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DOCETAXEL E PREDNISONE IN ASSOCIAZIONE A TERAPIA METRONOMICA CON CICLOFOSFAMIDE E CELECOXIB IN PAZIENTI CON CARCINOMA PROSTATICO ORMONOREFRATTARIO: STUDIO CLINICO DI FASE II

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Academic year: 2021

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EPIDEMIOLOGIA

Secondo i dati della American Cancer Society aggiornati al 2008 il carcinoma della prostata rappresenta la più comune neoplasia diagnosticata e la seconda causa di morte cancro-correlata nell‟uomo 1. Nei paesi della comunità europea le statistiche indicano che il tasso di incidenza del carcinoma prostatico è di 55 casi per 100.000 mentre il tasso di mortalità è di 22.6 decessi per 100.000 individui. In Italia l‟incidenza si attesta intorno a 33 mila nuovi casi ogni anno mentre in tutta Europa l‟incidenza si attesta sui 2,6 milioni di nuovi casi all‟anno 2. Il rischio cumulativo di ammalarsi per carcinoma della prostata per tutti i pazienti di età compresa tra 50 e 74 anni è del 3,9% mentre il rischio di mortalità è del 1,2% 3.Da oltre un decennio nei paesi industrializzati occidentali, negli USA ed in Canada l‟incidenza ha subìto un rapido aumento di circa dieci volte per poi ridursi e stabilizzarsi a circa 1,5 – 2 volte rispetto all‟attesa. La mortalità non è aumentata in egual misura ma appare sostanzialmente stabile da più di dieci anni. Questa discrepanza è correlabile all‟introduzione del PSA (prostate specific antigen) come metodica di screening di massa, che ha portato ad una sovra diagnosi di tumori della prostata non destinati a manifestarsi clinicamente nella vita ma a restare “latenti” .Questi ultimi sono un reperto frequentissimo in corso di autopsia essendo riscontrabili nel 30% dei soggetti con età superiore ai 50 anni e nell‟80% dei soggetti con età superiore agli 80 anni deceduti per cause non correlate al carcinoma prostatico 4.

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FATTORI DI RISCHIO

Il carcinoma della prostata è una patologia con eziologia multifattoriale e sia il risultato di complesse interazioni tra fattori genetici, ambientali ed ormonali.

ETA: la correlazione dell‟incidenza del carcinoma della prostata è

molto maggiore rispetto ad altri tumori, insorge generalmente in soggetti con età superiore ai 50 anni ed aumenta in maniera esponenziale con l‟invecchiamento fino ad una probabilità di uno su otto soggetti di età superiore di 80 anni 5 .

RAZZA: da studi condotti sulla popolazione americana emerge

chiaramente un incidenza aumentata nella popolazione afroamericana superiore a quella bianca di 1,5 volte e di circa 3 volte rispetto a quella asiatica. Gli afroamericani sembrano inoltre sviluppare focolai di carcinoma di aumentate dimensioni, più indifferenziati, e a più rapida crescita con una mortalità cancro correlata superiore di 2-3 volte rispetto agli altri . Ci sono due teorie predominanti per spiegare questo aumentato rischio: da un punto di vista ormonale gli afroamericani presentano una maggior concentrazione di testosterone, di di-idro-testosterone (DHT) e di 5-alfa-reduttasi;in oltre vi è una variazione nella lunghezza del gene codificante per i recettori androgenici .Da un punto di vista ambientale gli afroamericani presentano bassi livelli di vitamina D in correlazione con l‟alto contenuto di melanina della loro cute che inibisce la formazione della vitamina stessa sotto stimolo dei raggi ultravioletti 6 .

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FAMILIARITA’: (25% dei pazienti) in un soggetto con un parente di

primo grado affetto da carcinoma prostatico il rischio relativo (RR) di sviluppare la malattia è circa pari a 2, tale rischio sale a circa 5-11 se ha due o più parenti di primo grado affetti dalla malattia,è interessante notare come i pazienti con cancro ereditario della prostata abbiano un precoce sviluppo della malattia anticipato di circa 6-7 anni rispetto alla usuale presentazione dei casi sporadici, non differenziandosi però da essi per presentazione clinica e sopravvivenza 7.

FATTORI GENETICI: (9% di forme ereditarie ; 43% nei pazienti

con età < 55 anni) Sono stati individuati diversi geni probabilmente responsabili di una maggior suscettibilità al carcinoma prostatico nonché alterazioni cromosomiche quali mutazioni puntiformi o “Loss of heterozigosity” come quelle del braccio lungo del cromosoma 1, 16, 17, 13 oltre che del cromosoma X e polimorfismi di geni codificanti per la vitamina D ed i recettori degli androgeni associate al carcinoma prostatico 8,9,10 .Recentemente si è evidenziato come i geni di due fattori di trascrizione appartenenti alla famiglia dei fattori trascrizionali ETS (ERG, ETV, ETV4) fossero iperespressi, in modo esclusivo in campioni bioptici di tessuto prostatico di metastasi linfonodali di pazienti affetti da tumore prostatico. Queste osservazioni hanno portato ad ipotizzare che l‟iperespressione potesse essere correlata ad un processo di traslocazione genica infatti si è identificato un prodotto di fusione genica tra la regione 5‟ non tradotta del gene TMPRSS2,codificante per una serina proteasi di membrana specifica della prostata, ed i geni ERG ed ETV1. Il promotore di TMPRSS2 è stato precedentemente dimostrato contenere elementi responsivi agli androgeni. I geni ottenuti da questa fusione (TMPRSS2:ERG e

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TMPRSS2:ETV 1) sono stati identificati in modo specifico in tessuti tumorali prostatici ma non in campioni di iperplasia prostatica benigna 11. Sono state dimostrate anche fusioni tra TMPRSS2 e ETV che compaiono però più raramente 12.I vari studi condotti hanno dimostrato che in circa il 50% dei tumori sia presente la fusione TMPRSS2-ERG ,mentre ETV4 ed ETV1 sembrano implicati rispettivamente nell‟1% e nel 10% dei casi. Recentemente è stato inoltre scoperto un altro appartenente alla medesima famiglia, implicato anch‟esso nei medesimi riarrangiamenti genetici identificato come ETV5 13. In questo anno studi americani hanno dimostrato l‟ iperespressione del gene SPINK1, codificante per un inibitore delle serine peptidasi presente in circa il 44% dei tumori prostatici, privi di riarrangiamenti genomici con ERG o ETV1, la scoperta apre interessanti possibilità di ricerca in quanto il prodotto genico è un biomarker contenuto nei fluidi e nei tessuti con possibile utilizzo come marker di malattia ricercabile con una semplice analisi delle urine 14.

FATTORI ORMONALI: L‟adenocarcinoma prostatico è un tumore

androgeno dipendente,che risente di elevati livelli di testosterone e Insuline-like growth factor 1(IGF-1) 15.

DIETA: numerosi studi hanno confermato l‟estrema importanza

dell‟alimentazione nello sviluppo della malattia e quindi nella prevenzione:diete ricche di carni rosse e di grassi ma povere di frutta, cereali, e verdura (in special modo i pomodori ricchi di licopeni forti antiossidanti studiati anche come agenti protettivi per lo sviluppo della malattia) sembrano correlare ad una più alta incidenza del tumore 16,17.

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CHEMIOPREVENZIONE

Negli ultimi anni sono stati condotti numerosi studi ed altri sono ancora in corso per valutare il ruolo di diverse sostanze naturali come i fitoestrogeni (genisteina, lignani), la vitamina E, i licopeni, i polifenoli (specialmente del the verde), minerali come il selenio e lo zinco. In particolare studi epidemiologici e di laboratorio suggeriscono che alte dosi di vitamina E, di selenio e di vitamina D riducano il rischio di carcinoma prostatico. Nel panorama della chemioprevenzione si stanno affacciando anche gli inibitori della lipoossigenasi che sembrano interferire con i meccanismi necessari per l‟accrescimento neoplastico 18. Inoltre sono stati condotti studi sull‟uso di inibitori della 5-alfa-reduttasi, come il Finasteride e Dutasteride (classicamente utilizzati per l‟ipertrofia prostatica benigna) con risultati controversi: infatti nonostante l‟evidente riduzione del rischio relativo , nei pazienti trattati è stato evidenziato un aumento dei tumori prostatici ad alto grado e sono necessari ancora altri studi per chiarire l‟impatto di questi farmaci sulla mortalità del cancro alla prostata la cui riduzione rimane il primo obiettivo della chemio prevenzione19.

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SCREENING

Il PSA è una serino-proteasi della famiglia delle callicreine prodotta in maniera prevalente, ma non esclusiva dalla prostata: è una delle tre principali proteine del liquido seminale. Nell‟uomo le sue concentrazioni aumentano fisiologicamente con la pubertà,con l‟aumentare dell‟età e con l‟aumento delle dimensioni della ghiandola prostatica 20,21. Inoltre l‟aumento dei valori di questa glicoproteina è correlato alla distruzione della normale istoarchitettura della prostata come avviene in caso di patologia benigna (prostatiti e ipertofia prostatica benigna) o di patologia maligna. Per tali ragioni è da considerarsi l‟unico marcatore utilizzabile in pazienti con patologia prostatica 22,23. Il dosaggio del PSA infatti è un test rapido, molto semplice e ben tollerato. Dal momento che aumenta molto sensibilmente in caso di tumore della prostata è stato ipotizzato il suo utilizzo come metodo di screening. In Europa e negli Usa sono in corso studi (ERSPC e PLCO) che hanno arruolato oltre 200.000 soggetti e che produrranno i primi dati nei prossimi anni. Questi studi ci indicheranno l‟impatto dello screening sulla mortalità ma fino ad allora, in base allo stato attuale delle conoscenze, non è lecito sottoporre indiscriminatamente la popolazione maschile, asintomatica, al dosaggio del PSA 24,25. Anche se autorevoli associazioni come l‟Associazione Americana di Urologia (AUA) e l‟Associazione Americana per il cancro (ACS) comunque consigliano che tutta la popolazione di sesso maschile con età superiore ai 50 anni si sottoponga almeno una volta all‟anno al dosaggio del PSA, le obiezioni verso questo approccio risiedono principalmente nei costi insostenibili per qualsiasi comunità a fronte

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di un non chiaro beneficio 26. Da sottolineare resta comunque la dimostrazione che con questo test l‟anticipazione diagnostica è di oltre 10 anni nonostante alcuni dei tumori scoperti sarebbero rimasti clinicamente silenti. Lo screening di massa porta con se inevitabilmente un certo grado di sovra diagnosi e di sovra trattamento con un conseguente numero non trascurabile di pazienti sani sottoposti a procedure diagnostiche invasive e trattamenti non necessari 27,28.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il 95% dei tumori prostatici sono adenocarcinomi di tipo acinare che insorgono nel 70% nella zona periferica, nel 20% nella zona transazionale cioè nella porzione antero mediale (sede tipica dell‟ipertrofia prostatica benigna), nel 5% nella zona centrale della ghiandola anche se più spesso questa regione è invasa da tumori di grosse dimensioni insorti in zone limitrofe dell‟organo.

Il grado istologico di differenziazione cellulare viene definito attraverso il Gleason Score che prende in considerazione l‟architettura ghiandolare e i rapporti della neoplasia con lo stroma, cioè il tipo di infiltrazione. Partendo dal presupposto dell‟eterogeneità di differenziazione delle varie aree del carcinoma prostatico si assegna un punteggio ai due tessuti patologici più rappresentati della neoplasia o nel campione in esame e si definisce come primario quello prevalente. La classificazione di Gleason

(figura 1) individua cinque aspetti architettonici ghiandolari cui si attribuisce un punteggio che va da 1 a 5 correlato alla crescente

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malignità. Lo score finale risulterà dalla somma del pattern primario, cioè il tessuto più rappresentato, e del pattern secondario cioè il peggiore degli altri pattern come ha stabilito la classificazione ISUP del 2005. Per dare conto della presenza di pattern aggressivi sia pur quantitativamente limitati (minori del 5%) talvolta potremo trovare riportato un “Gleason terziario”, cioè un terzo pattern da riportarsi dato il significato prognostico negativo 29. Quando non esiste un grado secondario si deve raddoppiare il grado primario per ottenere il Gleason score. Lo score finale quindi avrà un punteggio che va da 2 a 10 così che tumori con punteggio finale da 2 a 4 saranno da considerarsi ben differenziati, da 5 a 7 mediamente differenziati e da 8 a 10 scarsamente differenziati 30,31. Per quanto riguarda i gradi assegnati dal Gleason score avremo che pattern di acini singoli, separati, o strettamente raggruppati saranno di Grado 1, acini singoli, disposti in strutture più lasse, meno uniformi, saranno di Grado 2, acini singoli di dimensioni variabili, separati da stroma talora con aspetti cribriformi e papillari saranno di Grado 3, masse irregolari di acini ed epiteli fusi, e presenza di cellule chiare saranno di Grado 4 ed infine il carcinoma anaplastico rappresenterà il Grado 5. Il grading nucleare secondo WHO può essere usato in aggiunta allo schema di Gleason. L‟anaplasia nucleare è graduata con punteggio 1, 2, o 3 attribuito rispettivamente a modificazioni lievi, moderate o marcate del nucleo. Per l‟attribuzione del grading nucleare solitamente ci si basa sul grado nucleare predominante nel tessuto neoplastico, ma può essere valutato anche riportando il grado nucleare più alto.

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DIAGNOSI

La diagnosi precoce del carcinoma prostatico si basa su tre indagini:1) il dosaggio del PSA 2) l‟esplorazione rettale (DRE) 3) l‟agobiopsia prostatica trans rettale eco guidata. La TC e la RMN risultano di scarsa utilità ai fini diagnostici mentre risultano fondamentali ai fini stadiativi. Con stadiazione si intende la definizione precisa dell‟estensione della malattia e di per sé costituisce il determinante fondamentale della pianificazione terapeutica ,nonché fonte di informazioni riguardo alla prognosi .Va sottolineato però che oggi la stadiazione clinica risulta essere poco accurata con una sottostadiazione rispetto a quella post chirurgica che va dal 50 al 68 % in base agli autori. Per la stadiazione del tumore viene comunemente usato il sistema TNM (Tabella1),

attraverso il quale è possibile creare una suddivisione in stadi

(Tabella 2). Per quanto riguarda il parametro T (cioè l‟estensione

locale del tumore primitivo) ci si avvale dell‟esplorazione digitorettale, del PSA (nomogrammi), dell‟ecografia transrettale e dell‟RMN con bobina endorettale, dove disponibile e se tollerata dal paziente. E‟ di fondamentale importanza definite il volume tumorale nonché la sua estensione o meno oltre la capsula prostatica e la possibile infiltrazione delle vescichette seminali e dei tessuti limitrofi. Per quanto riguarda lo studio del parametro N (cioè il coinvolgimento dei linfonodi pelvici) viene indagato attraverso TC, RMN e linfadenectomia pelvica . Infine per la definizione del parametro M (cioè la localizzazione secondaria metastatica della malattia) vengono utilizzate la scintigrafia ossea ed altre tecniche di

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immaging a seconda della localizzazione secondaria metastatica. La scintigrafia ossea rappresenta la l‟indagine di immaging più accurata nella ricerca di metastasi osse con una sensibilità che si avvicina al 100% nella rivelazione di localizzazioni secondarie ossee ed una percentuale di falsi negativi minore dell‟ 1%, dubbi interpretativi di questa metodica devono essere approfonditi con l‟utilizzo di radiografie mirate o meglio con TC e RMN.

Per valutare la probabilità di diffusione extraprostatica dei tumori sono stati studiati schemi di probabilità e nomogrammi basati su variabili fondamentali quali lo stadio clinico, il PSA, il Gleason bioptico, il numero di biopsie positive e la percentuale di neoplasia presente nel singolo campione bioptico, il più noto ed utilizzato nella definizione clinica del carcinoma della prostata è il nomogramma di Partin: si tratta di un algoritmo in grado di predire lo stadio patologico assegnando i pazienti ad una delle quattro categorie rappresentate da neoplasia organo confinata, estensione extracapsulare, invasione delle vescichette seminali o coinvolgimento dei linfonodi loco-regionali. Da notare che attraverso le tabelle di Partin (Tabella3) si raggiunge un accuratezza diagnostica di circa un 70% 32. Al momento attuale, anche se non vi è un unanime consenso sull‟utilizzo i nomogrammi, lo stadio clinico, il valore del PSA e il Gleason score rappresentano le variabili utilizzate per la scelta del trattamento locoregionale più appropriato e dell‟aggressività del trattamento. Esistono poi modelli predittivi di ripresa di malattia dopo chirurgia radicale, radioterapia con fasci esterni, brachiterapia : utilizzando questi modelli, i pazienti possono essere stratificati in gruppi a basso, medio ed alto rischio di progressione (Tabella 4) ed essere in tal modo selezionati per il trattamento più adeguato. Per quanto riguarda le tecniche di

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immaging come la TC e la RMN quindi sarebbe ragionevole impiegarle per lo studio dell‟interessamento linfonodale in pazienti ad alto rischio con valori di PSA ≥ 20ng/ml o Gleason Score > 7 alla biopsia, mentre per pazienti a rischio intermedio con PSA compreso tra 10-20 ng/ml e Gleason Score = 7 è ragionevole procedere con RMN con bobina endorettale nei Centri ove è disponibile o con RMN della pelvi, se i risultati della RMN sono dubbi o positivi si deve completare l‟indagine con RMN dell‟addome superiore. Per quanto riguarda la Scintigrafia Ossea andrebbe eseguita in pazienti con PSA < 10 ng/ml solo in caso di sintomatologia o con alterazione del metabolismo osseo (come l‟aumento dei livelli di fosfatasi alcalina che correlano con la presenza di rimaneggiamento osseo), mentre andrebbe eseguita in tutti i pazienti con PSA > 10 ng/ml o Gleason Score di 8-10. Nei pazienti a basso rischio con PSA < 10 ng/ml, Gleason score < 6, neoplasia intracapsulare potrebbe essere evitata. Per quanto riguarda altre tecniche di immaging negli ultimi anni è stato valutato l‟utilizzo della PET (Tomografia ad Emissione di Protoni) la quale, sebbene abbia minor potenziale nell‟individuazione delle metastasi ossee rispetto alla scintigrafia, se accoppiata alla TC, sembrerebbe più sensibile delle altre metodiche nel rivelare la presenza di recidive di malattia 33.

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OPZIONI TERAPEUTICHE

Il trattamento del carcinoma prostatico ha obbiettivi diversi in base a caratteristiche proprie del tumore come l‟estensione ed il grado di aggressività , ma anche in base all‟aspettativa di vita del paziente e la presenza di comorbidità che possono rappresentare un rischio di vita superiore rispetto al tumore stesso, infatti si deve tener presente che una consistente parte di pazienti (circa il 40%) a cui è diagnosticato un tumore prostatico non morirà a causa della neoplasia, ma “con” la neoplasia per altre cause anche se la malattia è localmente avanzata o metastatica 34. L‟obiettivo nei pazienti con malattia apparentemente localizzata è chiaramente la guarigione anche se non tutti i pazienti con malattia localizzata necessitano di terapie curative: questo può giustificare l‟opzione terapeutica di “watchful waiting”(attenta sorveglianza) in pazienti a basso rischio con tumore intracapsulare T1a-b-c e T2a, neoplasia ben differenziata Gleason 6, bassi livelli di PSA < 10 ng/ ml e con una aspettativa di vita inferiore ai 10 anni. Per tutti gli altri pazienti con neoplasia intraprostatica e candidabili a terapie con fine di radicalità , come la prostatectomia radicale, la radioterapia a fasci esterni e la brachicurieterapia, la scelta terapeutica non può basarsi solo sui risultati di studi prospettici controllati, ma deve essere conforme alle preferenze del paziente 35. Per i pazienti con malattia extracapsulare l‟obbiettivo è di ottenere un adeguato controllo della malattia a livello locoregionale, di ridurre l‟incidenza di recidive della malattia e di prolungare la sopravvivenza attraverso l‟impiego di radioterapia a fasci esterni (utilizzata per il controllo locale della malattia) e di trattamenti multimodali come l‟ormonoterapia

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adiuvante e neoadiuvante, anche se soltanto un numero limitato di questi pazienti può aspirare alla guarigione dalla malattia. Nei pazienti con malattia metastatica la palliazione diventa l‟obiettivo più concretamente perseguibile, soprattutto nei pazienti sintomatici. In questi pazienti esistono attualmente diverse strategie terapeutiche tra le quali l‟ormonoterapia e, nei casi di malattia ormonorefrattaria, la chemioterapia che unitamente alle varie forme di terapia antalgica, alla terapia radiometabolica e alla terapia con difosfonati, possono impattare significativamente sulla qualità della vita e, talvolta, sulla aspettativa di vita di questi pazienti.

PROSTATECTOMIA RADICALE

Con il termine di prostatectomia radicale si indica l'intervento chirurgico che prevede l'asportazione in blocco della prostata e delle vescicole seminali e la successiva anastomosi vescico-uretrale. Può essere preceduta da una linfadenectomia pelvica in cui la dissezione è più o meno estesa a seconda dei limiti anatomici considerati. In presenza di neoplasia ben differenziata e con PSA inferiore a 10 ng/ml, alcuni Autori hanno comunque escluso l‟ opportunità di eseguire una qualunque linfoadenectomia pelvica nell'ottica di ridurre le possibili complicanze che da questa possono derivare senza di contro ottenere informazioni aggiuntive circa lo stadio di malattia. In genere è ritenuto candidabile ad intervento di prostatectomia radicale, con intento curativo, il paziente con neoplasia prostatica clinicamente localizzata (stadio T1 e T2), con aspettativa di vita di almeno 10 anni e in condizioni generali

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adeguate. Lo scopo che l‟intervento si propone è quello di rimuovere chirurgicamente tutto il tumore, consentendo la guarigione del paziente. Sarà quindi necessaria un attenta stadiazione pre-chirurgica, anche se bisogna ricordare che all‟analisi anatomopatologica del pezzo operatorio in una percentuale superiore a 40% dei casi il tumore risulta non essere confinato alla prostata o presentare margini di resezione positivi così da rendere necessario l‟uso di radioterapia o terapia ormonosoppressiva. Esistono diverse modalità di accesso alla ghiandola, l'approccio retropubico è tuttora quello più comunemente utilizzato, consentendo la contemporanea rimozione dei linfonodi pelvici, laddove si ritenga opportuna. Tale tecnica chirurgica rappresenta il punto di riferimento cui ogni altra tecnica deve confrontarsi. Se vi è invece un approccio perineale (attraverso lo spazio tra l'ano e lo scroto) la procedura per la rimozione dei linfonodi è eseguita in un secondo tempo con un altro intervento. E‟ possibile anche un approccio transcoccigeo e più di recente si è aggiunto l'approccio laparoscopico per via transperitoneale o extraperitoneale con il quale, selezionati adeguatamente i pazienti e conformemente alle esigenze oncologiche di radicalità, si ottiene facilmente il risparmio dei nervi erigengi con spontanea ripresa dell‟attività sessuale. Il ruolo di questo approccio chirurgico è ad oggi ancora in fase di studio e praticato solo in Centri di Eccellenza. La prostatectomia radicale è considerata un intervento di chirurgia maggiore e come tale non scevro da complicanze. Il tasso di mortalità perioperatoria varia dall‟1% al 4,6% mentre la mortalità operatoria è inferiore allo 0,2%. Le complicanze dell‟intervento di prostatectomia radicale si possono suddividere in intra-operatorie, post-operatorie precoci (fino a 30 giorni dopo l‟intervento chirurgico) e post-operatorie tardive

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(dopo trenta giorni dall‟intervento chirurgico). Globalmente la frequenza di tali complicanze varia dal 7,5 al 18,5%. Una significativa emorragia intra-operatoria si verifica in meno del 10% dei casi, mentre la perforazione della parete rettale viene segnalata nello 0,1-0,2% dei casi e lesioni ureterali nell‟ 0,1-1%. Tra le complicanze post-operatorie precoci vanno segnalate quelle tromboemboliche, che incidono nello 0,7-2,6%, quelle cardiovascolari nello 0,4-1,4%, le infezioni della ferita nello 0,9-1,3%, la linforrea e il linfocele nello 0,6-2%. La stenosi dell'anastomosi vescico-uretrale viene riportata in una percentuale variabile tra lo 0,6 e il 30% dei casi. Un importante complicanza post-operatoria a lungo termine che può inficiare sulla qualità di vita del paziente è l‟incontinenza urinaria , di cui attraverso l‟approccio anatomico descritto da Walsh è stato possibile ridurne l‟incidenza , che secondo le casistiche disponibili sulle prostatectomie radicali varia dallo 0 al 12,5% dei casi. Sempre nelle complicanze a lungo termine rientra il ripristino spontaneo della potenza sessuale condizionato dalla scelta di una tecnica definita “nerve sparing” applicabile solo dopo selezione di pazienti con tumore di basso grado, monolaterale e di età inferiore ai 70 anni. Tale tecnica preserva le benderelle neuro vascolari situate posteriormente alla prostata garantendo così l‟erezione e permettendo di mantenere la potenza sessuale nel 40-86% dei casi 35. La finalità della prostatectomia radicale è l‟eradicazione del tumore ritenuto localmente confinato alla ghiandola prostatica, infatti viene classicamente riservato a pazienti con neoplasie in stadio T1-T2, in particolar modo in soggetti con valori di PSA preoperatorio < 10 ng/ml, in cui vi è un baso rischio di invasione della capsula, di estensione alle vescichette seminali e di margini positivi dopo

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intervento chirurgico. Per quel che riguarda neoplasie in stadio T3 si propende all‟utilizzo di radioterapia a fasci esterni data la maggiore possibilità di morbidità e recidiva locale dopo prostatectomia radicale e la mancanza di dati certi riguardanti il positivo impatto sulla sopravvivenza da parte della chirurgia. Nonostante questo bisogna ricordare che una quota non trascurabile, circa il 15% delle neoplasie in stadio T3, risulta sovrastadiata e che anche pazienti con neoplasie in stadio patologico T3a possono giovarsi di un trattamento chirurgico radicale. Studi europei hanno dimostrato che pazienti con neoplasia T3 e valori preoperatori di PSA < 10 ng/ml a 5 anni presentavano una sopravvivenza libera da malattia maggiore del 60% 36. Per quel che riguarda i criteri di esclusione per l‟intervento di prostatectomia rientrano in questi il coinvolgimento linfonodale, la presenza di metastasi e la PIN (neoplasia prostatica intraepiteliale), dal momento che potrebbe trattarsi di un fenomeno reversibile, sebbene una PIN di alto grado si associ ad Adenocarcinomi di tipo invasivo. In questo anno è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine l‟aggiornamento dell‟unico studio prospettico randomizzato pubblicato nel 2005, che paragonava la prostatectomia radicale all‟approccio “watchful waiting”. Questo studio ha dimostrato come, dopo 10 anni di follow-up, esisteva un sicuro vantaggio in termini di sopravvivenza globale e riduzione del rischio di morte per neoplasia prostatica , di progressione locale e di metastatizzazione nei pazienti sottoposti a prostatectomia radicale, quindi non vi sono evidenze per procrastinare l‟intervento chirurgico nei pazienti con aspettativa di vita adeguata eccetto l‟esistenza di controindicazioni o importanti comorbidità37.

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RADIOTERAPIA A FASCI ESTERNI

La radioterapia a fasci esterni consente attraverso radiazioni ad alta energia emesse da un acceleratore lineare, di indurre la necrosi delle cellule tumorali. E‟ un opzione terapeutica con finalità curative applicabile anche in casi definiti inoperabili caratterizzati da importante sconfinamento extracapsulare. Attualmente la disponibilità di sistemi computerizzati basati sulla TC sia per la pianificazione terapeutica che per la ricostruzione tridimensionale del volume bersaglio e degli organi, ha reso possibile la somministrazione di elevate dosi di radiazioni, conformando accuratamente la dose stessa, attorno alla silhouette tumorale e riducendo significativamente l‟irradiazione dei tessuti sani circostanti. Il vantaggio della radioterapia conformazionale tridimensionale risiede quindi nella possibilità di erogare dosi elevate, mantenendo un basso livello di tossicità collaterali tardive aumentando così il guadagno terapeutico. Un ulteriore metodica capace di incrementare la dose totale di irradiazione fino ad 80 Gy sul volume bersaglio e di ridurre contemporaneamente le tossicità locali è la Radioterapia con intensità modulata (IMRT). Per quanto riguarda le indicazioni all‟uso della radioterapia a fasci esterni sono tutti i tumori di stadio I, II e III con risultati a lungo termine simili alla chirurgia radicale. Infatti consente di ottenere tassi di controllo locale tra l‟ 85 e il 96% nei pazienti in stadio T1 e T2 e fra il 58 e il 65% nei pazienti in stadio T3. E‟ raccomandata nei pazienti giovani con malattia localizzata che rifiutano la chirurgia. Le complicanze della terapia sono la cistite e la proctite acuta (30-35 %) per lo più

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reversibili e la stenosi uretrale (1,5%), per la potenza sessuale è documentato un declino negli anni successivi al trattamento (15% a 20 mesi e 40% a 60 mesi). Il campo di irradiazione convenzionale è concentrato sul volume prostatico, tuttavia recentemente l‟irradiazione dei linfonodi pelvici, nel sottogruppo di pazienti definiti ad alto rischio, in associazione ad ormonoterapia per due mesi prima (neoadiuvante) e concomitantemente alla radioterapia sembrerebbe determinare un prolungamento della sopravvivenza libera da malattia anche se non della sopravvivenza globale 38. Recentemente sono stati resi disponibili i risultati di studi randomizzati che hanno dimostrato il vantaggio statistico significativo in termini di sopravvivenza libera da progressione sia biochimica che clinica del trattamento radioterapico adiuvante negli stadi pT3a-b o nei pazienti con margini positivi. Per evidenziare differenze in sopravvivenza globale sono necessari ulteriori studi. Da ricordare è inoltre la radioterapia di “salvataggio” dopo prostatectomia radicale per risalita del PSA (progressione biochimica) o per recidiva locale, consigliata solo per pazienti con fattori prognostici favorevoli: PSA < 10ng/ml, Gleason < 7, doubling time > 10 mesi e valori di PSA prima di pre-trattamento radioterapico < 1 ng/ml 39,40. Al contrario i pazienti che mostrano recidiva locale dopo radioterapia sono candidati ad un trattamento ormonale sistemico anche se sono ipotizzabili una chirurgia di “salvataggio” o una brachiterapia.

Nella malattia metastatica la radioterapia ha un ruolo importantissimo di tipo palliativo per quanto riguarda il controllo della sintomatologia dolorosa e delle complicanze correlate a secondarietà ossee.

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BRACHITERAPIA

La Brachiterapia con impianto permanente rappresenta un ulteriore opzione terapeutica di tipo curativo nel cancro della prostata. E‟ una forma di radioterapia che impiega delle piccole capsule dette “semi”, delle dimensioni di chicchi di riso, contenenti al loro interno sorgenti radioattive come Palladio 103 (Pd103) o lo Iodio 125 (I125) da impiantare sotto guida ecografica e fluoroscopia direttamente nella prostata per via perineale. E‟ un trattamento minimamente invasivo che si esegue in tempi molto contenuti dai 45 ai 90 minuti in pazienti selezionati con volume prostatico < 50 ml, senza precedenti TURP (resezione transureterale della prostata) , T1b-T2a, N0, M0, Gleason ≤ 6 42. I pazienti a basso rischio sono quelli maggiormente candidabili all‟uso della brachiterapia. I risultati in termini di controllo del PSA a 5 anni variano fra il 63 e l‟88% in pazienti trattati con Brachiterapia esclusiva mentre se adottata come sovradosaggio (boost) dopo radioterapia a fasci esterni il controllo del PSA a 5 anni varia dal72 all‟88%, questa ultima tecnica è definita high dose rate (HDR) ed è praticata solo in alcuni Centri. Nel complesso i risultati della brachiterapia sono simili a quelli ottenuti con radioterapia a fasci esterni con minore frequenza di impotenza che incorre nell‟ 8-14%. Da ricordare che i risultati delle casistiche sono comunque strettamente collegati all‟esperienza del Centro.

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ORMONOTERAPIA

Data la spiccata ormonodipendenza delle neoplasie prostatiche la riduzione dei livelli circolanti di testosterone definita come deprivazione androginica ed ottenibile mediante differenti manipolazioni ormonali, rappresenta il trattamento di scelta nei pazienti metastatici e trova spazio anche nel trattamento di quei pazienti con malattia più limitata non candidabili a trattamento locale con intento curativo data la presenza di importanti comorbidità o la ristretta spettanza di vita o la presenza di controindicazioni a trattamenti locoregionali. Vi sono diverse metodiche con le quali si può ottenere una deprivazione androgenica come l‟orchiectomia bilaterale (castrazione chirurgica : che ad oggi rappresenta ancora il metodo più rapido ed economico) , l‟utilizzo di estrogeni (dietilstilbestrolo, DES) ,di analoghi agonisti LH-RH (buserlin, goserlin, leuprolide e triptorelina) ,di antagonisti LH-RH. In una metanalisi comprendente diversi studi controllati di confronto l‟orchiectomia, l‟impiego di estrogeni e l‟impiego di analoghi del LH-RH sono stati dimostrati comparabili per efficacia 43.Gli estrogeni sono però limitati da importanti effetti collaterali di carattere cardiovascolare o tromboembolico e dall‟introduzione degli LH-RH analoghi che sono notevolmente più maneggevoli. La castrazione, in qualsiasi modo sia ottenuta è un trattamento nel complesso ben tollerato, privo di effetti rilevanti sull‟apparato cardiovascolare, tuttavia si riscontrano effetti correlati alla deprivazione androgenica come vampate di calore, perdita della potenza sessuale e della libido, riduzione della massa muscolare, osteoporosi, anemizzazione che possono ripercuotersi non solo sullo stato di

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salute generale del paziente ma anche sulla qualità di vita. La castrazione medica con LH-RH analoghi in oltre nelle prime fasi di trattamento può indurre un transitorio peggioramento della sintomatologia per iniziale stimolo a livello centrale e conseguente aumento dei livelli di testosterone circolante che promuovendo la proliferazione delle cellule tumorali può far precipitare il quadro con eventi di compressione midollare o ostruzione delle vie urinarie, oppure determinare un peggioramento della sintomatologia dolorosa legata alla presenza di metastasi ossee, questo fenomeno è detto del flare-up. Il flare-up può essere evitato grazie all‟uso concomitante di antiandrogeni che antagonizzano l‟azione ormonale a livello recettoriale inibendo così la proliferazione delle cellule tumorali indotta dal testosterone. In alcuni studi randomizzati, si è dimostrato come l‟Abarelix depot, antagonista LH-RH sia superiore alla leuprolide (agonista LH-RH) o alla leuprolide in combinazione con antiandrogeni nel sopprimere il picco iniziale della testosteronemia legato al fenomeno del flare-up nonché nel determinare una rapida riduzione del testosterone a livelli di castrazione, sono necessari però approfondimenti per verificare se l‟evitare il fenomeno del flare-up si traduca in un vantaggio di sopravvivenza. Un altra opzione terapeutica è l‟uso di antiandrogeni in monoterapia infatti questi farmaci rispetto alla castrazione medica o chirurgica consentono di preservare la funzionalità sessuale e questo migliora molto la qualità di vita del paziente specie se giovane, nonostante ciò non sono scevri da effetti collaterali rilevanti come lo sviluppo di ginecomastia (50% dei casi) o la mastalgia (10-40% dei casi). Una recente metanalisi condotta su studi di comparazione tra gli effetti della castrazione e l‟impiego di differenti antiandrogeni di tipo steroideo come il ciproterone acetato

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o di tipo non steroideo come il flutamide, il bicalutammide e il nitulamide sembra concludere la superiorità della castrazione rispetto all‟impiego degli antiandrogeni in monoterapia. Tuttavia in alcuni studi randomizzati, tra cui quello dell‟ Early Prostate Cancer Programme, condotti in pazienti con tumore prostatico localmente avanzato non metastatico, la bicalutamide, alla dose di 150 mg/die, si è dimostrata comparabile alla castrazione o all‟utilizzo di LH-RH analoghi in combinazione con antiandrogeni in quanto a sopravvivenza globale e sopravvivenza libera da malattia 44. Questi dati sono poi stati confermati dalla letteratura più recente anche per quanto riguarda il paziente metastatico escluse le neoplasie scarsamente differenziate (G3-G4) con una migliore tollerabilità 45,46. Quindi l‟impiego di antiandrogeni non steroidei in monoterapia può essere auspicabile in sottogruppi di pazienti con malattia localmente avanzata o poco aggressiva, oppure in pazienti non candidabili per età o comorbidità a trattamenti loco regionali o infine a pazienti che vogliono evitare gli effetti della deprivazione androginica.

BLOCCO ANDROGENICO TOTALE

Grazie al loro meccanismo d‟azione, gli antiandrogeni sono in grado di antagonizzare, a livello dei recettori tissutali, l‟azione degli androgeni non solo di origine testicolare ma anche di origine surrenalica, i quali non vengono soppressi in corso di castrazione medica o chirurgica. Questo rappresenta il razionale per l‟impiego combinato degli antiandrogeni con la castrazione, così da ottenere un Blocco Androgenico Totale (BAT). Questa associazione ha dimostrato un incremento della sopravvivenza globale a 5 anni del

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2-3 % rispetto alla castrazione medica o alla castrazione chirurgica, come ha dimostrato una metanalisi condotta dal Prostate Cancer Trialists‟ Collaborative Group. Tale beneficio è significativo solo nei pazienti sottoposti al BAT mediante antiandrogeni non steroidei ed è invece inesistente se l‟androgeno di scelta è il ciproterone acetato (steroideo) , per incremento della mortalità non correlata al cancro. Questi dati sono stati confermasi in una review Cochrane e le stesse conclusioni sono state raggiunte in un‟altra revisione della letteratura 48,49. Il Blocco Androgenico Totale è auspicabile rispetto alla monoterapia in situazioni cliniche caratterizzate da forte sintomatologia o per evitare le possibili complicanze dell‟effetto flare-up .

GESTIONE DELLA TERAPIA

ORMONALE

Dato che la terapia ormonale comporta importanti effetti iatrogeni che possono inficiare sulla qualità di vita dei pazienti a fronte di elevati costi sanitari è logico domandarsi se tale terapia sia indicata al momento della diagnosi di malattia metastatica o localmente avanzata oppure se tale trattamento sia indicato al momento della comparsa di sintomatologia clinica. Il Medical Research Council Prostate Cancer Working Party Investigators Group in uno studio randomizzato effettuato su pazienti con malattia localmente avanzata o malattia metastatica asintomatica ha sottolineato il vantaggio in termini di mortalità cancro correlata e sopravvivenza globale nei soggetti che avevano ricevuto trattamento immediato. Gli

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autori evidenziano comunque come per un 10% il trattamento continuativo per l‟intera durata della vita non sia necessario quindi in pazienti anziani , in assenza di metastasi, il trattamento differito rimane comunque una valida opzione 50. Sono ad oggi ancora in corso studi finalizzati a validare l‟efficacia del trattamento ormonale intermittente rispetto alla tradizionale terapia continuativa. L‟intermittenza della terapia ormonale infatti oltre a ridurre i costi di spesa sanitaria diminuirebbe gli effetti collaterali correlati alla deprivazione androgenica. I dati in letteratura sottolineano un recupero della libido ed un aumentato senso di benessere nei periodi di sospensione del trattamento ormonale a fronte di un efficace ripristino della soppressione in caso di ripresa di malattia. Inoltre studi preclinici condotti in vivo sottolineano come l‟intermittenza correli con un ritardo nello sviluppo di cloni cellulari ormonoresistenti anche se tali risultati non sono ancora stati dimostrati clinicamente. I primi risultati dello studio Calais da Silva e collaboratori sulla comparazione in termini di progressione locale o mortalità sembrano non evidenziare differenze sostanziali nei due gruppi randomizzati a ricevere terapia continuativa o terapia intermittente anche se tale studio non può essere adottato come modello data la bassa potenza statistica 51.

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ORMONOTERAPIA ADIUVANTE

Numerosi studi sono stati condotti per comprovare l‟efficacia dell‟ormonoterapia adiuvante a seguito di terapia definitiva chirurgica o radioterapica. L‟ampio studio condotto dall‟EORTC su pazienti con malattia localmente avanzata, randomizzato in candidati a sola radioterapia radicale o in associazione a goserlin per tre anni, ha dimostrato un miglioramento sia nel controllo locale che nella sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 78% rispetto al 62% nel braccio comprendente terapia adiuvante 52,53. Nello studio condotto dal RTOG invece il goserlin era somministrato a partire dall‟ultima settimana di trattamento radioterapico e fino a progressione sempre in pazienti con malattia localmente avanzata. Nei due bracci però non sono state dimostrate differenze statisticamente significative sulla sopravvivenza. Solo il sottogruppo con Gleason score 8-10 e stadio T3 aveva ottenuto un vantaggio significativo in sopravvivenza 54,55. Per quanto riguarda gli antiandrogeni la bicalutamide alla dose di 150 mg/die trova indicazione come terapia adiuvante con significativa riduzione della mortalità solo nei pazienti trattati con radioterapia per una neoplasia extracapsulare quindi di grado T3-T4 come ha dimostrato l‟Early Prostate Cancer Trialist Group 56. Esistono molti studi tra cui quello di Messing che evidenziano con significatività l‟uso del trattamento ormonale immediato tramite castrazione medica con goserelin o castrazione chirurgica in termini di incremento della sopravvivenza libera da malattia e della sopravvivenza globale in pazienti con metastasi linfonodali, questo vantaggio è confermato anche nella pubblicazione dell‟aggiornamento dei dati dopo circa 12 anni di

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follow up 57,58. Per tanto la terapia ormonale adiuvante appare ampiamente giustificata nei pazienti con linfonodi positivi sottoposti a trattamento chirurgico, nonché nei pazienti con malattia localmente avanzata correlata o no a neoplasia scarsamente differenziata dopo trattamento radioterapico definitivo. Vi sono ancora discussioni circa il tipo di terapia ormonale attuare: LH-RH analogo o antiandrogeno puro o BAT). Per quanto riguarda la durata ottimale del trattamento adiuvante in considerazione degli effetti iatrogeni della terapia endocrina e dei dati in letteratura sembra ragionevole non protrarre il trattamento per oltre 2 – 3 anni, anche perché alcuni studi sembrerebbero dimostrare la possibilità di ottenere un vantaggio terapeutico anche dopo periodi meno prolungati di trattamento.

ORMONOTERAPIA NEOADIUVANTE

A seguito degli studi condotti non può essere fornita alcuna raccomandazione circa l‟impiego di una terapia neoadiuvante prima della chirurgia radicale dal momento che non è stato rilevato nessun vantaggio in termini di sopravvivenza globale. Ci sono studi come quello condotto da Soloway e collaboratori che hanno dimostrato come nei pazienti con stadio T2b, trattati con ormonoterapia neoadiuvante per tre mesi prima di procedere a prostatectomia radicale , a 5 anni dal trattamento, sebbene vi sia una riduzione dell‟incidenza di margini positivi (47% vs 78% p < 0.001) e di penetrazione della capsula prostatica (18% vs 48% p < 0.001) non vi è vantaggio in termini di riduzione dell‟incidenza di recidive biochimiche 59. Altri studi condotti su pazienti con tumore in stadio

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localmente avanzato sottoposti a BAT per quattro mesi prima della chirurgia hanno sottolineato come a fronte di una riduzione del volume prostatico, della diminuzione dei tassi di PSA nel 5% e del downstaging correlato all‟ormonoterapia non vi fosse nessuna evidenza di riduzione del rischio di recidiva o di vantaggio in sopravvivenza. Dati fondamentalmente opposti sono emersi dall‟impiego dell‟ormonoterapia neoadiuvante seguita da radioterapia infatti tale combinazione comporta un vantaggio in termini di sopravvivenza libera da malattia e riduzione dell‟incidenza di recidive. Esistono molti studi condotti dal RTOG che ci suggeriscono che la terapia ormonale precedente o concomitante a radioterapia contribuisca a ridurre l‟insorgenza di recidiva indipendentemente dallo score di Gleason e dal volume prostatico anche se proprio i tumori “grosso volume” possono in particolar modo beneficiare della neoadiuvante in quanto la riduzione del volume correla ad un minor campo di irradiazione e quindi ad una minor tossicità radio-indotta. Per quanto detto le indicazioni al trattamento neoadiuvante prima della radioterapia definitiva comprendono i tumori T2-T4 con grosso volume. In oltre il recente aggiornamento dello studio di fase III sempre del RTOG sulla deprivazione androgenica a lungo termine comparata a quella a breve termine durante e dopo trattamento elettivo con radioterapia nel paziente con neoplasia localmente avanzata ha dimostrato come lo schema a lungo termine sia superiore in quanto a sopravvivenza libera da malattia, sviluppo di metastasi a distanza e progressione biochimica , ma non in termini di sopravvivenza globale. Un vantaggio in sopravvivenza globale del trattamento a lungo termine in associazione a radioterapia è riservato a malattia localmente

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avanzata e con Gleason score 8-10 costituendo quindi il possibile standard per questi pazienti ad alto rischio 60.

MALATTIA ANDROGENO

INDIPENDENTE E

ORMONOREFRATTARIA

L'efficacia dell'androgeno-deprivazione nel trattamento del carcinoma prostatico è notoriamente limitata nel tempo. La stragrande maggioranza dei pazienti sottoposti a ormonoterapia, quindi, è destinata ad andare incontro a progressione di malattia. La durata della risposta varia a seconda dello stadio clinico all'inizio della terapia. Indicativamente la non responsività al trattamento ormonale si ha dopo 2 o 3 anni mentre nel caso di malattia metastatica essa è di circa 18 mesi. Quando ciò accade gli ulteriori trattamenti sistemici apportano solo un modesto beneficio. I meccanismi che stanno alla base della androgeno-indipendenza non sono del tutto noti anche se è accreditata un‟ eziologia multifattoriale. Tra le possibili cause l'androgeno-deprivazione è sicuramente un fattore favorente la selezione di cloni ormonorefrattari che riuscendo a sopravvivere alla scarsità di androgeni portano a progressione di malattia. Molti studi sono stati condotti per definire possibili alterazioni dei recettori androgenici e delle cascate di segnali post-recettoriali che possono rendere la cellula di carcinoma prostatico insensibile alle manipolazioni ormonali. Tra queste rientrano 1) l‟iperespressione dei recettori androgenici correlata a fenomeni di amplificazione dei geni codificanti tali recettori al fine di selezionare cloni atti a sopravvivere

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nonostante la scarsità di testosterone 2) la cross attivazione di tali recettori da parte di agenti non androgenici come fattori di crescita e citochine 3) la presenza di mutazioni somatiche a carico del recettore del DHT 4) l'espressione di oncogeni come BCL-2 o la mutazione del gene p53 correlate con l‟inibizione dell'apoptosi normalmente indotta dalla deprivazione. Inoltre la coesistenza del fenotipo neuroendocrino può determinare attraverso un meccanismo paracrino una stimolazione aspecifica della proliferazione cellulare 61. La definizione di carcinoma prostatico ormonorefrattario è comunque ancora oggetto di discussione. Incrementi dei livelli circolanti di PSA superiori al 50% rispetto ai valori minimi raggiunti durante trattamento ormonale (ottenuti in 2 successive valutazioni a distanza di almeno 2 settimane l'una dall'altra) o la progressione strumentale di malattia, nei rari casi in cui il PSA è negativo, sono criteri accettati. Nei paziente con tumore prostatico ormonorefrattario la sopravvivenza mediana è di circa 12 mesi 62. La presentazione della malattia è estremamente eterogenea infatti il paziente può presentarsi sintomatico per la presenza di localizzazioni ossee della malattia nella maggior parte dei casi , quindi beneficiando di trattamenti palliativi oppure può presentarsi in buone condizione cliniche, in assenza di sintomi e cioè in una situazione dove non è ancora possibile documentare la presenza di malattia dal punto di vista clinico-strumentale se non con l‟aumento dei valori del PSA 63. In base alla presenza di sintomatologia il paziente può essere approssimativamente associato ad una diversa prognosi. Gli obbiettivi che si propone il trattamento in questa fase naturale della malattia sono la palliazione dei sintomi, la prevenzione delle complicanze ed in definitiva il miglioramento della qualità di vita del paziente. Se possibile chiaramente rimane

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l‟obiettivo di prolungare la sopravvivenza. Tuttavia questa fase della storia naturale della malattia mostra oggi una tendenza alla cronicizzazione. Pertanto, il trattamento prescelto dovrebbe essere diversificato negli obiettivi e nelle modalità a seconda delle diverse situazioni cliniche, candidando i pazienti maggiormente responsivi alla terapia ormonale di prima linea a trattamenti ormonali di seconda linea e quelli con malattia più evolutiva e aggressiva alla chemioterapia o alle terapie di supporto 64,65. Il trattamento ormonale di seconda linea ha come razionale l‟evidenza che l‟androgeno-indipendenza non significa ormonoindipendenza infatti tali pazienti possono rispondere ad altri farmaci o a manipolazioni dell‟ormonoterapia in atto. Come possibili opzioni rientrano l‟introduzione nel regime di trattamento di un antiandrogeno se il paziente era in trattamento con soli LH-RH analoghi oppure la sospensione dell‟antiandrogeno se il paziente effettuava BAT. Quest‟ultima modalità sfrutta il fenomeno dell‟ “androgen withdrawal response” 66 cioè il recupero del potenziale apoptotico nelle cellule androgeno sensibili dopo sospensione di antiandrogeno. Tale manovra terapeutica, infatti, induce una riduzione dei valori ematici di PSA nel 15-35% dei pazienti 67. Ulteriori manipolazioni ormonali prevedano l‟uso di estrogeni, l‟associazione con cortisonici, progestinici o inibitori della steroido-sintesi surrenalica come aminoglutetimide e ketoconazolo in associazione a cortisonici, oppure antiandrogeni di diversa natura come per esempio la nilutamide. Recentemente si è osservato che l‟utilizzo della nilutamide comporta una buona risposta, in termini di riduzione del PSA, soprattutto nei pazienti che avevano precedentemente ottenuto un beneficio dall‟ “antiandrogen withdrawal” 68. Anche il ketokonazolo, introdotto dopo il “withdrawal” dell‟antiandrogeno ha

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dimostrato significativa attività. Nel complesso il trattamento ormonale di seconda linea porta ad una risposta sul PSA intorno al 20% e comunque tale risposta è di breve durata (circa 3-4 mesi) e quasi mai accompagnata da risposte obiettive 69. Da considerare nella scelta dell‟approccio farmacologico sono inoltre le condizioni cliniche globali e le comorbidità del paziente date le possibili tossicità di tali trattamenti.

CHEMIOTERAPIA

La chemioterapia diventa una proposta terapeutica quando la malattia non è più responsiva ai trattamenti ormonali di seconda linea. I regimi chemioterapici utilizzati negli anni „70-„80 non avevano fornito risultati clinici significativi, come dimostrato da una metanalisi pubblicata nel 1988, dove la percentuale di risposte obiettive complete e parziali valutata in 17 studi randomizzati è risultata essere del 6.5% 70. Tale dato è stato confermato da un‟ulteriore revisione di 26 studi condotti alla fine degli anni ottanta, che ha dimostrato un‟ attività del 8.7% 71. I farmaci utilizzati erano stati le antracicline, il mitoxantrone, l‟estramustina fosfato, gli alcaloidi della vinca e la suramina , la quale pur mostrando una discreta attività evidenziava profili di tossicità non accettabili 72. Fino al 2004 l‟unico trattamento disponibile era il Mitoxantrone, un antracenedione derivato dalle antracicline sviluppato come alternativa alla doxorubicina rispetto alla quale dimostrava minor cardiotossicità, il quale aveva ottenuto l‟approvazione dato il beneficio i termini di palliazione. Infatti uno studio randomizzato canadese della metà degli anni novanta aveva evidenziato come l‟associazione tra mitoxantrone e prednisone comparata al solo uso del corticosteroide

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ottenesse un miglior controllo della sintomatologia dolorosa (29% vs 12% p = 0.01) portando ad un minor uso di farmaci analgesici ed un tempo di palliazione medio più duraturo (43 vs 18 settimane, p < 0.0001), pur non portando ad un vantaggio in sopravvivenza globale 73 . Risultati simili erano stati osservati nello studio CALGB, in cui, nei 242 pazienti arruolati, si comparava l‟utilizzo del mitoxantrone associato a idrocortisone al solo idrocortisone. La sopravvivenza era risultata simile nei due gruppi (mediana di 12.3 vs 12.6 mesi), ma come nello studio precedente era stato evidenziato un miglioramento della qualità di vita a favore della combinazione 74. Tale associazione è stata quindi proposta come regime di riferimento per la malattia ormonorefrattaria e utilizzata come braccio di controllo nei successivi studi di fase III. E‟ solo nel 2004 con la pubblicazione dei risultati di due grandi studi randomizzati di fase III che viene dimostrato per la prima volta un vantaggio in sopravvivenza globale con l‟uso di docetaxel (un antiblastico ad azione antimicrotubulare) rispetto allo standard con mitoxantrone e prednisone. Il primo studio effettuato da Tannok e collaboratori (studio TAX 327) a tre bracci comparava lo standard rappresentato da mitoxantrone 12 mg/mq ev ogni tre settimane e prednisone 5 mg per os x 2/die con docetaxel alla dose di 75 mg/mq con schedula trisettimanale insieme a prednisone 5 mg per os x 2/die o somministrato alla dose di 30 mg/mq settimanale per 5 settimane ogni 6 insieme a prednisone 5 mg per os x 2/die. Un aumento significativo della sopravvivenza (18,9 mesi vs 16,5 mesi p = 0.009), delle risposte sul PSA (45% vs 32% p < 0.001) ed un miglioramento della sintomatologia dolorosa (35% vs 22% p = 0.01) veniva osservato nel braccio comprendente docetaxel somministrato ogni 3 settimane rispetto al trattamento con mitoxantrone. Il trattamento

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con docetaxel settimanale presentava invece un trend verso un incremento della sopravvivenza senza raggiungere la significatività statistica (17.3 mesi p = 0.3), evidenziando comunque una migliore risposta sul PSA (48% p < 0.001) ed un miglior controllo della sintomatologia dolorosa (31% p 0.08) rispetto al braccio di controllo 75. Gli aggiornamenti pubblicati nel 2007 dello studio TAX327 confermavano la persistenza del beneficio in sopravvivenza nel braccio comprendente docetaxel (19,2 vs 16,3 mesi), inoltre veniva evidenziata una riduzione del rischio di morte del 21% rispetto ai pazienti trattati con mitoxantrone 76,77. Il secondo studio effettuato sempre nel 2004 da Petrylac e collaboratori (studio SWOG 99-16) paragonava l‟associazione docetaxel 60 mg/mq ev giorno 1 più estramustina 280 mg per os giorni 1-5 ogni 3 settimane all‟associazione di mitoxantrone 12 mg/mq ev ogni 3 settimane e prednisone 5 mg per os x 2/die. I risultati dimostravano un miglioramento in termini di sopravvivenza globale (17,5 rispetto a 15,6 mesi p 0.02), un vantaggio in sopravvivenza libera da malattia ( 6,3 rispetto a 3,2 mesi p< 0.001) e una risposta sul PSA del 50% rispetto al 27% (p < 0.001) per il braccio comprendente docetaxel. L‟aggiunta di estramustina, tuttavia, comportava un incremento del rischio tromboembolico ed un peggioramento della tossicità gastroenterica 78. Per quanto dimostrato l‟associazione di docetaxel 75 mg/mq ev ogni 3 settimane e prednisone 5 mg per os x 2/die è da ritenersi il trattamento standard di prima linea in pazienti con carcinoma prostatico ormonorefrattario TABELLA 7. Inesorabilmente tutti i pazienti vanno incontro a progressione dopo il trattamento di prima linea con docetaxel sebbene una buona percentuale sia candidabile ad un trattamento di seconda linea. Non esistono ad oggi trattamenti di seconda linea codificati in caso di

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fallimento del trattamento standard. Una possibile opzione terapeutica può essere il ritrattamento con docetaxel in caso il farmaco sia stato interrotto quando ancora il paziente era in fase di risposta e sia passato un intervallo di tempo adeguato dalla prima linea 79. Il mitoxantrone è un possibile farmaco di seconda linea anche se i risultati ottenuti sono di modesta entità con risposte sul PSA dal 6 al 15 % e una mediana di sopravvivenza libera da progressione di circa 6 settimane 80. Altre possibili opportunità terapeutiche di seconda linea possono essere l‟ epirubicina, la vinorelbina, l‟etoposide, la ciclofosfamide, delle quali molto promettente appare la somministrazione orale 81. Nuovi farmaci sono in corso di sperimentazione per verificarne l‟attività terapeutica e i possibili vantaggi, tra questi il satraplatino, un analogo del platino di terza generazione che a differenza dei farmaci a base di platino attualmente in commercio è somministrabile per via orale data la spiccata biodisponibilità, il maggior profilo lipofilo e la stabilità chimica 82,83 e l‟ixabepilone che appartiene alla famiglia degli epotiloni, potenti agenti antimicrotubulari simili ai taxani 84. Nuovi indirizzi di ricerca cercano di coniugare il trattamento standard a base di docetaxel con altri farmaci o sostanze ancora investigazionali tra questi rientrano studi di associazione con inibitori della neoangiogenesi come la Talidomide 85 e il Bevacizumab 86, con Calcitriolo (metabolita attivo della vitamina D) 87,con agenti favorenti l'apoptosi quali l'oligonucleotide anti-senso Oblimersen36 88 e con l'antagonista dell'endotelina A Atrasentan 89. Particolarmente interessanti appaiono anche gli studi con l‟anticorpo monoclonale Pertuzumab, il quale legandosi ai ricettori HER2 (appartenenti alla famiglia dei ricettori del fattore di crescita

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epidermico) inibinibisce la loro funzione interrompendo un pathway che conduce alla crescita tumorale 90 .

TERAPIE DI SUPPORTO

Il tessuto osseo è sede principale di localizzazione secondaria del tumore prostatico. Poiché la maggioranza dei pazienti con carcinoma prostatico avanzato presenta metastasi ossee come unica sede di disseminazione sistemica di malattia, il trattamento specifico di tali lesioni, al fine di controllare il dolore e la prevenzione delle complicanze scheletriche, è un obiettivo di primaria importanza. La radioterapia si è dimostrata efficace nel controllo del dolore localizzato correlato alla presenza di metastasi ossee (scomparsa del dolore nel 40% dei casi) e nel prevenire il rischio di fratture patologiche . L‟utilizzo dei radioisotopi come Fosforo32

, Stronzio89, Samario153 è un‟altra alternativa nel controllo del dolore dovuto ad interessamento scheletrico diffuso, anche se accompagnato da una moderata tossicità midollare, in particolar modo per i radioisotopi di prima generazione quali Fosforo32 e Stronzio89 91. Le possibilità terapeutiche si sono recentemente arricchite con l‟introduzione dei bisfosfonati analoghi del pirofosfato in grado di inibire l‟attività osteoclastica. Attualmente il più potente in uso nella pratica clinica è l‟acido Zelodronico il quale (alla dose convenzionale di 4 mg ev) comporta una riduzione statisticamente significativa della probabilità di insorgenza di complicanze scheletriche e una riduzione del numero complessivo di complicanze scheletriche come dimostrato da studi di fase III 92. Attualmente sono in corso studi sperimentali con l‟ anticorpo monoclonale Denosumab diretto contro RANKL ( Receptor

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Activator of Nuclear factor Kappa B Ligand ), un mediatore dell‟osteoclastogenesi e della sopravvivenza dell‟osteoclasto. Tale anticorpo è capace di aumentare la densità minerale ossea e ridurre i marker del turnover osseo 93 .

PROCESSO ANGIOGENICO

Negli ultimi anni l‟attenzione della ricerca si è rivolta verso i meccanismi che regolano la crescita e la diffusione tumorale, al fine di individuare nuovi target per terapie antitumorali sempre più efficaci. In particolare è stato notato che l‟instabilità genetica e l‟eterogeneità biologica delle neoplasie siano le cause determinanti il fallimento delle terapie antitumorali sistemiche e si è cercato di andare a colpire un punto stabile geneticamente e fondamentale per il tumore come la sua vascolarizzazione 94. Nel 1971 Judah Folkman per primo introdusse il concetto di terapia "antiangiogenica" postulando il concetto che un trattamento preventivo sulla formazione di vasi sanguigni tumorali, potesse contenere lo sviluppo di una neoplasia per un lungo periodo di tempo. Numerosi studi hanno messo sempre più in evidenza che l‟elemento chiave che determina lo scatenarsi della malattia neoplastica sia l‟innesco della neovascolarizzazione tumorale, processo che prende il nome di “switch angiogenico”, indotto dalla sintesi e secrezione di fattori di crescita selettivi per le cellule endoteliali prodotti sia dal tumore stesso che dalle cellule immunitarie infiltranti la neoplasia. Infatti non tutte le neoplasie sono in grado di crescere, ma solo quelle con “fenotipo angiogenico”, cioè in grado di reclutare elementi al fine di creare una vascolarizzazione. In contrasto con le cellule normali che formano un singolo strato attorno ai capillari sanguigni, le cellule

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neoplastiche si dispongono in più strati attorno ai microvasi perché estremamente dipendenti dalla presenza di sangue 95. In generale l'aumento della vascolarizzazione tumorale e l'espressione di fattori proangiogenici sono legati ad un tumore in uno stadio più avanzato e a prognosi peggiore. L'angiogenesi, cioè la formazione di nuovi vasi sangugni a partire dai preesistenti, è un processo a cascata. Può essere schematizzato in alcune fasi importanti:

a) destabilizzazione dei vasi preesistenti tramite degradazione della membrana basale ad opera di proteasi secrete dalle cellule endoteliali

b) migrazione delle cellule endoteliali circolanti verso il sito di neoformazione vascolare

c) proliferazione e differenziazione delle cellule endoteliali per l'allungamento e la formazione della struttura luminale del vaso

d) secrezione di fattori di crescita in grado di reclutare cellule di supporto come periciti e cellule muscolari liscie e di aiutare la formazione della membrana basale in modo da stabilizzare il nuovo vaso

e) acquisizione per ogni vaso delle caratteristiche di specializzazione tipiche del tessuto o organo che irrorano 96 Sono stati identificati diversi fattori, sia in grado di promuovere che in grado di inibire l'angoiogenesi. I principali regolatori proangiogenici sono il fattore di crescita dell‟endotelio vascolare (VEGF) ed il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF), nonché i fattori di crescita trasformanti (TGF-α e TGF-β), l‟interleuchina-8 (IL-8), la leptina e l‟angiogenina. Fattori in grado di inibire l‟angiogenesi sono l‟angiostatina, l‟endostatina, la trombospondina-1 (TSP-1),

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l‟angiopoietina-2, l‟interferone-α e l‟interleuchina-12 (IL-12) 97. Uno dei principali fattori coinvolti è il VEGF che insieme al suo recettore svolgono un ruolo fondamentale sia nell'angiogenesi fisiologica che patologica. Le molecole che appartengono alla famiglia dei fattori di crescita dell‟endotelio sono : A, B, C e VEGF-placenta growth factor (PIGF) -1 e -2 . Il VEGF-A, detto comunemente VEGF, è una glicoproteina omodimera di 45 kD, che venne identificata da Dvorak e collaboratori come un fattore prodotto dalle cellule tumorali come induttore di permeabilità vascolare e perciò chiamato vascular permeability factor (VPF) 98. Infatti è uno dei più potenti induttori della permeabilità vascolare, 50.000 volte più potente dell'istamina. Ferrara e collaboratori più tardi isolarono e clonarono VEGF-A come un fattore mitogeno dell'endotelio. Il gene VEGF-A subisce splicing alternativo per produrre diverse isoforme mature tra cui le più importanti sono VEGF 121 e 165 aminoacidi. Il VEGF 165 è l'isoforma predominante ed iperespressa in un grande numero di tumori solidi. Il VEGF 121 esiste in forma solubile, mentre il VEGF 165 esiste in forma in parte legata ed in parte solubile. Le altre isoforme sono tenute saldamente legate alla matrice extracellulare dall‟elevata affinità per la proteina. Sono perciò due i meccanismi con cui il VEGF è reso disponibile per le cellule endoteliali: la secrezione di isoforme solubili e il clivaggio proteolitico delle forme legate 99. Il VEGF svolge quattro attività biologiche molto importanti connesse con l'angiogenesi:

 crescita e proliferazione delle cellule dell'endotelio  migrazione delle cellule endoteliali

 sopravvivenza delle cellule immature attraverso la prevenzione dell'apoptosi

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 aumento della permeabilità vascolare dei capillari

L‟espressione del gene è regolata da diversi elementi: ipossia, pH, fattori di crescita, trasformazione cellulare, ormoni, oncogeni. Il fattore meglio conosciuto è l‟ipossia, nella quale i fattori di trascrizione HIF-1α e HIF-2α (hypoxia-inducible factor-1α e -2α) sono stabilizzati e portati nel nucleo dove interagiscono con HIF-1β. Quindi il complesso si lega ad una specifica sequenza del gene VEGF, definito elemento di risposta all‟ipossia (HRE), stimolandone la trascrizione. La regolazione dell‟espressione di VEGF ad opera della tensione di ossigeno può coinvolgere anche un soppressore tumorale, la proteina VHL, in grado di ridurre l‟espressione di VEGF in condizioni di normossia. Diversi fattori di crescita, citochine e ormoni hanno evidenziato la capacità di indurre l‟espressione del mRNA di VEGF e/o la produzione della proteina VEGF in vitro; ricordiamo: EGF, TGF-β, IGF-1, IL-1α, IL-6, la prostaglandina E2, il TSH, l‟angiotensina II e l‟ACTH. Dopo esser stato secreto, VEGF si lega a specifici recettori ad elevata affinità e dotati di attività tirosin-chinasica. Questi recettori sono conosciuti come VEGFR-2 (detto anche KDR) e VEGFR-1. Il VEGFR-2 sembra funzionalmente più importante e può mediare il segnale coinvolto nella mitogenesi, nella migrazione, nella sopravvivenza delle cellule endoteliali e nella permeabilità vascolare 100. Nell‟uomo numerosi studi hanno evidenziato l‟elevata espressione di VEGF nei tessuti e nel sistema circolatorio tumorale di molte neoplasie solide. In questi studi, l‟espressione aumenta con il progredire della neoplasia verso forme più maligne e correla con l‟estensione del sistema vascolare del tumore. È stata anche evidenziata la concomitante sovraespressione del VEGFR sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni più vicini al tumore. In molti studi, l‟incremento di VEGF

Figura

Tabella 2  Suddivisione in Stadi Stadio I  T1         N0        M0    G1  Stadio II  T1a       N0        M0    G2,3-4 T1b,c    N0        M0    ogni G T1,2      N0        M0    ogni G

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