamenti nella pratica clinica dato che il disegno dello studio non prevedeva di testare i risultati a lungo termine. Dall’altro lato, si è visto in altri studi come la pCR possa essere considerata un valido surrogato per la sopravvivenza libera da malattia (DFS) e per la sopravvivenza globale (OS) (62). In un altro studio di fase II condotto da Schneeweiss e al. (TRYPHAENA), la combinazione di pertuzumab e trastuzumab è stata somministrata in tutti i bracci sperimentali: nel primo braccio insieme a FEC seguita da docetaxel, nel secondo concomitante a docetaxel a seguire FEC, nel terzo insieme a docetaxel e carboplatino.

Tutti i gruppi analizzati hanno mostrato promettenti valori di pCR fino al 60%, indipendentemente dalla chemioterapia utilizzata. In aggiunta, pertuzumab ha presentato un favorevole profilo di tollerabilità, dato che neutropenia e ipersensibilità al farmaco sono le uniche tossicità di grado 3/4 riportate dallo studio. Anche se assunto in concomitanza a trastuzumab, non sono stati rilevati cambiamenti nella frazione di eiezione del ventricolo sinistro durante il trattamento neoadiuvante.

Come detto, questi dati di fase II devono ancora essere comunque confermati in studi più ampi di fase III e mancano ancora dati a lungo termine.

Altro scenario clinico non infrequente è rappresentato dalla paziente affetta da carcinoma mammario con coespressione dei recettori ormonali (HR) estrogenici e progestinici e HER-2: questa eventualità si verifica in circa il 50% delle neoplasie mammarie HER-2 positive. Vari studi suggeriscono fortemente come la coespressione di HER-2 conferisca resistenza intrinseca al trattamento ormonale (63,64), e similmente, si suppone che la via innescata da ER rappresenti una meccanismo di fuga alle terapie anti-HER2 (65). Da un lato, azioni non genomiche di ER sembrerebbe associate con un incremento dei livelli di HER2 fosforilato e con l’attivazione di chinasi cellulari come PI3K. Dall’altro, HER2 interferirebbe con la via di ER attraverso varie chinasi a valle di HER2 (es. MAP-chinasi e AKT), le quali vanno a fosforilare sia ER sia co-attivatori di ER (come AIB1) portando ad un’attivazione di ER legando-indipendente e stimolando così la trascrizione. Inoltre sembra che tamoxifene agisca come estrogeno-agonista nelle cellule tumorali che sovra esprimono HER2 e AIB1 e che peraltro l’inibizione dell’attività di HER2 incrementi alcuni degli effetti inibitori di tamoxifene sulle cellule in proliferazione. Nei tumori xenograft ER/HER2-positivi, la combinazione di vari

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inibitori di HER2 e della terapia endocrina, è risultata più efficace nell’indurre l’apoptosi e nel rallentare la proliferazione rispetto agli agenti presi singolarmente.

Esiste anche qualche dato clinico a sostegno del ruolo di HER2 nella resistenza alla terapia endocrina, con studi retrospettivi o prospettici che mostrano un tasso di risposte più basso quando HER2 è presente. Per esempio, nel setting metastatico, Kaufman e coll. (66) hanno per primi valutato i benefici dell’aggiunta di trastuzumab ad anastrozolo, randomizzando 208 donne in post menopausa, affette da carcinoma mammario metastatico HR/HER-2 positivo non pretrattate, ad un trattamento di prima linea con anastrozolo in monoterapia (104 casi) o con anastrozolo più trastuzumab (103 casi). L’endpoint primario, rappresentato dalla sopravvivenza libera da progressione, è stato raggiunto essendo stata pari a 4,8 mesi per il gruppo dell’associazione versus 2,4 mesi per quello dell’anastrozolo in monoterapia (p= 0.0016). In un’analisi di sottogruppo pianificata condotta sulle pazienti arruolate con la positività di HR confermata centralmente, la mediana della PFS è stata più lunga in entrambi i bracci (5,6 vs 3,8 mesi; p= 0.06). Gli altri end point secondari, quali il tasso di risposte, il tasso di beneficio clinico (definito come tasso di risposta completa, parziale e di stabilità di malattia della durata di almeno 6 mesi) sono risultati significativamente superiori nelle pazienti del braccio dell’associazione. Per quanto concerne la sopravvivenza globale, benché superiore nel braccio di associazione (28,5 mesi vs 23,9 mesi; p= 0.325), non è stato osservato un vantaggio statisticamente significativo, ascrivibile al cross-over di 73 pazienti (70%) dal braccio di monoterapia alla progressione di malattia. Similmente, Johnston e coll. hanno posto a confronto lapatinib combinato con letrozolo versus letrozolo e placebo come terapia di prima linea nelle pazienti con cancro alla mammella HER2-positivo, mostrando una più lunga sopravvivenza libera da malattia (8.2 vs 3.0 mesi, p=0.019) (67). Più recentemente, è stato supposto che i recettori ormonali potrebbero essere implicati nella resistenza delle cellule tumorali alle terapie anti-HER2. Wang e al. (65) hanno mostrato che, a seguito del trattamento con lapatinib e trastuzumab, ER e i suoi prodotti a valle incrementano in 4 linee cellulari ER/HER2-positive su 5. Inoltre, bloccando HER2 con lapatinib e trastuzumab, l’acquisizione della resistenza richiede l’attivazione della via di ER, attraverso membri della famiglia di Bcl2.

Vari studi (68,69) concludono che, in generale, nel setting preoperatorio, i tumori ER-negativi sono associati ad un sostanziale incremento del tasso di pCR, in un’ampia varietà di regimi chemioterapici. Anche nella malattia HER-2 positiva, lo stato dei recettori ormonali continua ad influenzare la probabilità di ottenere una risposta patologica completa. In un’analisi retrospettiva condotta da Guarnieri e al., in cui la maggior parte dei pazienti hanno ricevuto una terapia basata su antracicline e taxani, il tasso di pCR è risultato del 15% nell’ambito della malattia positiva/HER2-positiva contro il 29% dei pazienti con tumori ER-negativi/HER2-positivi (p<0.001) (68). Come noto, trastuzumab ha incrementato sostanzialmente la percentuale di pCR nelle malattie HER2-positive. I valori di pCR appaiono più alti nei pazienti ER-negativi rispetto agli ER-positivi, anche se solo pochi studi riportano confronti statistici tra i due gruppi. Dai risultati delle sperimentazioni condotte con terapie anti-HER2 e chemioterapia neoadiuvante, si rivelano ancora

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delle differenze nei vari sottogruppi, con tassi di pCR più alti tra i pazienti ER-negativi. Ad esempio, nello studio NEOSPHERE (58), considerato il braccio trattato con sola terapia biologica, si raggiungono percentuali del 27% nei tumori ER-negativi, mentre quelli ER-positivi non vanno oltre il 6%. Anche le analisi per sottogruppi effettuate negli studi NeoALTTO e CHER-LOB, confermano l’ipotesi originaria secondo la quale i recettori ormonali rappresenterebbero un meccanismo di evasione dall’inibizione di HER2.

Basandosi su questi dati, gli studi di ultima generazione hanno cominciato a considerare l’impatto dello stato dei recettori ormonali sulla prognosi dei pazienti HER2-positivi. Lo studio TBCRC 006 (70) mette appunto in evidenza la differenze tra i tumori ER-positivi/HER2-positivi e quelli ER-negativi/HER-2 positivi. Gli autori hanno testato lapatinib in associazione a trastuzumab per 12 settimane prima della chirurgia. I pazienti con malattia ER-positiva hanno ricevuto anche letrozolo (più goserelin se in pre-menopausa). La percentuale di pCR, valutata su 64 pazienti, è stata del 27% (21% nel gruppo positivo e 36% in quello ER-negativo) con un tasso di risposte del 49% considerando i pazienti con <1 cm di malattia residua (54% nei ER-positivi vs 40% nei ER-negativi): un’alta percentuale di pazienti ER-positivi ha ottenuto quindi una risposta clinica, classificata come near-pCR. Questi dati sembrano indicare che il blocco completo della via di HER2, associato all’inibizione dei recettori ormonali, garantisca una terapia più efficace e prevenga lo sviluppo di resistenze. Inoltre, gli importanti valori ottenuti in termini di pCR suggeriscono un uso potenziale della terapia anti-HER2 senza chemioterapia, specialmente nei pazienti ER-negativi, oppure come detto abbinato all’ormonoterapia in quelli ER-positivi.

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2.3 Ruolo della risposta patologica completa (pCR)

Come messo in evidenza da Von Minckwitz e coll., esistono in letteratura diverse definizioni di risposta patologica completa (62):

ypT0 ypN0: assenza di residuo invasivo e non invasivo su mammella e/o su linfonodi.

ypT0/is ypN0: assenza di residuo invasivo su mammella e/o su linfonodi; residuo non invasivo ammesso.

ypT0/is ypN0/+: assenza di residuo invasivo su mammella; residuo non invasivo e coinvolgimento linfonodale ammessi.

ypT=mic ypN0/+: assenza di residuo macroscopico invasivo su mammella; residuo invasivo focale, residuo non invasivo e coinvolgimento linfonodale ammessi.

Molti studi sperimentali (71, 72) rivelano che i pazienti che ottengono una pCR hanno un andamento a lungo termine migliore. Il valore prognostico della pCR nel singolo paziente deve essere distinto dal valore che essa assume come surrogato per la prognosi a lungo termine negli studi in neoadiuvante. Questo aspetto è tuttavia cruciale, dato che la pCR rappresenta l’endpoint primario di quasi tutti i trials pre-operatori. Nella migliore delle ipotesi, un vantaggio in termini di pCR dovrebbe convertirsi in migliori indici di sopravvivenza. Questo è accaduto ad esempio nello studio NOAH di Gianni e al. in cui l’aggiunta di trastuzumab ha comportato non solo un tasso più alto di risposte patologiche complete sulla mammella (ypTis/Nx: 43% vs 22%, p=0.0007) ma anche una sopravvivenza a 3 anni libera da eventi significativamente aumentata (71 vs 56%, p=0.013) (53). Al contrario nello studio NSABP B-27 di Rastogi e al., l’aggiunta di docetaxel ad AC ha condotto a un numero maggiore di risposte patologiche complete (ypTis/N0) ma non ha influenzato DFS e OS (72). In questo caso la mancanza di correlazione potrebbe essere stata influenzata dall’inclusione di vari sottotipi molecolari a bassa proliferazione in cui la pCR non solo è meno frequente ma anche meno associata con la sopravvivenza a lungo termine. Una recente metanalisi (73) di terapia neoadiuvante, condotta da "The Collaborative Trials in Neoadjuvant Breast Cancer (CTNeoBC)" su 12 trial randomizzati per un totale di 13.000 pazienti, ha cercato di chiarire definitivamente la questione e ha mostrato nei pazienti che hanno ottenuto una pCR, un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza libera da eventi (EFS) (HR 0.48, p<0.001) e sopravvivenza globale (HR 0.36, p<0.001). Nella metanalisi inoltre, il tasso di pCR nonché la probabilità di rimanere liberi da eventi, sono risultati diversi a seconda del sottotipo molecolare:

- Recettori ormonali positivi, HER2-negativo, G1-2: 7% (HR for EFS 0,63, p=0,07); - Recettori ormonali positivi, HER2-negativo, G3: 16% (HR 0,27, p<0,001);

- Recettori ormonali positivi, HER2-positivo (casi trattati con un regime contenente trastuzumab): 30% (HR 0,58, p=0,001);

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- Recettori ormonali negativi, HER2-positivo (casi trattati con un regime contenente trastuzumab): 50% (HR 0,25, p<0,001).

In altri termini, nei carcinomi “Luminali A” e “Luminali B” (ER-positivi/HER2-positivi), la pCR non è associata con la prognosi, mentre in pazienti con tumori altamente proliferativi come i “Triplo-negativi” o i “HER2-enriched” (ER-negativi/HER2-positivi), la pCR è in grado di discriminare accuratamente fra forme a buona e cattiva prognosi. Quindi, nonostante una percentuale più bassa di pCR nei pazienti ER-positivi/HER2positivi, la prognosi a lungo termine di questi pazienti non è peggiore di quella degli ER-negativi (74). Questo può riflettere sottostanti differenze biologiche dettate dalla presenza dei recettori ormonali, oppure può rispecchiare il fatto che i pazienti con tumori ER-positivi generalmente sono sottoposti in seguito ad una terapia ormonale.

Quanto detto è vero a patto che la definizione di pCR preveda l’assenza della componente invasiva sia a livello mammario sia a livello linfonodale (ypT0/is, ypNO) (73). L’influenza sulla prognosi della malattia in situ (DCIS) non è risultata così chiara invece in altri studi. In un’analisi retrospettiva condotta su 2,302 pazienti trattati con la terapia neoadiuvante presso l’MD Anderson Cancer Center (75), 3,4% avevano risposta patologica completa su mammella e linfonodi e 8,6% avevano malattia residua in situ.

Nessuna differenza è stata riscontrata in termini di sopravvivenza libera da malattia a 10 anni (81% vs 82%), di sopravvivenza globale a 10 anni (92% vs 93%) e di sopravvivenza libera da ricaduta loco regionale (93% vs 91%). Al contrario, la metanalisi condotta da Von Minckwitz e coll. (62) vista prima, la quale includeva 6377 pazienti ha rivelato una piccola ma significativa differenza nella sopravvivenza libera da malattia tra i pazienti privi di residuo invasivo e non invasivo su mammella e/o linfonodi (ypT0/N0) e i pazienti con residuo non invasivo (ypTis/N0) (HR 1.74; CI 95%, 1.28-2.36; p=0.001). Inoltre, si è notato un trend in positivo anche per quanto riguarda la sopravvivenza globale (HR 1.41; CI 95%, 0.87-2.29; p= 0.166).

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