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Academic year: 2021

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CAPITOLO IV

1. LA TENDENZA AL FENOMENO NIMBY E I CONFLITTI AMBIENTALI NELLA REALIZZAZIONE DI OPERE STRATEGICHE

Dobbiamo muovere dalla considerazione che soltanto «in teoria il sistema democratico dispone di strumenti istituzionali per consentire a tutti di partecipare in posizione paritaria alla formazione delle decisioni collettive. Nella realtà, la maggior parte delle persone ha pochissimo potere effettivo nel condizionare il funzionamento delle istituzioni dominanti»1. Di conseguenza, appare chiara l’esigenza di cercare nuove modalità di trasformazione sociale attraverso forme di democrazia “reale”, in opposizione a quelle di democrazia “istituzionale”, anche se questo non esclude che vi possa essere la volontà di trasformare le istituzioni stesse o creare un rapporto tra esse e le varie forme che l’autorganizzazione può assumere (movimenti, osservatori, comitati, ecc.).

Spesso però, il rapporto con le istituzioni si configura come conflitto: in questo caso è probabile che la legittimità delle istituzioni non sia riconosciuta – o almeno non del tutto – e l’obiettivo sia il loro abbattimento. Oppure, al contrario, le istituzioni potrebbero essere considerate l’interlocutore privilegiato cui rivolgersi: è sottinteso che in questo caso saranno loro riconosciute non soltanto piena legittimità, ma anche capacità e competenze. In mezzo, ovviamente, infinite sfumature che vanno dalle più o meno occasionali collaborazioni fino allo “sfruttamento” utilitaristico delle istituzioni considerate niente di più che strumenti per perseguire determinati fini.

Statisticamente, le motivazioni alla base dell’opposizione alle opere pubbliche più diffuse sono il danno all’ambiente e alla salute, i costi eccessivi dell’opera e i dubbi circa la loro utilità: il fatto che una certa opera sia obiettivamente poco motivata, o motivata sulla base di argomenti mal espressi e poco verificabili, in termini di costi e benefici, rende più probabile l’insorgere di una opposizione.

1 J. Brecher, T. Costello, B. Smith, Come farsi un movimento globale. La costruzione della

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123 Secondo i dati Aris-Nimby Forum2 del 2010, a prescindere dal tipo di impianto in questione, le principali ragioni addotte da chi si mobilita sono sempre le stesse. Quasi sempre, gli attori locali devono misurarsi non soltanto con le rispettive controparti interagenti allo stesso livello, ma anche con esigenze di ordine superiore: vale a dire che spesso i conflitti ambientali sono caratterizzati dal classico schema centro-periferia. Il conflitto ambientale, infatti, si sviluppa generalmente lungo due assi: “centro versus periferia”, ovvero poteri nazionali forti contro enti locali deboli e “tutela dell’ambiente versus sviluppo economico”. Sui due assi del conflitto possiamo distinguere protagonisti di natura diversa: nel polo centro-periferia troviamo le amministrazioni locali (Province e Comuni), le amministrazioni regionali e l’amministrazione nazionale. Nell’altro polo possiamo trovare, oltre alle associazioni ambientaliste, anche associazioni di categoria, partiti, imprenditori e enti di varia natura. Sul versante “sviluppo”, uno dei vantaggi che più frequentemente i soggetti promotori invocano riguarda la ricaduta occupazionale, cioè la quantità di posti di lavoro che sarà creata grazie alla nuova opera e il fatto che le maestranze saranno reclutate sul territorio, tra i residenti. Sul versante “ambiente” invece, sono soprattutto le associazioni ambientaliste a battersi in modo più o meno unitario e costante, sollevando questioni di natura paesaggistico-naturalistica, ecologica e sanitaria.

Per quanto riguarda il polo centro-periferia, il conflitto si gioca lungo la complicata – e non certo scontata – attribuzione della qualifica di “interesse locale” ovvero “interesse nazionale”. Tra le accuse più di frequente mosse ai residenti che si oppongono alla realizzazione dell’opera di turno, c’è quella secondo cui, in nome di un «localismo egoista»3 ci si opporrebbe al bene collettivo e alle scelte politiche delle istituzioni. Secondo questa tesi, i partecipanti

2 Si tratta di un progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito

dall'associazione no profit Aris - Agenzia di Ricerche Informazione e Società. È nato nel 2004 con l'obiettivo di analizzare l'andamento della sindrome NIMBY e costituisce un database nazionale delle opere di pubblica utilità che subiscono contestazioni. È pressoché l’unica fonte di informazioni sul fenomeno NIMBY in Italia, ma la banca dati non contiene informazioni sugli esiti delle contestazioni, limitandosi a censire le opere contestate anno per anno. Inoltre non si trovano informazioni circa gli impianti a rischio di contestazione che non vengano però contestati. www.nimbyforum.it.

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124 sarebbero «mossi dal cieco egoismo di chi non vuole un certo impianto a casa propria, ma non muoverebbe un dito se esso fosse proposto a casa d’altri»4.

Come fa Gallino che si chiede «se per caso non [siano] proprio gli abitanti della Valle di Susa quelli che, con la loro opposizione a questo progetto di TAV, stanno facendo l’interesse nazionale»5, anche noi dobbiamo domandarci dove sia l’interesse generale e dove quello particolare. Può darsi che proprio laddove le comunità locali valutano progetti e alternative, studiando una mole inesauribile di documenti, invocando, come fosse un mantra, lo sviluppo sostenibile e difendendo la democrazia, stia l’interesse generale. Altrettanto facilmente può darsi che l’interesse particolare, al contrario, stia dove si sostiene, ciecamente e senza dubbi di sorta, un progetto che verosimilmente vede intrecciarsi tornaconti di «politici appaltatori e impresari appaltanti»6.

Pur ammettendo che le grandi opere producono una certa crescita economica, ciò non è necessariamente riconducibile ad un interesse generale, soprattutto se assurge a stella polare delle politiche di sviluppo un certo modello socio-economico.

Per quanto riguarda i protagonisti dei conflitti ambientali, i comitati sono particolarmente attivi nel ricercare un dialogo con le amministrazioni locali e molto spesso, essi si appoggiano alle associazioni ambientaliste di cui Italia Nostra, Legambiente e WWF sono alcuni tra gli esempi più combattivi. Di frequente, proprio le associazioni sono il motore scatenante della protesta assumendo il ruolo di contro-expertise: esse svolgono una funzione di divulgazione informativa e attivano tra la popolazione locale un processo di riflessione.

I comitati e le associazioni però, spesso risultano poco coordinati tra loro e si avvalgono di modalità di protesta differenti. Dagli anni Novanta si sono sviluppati movimenti ambientalisti che oltre ad essere scarsamente coordinati (nelle diverse

4 L. Bobbio, Un processo equo per una localizzazione equa, in L. Bobbio e A. Zeppetella (a cura

di), Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 186.

5

L. Gallino, Domande senza risposte e interesse nazionale, in C. Cancelletti, G. Sergi, M. Zucchetti (a cura di), Laboratorio per la democrazia di Torino, “Travolti dall’Alta Voracità”, Odradek, Roma, 2006, p. 42.

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125 proteste inscenate e in cui sono coinvolti), sembrano nutrire una certa diffidenza reciproca7.

Il conflitto può essere innescato anche da forze esterne al territorio, come le associazioni ambientaliste nazionali, ma potrebbe poi svilupparsi e radicalizzarsi tra la cittadinanza locale attraverso un processo di sensibilizzazione e comunicazione fatto di assemblee, dibattiti e volantinaggi, fino a forme più estreme come manifestazioni di piazza, occupazioni e sit-in funzionali ad un compattamento dell’opinione pubblica.

Per quanto riguarda le strutture organizzative, accanto alle forme più classiche come comitati, assemblee e coordinamenti, si è assistito negli ultimi anni allo sviluppo di presidi saldamenti connessi al luogo come spazio fisico e sociale. I presidi sono strutture che nella mobilitazione ambientale hanno acquisito una sempre maggiore rilevanza, rappresentando «l’estrinsecazione concreta della mobilitazione, costituendone il centro di aggregazione e di discussione. Il presidio diviene il luogo catalizzatore della protesta, per alcuni versi trascendendola, in quanto è un luogo di ritrovo, dove si realizza la ricostruzione di un legame sociale, per altri versi, esprimendone in pieno il carattere popolare»8. Nel presidio, quale luogo di aggregazione, discussione e decisione, si sperimentano forme spontanee di democrazia dove ciascuno è chiamato ad esprimere la propria opinione e ad apportare un contributo. Si tratta insomma di un laboratorio politico, dove le decisioni vengono prese durante periodiche assemblee aperte. Al di là del peso che le singole persone possono avere in queste assemblee, la discussione è reale e sugli scontri che potrebbero configurarsi tra vari punti di vista, finisce solitamente per prevalere il senso di unità e l’esigenza di trovare soluzioni il più possibile condivise.

Per quanto riguarda le modalità di azione, dato il loro carattere informale, i comitati e i movimenti possono agire con una certa flessibilità e libertà. Oltre alle forme di mobilitazione più tradizionale, sono in grado di promuovere azioni legali

7 M. Maretti, «Governance» e desiderabilità sociale delle energie alternative nel caso abruzzese,

in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., pp. 139 ss. Per maggiori approfondimenti si veda D. Della Porta e M. Diani, Movimenti senza protesta? L’ambientalismo in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004.

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126 e di contestare i progetti proposti con argomentazioni e linguaggi tecnico-scientifici. Questo perché solitamente sono affiancati da persone professionalmente competenti: sono in grado cioè di procurarsi expertise tecniche. Nei casi di conflitto ambientale, vengono quasi sempre chiamati in causa gli esperti quali portatori di conoscenze qualificate, generalmente legittimate da incarichi professionali e da riconoscimenti ottenuti in ambito scientifico e accademico. Essi intervengono, da un lato, a supporto delle motivazioni dei proponenti per l’installazione della grande opera, cercando di convincere la comunità locale della sua utilità e mostrandone la valenza super partes e il netto prevalere dei vantaggi sui costi; dall’altro, a supporto delle preoccupazioni degli oppositori.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, sempre più spesso le mobilitazioni popolari si avvalgono dell’expertise, in particolare per promuovere azioni su temi relativi all’ecologia e alla salute. Questo perché si è ormai consolidata la convinzione che tutte le iniziative debbano essere fondate «su una solida base di dati scientifici e tutti i “no” vanno accompagnati con l’indicazione di alternative concrete, realistiche, praticabili»9. La professionalizzazione dei movimenti ambientalisti dovrebbe, almeno nelle intenzioni, essere la panacea della “sindrome NIMBY”10 spesso invocata per delegittimare la protesta; appoggiarsi all’expertise tecnico-scientifica, quale depositaria di conoscenze in grado di contrapporsi alle argomentazioni a sostegno delle grandi opere, può sicuramente aiutare gli oppositori ad affrancarsi dallo stigma NIMBY. Grazie alla propria autorevolezza, l’expertise, o meglio la contro-expertise, può presentare valutazioni e

9 Cfr. L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., p. 15. Si leggeva così sul vecchio sito

di Legambiente all’indirizzo www.legambiente.eu/scienza/index.php.

10

Da alcuni anni, la stampa e la letteratura specialistica documentano un numero crescente di esempi di opposizione della popolazione locale – e non solo – all’instaurazione di grandi opere infrastrutturali definite strategiche. Queste opposizioni, dalle quali scaturiscono i conflitti ambientali, vengono spesso etichettate con degli acronimi, che nella maggior parte dei casi assumono un connotato dispregiativo: NIMBY (not in may back yard); LULU (locally unwanted

land uses); NOOS (not on our street); NIABY (not in any back yard) fino alle visioni più

integraliste: CAVE (citizens against virtually everything); BANANA (build absolutely nothing

anywhere near anyone); NOT PE (not on the planet Earth). Infine c’è la tipizzazione orientata al

ruolo non dell’amministrato, ma dell’amministratore: NIMTOO (not in my term of office) e NIMEY (not in my electoral yard). Questa tipologia di conflitti ambientali si ha solitamente quando la realizzazione dell’impianto viene percepita come vantaggiosa per una realtà più ampia, ma foriera di rischi e costi a livello territoriale.

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127 ragionamenti in grado di contrastare quelli dei promotori di interventi “sbandierati” come strategici per il Paese e la collettività.

Da alcune indagini svolte11 è possibile ricavare una statistica descrittiva. Le competenze più ricercate, da un lato per contrastare la realizzazione del progetto, dall’altro per conferire validità scientifica alle valutazioni fatte per dimostrarne l’utilità, sono quelle mediche e quelle ingegneristiche. In base al progetto in questione vengono interpellati, con diversa distribuzione, anche chimici, urbanisti e geologi. Inoltre, nelle controversie ambientali, non mancano quasi mai di intervenire anche gli scienziati sociali (economisti, sociologi, storici, studiosi di politiche ambientali ecc.). Infine vediamo che la collocazione professionale è distribuita equamente tra Università e altre istituzioni.

In generale, possiamo affermare che, nella maggior parte dei conflitti ambientali, gli esperti coinvolti sono numerosi e di diversa provenienza disciplinare, anche se le differenti expertise finiscono per intrecciarsi, assumendo pesi diversi a seconda delle vicende.

Sappiamo che più spesso gli esperti vengono interpellati dagli oppositori, ma si avvalgono delle loro consulenze anche i soggetti promotori e le istituzioni; più frequentemente vengono convocati come esperti di parte che come autorità imparziali. A questo proposito, una dinamica che sovente si innesca nelle controversie ambientali è quella messa in evidenza da Alfredo Agustoni12: «la più consueta strategia di delegittimazione del parere di un esperto consiste nel chiamare in causa una contro-expertise dotata della medesima credibilità. Il tutto si risolve in un gioco a somma negativa, nel quale i saperi esperti, nel complesso, vedono erosa la propria credibilità»13. Si crea una certa “disistima” reciproca fra i principali protagonisti proprio in termini di expertise: ognuno ritiene l’altro poco competente. Così i cittadini finiscono per non sapere più di chi fidarsi e questa crisi di fiducia, caratteristica degli ultimi decenni, genera paura. La crisi di fiducia che ormai contraddistingue i rapporti amministrazioni-cittadini e

11 Si veda in particolare TAB. 2.1 in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., pp.

81-82.

12 A. Agustoni e S. Sanseviero, La forza del vento. Il conflitto sull’installazione di impianti eolici

in Abruzzo, in L. Pellizzoni, Conflitti ambientali, op. cit., pp. 110 ss.

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128 cittadini rappresenta una delle maggiori cause di conflittualità territoriale14. A tal proposito si leggano le parole di un dirigente dell’Alesa15 di Chieti: «si nota nei cittadini una certa sfiducia in chi dà notizie tecniche, snocciolando dati sul territorio, mentre l’amministrazione si fida, perché chi decide ha bisogno di dati per giustificare il proprio operato, ma chi sta all’opposizione commissiona altri dati: il comune chiama l’Arpa per dire che ci sono X decibel e l’opposizione chiama qualcun altro per dire che sono il triplo»16.

C’è la tendenza, da parte delle associazioni ambientaliste, a porre se stesse come “autentico portavoce dell’interesse pubblico” da contrapporre all’incompetenza e all’imparzialità delle istituzioni: paradossalmente quella che dovrebbe essere un’expertise neutrale, ovvero quella chiamata in causa dall’amministrazione pubblica, diventa un’expertise di parte, mentre le associazioni ambientaliste, che per loro natura lo sono, vanno ad occupare una sorta di “centro morale” e presentano se stesse quali latrici di un sapere imparziale17.

Le diverse expertise giocano un ruolo di primo piano nei processi decisionali, ma spesso faticano a mantenere una propria autonomia rispetto alle parti in conflitto e come risultato si ha talvolta una «relativa erosione della credibilità delle stesse expertise, spesso incapaci di conservare lo stigma dell’imparzialità»18. Di conseguenza possiamo rilevare come «i tentativi di espertificazione della politica si risolvano, spesso, in un’autentica politicizzazione dell’expertise»19.

Da sottolineare come, all’interno delle istituzioni stesse, manchi un sapere davvero esperto, dotato di strumenti cognitivi e risorse tali da evitare le controversie sulla realizzazione di grandi opere. Questa fragilità dal punto di vista tecnico crea una crisi di fiducia da parte della cittadinanza e in questo contesto di

14 M. Bartolomeo et al., Libro Bianco su Conflitti territoriali e Infrastrutture di Trasporto, op. cit.,

p. 5.

15 Agenzia locale per l’energia e lo sviluppo ambientale. Si tratta di un ente di consulenza in

campo energetico legato alla provincia di Chieti. Consulta www.alesachieti.it.

16 Sono le parole riportate da Agustoni in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., p.

110.

17 Per un maggiore approfondimento del fenomeno si veda anche E. Perry, J. Mata, T. Gieryn,

Science and the discursive politics of policy: examining credibility and policy framing, paper

presentato all’Annual Meeting of the American Sociological Association, New York, 10 agosto 2007.

18 A. Agustoni e S. Sanseviero, La forza del vento, in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali,

op. cit., p. 127.

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129 carenza conoscitiva – e spesso normativa, nonché decisionale – il ruolo dell’expertise20 assume notevole rilevanza, soprattutto nelle materie ambientali, urbanistiche e infrastrutturali in generale.

In questo quadro frammentato e lacunoso, le comunità locali appaiono spesso disorientate (anche perché non vengono perfettamente informate) e allora le associazioni ambientaliste acquistano, nella veste di contro-expertise, un peso sempre maggiore «sia come sentinelle del territorio e quindi come opinion leader, sia come interlocutrici privilegiate delle istituzioni»21. Dunque la capacità di mobilitare e organizzare una contro-expertise che sia in grado di articolare solide argomentazioni tecniche, giuridiche e economiche, si rivela un ingrediente essenziale per far sì che gli oppositori non vengano semplicemente bollati come “ignoranti e irrazionali” e per impedire all’amministrazione di trincerarsi dietro l’urgenza della decisione (la “sindrome DAD”: Decide, Announce, Defend). Per tutto questo, il prezzo da pagare è il rischio per l’esperto, non appena acceda all’arena pubblica dei mass media, di essere «trasformato in un soggetto politico che manifesta non tanto la sua oggettività di studioso, quanto la sua appartenenza a una delle due parti in conflitto»22.

Ciascuna delle parti in conflitto contrapporrà la propria expertise cercando di decostruire e neutralizzare quella avversaria. E dato che al crescere della complessità dei problemi aumenta anche il coinvolgimento degli esperti, piuttosto che ridurre il conflitto, spesso, il ricorso al sapere tecnico-scientifico lo inasprisce. In questo caso, ciò che ne scaturisce, è un quadro assai complicato in cui scientizzazione della politica e politicizzazione della scienza si mescolano fino, talvolta, all’impasse23 decisionale.

20 Si intende qui expertise in entrambe le accezioni, ossia come risorse esogene accreditate (cioè

tecnici “arruolati” dalle amministrazioni) e come risorse endogene (cioè la contro-expertise, espressione del territorio e in particolare dell’associazionismo ambientalista).

21 M. Maretti, «Governance» e desiderabilità sociale delle energie alternative nel caso abruzzese,

in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., p. 145.

22 D. Padovan, A. Alietti, O. Arrobbio, Le opportunità discorsive dell’expertise nel conflitto sul

Tav in Val di Susa, in L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., p. 258.

23 L’impasse è una delle fasi tipiche di un conflitto ambientale individuate da Luigi Pellizzoni allo

scopo di contribuire a mettere in evidenza figure e ruoli tipici dell’expertise. La prima fase è quella della “lacerazione”, durante la quale si verifica una rottura degli equilibri relazionali vigenti nel processo di policy e tale rottura si consuma più sul piano tecnico che politico. In questo caso gli esperti svolgono un ruolo di contrasto e si trasformano in contro-expertise. La seconda fase è quella di “impasse”: ciascuna parte in conflitto “schiera” la propria expertise accusando quella avversaria di “partigianeria” e cercando di scalfire la credibilità degli esperti antagonisti. Nella

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130 Sebbene non si possa negare che l’expertise sia «un pezzo importante nella scacchiera del conflitto, oggetto di mosse e contromosse»24, non dobbiamo neanche dare per scontato che essa sia sempre un fattore determinante – o semplicemente significativo – nelle controversie su ambiente, territorio e salute: è bene tener presenti le peculiarità nazionali e locali di conflitti e movimenti. In ogni caso, il ruolo dell’expertise è sempre complesso, meglio precisabile soltanto nello specifico di ciascun caso.

L’Italia ha sottoscritto la Convenzione di Aarhus fin dalla sua apertura e l’ha ratificata con legge 16 marzo 2001, n. 108. Eppure, la valutazione sulla compatibilità del nostro ordinamento con la Convenzione non può che essere negativa25, almeno per quel che concerne il pilastro della partecipazione: moltissimo c’è ancora da fare per quanto riguarda un’effettiva affermazione dei principi di democrazia partecipativa. I numerosissimi conflitti ambientali sorti in Italia e i loro esiti ne sono una testimonianza.

I dati26 relativi al “gradimento” delle grandi opere pubbliche ci mostrano una situazione di favore generalizzato verso la costruzione di nuove metropolitane (85% di favorevoli a livello nazionale); l’87,9% degli Italiani sono favorevoli agli investimenti nelle ferrovie ordinarie; il 41,5% al Ponte sullo Stretto di Messina; soltanto una minoranza giudica favorevolmente il Mose (36,9%). Tuttavia, da

successiva fase di “confinamento” invece, si imbastiscono aree di discussione riservate e tavoli tecnici al fine di “scorporare” piano tecnico e piano politico. In questa fase i tecnici sono chiamati a mettere in chiaro dati e opzioni possibili e i politici a decidere tra di esse. In questo modo, gli uni non possono essere accusati di influenzare le decisioni, mentre gli altri possono giustificare le proprie scelte sulla base di valutazioni di efficienza su cui, a loro volta, non hanno influito. Ovviamente questo è ciò che dovrebbe accadere in teoria: nella realtà, sappiamo che tecnica e Governo finiscono per confondersi e infatti, nella fase finale, si verifica spesso una fase di “inclusione” aperta a negoziazioni, in cui la separazione tra piano tecnico e piano politico si fa più permeabile. Non necessariamente le diverse fasi appena descritte si presentano tutte in ogni controversia ambientale, né è detto che si presentino con le stesse modalità e lo stesso ordine.

24

L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., p. 328.

25 Si ritiene opportuno ricordare la proposta di legge del 2009 dell’On. Scandroglio (e altri 138

Deputati) atta a modificare l’art. 18 della l. n. 349/1986 totalmente contraria alla Convenzione di Aarhus. Si sospetta dell’attività delle associazione ambientaliste per implementare un sistema basato sulla lite temeraria: ciò che intenderebbero fare non è tutelare l’ambiente, ma paralizzare il “cantiere Italia” ritardando le infrastrutture. Per questo motivo, in base alla proposta dell’On. Scandroglio, qualora il ricorso sia giudicato manifestamente infondato, le associazioni ambientaliste saranno condannate, non soltanto al pagamento delle spese processuali, ma anche al risarcimento del danno per mancata realizzazione dell’opera e, come si può facilmente immaginare, spesso il danno ammonta a cifre astronomiche. Con l’approdo alla XVII Legislatura, tale proposta di legge è decaduta.

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131 un’indagine statistica27 è risultato che la stragrande maggioranza dei soggetti-campione si è dichiarata non disponibile a contribuire con il proprio denaro al finanziamento di una grande opera. Questo dato può essere letto sia come indice di una contrarietà, in generale, alla politica delle grandi opere – rispetto magari ad altre politiche, soprattutto sociali28 – sia come segnale di una riluttanza a contribuire al bilancio pubblico, anche alla luce di una percezione negativa della gestione delle finanze pubbliche. Per fare soltanto un esempio, dai dati dell’Osservatorio del Nord Ovest29 traspare, in ordine al caso della Tav in Val di Susa, una forte sfiducia nella gestione economica della costruzione dell’opera: l’84,4% dei Valsusini e il 61,4% dei Piemontesi prevedeva che tale gestione sarebbe stata «poco chiara e trasparente»30.

Dal 2004, Nimby Forum tiene sotto controllo i conflitti ambientali sul territorio italiano. Secondo i risultati della nona edizione del progetto, sono trecentotrentasei le infrastrutture e gli impianti realizzati in opposizione e tale numero è destinato a crescere di circa il 3,4% ogni anno.

Il rapporto redatto dall’Osservatorio sui costi del non fare invece, ha quantificato in circa duecentosessanta miliardi di euro, determinati in quindici anni, il costo delle opere mancate perché oggetto di contestazioni; nel totale sono stati conteggiati anche i costi della giustizia poiché, come è noto, quando i cantieri si fermano sorgono quasi sempre controversie legali.

L’esorbitante numero di conflitti ambientali sorti negli ultimi anni funge da campanello d’allarme, lasciandoci intendere che, proprio a livello procedimentale, qualcosa nel nostro Paese non funziona. Certo verrebbe da chiedersi se siano gli Italiani non in grado di accettare il progresso infrastrutturale, ci si domanda come mai negli anni Cinquanta, quando per esempio si è costruito l’autostrada A1, ribattezzata Autostrada del Sole, nessuno ha protestato più di tanto. Va detto però, ad onor del vero, che mentre allora il Paese aveva effettivamente bisogno di

27 L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, op. cit., pp. 8 ss.

28 Gli investimenti economici nelle grandi infrastrutture sono spesso contestati in quanto spreco di

risorse che potrebbero essere impiegate altrimenti. Cfr. D. Della Porta e G. Piazza, Le ragioni del

no. Le campagne di protesta contro la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto, Feltrinelli,

Milano, 2008, p. 103.

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Si tratta di un’istituzione di ricerca dell’Università di Torino che tre volte all’anno intervista un campione della popolazione italiana su tematiche sociali, economiche, politiche e culturali.

www.nordovest.org.

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132 dotarsi di una rete infrastrutturale, oggi tocca ricorrere al mito dell’opera “strategica”. Inoltre, è maturato un cambiamento sociale e si è sviluppata nella comunità italiana – e non solo – una coscienza ambientale tale per cui oggi nascono ovunque i comitati del “no” e si arriva addirittura a dover militarizzare i cantieri.

Dati questi numeri si scopre che, con tutta probabilità, un problema ordinamentale esiste e si trova nella rincorsa della normativa italiana al modello della celerità nella realizzazione delle grandi opere a scapito della consultazione allargata. Con la legge 21 dicembre 2001, n. 443, cosiddetta “legge obiettivo”31, furono infatti dimezzati i tempi procedimentali per quanto riguardava la realizzazione delle infrastrutture di interesse strategico, in particolare di quelle opere inserite nell’elenco32 redatto dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), vale a dire gran parte dei progetti relativi al settore dei trasporti e tutte le infrastrutture ferroviarie, portuali e aeroportuali connesse alle tratte delle reti trans-europee di trasporto (TEN-T)33.

Ancora oggi questa legge, che è stata inserita nel Codice dei contratti pubblici34, dà spazio alla celerità invece che alla consultazione, rappresentando «un chiaro esempio di cultura giuridica e politica poco incline a discutere con le amministrazioni e le popolazioni locali le decisioni sulla localizzazione delle cosiddette opere strategiche»35.

Il conflitto ambientale potrebbe rappresentare una grande opportunità, se solo l’ordinamento fosse disposto ad abbracciare una certa accezione della partecipazione: se fosse disposto cioè, ad avallare la partecipazione a scopo collaborativo. Ma perché questo tipo di partecipazione si realizzi, è necessario

31 È una legge volta a stabilire le procedure e le modalità di finanziamento per la realizzazione

delle grandi infrastrutture strategiche in Italia nel periodo compreso tra il 2002 e il 2013.

32 Si tratta di un elenco di grandi opere, senza gerarchia di importanza e senza un piano integrato,

avviabili con procedure speciali per l’approvazione e la realizzazione, le quali permettono l’uso di corsie accelerate e il ricorso a deroghe sulle norme che regolano gli appalti.

33 Una vera e propria mappa dell’intero continente su cui sono disegnate delle assi che collegano

Nord e Sud e Est e Ovest. Tra i progetti europei TEN-T rientrava inizialmente anche il Ponte sullo Stretto di Messina, ma in seguito è stato cancellato.

34 Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive

2004/17/CE e 2004/18/CE, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, aggiornato dal Decreto Legge 90 del 24 giugno 2014.

35 M. Roccato e T. Mannarini, Non nel mio giardino. Prendere sul serio i movimenti Nimby,

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133 consentire la concertazione e il dialogo a monte, prima che ogni soluzione progettuale sia fatta propria dall’amministrazione. Inoltre si deve applicare l’idea di partecipazione in funzione di prevenzione del conflitto, basata sulla mancanza di preconcetti: si tratta di un modello realizzabile quando tutti i fattori sociali, godendo di una certa apertura mentale e culturale, sono disposti a cambiare idea. Soltanto questa potrà essere la logica in grado di guidare la risoluzione del conflitto.

2. LA TRATTA ALTA VELOCITÀ BOLOGNA-FIRENZE

A questo punto, per meglio sviscerare il contenuto e le applicazioni delle forme di partecipazione in materia ambientale, può essere utile analizzare un caso concreto di conflitto ambientale ormai concluso.

Ci concentreremo sull’opposizione alla realizzazione della tratta Alta Velocità nel Mugello da parte dei movimenti contrari alla TAV e dell’Osservatorio ambientale locale sulla tratta AV Bologna-Firenze.

Gli elementi coinvolti nel caso TAV sono molteplici: gli impianti e i processi tecnologici, i siti prescelti, i momenti di confronto, le delibere e le previsioni, le valutazioni degli esperti, le forze politiche, la società civile, il versante giudiziario e il versante normativo.

Si tratta di una vicenda che parte da lontano, poiché la prima presentazione del progetto risale al 7 agosto 1991, quando Lorenzo Necci, Commissario straordinario dell’Ente nazionale delle Ferrovie dello Stato, firma la delibera numero 971 alla presenza del Ministro dei Trasporti Bernini, del Presidente dell’IRI Nobili, del Presidente dell’ENI Cagliari e dell’Amministratore delegato della FIAT S.p.A Romiti. Con quella delibera veniva dato ufficialmente avvio alla realizzazione del progetto TAV con l’obbiettivo strategico di dotare il Paese di una rete di collegamenti ad Alta velocità attraverso la progettazione e la costruzione di nuove linee. Per l’occasione, fu indetta una conferenza stampa durante la quale si presentava la realizzazione del sistema AV come una grande opportunità per la riqualificazione ed il rilancio del vettore ferroviario in Italia, con riferimento non soltanto ai servizi passeggeri, ma anche al trasporto delle

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134 merci; l’intento era quello di porre le basi per la leadership del trasporto ferroviario rispetto a quello aereo.

Il mese successivo, esattamente il 24 settembre 1991, Lorenzo Necci e Ercole Incalza, appena divenuto Amministratore delegato di TAV S.p.A., sottoscrivono la convenzione con cui l’Ente Ferrovie dello Stato affida a TAV S.p.A. la progettazione e la costruzione delle nuove linee. In seguito, TAV S.p.A. decide di trasferire ad Italferr Sis.-TAV S.p.A., la società di ingegneria di proprietà FS, la progettazione di massima, la verifica dei piani esecutivi ed il controllo della realizzazione delle opere.

La chiusura dei contratti siglati dall’Ente FS con la TAV S.p.A., con i General Contractors36 e i Consorzi di Imprese avviene il 29 dicembre 1992. Il fatto che la chiusura dei contratti sia avvenuta tre giorni prima che entrasse in vigore la normativa CEE sugli appalti pubblici37, ha permesso a pochi oligopoli nazionali di imporre costi per chilometro assolutamente sproporzionati rispetto ad opere analoghe realizzate altrove in Europa38.

Nel frattempo, erano iniziati gli studi di impatto ambientale, studi che, a detta del pubblico ministero Gianni Tei, «consideravano il paesaggio come cartolina. Esteriore rispetto all’ambiente». Sempre secondo il dottor Tei, già nel 1992, era possibile rilevare i prodromi di quella che sarebbe stata la caratteristica degli studi e degli elaborati di quest’opera, «studi che alla fine saranno destinati ad avere la meglio sugli altri [perché] vinceranno sempre e comunque i peggiori, quelli tirati via, quelli tendenti a minimizzare i danni, gli impatti, a nascondere quella che risulterà invece la vera realtà dei fatti»39.

36 FS e TAV hanno ritenuto opportuno ricorrere alla figura dei General Contractors (IRI, ENI e

FIAT) per la realizzazione del progetto, inquadrandoli come unici soggetti responsabili della progettazione esecutiva e dell’elaborazione della stima dei costi dell’opera e dei tempi di realizzazione. Per la realizzazione delle diverse tratte e dei nodi, i General Contractors sono organizzati in Consorzi.

37 Direttiva 92/50/CEE del Consiglio del 18 giugno 1992 che coordina le procedure di

aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi.

38

Il costo medio a chilometro dell’alta velocità ferroviaria in Italia è di circa 62 milioni di euro (70 per il Mugello) contro i 10 o poco più della Francia.

39 Lo ha detto il magistrato Gianni Tei nella requisitoria dell’atto finale del processo di primo

(14)

135 La “realizzazione più impegnativa della rete AV”40 è stata la Bologna-Firenze, la quale deriva da tre passaggi principali: la conferenza di servizi conclusa il 28 luglio 1995, la firma del Protocollo d’intesa per il tracciato della linea nel nodo di Firenze del 24 aprile 1997 e le conferenze di servizi riguardanti l’interconnessione di San Ruffillo e il nodo di Bologna, con la nuova stazione AV, concluse il 6 maggio e il 17 luglio 1997.

Fin da subito, si cominciò a lamentare la rigidità del processo decisionale intrapreso, il quale di fatto aveva precluso ogni reale dibattito sulle scelte che andavano via via consolidandosi. Infatti, per quanto riguarda la scelta del momento e delle modalità con cui viene attivato il confronto tra i soggetti coinvolti, possiamo affermare che è stato seguito un approccio di tipo “ex post”41: in una logica di tipo top-down, la sequenza degli eventi vede il decisore adottare la scelta localizzativa sulla base di valutazioni tecniche e elaborare il progetto dell’opera senza informare o coinvolgere preventivamente la popolazione o gli enti locali interessati. Il confronto avviene soltanto in un secondo momento e con la sola comunità prescelta. Esso riguarderà forme di compensazioni e varianti finalizzate a ridurre o annullare le disutilità dell’opera e massimizzare l’accettazione.

Di conseguenza, gravi responsabilità negli esiti dei lavori di costruzione della TAV sono da ricollegare alle procedure approvative dei progetti, poco rispettose delle esigenze di comunità e istituzioni locali. Infatti, né nell’accordo procedimentale, né nella definizione delle regole dell’Osservatorio Nazionale Ambientale è stato riservato ampio spazio alla partecipazione attiva, propositiva e critica dei cittadini e dei loro comitati, all’informazione e all’interazione con la società civile. Non sono stati attivati strumenti di partecipazione dei privati al processo di formazione delle decisioni riguardanti il loro territorio ed è per questo motivo che i portavoce dei vari movimenti di opposizione alla TAV hanno più volte dovuto suggerire di promuovere condizioni ottimali di accesso ai progetti in

40 S. Patelli e N. Patelli, La linea AV/AC Firenze-Bologna, in Tutto treno, 22 (2009), n. 236,

inserto di 16 pagine non numerate.

41 Al contrario l’approccio “ex ante” si basa su una logica di tipo bottom-up: i soggetti interessati

vengono coinvolti in una fase preliminare e tutte le decisioni relative all’intervento infrastrutturale (localizzazione, eventuali varianti e misure compensative) vengono discusse e condivise.

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136 questione, ma soprattutto «misure che permettano ai cittadini di partecipare al procedimento in modo democratico e soddisfacente sul piano della sostanza»42. In un crescendo di polemiche e proteste, nel luglio del 1992 gli enti locali erano giunti alla pratica bocciatura del progetto. La proposta era stata respinta in prima battuta dalla Regione Emilia-Romagna che aveva chiesto una più particolareggiata analisi dell’impatto ambientale. In seguito, la Regione Toscana si era detta favorevole all’Alta Velocità, ma soltanto a condizione che il progetto prevedesse attente prescrizioni ambientali e mirasse all’integrazione di tutto il sistema ferroviario. Anche i Comuni interessati avevano inizialmente negato il proprio placet, dando vita al Coordinamento dei Comuni di difesa ambientale contro l’Alta Velocità.

Tutte le osservazioni mosse al progetto da cittadini, enti e associazioni furono inviate al Ministero dell’Ambiente, ma intanto cominciò ad emergere la possibilità che gli enti locali, a patto che venissero rispettate determinate condizioni che richiedevano modifiche di un certo rilievo al progetto, si mostrassero disponibili ad accettare il progetto.

A questo punto, tutte le iniziative lasciarono la ristretta scena delle sale consiliari per trasferirsi nella ben più ampia – e ambigua – arena di Roma.

La conferenza di servizi per la tratta AV Bologna-Firenze a cui parteciparono i primi cittadini dei Comuni del Mugello fu convocata nel 1993, a seguito della chiusura della procedura di valutazione di impatto ambientale.

2.1. Gli studi di impatto ambientale nel procedimento di v.i.a.

La valutazione di impatto ambientale venne approvata dall’allora Ministro dell’Ambiente Edo Ronchi e la Regione Toscana espresse parere favorevole, ma è proprio qui che il conflitto si innescò: è sugli studi di impatto ambientale che si concentrò il maggiore disappunto degli abitanti del Mugello, i quali contestarono con fermezza il procedimento di v.i.a.

Secondo il loro parere e quello di numerosi esperti, i lavori avrebbero dovuto essere svolti sulla base di una v.i.a. più approfondita, che tenesse nella dovuta considerazione la distribuzione dei tipi di terreni da attraversare; si sarebbe così

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137 evitato, per esempio, di dover ricostruire alcune gallerie minori che avevano fatto registrare importanti deformazioni sotto la spinta di terreni argillosi.

Fin da subito i residenti lamentarono il fatto che non venissero fornite adeguate risposte per la tutela ambientale della valle del Mugello, la quale sarebbe stata messa a dura prova, durante gli otto anni necessari per la realizzazione dell’opera, con cave, discariche, cantieri e campi base, i cui problemi non sarebbero stati studiati in maniera esaustiva.

Era di questa opinione Piera Ballabio, Consigliere comunale a Borgo San Lorenzo, la quale ha paragonato i lavori effettuati dal Consorzio costruttore Cavet, esecutore materiale della tratta Alta Velocità Bologna-Firenze, a quelli per lo scavo della galleria del San Gottardo in Svizzera, forse dimenticando che lì, almeno, il materiale risultante dall’escavazione delle gallerie fu reimpiegato nel tunnel, mentre qui è stato portato tutto in superficie e nel buco è stata messa ghiaia fresca, aprendo decine di cave nella montagna43.

Non a caso, gli amministratori locali responsabili dei primi dieci anni di progettazione e lavori – gli ex Governatori Vannino Chiti e Claudio Martini, componenti delle giunte regionali delle due legislature dal 1990 al 2000, un dirigente regionale e due funzionari ministeriali per la valutazione di impatto ambientale – sono stati chiamati a rispondere direttamente delle decisioni prese in Mugello. In poche parole, nel processo penale la Regione Toscana era parte lesa in quanto terra devastata dai lavori dell’Alta Velocità, ma, allo stesso tempo, la sua amministrazione è stata accusata di essere la responsabile del grave disastro ambientale che si è consumato sul suo territorio.

Secondo le contestazioni della procura regionale presso la Corte dei Conti, essi approvarono un progetto senza adeguati studi di impatto ambientale e non vigilarono a sufficienza sui danni causati dai lavori della TAV. La magistratura contabile ha affermato la presenza di lacune procedurali e decisionali da parte di organi statali e regionali che hanno operato sottovalutando le conseguenze idrogeologiche.

43 Anche per questo motivo la TAV è costata il quintuplo del previsto. Si veda P. Rumiz, Quei

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138 Infatti, i progetti relativi alla tratta mugellana furono approvati senza studiare attentamente il territorio e senza prevedere i danni, come ha ammesso durante il processo di primo grado44 l’architetto Costanza Pera che nel 1995 era direttore generale per la valutazione di impatto ambientale. Riferendosi all’accordo procedimentale sottoscritto il 28 luglio 1995 dai Presidenti delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con i ministeri interessati, l’architetto Pera ha testimoniato: «l’accordo fu scritto a seguito di un’istruttoria estremamente prolungata, che durò alcuni anni, sul progetto e ci si rese conto che la procedura di valutazione di impatto ambientale non era in condizione di sciogliere tutti i nodi di un progetto di enorme complessità e anche di grande protrazione nel tempo, per cui noi saremmo intervenuti con un parere e un giudizio di compatibilità rispetto a un’opera che aveva poi uno sviluppo temporale molto lungo in un ambiente fisico le cui caratteristiche andavano precisate in corso d’opera. […] La procedura di v.i.a., disciplinata dalla legge, prevedeva che si facesse uno studio di impatto ambientale allegato al progetto a cura del proponente l’opera e che il Ministero dell’Ambiente avesse novanta giorni di tempo per esprimersi di concerto col Ministero dei Beni Culturali. Ora, questa procedura poteva andare bene per, non so, un inceneritore di rifiuti piuttosto che…che poi non andava bene nemmeno in quel caso, non per un’opera di questo genere».

Gli studi di impatto ambientale effettuati per le diverse tratte del sistema AV hanno una caratteristica principale comune, quella di presentarsi sostanzialmente più come “offerte di mitigazione” che come veri e propri studi di impatto; più che come valutazioni delle opere e delle possibili alternative, essi si presentano come giustificazioni delle opere stesse45. Ad un’attenta lettura di questi studi – e in particolare dello studio di valutazione di impatto ambientale della tratta ad Alta Velocità Bologna-Firenze pubblicato il 30 settembre 1994 – non sfuggono

44 Nel novembre del 2004 si apre il processo di primo grado per la gestione illegale delle terre di

scavo: si conclude il 3 marzo 2009 con ventisette condanne. Il 27 giugno 2011 si conclude anche il processo di secondo grado e la sentenza cancella il maxi-risarcimento da 150 milioni di euro: le condanne vengono annullate, ma per prescrizione dei reati, non perché il fatto non sussiste. Successivamente, nel marzo del 2013, la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado per un errore nel calcolo dei tempi di prescrizione e il 21 marzo 2014 il processo d’appello-bis si chiude con 19 persone condannate per smaltimento di terre di scavo in cave o siti, senza alcuna certificazione legittima.

45 Cfr. V. Bettini, C. Cancelli, R. Galantini, P. Rabitti, A. Tartaglia, M. Zambrini, Valutazione del

progetto Alta Velocità in Italia, Dicembre 1996, disponibile sul sito internet dell’associazione Idra www.idraonlus.it.

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139 affermazioni contraddittorie e generiche, nonché parametri e criteri di riferimento diversi a seconda delle circostanze e delle tratte.

Le numerose incongruenze furono ravvisate anche durante uno studio che fu realizzato in vista di una conferenza tecnica di confronto tra i proponenti e un gruppo di esperti designati dai Comitati avversi e dai Coordinamenti delle diverse tratte AV, la quale si svolse in varie sedute presso il Ministero dei Trasporti a Roma, tra il settembre e il novembre del 1996, alla presenza dell’allora Ministro dei Trasporti Claudio Burlando.

Nel corso dei lavori, il gruppo tecnico designato dai coordinamenti delle Amministrazioni, comitati dei cittadini e associazioni ambientaliste in tutela dei territori interessati alla realizzazione delle linee ferroviarie ad alta velocità, ha riconosciuto i limiti e le debolezze delle valutazioni di impatto ambientale. In particolare, durante le riunioni del 23 ottobre e del 13 novembre 1996, il tavolo tecnico ha dichiarato che tali studi sono «solo un fatto formale» in evoluzione parallela a quella dei progetti e che il giudizio andrebbe espresso sulla loro versione finale: in poche parole, era la v.i.a. che veniva modificata sulla base dei progetti e non viceversa, come logicamente dovrebbe essere.

Ad ogni modo, la conferenza tecnica fu un episodio di confronto con le istituzioni destinato a rimanere isolato e ai risultati dello studio che ne uscì, benché sconfortanti, non fu dato seguito, né furono date risposte esaurienti o convincenti alle obiezioni espresse.

L’anno successivo, il 15 settembre 1997, il portavoce di Idra inviò al Presidente della Giunta regionale toscana Vannino Chiti una lettera aperta in cui si chiedeva che venisse sottoscritto un patto di informazione e consultazione per dare seguito alle previsioni della legge regionale n. 5 del 1995 che «garantisce la trasparenza dei processi decisionali [e] la partecipazione dei cittadini alle scelte di governo del territorio» e della legge regionale n. 68 del 1995, secondo la quale «grande attenzione è rivolta al principio della consultazione pubblica e dell'informazione, sia dei diversi livelli istituzionali territorialmente interessati, di cui è assicurato il coordinamento, che dei cittadini e delle rappresentanze sociali». Anche tale richiesta, però, rimase inascoltata.

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140 Non deve pertanto stupire che gli studi di impatto ambientale, redatti in funzione giustificativa dell’opera, si presentassero metodologicamente carenti, come ci illustra bene Piera Ballabio: «È arcinoto che la valutazione di impatto ambientale fosse carente. Chi l’ha prodotta probabilmente ha scelto di occultare il parere di coloro che si erano espressi negativamente sul passaggio dell’opera nel territorio del Mugello, come quello di un geologo dell’Università di Bologna che aveva suggerito di passare da Arezzo. La valutazione è stata approvata dall’allora Ministro dell’Ambiente Edo Ronchi e dalla Regione Toscana, entrambi hanno espresso parere favorevole. I sindaci del PD si sono allineati e hanno cercato di portare a casa il più possibile, tant’è che non manca chi ha efficacemente soprannominato “mercato delle vacche” il meccanismo delle contropartite»46. La conferenza di servizi a livello centrale si conclude, per il solo tracciato extraurbano, il 28 luglio 1995 con l’adozione dell’accordo quadro e dell’accordo procedimentale fra i Ministeri coinvolti, le Regioni, TAV e Italferr, il quale prevedeva una serie di norme e prescrizioni per il monitoraggio e l’inserimento ambientale dell’opera stessa, la cui verifica era demandata all’Osservatorio Ambientale Nazionale (OAN) appositamente istituito.

Tali accordi permettono a Consorzio Cavet47 di sfruttare il territorio in cambio di contropartite onerose stanziate a titolo di indennizzo, accettando, come si è visto, una valutazione di impatto ambientale insufficiente, la quale non teneva nel giusto conto il rispetto del territorio.

In un passaggio dell’accordo siglato dai Comuni, addirittura si legge: «qualora le terre di scavo, in base all'esito delle caratterizzazioni, presentassero valori di contaminazione superiori alla tabella B del d.lgs. 152/06, sarà cura ed onere di RFI provvedere alla tempestiva evacuazione dei materiali con relativo trasporto in discarica dei medesimi», che potrebbe significare, come ha acutamente osservato il portavoce di Idra, «intanto si inizia e poi si vede dove andremo a finire»48.

46 E. Bandini, TAV, reati prescritti: cancellate 27 condanne. Ma saltano anche i maxi risarcimenti,

in Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2011.

47

Costituito dalle ditte Impregilo, Maireengineering, Fiat Engineering, Cooperativa Muratori Cementisti e Consorzio Ravennate Cooperative Produzione Lavoro.

48 A. Lenoci, TAV in Mugello, la sentenza di appello ribalta il primo grado, in Nove da Firenze,

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141 D’altra parte ciò non ci meraviglia più di tanto se si considera che la valutazione dell’impatto ambientale, nel nostro Paese, era concepita «come un fastidioso allegato burocratico a scelte già compiute financo nei dettagli»49. Non a caso, nel 1992, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per aver recepito in maniera distorta e parziale la direttiva 85/337/CEE in materia di v.i.a.50.

Ad avviso del sindaco di Firenzuola, come risulta dalle dichiarazioni rilasciate alla VI Commissione regionale, il comportamento della Regione in conferenza di servizi e durante il dibattimento processuale, sembrava teso più a sbloccare e iniziare i lavori che a verificare e a chiedere che cosa la realizzazione di quest’opera avrebbe comportato in riferimento all’impatto ambientale e sociale che la TAV avrebbe portato nel territorio rispetto alla qualità del progetto che si stava approvando51. In effetti, non è neanche stata fatta un’analisi sul ruolo da assegnare nell’immediato futuro alle tre principali modalità di trasporto (strada, ferrovia e cabotaggio marittimo), dimostrando la mancanza di una visione di insieme del sistema di trasporto. Non c’è stata valutazione strategica dell’impatto ambientale, dell’assetto territoriale dell’area interessata, del sistema di trasporto futuro, delle aree socioeconomiche coinvolte, né la v.i.a. ha riguardato gli effetti combinati dei progetti, ma è stata bensì usata per minimizzare gli effetti potenzialmente più negativi per l’ambiente52.

Per questi motivi, il 21 febbraio 1998, l’Unità Operativa Fisica Ambientale dell’ARPAT ha inviato ai sindaci di Sesto Fiorentino, del Mugello e dell’Alto Mugello interessati dall’AV e alle altre autorità competenti, una nota in cui si definisce “inadeguata” la valutazione dei rischi che era stata fatta fino a quel momento negli studi di impatto ambientale sulla fase di esercizio delle linee,

49

A. Betti Carboncini, Alta velocità negli Appennini, in I Treni Oggi, n. 132/1992, p. 17.

50 Commissione europea, Nona Relazione Annuale al Parlamento Europeo sul controllo

dell'applicazione del diritto comunitario in GUCE, serie C n. 250/156 del 28 settembre 1992 e Parere della Commissione in data 7 luglio 1993.

51 Cfr. S. Divertito, Toghe verdi, op. cit., p. 36.

52 Si legga a tal proposito il volume della Regione Toscana, Giunta Regionale, intitolato Ambiente

e Trasporto. Verso una riconciliazione sostenibile, Edizioni Regione Toscana, Gennaio 1997,

studio promosso dalla Regione Toscana, Giunta Regionale, Dipartimento delle politiche territoriali e ambientali, nell'ambito della ricerca "The incorporation of the Environmental Dimension into

Freight Transport Policies. A Comparison of six Countries and the EU (1994-1996)", Programma "Research and technological development in the field of the Environment 1991-1994",

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142 poiché alcune situazioni, se meglio valutate, avrebbero potuto richiedere dei correttivi che era più facile individuare e realizzare prima e durante la costruzione delle opere che non quando queste fossero state ultimate.

Nonostante simili valutazioni dei rischi, nel 1996 furono aperti i primi cantieri per la realizzazione della tratta tosco-emiliana ad alta velocità e già a marzo del 1997, nel Comune di Monghidoro, i lavori di costruzione della galleria furono sospesi per crollo della volta e riaperti soltanto a settembre, mese in cui cominciarono, anche nel Comune di Monterenzio, i primi lavori di scavo. Neanche un mese dopo, ad ottobre, si manifestarono fenomeni di crollo per instabilità del fronte in virtù dei quali i lavori di scavo si bloccarono.

2.2. L’emersione del conflitto ambientale

È in questo periodo che le proteste degli abitanti del Mugello cominciarono a farsi sentire. D’altra parte i disagi provocati dai lavori della TAV erano innumerevoli: i rumori che violentavano la valle, come i boati della dinamite che svuotava la pancia della montagna e dei convogli che facevano scorrere le lamiere per armare le falde dei fiumi; le polveri che facevano ammalare e morire gli alberi da frutto; i campi, che prima della Grande Opera non avevano neanche bisogno di essere irrigati, erano seccati; fiumi di acqua e sabbia della portata di cinquanta litri al secondo che esondavano, invadendo le gallerie e gli alvei dei torrenti; le discariche di smarino e i fanghi contaminati da idrocarburi in fase di cantiere. Ma ciò che fece infuriare i residenti della Valle, la conseguenza più grave della costruzione della nuova tratta AV, fu la cosiddetta “strage dell’acqua” che si consumò nel Mugello a cavallo tra i due secoli.

Per regalare all’Italia un treno da record53, si è sottratta alla Comunità del Mugello l’accesso alla risorsa idrica. Le falde idriche, infatti, sono precipitate oltre duecento metri sottoterra con conseguente disseccamento della vegetazione di superficie: le fonti sono seccate, si è rubata acqua a fiumi, torrenti, pozzi e quindi acquedotti, nei letti dei fiumi non sono rimasti che ciottoli levigati, i pesci sono morti e gli uccelli se ne sono andati.

53 Il 3 febbraio 2009, durante le corse di prova, un treno ETR 500 stabilisce il record di un rotabile

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143 L’assetto idrogeologico del Mugello ne è uscito irrimediabilmente devastato, con più di 150 milioni di metri cubi drenati, 100 chilometri di corsi d’acqua interessati. D’estate scompaiono 57,65 chilometri di fiumi e corsi d’acqua e l’impatto indiretto colpisce altri 24 chilometri: 81 torrenti, 67 sorgenti, 37 pozzi, 5 acquedotti privati che rimangono all’asciutto e si devono aggiungere 24 corsi d’acqua inquinati, provocando danni ambientali stimati in una cifra compresa tra 750 milioni di euro e un miliardo e 200 milioni.

La comunità mugellana è costretta a pagare le pompe che, attraverso un’operazione estremamente costosa, rimandano a monte parte dell’acqua drenata dalle gallerie, poiché le acque che alimentavano un fiume confluente nella Sieve, oggi – e per sempre – sono intercettate dalla galleria di Vaglia e finiscono per essere vendute ai residenti da una società acquedottistica che le capta a sud della montagna, verso Sesto Fiorentino. I cittadini che prima avevano acqua gratis, oggi devono pagare per attingere dal Bagnone riempito ad hoc da Cavet; prima non c’era bisogno di innaffiare, oggi si deve pagare, prelevare l’acqua e versare il canone annuo, senza contare il contributo di inquinamento che questa soluzione necessariamente comporta54.

L’Osservatorio Ambientale Nazionale ha inviato una nota al Ministero dell’Ambiente in cui si legge che il modello matematico utilizzato fino all’aprile 2000 da Cavet per la previsione degli impatti si è dimostrato «non affidabile alla verifica sul campo», eppure niente ha fatto per impedire che l’ambiente venisse irrimediabilmente compromesso. Infatti, il bilancio dell’impatto sul sistema idrico è catastrofico.

In occasione dell’emergenza idrogeologica dell’estate 2002, l’allora Presidente del Consiglio della Regione Toscana Claudio Martini ritenne che fosse da stigmatizzare l’inattività dell’Osservatorio Ambientale Nazionale probabilmente motivata dalla necessità di non compiere atti per non realizzare una situazione di “conflitto di interessi” in considerazione del doppio incarico rivestito dal suo presidente, il quale era anche il direttore nazionale del servizio di valutazione di impatto ambientale. Passato qualche giorno dalle dichiarazioni rilasciate dal Governatore, il presidente dell’OAN, l’ingegnere Bruno Agricola, si dimise dalla

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144 carica, pur non avendo avuto alcun ruolo di responsabilità di vertice nell’approvazione della v.i.a. relativa alla tratta Bologna-Firenze.

Va detto, in effetti, che l’OAN non ha saputo mostrare una capacità di comunicazione e trasparenza verso l’esterno tali da permettere da considerarlo uno strumento di informazione e conoscenza a disposizione anche del cittadino; Idra per esempio, oltre a lamentare l’inefficiente struttura organizzativa dell’Osservatorio, manifestava spesso il proprio disappunto perché otteneva i verbali con grande ritardo.

Dalla lettura della documentazione emerge chiaramente la tendenza a dire che gli eventuali impatti, laddove ci fossero stati, sarebbero stati reversibili e più in generale, la tendenza a minimizzare i danni. È questo l’atteggiamento assunto dall’ingegnere Pietro Paolo Marcheselli, dirigente di Cavet, secondo il quale si sarebbe saputo fin dall’inizio quali danni avrebbe apportato l’esecuzione del progetto nella tratta appenninica: «il progetto prevedeva di drenare l’acqua perché non c’era alternativa ed è stato accettato. È chiaro che tutte le grandi opere hanno un impatto sul territorio e prevedono un bilancio tra i costi e i benefici. Chi ha fatto la valutazione dell’opera evidentemente avrà valutato che i benefici sarebbero stati superiori ai costi». Il punto però, è che i costi non sono mai stati né precisati, dal momento che essi evolvevano continuamente aumentando in modo esponenziale55, né resi noti al pubblico. Ad aprile del 1998 per esempio, fu pubblicato il progetto, poi approvato il 28 luglio di quello stesso anno, relativo all’ultima tratta della Bologna-Firenze senza l’indicazione dei costi: in quell’occasione non fu permessa una valutazione comparata fra più opzioni di modello, di esercizio e di tracciato, ivi compresa l’opzione zero, né fu fornita alla cittadinanza la possibilità di confrontare costi e benefici delle diverse opzioni. A partire da quell’anno, mentre si cercava di escludere i cittadini locali dal processo decisionale riguardante la Grande Opera, ARPAT e Comune di Firenzuola56 facevano fronte comune per provare l’emergenza ambientale nell’area di Castelvecchio che stava subendo il disseccamento di una sorgente

55 Per vedere l’evoluzione dei costi si consulti il Libro Bianco Alta Velocità nodo di Firenze, Idra,

14 settembre 2006.

56 Può essere utile precisare che il Comune di Firenzuola, con meno di 5.000 abitanti, avrebbe

visto l’insediamento di tre distinti campi con circa 1.100 lavoratori, in alcuni casi con le relative famiglie, per quattro anni.

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145 privata che alimentava gli abbeveraggi del bestiame al pascolo, nonché il totale prosciugamento della falda che alimentava l’acquedotto comunale di Visignano e quello privato di Castelvecchio.

Si registrarono i primi danni alle attività economiche agricole, agrituristiche, zootecniche e perfino agli edifici e nello stesso momento cominciò il lavoro certosino delle associazioni, Idra57 in testa, le quali si davano da fare per raccogliere notizie, produrre studi e fare denunce.

A portare avanti la strenua opposizione a scelte amministrative e governative assunte in materia di trasporto pubblico furono i rappresentanti dei diversi Comitati e Associazioni locali aderenti alla “Federazione Nazionale Alternativa ai Progetti T.A.V.”. Si trattava di raggruppamenti spontanei di cittadini, non legati ad alcun partito politico, né a movimenti di contestazione violenta, ma severamente critici nei confronti dei progetti di Alta Velocità Ferroviaria.

I Comitati e le Associazioni aderenti a tale Federazione hanno illustrato ai vari livelli istituzionali l’inopportunità dell’Opera, in svariate occasioni e in varie modalità, tra le quali numerosissime lettere aperte che è possibile consultare sul sito internet di Idra58. Si cerca di dimostrare che la realizzazione della tratta appenninica AV altro non è che una «scelta strategica assurda, a rigor di logica. Fatta a suo tempo in modo aprioristico, senza analizzare concretamente la domanda dell’utenza né aver considerato le alternative possibili per migliorare il sistema ferroviario nazionale e renderlo effettivamente competitivo con il trasporto su gomma»59.

La gente del Mugello iniziò seriamente a preoccuparsi e migliaia di cittadini si attivarono in vari modi nel tentativo di fermare i lavori dell’Alta Velocità, a maggior ragione in seguito alla diffusione, nel 1999, dei risultati del progetto Trimm (Tutela delle risorse idriche nella montagna mugellana) coordinato dal Professor Giuliano Rodolfi, ordinario di geografia fisica e geomorfologia all’Università di Firenze e Presidente del Comitato tecnico scientifico

57 L’associazione di volontariato Idra era inizialmente il “Coordinamento dei Comuni e delle

Associazioni contro i progetti di Alta Velocità” che in essa è confluito.

58

Sul sito internet dell’associazione Idra www.idraonlus.it sono presenti tutti i documenti relativi alla vicenda: lettere aperte, sentenze, dossier ecc.

59 Lettera aperta al Candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Emma Bonino del 6 aprile

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146 dell’Osservatorio ambientale locale sui lavori della TAV istituito dalla Comunità montana del Mugello.

Il progetto Trimm ha prodotto uno studio dettagliato del regime delle precipitazioni della zona, redatto dall’allora istituto del Cnr per l’agrometeorologia e il telerilevamento applicati all’Agricoltura (Iata); tale studio ha dimostrato che la riduzione – e in alcune zone il totale azzeramento – delle portate idriche in sorgenti, pozzi e alvei fluviali manifestatisi a partire dalla fine degli anni Novanta, non dipendevano da carenza di afflussi meteorici, bensì dal drenaggio degli acquiferi profondi operato dalle gallerie in corso di scavo60. Inoltre Rodolfi aveva accertato la pericolosità di una frana segnalata in prossimità della finestra San Giorgio dal sindaco di Scarperia, il quale fu costretto a sollecitare svariate volte l’invio della documentazione tecnica che doveva essere nella sua disponibilità. Intanto si intensificava l’attività epistolare tra l’amministrazione di Scarperia e l’Osservatorio ambientale locale, mentre il geologo continuava a fare sopralluoghi al termine dei quali denunciava la pericolosità della situazione, l’instabilità dei suoli e la necessità di armare meglio le gallerie.

Cominciano ad arrivare lettere anche da parte del sindaco di Borgo San Lorenzo, il quale manifestava le medesime preoccupazioni in merito al problema idrogeologico: l’acqua scompare e la terra trema. Sfortunatamente però, il professor Rodolfi fu costretto a spiegare che non è possibile, neanche approssimativamente, ricostruire la struttura della falda o le sue relazioni con il corso del torrente Bagnone. Pertanto i timori dei residenti erano fondati, ma nonostante gli esperti continuassero a preannunciare il disastro ambientale, nessuno fece niente e i lavori progredirono fino al novembre del 2008, quando terminarono le operazioni di posa binari e i test di elettrificazione della linea per avviare le fasi di collaudo.

Nel frattempo, il 21 dicembre 2001, in questo periodo di slancio verso il “cantiere Italia”, era stata approvata la legge obiettivo e la Grande Opera TAV, malgrado la

60 Per maggiori approfondimenti si veda G. Rodolfi, TAV in Mugello: cause, cronistoria e

conseguenze dei danni alle risorse idriche, relazione al simposio dell’Ordine dei Geologi della

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147 negatività dei dati riportati dall’expertise, fu inserita nell’elenco redatto dal CIPE. Inoltre nel 2004, quando la Commissione europea aveva compilato un nuovo elenco di trenta progetti prioritari, vi aveva fatto rientrare anche la tratta Bologna-Firenze in quanto nodo della Rete ferroviaria convenzionale trans-europea TEN-T.

Nonostante le proteste dei cittadini locali e la contrarietà del mondo scientifico, dopo il viaggio inaugurale del 24 marzo 2009 e l’ultimazione dei lavori da parte di Consorzio Cavet nel giugno del 2009, il 5 dicembre di quello stesso anno la tratta fu aperta al servizio commerciale, con una settimana di anticipo rispetto a quanto previsto, con buona pace di chi, una mattina, si è svegliato e l’acqua non usciva più dal suo rubinetto.

A nulla sono serviti i numerosi appelli di cittadini e movimenti, anche perché le severe e ben argomentate critiche dei Comitati e delle Associazioni aderenti alla Federazione hanno avuto sugli organi di informazione una eco assai scarsa.

Così, mentre gli abitanti del Mugello si leccavano le ferite, qualcuno festeggiava il record nazionale stabilito durante le corse di prova da un treno ETR 500 che raggiungeva la strabiliante velocità di 362 km/h.

Affinché si arrivasse a questo risultato, hanno sicuramente svolto un ruolo di spicco gli enti locali. Fanno riflettere, a tal proposito, le parole di Girolamo Dell’Olio: «La Regione Toscana ha dato una grossa e decisiva spinta propulsiva all’approvazione del progetto. Mentre alcuni Comuni – incalzati dalle popolazioni – sono stati per lungo tempo agguerritissimi, in prima linea sul fronte No TAV, nel Mugello, alla stregua di quelli che oggi si battono in Val di Susa. Salvo poi, diciamo così, arrendersi e accettare il tutto: forse costretti dalla “ragion di partito” (qui c’è un solo colore da lustri e lustri), forse ammaliati dalle cospicue promesse di compensazioni»61. In effetti, a ben guardare, alcuni Comuni sembrano essersi fatti convincere della bontà dell’opera, chissà che non sia proprio a causa delle opere di compensazione62; in fondo, come risulta dall’acuta penna di Stefania Divertito, parcheggi, circonvallazioni e campi sportivi «fanno gola a tutti»63.

61 S. Divertito, Toghe verdi, op. cit., p. 44. 62

Le compensazioni possono essere di tipo monetario: si ipotizza che vi possa essere un’unica variante del progetto e che rispetto a questa le diverse comunità siano chiamate a dichiarare l’ammontare di compenso monetario che desiderano ricevere per essere disposte ad ospitare sul proprio territorio l’infratruttura (o che sono disposte a pagare pur di non ospitarla). Più spesso però

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