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CAPITOLO 2 LA LETTERATURA EMPIRICA

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CAPITOLO 2

LA LETTERATURA EMPIRICA

2.1 Financial constraints

La stima econometrica di modelli rappresenta uno dei metodi impiegati in letteratura per lo studio dei financial constraints. La presenza di vincoli finanziari porta ad alcune implicazioni nel comportamento delle imprese che viene testato.

All’interno del metodo di stima econometrico si riscontrano approcci diversi. Uno di questi è introdotto da Demirguc-Kunt e Maksimovic (1998), e consiste nel comparare i tassi attuali di crescita delle imprese con il tasso massimo di crescita che le imprese possono raggiungere senza l’accesso al finanziamento esterno.

Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) sono i primi ad introdurre il concetto di investment cash flow sensitivity. Lo schema di base della loro analisi è ripreso in numerosi lavori successivi. La struttura di questi lavori si basa su due pilastri fondamentali:

• informazioni a priori della rilevanza dei financial constraints per sottogruppi d’imprese selezionate a seconda della grandezza, dell’età e dell’accesso ai mercati finanziari. Alcune caratteristiche osservabili delle imprese sono correlate alla possibilità di incontrare vincoli finanziari;

• le imprese costrette finanziariamente, selezionate secondo le suddette caratteristiche, rifiutano il modello neoclassico d’investimento perché il loro accesso limitato alle finanze esterne impedisce loro di investire ottimamente quando le fonti interne non sono disponibili.

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Per compiere quest’ultimo punto, la letteratura segue tre metodi:

• una stima diretta di una funzione della domanda d’investimento ottenuta dalle condizioni di primo ordine del modello base dove il valore ombra del capitale (marginal q) potrebbe essere uno dei regressori ed è approssimato dal Q medio di Tobin;

• un’equazione di Eulero per le imperfezioni del mercato dei capitali le cui specificazioni empiriche non includono il marginal q di Tobin tra i repressori;

• una stima diretta della funzione di domanda degli investimenti, dove la produttività marginale attesa del capitale è approssimata da una VAR forecast dei fondamentali dell’impresa osservabile dagli econometrici (vedi Gillchrist e Himmelberg, 1995 e 1998).

La letteratura si è incentrata maggiormente sul primo modello, come detto introdotto da Fazzari, Hibbard e Petersen nel 1988. Le ricerche successive hanno, relativamente a tale metodo, messo in luce due tipi di problemi: il primo legato alla classificazione a priori delle imprese, il secondo al Q di Tobin come buona approssimazione delle opportunità d’investimento.

2.1.1 Classificazione a priori delle imprese constrained

Schiantarelli (1995) osserva che in molti lavori l’appartenenza di un’impresa al gruppo delle financially constrained o unconstrained è fissato durante l’intero periodo di analisi del campione. E’ tuttavia possibile che le imprese affrontino costrizioni finanziarie di varia intensità in differenti momenti. Fazzari, Hubbard e Petersen (1996) affermano che assumere

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che solo un gruppo particolare d’imprese abbia costi di finanziamento esterno più alti è conveniente empiricamente ed analiticamente. Sarebbe quindi più giusto permettere alle imprese di transitare tra stati finanziari differenti. Cleary (1999), ad esempio, classifica le imprese tramite un indice di costrizione finanziaria calcolato all’inizio di ogni anno (Zfc), per mettere in evidenza che lo stato finanziario cambia continuamente.

Una seconda osservazione riguarda l’endogeneità del criterio di suddivisione del campione. Alcuni, se non la maggior parte, dei metodi usati è possibile che siano correlati con gli effetti specifici dell’impresa, con le componenti invarianti rispetto al tempo del termine di errore, così come con la componente idiosincratica. Questo è vero con certezza quando si utilizza come criterio il payout ratio o la grandezza media. In questo caso la strategia più adeguata consiste nell’usare informazioni contemporanee per dividere le osservazioni nel contesto di una singola equazione, ed usare informazioni ritardate come strumenti nel contesto delle procedure IV (instrumental variables) o GMM (general method of moments) (Arellano e Bond (1991).

Alternativamente, se si pensa che la forza dei financial constraints varia continuamente con certe caratteristiche, ad esempio come la grandezza, si può far interagire una misura della grandezza con il cash flow.. In ogni caso, stime consistenti possono essere ottenute usando valori appropriatamente ritardati dei termini d’interazione. Se il modello è first differenced e la componente idiosincratica del termine di errore è white noise, variabili endogene ritardate due volte potrebbero essere strumenti legittimi.

Infine, il metodo tradizionale di suddivisione assume che il punto esatto di separazione sia conosciuto. Nella realtà, invece, la misura delle costrizioni finanziarie incontrate da un’impresa non è direttamente osservabile (l’affiliazione di un’impresa ad un grande gruppo, vedi Hoshi et al. (1991) può essere un eccezione).

Ciò implica che i risultati della stima delle regressioni d’investimento su diversi campioni può essere sensibile alla scelta del criterio e ai breakpoints usati per dividere il campione. Il problema può essere superato utilizzando un modello endogeno di switching regression con

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separazione non conosciuta del campione1. Tale approccio fornisce stime di regressioni separate d’investimento evitando una classificazione a priori delle imprese in constrained e non constrained.

In questo senso è opinione diffusa in letteratura che le differenze tra i risultati di Fazzari Hubbard Petersen (1988) e quelli di Kaplan e Zingales (1997) dipendano esclusivamente dal metodo di suddivisione a priori delle imprese.

FHP dividono 421 imprese americane in tre gruppi: le imprese della classe 1 con il dividend payout ratios inferiore allo 0,1 per almeno 10 anni, le imprese della classe 2 hanno l’indice compreso tra lo 0,1 e lo 0,2, mentre quelle appartenenti alla classe 3 mostrano un payout ratio superiore allo 0,2. Le imprese della classe 1 dovrebbero essere le più congrue ad incontrare financing constraints.

Kaplan e Zingales (1997) ripartiscono le 49 aziende definite constrained da FHP sulla base di una combinazione di criteri qualitativi e quantitativi. In particolare, KZ utilizzano dati provenienti da lettere agli azionisti, da discussioni del management sulle operazioni e sulla liquidità, da rendiconti finanziari annuali per ogni impresa, e ratio finanziari provenienti dal database COMPUSTAT. Ciò sembra essere sufficiente a spiegare i risultati contrastanti tra i due lavori. Ma il campione di 49 imprese utilizzato da KZ potrebbe soffrire di mancanza di eterogeneità.

Allayannis e Mozoumdar (2001) scompongono dapprima il campione di 49 imprese constrained di FHP allo stesso modo di KZ, trovando risultati simili, che mostrano una maggiore sensibilità dell’investimento al cash flow per le meno constrained Successivamente, escludendo per ogni gruppo delle constrained e delle unconstrained due specifiche imprese trovano che l’investment cash flow sensitivity non differisce significativamente tra le imprese costrette e quelle non costrette. Si può arrivare alla conclusione che la differenza nella

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sensibilità stimata dell’investimento al cash flow dei due gruppi di imprese è rappresentata dalla differenza di sensibilità solamente di queste poche imprese.

Moyen (2006) dimostra, attraverso una simulazione numerica, che è difficile identificare le imprese con vincoli finanziari, e afferma che la sensibilità dell’investimento al cash flow dipende dalla procedura di classificazione utilizzata. L’autrice mette a confronto due modelli dinamici, uno che riguarda le imprese unconstrained, che hanno libero accesso al mercato dei capitali, e l’altro che riguarda le imprese constrained che non hanno accesso al mercato dei capitali esterno. Entrambi i tipi di impresa crescono in seguito ad un miglioramento delle opportunità d’investimento, tuttavia le imprese costrette rimangono più piccole. L’equazione d’investimento del modello constrained mostra che le imprese vincolate investono fino al punto in cui il costo di un’unità di capitale eguaglia il prodotto marginale scontato atteso di capitale del prossimo periodo. Le imprese non costrette, invece, hanno un ulteriore incentivo ad investire. La loro scelta d’investimento tiene anche conto della probabilità di default e dei tassi d’interesse richiesti dal debito. Investendo di più diminuisce la probabilità che l’impresa possa perdere lo scudo fiscale. Grazie a questi benefici fiscali, il debito è la fonte di finanziamento più a basso costo: le imprese non costrette, che ricordiamo sono le uniche che possono finanziarsi affidandosi al mercato dei capitali esterno, contraggono debiti e finanziano più investimenti in periodi di alti cash flow. Questo genera una sensibilità maggiore dell’investimento al cash flow. Le imprese costrette, invece, a volte utilizzano il loro cash flow per pagare più dividendi piuttosto che per investire. Ciò fa decrescere la sensibilità dell’investimento delle imprese constrained al loro cash flow. Questa condizione è in linea con i risultati di Kaplan e Zingales. Tuttavia, se i vincoli finanziari sono identificati con bassi dividendi (o bassi cash flow), nel modello unconstrained alti livelli di debito vanno assieme a bassi dividendi, per cui accade che le imprese non costrette sono associate a più bassi dividendi rispetto alle imprese costrette. Le imprese caratterizzate da bassi dividendi, hanno politiche d’investimento più sensibili alle fluttuazioni del cash flow rispetto a quelle che mostrano un

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pay-out ratio più alto. In questo modo, le predizioni del modello di Moyen sono in linea con i risultati di FHP (1988).).

2.1.2 Q diTobin

Il modello d’investimento del Q (Brainard e Tobin 1968, Tobin 1969) può essere visto come una riformulazione della teoria neoclassica, secondo la quale la domanda d’investimento è spiegata dal rapporto tra il valore di mercato dello stock di capitali dell’impresa e il suo costo di sostituzione. Tobin sviluppa un’intuizione di Keynes secondo il quale la decisione di investire in nuovi beni capitali dipende dalla relazione tra il valore che i mercati finanziari attribuiscono al progetto di investimento ed il suo costo di realizzazione. Si pone dunque attenzione sull’importanza delle valutazioni delle imprese implicite nei prezzi delle azioni quotate sui mercati.

Il ragionamento è questo: per decidere se accrescere lo stock di capitale, le imprese devono valutare di quanto il nuovo investimento farà crescere il flusso dei profitti futuri. Diventa quindi rilevante il rapporto tra la variazione del valore attuale dei profitti ed il costo d’acquisto del capitale. Questa quantità è chiamata q marginale ed è interpretata come il rapporto tra il valore di una unità di capitale addizionale istallato e il suo costo d’acquisto. Se l’aumento del valore attuale dei profitti è maggiore del costo dell’investimento addizionale, ossia se il q è maggiore di 1, l’impresa investirà.

Il q marginale è importante in quanto riassume tutta l’informazione sul futuro che è rilevante ai fini della decisione dell’investimento dell’impresa. Tuttavia questa quantità non è direttamente osservabile. Ciò che è osservabile è invece il rapporto tra il valore del capitale complessivamente istallato, cioè il valore presente scontato dei profitti, e il costo d’acquisto del

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capitale. Questo è il Q medio, cioè il rapporto tra la capacità del capitale esistente di generare profitti ora e in futuro e il suo prezzo.

Una misura del Q medio può essere costruita usando, come valore attuale dei profitti, un indice dei prezzi sul mercato azionario. I prezzi delle azioni incorporano le aspettative del mercato riguardo la profittabilità futura dell’impresa, costituendo una misura ragionevole del valore presente scontato dei profitti. Ciò sta a significare che, quando il rapporto supera 1, gli investitori dei mercati finanziari sanno che i cash flow in prospettiva sono sufficientemente alti o che i tassi di sconto sono sufficientemente bassi inducendo in tal modo ad una spesa aggiuntiva di capitale, poiché l’azienda sta creando valore per gli azionisti.

Hayashi (1982) fornisce la prova che il Q medio (il rapporto tra il valore di mercato dell’impresa, dato dalla capitalizzazione di borsa più il valore di mercato dei debiti e i costi di sostituzione dello stock di capitale esistente) è uguale al q marginale sotto le seguenti condizioni: i mercati degli input e degli output sono competitivi, i costi di aggiustamento e quelli di produzione sono linearmente omogenei, il capitale è omogeneo.

Perché è importante il Q di Tobin? Ricordando che il Q di Tobin sintetizza le aspettative del mercato circa la profittabilità futura dell’impresa, il suo utilizzo è basato sull’idea che le opportunità d’investimento possono essere catturate dagli investitori del mercato dell’equity: tali opportunità si rifletteranno nel prezzo dei titoli e quindi nella valutazione fatta dai mercati finanziari.

Tuttavia il Q di Tobin mostra dei punti deboli relativi ad inconvenienti di natura tecnica e a problemi di endogeneità del Q. Il problema tecnico più rilevante è il possibile errore di misurazione che potrebbe portare a stime distorte ed inconsistenti2.

2 Per capire da dove provengono tali errori di valutazione occorre organizzare il discorso specificando tre diverse quantità: il q marginale, come sappiamo non misurabile; il Q medio, dato dalla valutazione soggettiva del manager, il Q di Tobin, la valutazione dei mercati finanziari del Q medio.

Una prima fonte di errori si verifica quando c’è discrepanza tra q marginale e Q medio, la quale si riscontra quando si ha una violazione delle assunzioni o di perfetta competitività del mercato degli output o della linearità omogenea delle funzioni dei costi di aggiustamento e dei profitti.

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Per quanto riguarda invece l’endogeneità del Q, poiché il q marginale è il valore attuale dei profitti futuri e correnti che derivano da un’unità marginale di capitale, uno shock positivo della funzione dei costi di aggiustamento al tempo t colpirà direttamente gli investimenti ma provocherà anche un incremento del Q dovuto ad un aumento della profittabilità futura attesa.

2.1.3. Risultati empirici sull’investment cash flow sensitivity

I risultati empirici di Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) confermano il modello teorico e mostrano come i vincoli finanziari siano una determinante importante del comportamento d’investimento dell’impresa. Infatti le imprese che dovrebbero avere maggiori problemi associati alle imperfezioni del mercato dei capitali mostrano un coefficiente stimato associato al cash flow positivo e significativo. Questi risultati sono consistenti con l’ipotesi di differenziale di costo tra finanziamento interno ed esterno. L’importanza economica dei risultati, affermano gli autori, è magnificata dal fatto che il cash flow è altamente variabile per le imprese in rapida crescita del primo gruppo (quello constrained), mentre le imprese mature nella terza classe (con un payout ratio superiore allo 0,2) sperimentano molto meno variazioni nel cash flow.

Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) testano inoltre l’ipotesi secondo la quale le imprese che si trovano di fronte ad un premio per il finanziamento esterno possono accumulare liquidità come cuscinetto per prevenire fluttuazioni del cash flow. Questa forma di prevenzione riduce la

Infine, numerosi problemi sorgono nella stima del Q di Tobin. Riconoscere il valore degli intangible assets è importante per una corretta misurazione del Q. Mentre può essere più facile valutare gli assets intangibili acquistati all’esterno, quelli prodotti internamente (come la spesa per ricerca e sviluppo) creano maggiori problemi. Ci sono industrie dove questo tipo di assets superano in valore quelli fisici, quali attrezzature ed equipaggiamenti. Secondo Chirinko (1993) e Baum e Thies (1997) occorre che queste spese vangano capitalizzate. Bisogna che siano ridefinite le spese d’investimento e lo stock di capitale, incorporando rispettivamente le spese e lo stock di intangibles. Infine nella stima del Q di Tobin la discrepanza si può constatare a causa di asimmetrie informative nel mercato dei capitali (che portano ad un gap nel set di informazioni a disposizione degli investitori esterni e dei manager) o, ancora, può nascere dalla costruzione del costo di sostituzione del capitale.

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sensibilità dell’investimento alle fluttuazioni di cash flow, per cui si presenterà una relazione positiva con l’investimento per le imprese costrette. Gli autori applicano tre modelli di investimento, i quali a destra presentano rispettivamente la variabile cash e marketable securities, la variabile working capital (capitale circolante netto) ed infine variabili ritardate cash e vendite (sales). I risultati mostrano che gli stock di liquidità sono significativi per le imprese del primo gruppo, mentre non significative per quelle del terzo. Inoltre, includendo valori ritardati delle variabili sales e cash, si è assistito ad una diminuzione del coefficiente associato al cash flow, mentre tale inclusione non ha portato alcun effetto significativo nelle variabili stock di liquidità. Questo perché le variabili stock non ci danno alcuna informazione sulla profittabilità futura, come invece accade per la variabile cash flow.

Come già detto, Kaplan e Zingales prendono le 49 imprese definite constrained da Fazzari, Hubbard e Petersen e utilizzano dati qualitativi e quantitativi su ognuna di esse, per classificare ogni anno le imprese costrette e quelle non costrette. Si può affermare, in sintesi, che le imprese non soggette ai vincoli finanziari per Kaplan e Zingales, sono quelle che possiedono un alto ammontare di attività liquide, poiché queste permettono di porre in atto investimenti nonostante il costo elevato del finanziamento esterno. I risultati ottenuti si dimostrano qualitativamente coerenti ma quantitativamente opposti a quelli ottenuti da Fazzari, Hubbard e Petersen (1988). In altre parole, il coefficiente del rapporto cash flow-investimenti, se da un lato risulta maggiore di zero (totalmente è pari a 0,395), confermando così l’ipotetica relazione positiva tra flussi di cassa e decisioni d’investimento, dall’altro risulta notevolmente maggiore per le imprese che non sembrano soffrire di vincoli finanziari. Le imprese classificate da Kaplan e Zingales come non costrette esibiscono una sensibilità molto alta (0,702) rispetto a quelle classificate come costrette (0,340).

Tali risultati confutano decisamente i principali riscontri di Fazzari, Hubbard e Petersen (1988), in quanto dimostrano che la sensitività degli investimenti al cash flow non è una funzione crescente del grado di costrizione finanziaria.

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2.2 Cash flow sensitivity of cash

La sensibilità del cash al cash flow è introdotta da Almeida, Campello e Weisbach (2004) come metodo alternativo di riconoscimento di vincoli finanziari. Secondo gli autori tale modello supera alcuni problemi di natura tecnica legati all’investment cash flow sensitivity. In particolare, poiché il cash è una variabile finanziaria (e non reale come gli investimenti), è difficile dire che il potere esplicativo del cash flow nelle politiche di cash possa essere ascritto alla sua abilità di prevedere condizioni economiche future (come la domanda d’investimento). Per le imprese non costrette, le unconstrained firms, le variazioni nel cash holdings non dipenderanno né dai cash flow correnti né dalle future opportunità d’investimento, per cui non ci si aspetta comportamenti sistematici nelle politiche di cash. Il cash cash flow sensitivity quindi varia sistematicamente con le proxies delle costrizioni finanziarie, molto più di quanto non faccia l’investment cash flow sensitivity.

Almeida, Campello e Weisbach (2004) utilizzano cinque criteri sotto elencati alternativi per dividere il campione (che comprende imprese manifatturiere americane) in imprese costrette e imprese non costrette.

• payout ratio: richiama il lavoro di Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) secondo i quali le imprese costrette sono quelle che pagano meno dividendi;

• dimensione degli assets: l’argomentazione sulla dimensione come buona misura osservabile dei financial constraints dipende dal fatto che le piccole imprese sono tipicamente giovani, meno conosciute, e quindi più vulnerabili alle imperfezioni dei mercati finanziari;

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• bond rating: il vantaggio di questa misura rispetto alle precedenti è che essa misura il gradimento del mercato della qualità di credito dell’impresa;

• commercial paper rating: il ragionamento è lo stesso di quello fatto per il bond rating; • KZ index: è un indice basato sui risultati ottenuti da Kaplan e Zingales (1997), ed è

dato da:

KZindex = -1,002 x CashFlow + 0,283 x Q + 3,139 x Leverage – 39,368 x Dividends – 1,315 x CashHoldings

Almeida, Campello e Weisbach (2004) stimano un equazione, utilizzando l’approccio delle instrumental variables (IV), in cui la decisione dell’impresa di modificare il suo cash holdings è funzione delle risorse e degli usi di fondi. Per far ciò si rifanno alla letteratura sull’investment cash flow sensitivity (in particolare da Fazzari, Hubbard e Petersen) e a quella sul cash management (vedi Opler, Pinkowitz, Stulz e Williamson et al. (1999) e Kim, Mauer e Sherman (1998)) modellando la variazione annuale di cash di un’impresa, oltre che come funzione del cash flow, del Q di Tobin e della dimensione, anche come funzione delle spese di capitale, delle acquisizioni, delle variazioni nel capitale circolante netto e dei debiti a breve termine:

∆CashHoldingsi,t = α0 + α1CashFlowi,t + α2Q i,t + α3Size i,t + α4Expenditures i,t + α5Acquisitions i,t + α6∆NWC i,t + α7ShortDebt i,t + ε i,t

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I risultati empirici di maggior rilievo trovati da Almeida, Campello e Weisbach confermano le loro argomentazioni teoriche che vedono la domanda di liquidità generata dai vincoli finanziari, mettendo in risalto il motivo precauzionale di Keynes:

• le imprese definite constrained mostrano una sensibilità positiva del cash holdings al livello di cash flow;

• per le imprese invece non soggette ai vincoli finanziari (unconstrained), ossia quelle che possono finanziare il livello ottimo di investimento, il cash holdings non ha alcuna rilevanza.

Numerosi sono stati gli studi incentrati sulla sensibilità del cash al cash flow. Alcuni hanno trovato risultati simili (vedi Khurana (2006)), altri invece all’opposto di quelli di Almeida et al. (2004).

In particolare, è importante considerare il lavoro di Riddick e Whited (2007). Tenendo presente la distinzione tra effetto ricavo e effetto sostituzione del loro modello teorico3, il Q di Tobin e il cash flow, presenti nella parte destra della regressione che vede come variabile dipendente la variazione del cash, contengono entrambi informazioni sulla produttività del capitale. Tuttavia Q è la variabile, fra le due, che più riflette le condizioni future, incorporando in tal modo l’effetto ricavo, che riguarda il finanziamento degli investimenti futuri. Il cash flow allora detiene l’effetto sostituzione, mostrando quindi un coefficiente negativo, contrariamente a ciò che si trova in Almeida, Campello e Weisbach (2004). E’ importante sottolineare che Riddick e Whited (2007) procedono alla correzione degli errori di misurazione presenti nel Q di Tobin. Infatti, secondo Almeida, Campello e Weisbach, usando la sensibilità del cash al cash flow, e quindi una variabile finanziaria al posto dell’investimento fisico, si è immuni da problemi di errori di misurazione. Essi spiegano che, sotto l’ipotesi nulla di mancanza di frizioni finanziarie,

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l’accumulo di cash potrebbe non dipendere né dal cash flow né dal Q di Tobin, essendo invece sensibile solo al cash flow in presenza di frizioni finanziarie. Questa spiegazione per Riddick e Whited non è completa in quanto non si rivolge al segno e alla grandezza dell’effetto del cash flow. L’errore di misurazione in un repressore viene ad intaccare tutti i coefficienti in una regressione se i repressori sono collegati. In questo caso sono correlati perché l’informazione riguardante le opportunità future d’investimento, contenute nel cash flow, conduce naturalmente ad una relazione positiva tra il Q di Tobin e il cash flow. Inserendo la variazione di cash holdings nella parte sinistra della regressione non si elimina questo problema.

Riddick e Whited (2007) trovano risultati simili a quelli di Almeida, Campello e Weisbach (2004) quando usano, per i dati di imprese di sei paesi diversi, una stima OLS, con coefficienti positivi del cash flow e del Q di Tobin. E’ solo quando utilizzano gli stimatori di Erickson e Whited (2000) per correggere l’errore di misurazione del Q che i risultati cambiano. In questo caso trovano coefficienti del cash flow negativi, e metà di questi statisticamente insignificanti. Questo effetto, dovuto al trattamento degli errori di misurazione, è ravvisabile anche nel coefficiente del Q di Tobin, la cui grandezza cresce dalle sette alle quindici volte rispetto al coefficiente stimato attraverso un OLS. Dal punto di vista economico Riddick e Whited affermano che, utilizzando un’approssimazione errata del Q reale, controllando solo una parte della sua variazione, il cash flow finisce per inglobare l’effetto ricavo. Infine gli autori dividono le imprese in constrained e unconstrained sulla base di due dei cinque indicatori utilizzati da Almeida, Campello e Weisbach (2004) (dimensione e bond rating), e dimostrano che la sensibilità a risparmiare liquidità aumenta con la correlazione seriale dei ricavi e diminuisce con la varianza di questi. L’effetto dell’incertezza sul cash cash flow sensitivity è, da un punto di vista empirico, forte almeno quanto l’effetto dei financing constraints. Ne discende che la propensione all’accumulo di cash non può essere usata come misura del costo del finanziamento esterno. Ad un simile risultato perviene lo studio sulle imprese europee condotto da Ferrando e Pal (2006). L’analisi empirica si differenzia da quella di Almeida,

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Campello e Weisbach (2004) sotto vari aspetti. La suddivisione del campione in constrained e unconstrained è stata ritenuta dalle autrici non idonea per le imprese Europee. Infatti, la suddivisone tra quotate, grandi e non quotate4e piccole potrebbe non essere adeguata in quanto le imprese europee quotate e grandi possono incontrare le stesse barriere al finanziamento di quelle piccole e non quotate. Mizen e Vermeulen (2005) trovano, per le imprese anglosassoni e tedesche, che la dimensione non può essere usata come indicatore di status finanziario; Mizen (2002) dimostra che non si riscontrano condizioni finanziarie peggiori per le imprese non quotate francesi e spagnole rispetto a quelle quotate.

Una spiegazione sufficientemente razionale di questo fenomeno è data dal fatto che la fonte di finanziamento principale delle imprese europee è il debito ottenuto da istituzioni finanziarie. Per questo i risultati dovrebbero essere diversi da quelli del sistema americano, dove le grandi imprese quotate si affidano maggiormente al capitale ottenuto dai mercati finanziari.

Il metodo di classificazione a priori di Ferrando e Paz è molto più preciso ed è basato sulla relazione esistente tra fabbisogno e fonti di finanziamento (sia interne che esterne). Le imprese sono divise in tre classi: assolutamente costrette, relativamente costrette, e non costrette, in base all’interrelazione tra investimenti totali, gap finanziario, debiti finanziari, emissione di nuove azioni e il pagamento degli interessi sul debito rispetto al tasso che si trova nel mercato locale.

I risultati ottenuti mostrano come la sensibilità del cash al cash flow è presente in tutti i tipi di impresa. Non esistono mercati finanziari perfetti, per cui si assiste comunque a un wedge tra fonti di finanziamento interne ed esterne, in linea con il motivo dei costi di transazione. Inoltre, la sensibilità dal cash al cash flow mostra un coefficiente in assoluto maggiore per le imprese non costrette. Ciò è dovuto al fatto che il livello di sensibilità è influenzato dalle opportunità future d’investimento che è parzialmente catturato dalla variabile cash flow (nell’equazione si

4 Gli autori sostituiscono i criteri di suddivisione di Almeida, Campello e Weisbach (2004) “bond rating” e “commercial paper rating” con lo status di quotata. Non avendo i dati a disposizione, l’essere quotata o meno ha gli stessi effetti sul mercato dei capitali. Sempre per la mancanza di dati, il criterio dei dividendi non viene inserito

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trova che le variabili che dovrebbero tener conto delle future opportunità di crescita, ossia la crescita delle vendite e la variabile ritardata dell’investimento in intangibile assets, sono prive di significato).

Si può concludere che, mentre le imprese costrette trattengono cash dal cash flow per coprirsi dalle fluttuazioni del cash flow stesso, le imprese non costrette invece lo fanno per aumentare gli investimenti futuri. Inoltre per le imprese non affette da vincoli finanziari, si registra anche un’importante sensibilità al debito a lungo termine, il che implica che questo tipo di imprese utilizzano più intensivamente risorse esterne (prevalentemente di lungo termine) per finanziare investimenti addizionali. Il cash holdings ha dunque un ruolo importante per equilibrare le risorse interne ed esterne di finanziamento, attraverso una riallocazione intertemporale, e per permettere il pagamento delle obbligazioni e degli interessi.

2.2.1. Investment cash flow sensitivity vs cash cash flow sensitivity

Il cash flow sensitivity of cash si collega necessariamente all’investment cash flow sensitivity perché gli investimenti fissi e le variazioni del cash sono due tra i maggiori utilizzi di fondi concorrenziali. Alcuni economisti hanno analizzato la loro coesistenza all’interno di uno stesso studio. Chang, Tan, Wong e Zhang (2007) trovano che le imprese classificate come imprese costrette finanziariamente mostrano una sensibilità dell’investimento al cash flow più bassa e una sensibilità del cash al cash flow più alta rispetto a quelle classificate come non costrette. Ci sono due spiegazioni per questo risultato. La prima per i casi in cui le imprese costrette hanno cash flow positivi. Queste investono meno in risposta ad un aumento del cash flow perché sono costrette a costruire delle riserve di liquidità per assicurare che vi siano fondi disponibili per investimenti futuri. La seconda interpretazione è più rilevante negli anni in cui

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le imprese constrained incorrono in cash flow negativi, trovandosi in una situazione di difficoltà finanziaria.

Come sottolineato da Allayannis e Mozumdar, è più facile che queste imprese taglino i loro investimenti a livelli minimi durante gli anni di cash flow negativo. Un ulteriore declino nel cash flow non dovrebbe risultare in decurtamenti addizionali degli investimenti, cosicché la sensibilità dell’investimento al cash flow risulta relativamente bassa. Allo stesso tempo, affrontando cash flow decrescenti, le imprese costrette possono coprire l’ammanco di fondi per spese di capitale necessarie con fondi ottenuti da un ulteriore drenaggio di riserve di cash. In risposta ad un cash flow crescente, esse cercano di ristorare le disponibilità finanziarie attraverso un aumento della cassa.

D’altra parte Salma e Bejar (2007), in uno studio sulle imprese tunisine, trovano risultati contradditori rispetto a quelli di Chang, Tan, Wong e Zhang (2007). Le imprese tunisine, identificate come imprese soggette a vincoli finanziari, mostrano una sensibilità dell’investimento al cash flow più alta (questo però solamente in periodi di cash flow positivi, perché in caso di difficoltà finanziaria, con cash flow negativi i risultati sono statisticamente poco significativi) e una sensibilità del cash al cash flow più bassa in relazione alle imprese che non subiscono particolari costrizioni finanziarie. Gli autori affermano che le imprese fortemente vincolate sul piano finanziario sono esposte ad alti costi di finanziamento esterno che porta al motivo dei costi di transazione per la detenzione di cash, implicando l’utilizzo di riserve di cassa per fronteggiare le spese correnti.

2.3. Studi sul livello di cash holdings

Gli studi empirici sul cash holdings si possono dividere in due tipologie principali: nella prima rientrano gli studi che analizzano le determinanti del livello di cash holdings delle imprese e la

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possibile esistenza di un ammontare ottimo, naturalmente dal punto di vista dell’azionista; nella seconda quelli che si focalizzano sull’impatto della liquidità sulle performance e sul valore dell’impresa.

Le prime analisi sono dirette ad osservare due teorie di cui si è accennato: la trade-off theory (è la trasposizione di quella sul leverage nell’ambito del cash holdings), per la quale, ricordiamo, esiste un livello ottimo di liquidità determinato dall’equilibrio dei costi e dei benefici del detenere cash; la Pecking Order Theory (di Mayers e Majluf) secondo la quale invece non vi è un livello ottimale di cash. Si può pensare che non vi sia un livello ottimale di cash perché esiste un livello di debito netto, ossia al netto del cash, per cui non importa che livello di cash si abbia. La Pecking Order Theory però è il caso più estremo dove non esiste nemmeno un livello ottimo di debito netto. L’equity in Myers e Majluf è la fonte di finanziamento che costa di più a causa delle maggiori asimmetrie informative, il debito viene contratto quando non vi sono risorse interne disponibili. Quando queste sono sufficienti per finanziare investimenti in progetti profittevoli, allora queste vengono usate per ripagare debiti e per ricostituire una riserva di liquidità precauzionale. Per questo la Pecking Order Theory è strettamente collegata al motivo precauzionale e ai financial constraints5.

Successivamente, con l’esplosione delle tematiche di governance, a causa dei recenti scandali, la letteratura si concentra maggiormente sull’aspetto dei costi d’agenzia e sui conflitti esistenti tra manager e azionisti (studi sulle imprese americane), e tra azionisti di maggioranza e azionisti di minoranza.

5 Sarebbe però un errore collegare la Trade Off Theory con il motivo dei costi di transazione e la Pecking Order Theory con il motivo precauzionale. I confini, sia empiricamente che teoricamente, sono molto sfumati ed è difficile cogliere una

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2.3.1. Livello ottimo e determinanti del cash holdings

Mikkelson e Partch (2003) per differenziare le imprese in imprese high-cash (quelle le cui riserve di cassa sono alte) ed imprese low-cash (al contrario, le aziende con un basso livello di cassa), si basano su una regola di classificazione fissa, ossia definiscono cash-rich quelle imprese che detengono più del 25% dei loro assets totali in cash e cash equivalent.

Oltre questa maniera arbitrale di scegliere il limite del 25%, l’approccio presenta altri svantaggi che rendono questo metodo di classificazione meno accurato e realizzabile.

E’ ragionevole assumere che l’ammontare di cash mantenuto da un’azienda sia il risultato della combinazione di una serie di caratteristiche specifiche dell’azienda stessa. Il metodo di Mikkelson e Partch non considera minimamente la possibilità di target differenti tra le imprese, come invece avviene, tra gli altri, negli studi di Opler, Pinkowitz, Stulz e WIlliamson (1999), Kim, Mauer e Sherman (1998). Inoltre, lavori inerenti la struttura del capitale corroborano l’idea che le imprese abbiano un target di debito flessibile (Grahm e Harvey (2001); Bancel e Mittoo (2004)), conclusione che si può applicare ragionevolmente alle politiche di cash.

Per cui, considerando l’approccio con il livello prefissato, si prendano due imprese considerate cash-rich perché superano il livello del 25%; è possibile che comunque le due imprese differiscano per il target di cash prefissato endogenamente. Ad esempio, poniamo che il livello definito da una delle due sia al di sotto del 25%, mentre quello definito dall’altra sia al di sopra dell’ammontare attuale di cash. In quest’ultimo caso, non sarebbe corretto definire l’impresa come high cash, perché il suo ammontare di riserve liquide è al di sotto del target prestabilito. È ovvio come la definizione di un limite fisso, non implicando l’esistenza di target diversi nelle imprese, non tiene conto neanche dell’ulteriore possibilità che questi target variano anno per anno.

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Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) e Kim, Mauer, Sherman (1998) sono tra i primi a trovare risultati che supportano il modello del trade-off del cash holdings. Esiste quindi un target di cash fissato endogenamente dalle organizzazioni al quale esse tendono continuamente. Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) analizzano l’esistenza di un livello ottimale di cash guardando come prima cosa se il cash holdings può essere visto come un processo mean reverting. Se non lo è può essere rigettata l’ipotesi secondo la quale le imprese hanno un livello di cash prefissato6.

Attraverso un modello autoregressivo di primo ordine, gli autori trovano che vi sono fattori sistematici che portano le imprese a controllare che il livello di cash non salga o non scenda troppo oltre la media.

Più che l’esistenza di un livello ottimale di cash determinato all’interno di un organizzazione, ciò che realmente interessa è la velocità di aggiustamento dell’impresa al livello desiderato di cash da una posizione di non-equilibrio. Il target adjustment model ci può dire molto di più sull’importanza che il cash holdings ha nelle politiche finanziarie dell’azienda. Un processo più lento ad esempio può indurre a pensare che la liquidità sia all’ultimo posto nelle scelte finanziarie, in linea con la teoria della gerarchia di finanziamento .

Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) e Kim, Mauer e Sherman (1998) sviluppano un modello di aggiustamento al target molto seguito in letteratura. Questo mostra che le variazioni nel cash holdings in t+1 dipendono dalla differenza tra il livello di cash attuale e il target individuato alla fine dell’anno t.

Vi sono diversi modi per ottenere il target di cash ottimale. Quello più semplice consiste nell’utilizzare la media del cash holdings di un’impresa negli ultimi cinque anni (Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999); Bruinshoofd e Kool (2004)).

6 Tuttavia la Pecking Order Theory non è inconsistente con il processo di mean reversion. Nella Pecking Order Theory il cash holdings non è gestito attivamente ma dipende dalle variazioni della crescita delle risorse interne. Se questa è negativamente autocorrelata ( ad esempio a causa di fluttuazioni del ciclo economico) allora anche il cash holdings sarà auto

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Si trovano però anche metodi più avanzati: Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) ottengono il target ogni anno da valori adattati da una regressione cross-sectional del cash holdings sulla dimensione reale dell’impresa e sulla volatilità del settore; oppure ancora Opler et al. (1999) e Harford (1999) utilizzano come target i valori fitted di un modello cross sezionale alla Fama-MacBeth7; si tratta di un modello stimato annualmente cosicché tutte le informazioni richieste per stimare il target sono disponibili nell’anno in cui il target è usato nella regressione. Il target risulta in questo modo più accurato ed è più direttamente collegato ai fattori specifici dell’impresa.

Bruinshoofd e Kool (2004) ammettono la presenza di un livello ottimo, ma allo stesso tempo dimostrano come la dinamica del cash holdings dipenda da shock di breve periodo nei ricavi e nelle spese e dall’aggiustamento verso il target specificato di lungo periodo.

La teoria del trade off statico può quindi valere nel lungo periodo, ma l’impresa utilizza il cash holdings anche per assorbire schocks nel breve periodo nei flussi di entrata ed in uscita. Bruinshoofd e Kohl parlano di teoria della “buffer stock liquidity”, che si avvicina molto alla Pecking Order Theory. Le imprese possono scegliere inizialmente di lasciare che le disponibilità liquide assorbano qualsiasi shock, e cercare solo nel lungo periodo di ritornare ad un livello ottimo di liquidità. Occorre che le aziende pongano l’attenzione su altri target finanziari almeno nel beve termine, pur essendo a conoscenza dei costi e dei benefici della liquidità.

Nel loro lavoro sono specificati tre tipi diversi di target. Oltre a quello costruito con la media degli ultimi cinque anni, presente in Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999), essi introducono il “sophisticated target” e lo “specific target”. Nel primo sono incluse più informazioni rilevanti possibili sul livello di target firm-level. Tuttavia è possibile che questo target non tenga conto dell’eterogeneità inosservata nei livelli di lungo periodo delle imprese

7 Ogni anno si fa una regressione cross-sezionale e si usano le serie temporali dei coefficienti della regressione per fare le inferenze. Questo metodo permette di evitare i problemi di correlazione seriale nei residui che potrebbero esserci in regressioni pooled.

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(la parte di liquidità che è motivata dai problemi di informazione può rimanere opaca). Lo specific target, invece, tiene conto di queste problematiche: nella sua espressione vengono catturati tutti i motivi specifici di impresa non catturati dal sophisticated target.

In Bruinshoofd e Kool l’equazione dinamica di liquidità misura la variazione di liquidità (yit-y it-1) catturando la pressione di breve termine attraverso un vettore di variabili esplicative che contiene variazioni delle determinanti di lungo periodo così come shock di breve periodo nei profitti e nelle spese. Inoltre vengono catturati gli incentivi all’adattamento al target nella forma di deviazioni di inizio anno dai targets di lungo periodo (storici, sophisticated e specific).

Per concludere, Ozkan e Ozkan (2004) (e successivamente Drobetz e Gruninger (2006); Garcia-Teruel e Martinez-Solano (2004); Couderc (2005); Marchica e Mura (2007)) adottano un modello di aggiustamento al target in cui si tiene conto che l’aggiustamento possa avvenire in ritardo a causa, ad esempio, di un mancato pagamento dei clienti dell’azienda, oppure di un incremento inaspettato delle opportunità di crescita. Tale modello è sicuramente più realistico rispetto ad un modello statico, in quanto in quest’ultimo il processo avviene immediatamente al cambiare delle caratteristiche dell’impresa e/o per shock casuali. Questo modello però non può essere stimato con uno stimatore OLS perché sorgerebbero numerosi problemi di stima; vi è infatti presenza di endogeneità nella variabile dipendente ritardata inserita nella parte destra dell’equazione: questa sarà correlata con il termine di errore, implicando che tale stima possa risultare distorta e inconsistente, rendendo quindi conveniente avvalersi dello stimatore GMM di Arellano e Bond (1991).

L’impiego di tutti i possibili vettori ritardati delle variabili nella parte destra come strumenti, comporta l’esistenza delle condizioni di ortogonalità tra queste variabili strumentali e il termine di errore dell’equazione.

Osservando i risultati ottenuti in letteratura, Ozkan e Ozkan, nel loro studio sulle imprese non finanziarie inglesi, trovano un coefficiente di aggiustamento abbastanza elevato (sopra lo 0,6) che mostra come l’impresa aggiusti il suo cash holdings velocemente nel tentativo di

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raggiungere il target stabilito. Stesso risultato è ottenuto da Guney, Ozkan e Ozkan (2003) per le imprese britanniche, mentre per quelle francesi, tedesche e giapponesi il coefficiente è pari allo 0,5. Per le ultime due una spiegazione può venire dal fatto che queste imprese sono caratterizzate da legami stretti con le banche e dipendono da loro per i finanziamenti esterni, per cui possono adeguarsi più lentamente al target senza incorrere in alti livelli di adjustment costs. Anche Couderc (2005) documenta differenze nei coefficienti di aggiustamento tra paesi, stimando coefficienti più alti (intorno allo 0,6) per USA e Canada rispetto a Germania e Francia (0,5). Ozkan e Ozkan spiegano come la velocità di aggiustamento derivi da un trade-off tra due differenti tipi di costo: il costo di essere lontani dal target prestabilito e il costo di aggiustamento verso il medesimo target. Questi valori intorno allo 0,6 dimostrano come sia sì costoso essere distanti dal livello stabilito, ma anche come sia costoso il processo di aggiustamento. Se i costi di aggiustamento fossero molto bassi rispetto a quelli dell’essere fuori target allora si avrebbe un valore vicino a 1.

Bruinshoofd e Kool (2004) mostrano un coefficiente di aggiustamento che va da 0,20, se si utilizza il target basato sui valori medi, a 0,67 se invece si utilizza il target definito dagli autori “specific target”, che tiene conto delle caratteristiche specifiche d’impresa. I risultati mostrano anche che, per ogni deviazione del target, solo il 10% di questa persiste per più di due anni. Infatti anche se si controllano le caratteristiche a livello d’impresa, una parte considerevole della decisione di detenere liquidità può rimanere opaca. Tenendo conto di questo si raggiunge un tasso annuale di convergenza al target specifico pari al 60%. Lo stesso Bruinshoofd, in uno studio successivo del 2006, focalizza l’attenzione sull’aggiustamento non lineare della liquidità verso un target di lungo periodo. Il suo risultato più significativo è che le imprese reagiscono ad una mancanza di liquidità più velocemente di quanto lo facciano quando si trovano di fronte ad un surplus di cassa. Infatti le imprese correggono un surplus di liquidità a un tasso pari al 45% annuale, mentre rimuovono una carenza di cassa a un tasso del 70%. Per posizioni di liquidità

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che scendono troppo rispetto al target vi può anche essere un aggiustamento completo al target definito nell’arco di un anno, ossia ad un tasso annuale del 100%.

Infine Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) trovano per le imprese USA un tasso annuale di convergenza ai target stabiliti di circa il 20%8. E’ un tasso molto basso, che può riflettere il fatto che questi targets, se stimati accuratamente, non svolgono un ruolo di primo piano nel management della liquidità delle imprese. Gli autori nello stesso lavoro testano il modello assumendo che variazioni nel cash holdings son date da deficit del flusso di fondi, misurato come dividendi più le spese di capitale più le variazioni nel capitale operativo netto, più la porzione corrente da pagare di debito a lungo termine, meno il cash flow operativo. Il coefficiente del deficit del flusso di fondi è pari a 0,2195. Ciò supporta il fatto che la teoria della gerarchia di finanziamento ha la sua importanza nelle dinamiche della liquidità.

Tab.1. Coefficienti di aggiustamento al target

La tabella mostra i diversi coefficienti di aggiustamento al target rilevati dai vari studi in letteratura

AUTORI NAZIONALITA’ IMPRESE COEFF. DI AGGIUSTAMENTO Opler et al. (1999) USA 0,2 Ozkan e Ozkan (2004) UK 0,605 Guney et al. (2005) UK Germania Giappone 0,6025 0,5559 0,5615

8 Anche Ozkan e Ozkan (2004) stimando un modello di aggiustamento al target simile a quello di Opler et al. (1999), trovando però un coefficiente pari a 0,54. Ricordiamo che allo stesso modo Bruinshoofd e Kool (2004) mostrano un

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Francia 0,5585 Bruinshoofd e

Kool (2004)

Olanda 0,2 (historical target) 0,65 (specific target) Bruinshoofd (2006) Olanda 0,45 0,7 Couderc (2004) USA Canada Germania Francia UK 0,617 0,712 0,534 0,477 0,549 Drobetz e Gruninger (2006) Svizzera 0,376

2. 3.2 Pecking Order Theory e Trade Off Theory

Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) trovano quindi supporto per entrambe le teorie. Ciò è confermato da successive regressioni in cui sia il target adjustment model sia il modello della gerarchia di finanziamento possono influenzare il livello di cash. In tutte le regressioni i risultati sono significativi. I due modelli teorici agiscono in maniera diversa rispetto alle predizioni di Bruinshofd e Kool (2004). Questi ultimi spiegano la determinazione del target come un obiettivo di lungo periodo, mentre nel breve periodo ciò che prevale è il modello delle gerarchie. In Opler, Pinkowitz, Williamson, Stulz (1999) le dinamiche dei due modelli portano a pensare che la Pecking Order Theory prevalga se l’impresa ha un eccesso di liquidità, dimostrato dal fatto che i coefficienti del deficit del flusso di fondi sono più alti in assoluto per le imprese che mostrano un livello di cash più alto di quello prestabilito. Il manager, che è bene

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ricordare agisce almeno teoricamente nell’interesse degli azionisti, lascerà accumulare risorse liquide quando l’azienda ottiene buoni risultati.

La coesistenza di entrambe le teorie nella spiegazione del fenomeno dell’accumulo di liquidità si riscontra anche quando si vanno ad analizzare le singole caratteristiche specifiche dell’impresa che determinano il livello di liquidità.

Ciò che emerge è una chiara difficoltà nel distinguere empiricamente i due modelli. Vi sono infatti molte predizioni che appartengono a tutte e due le teorie.

Qui di seguito vengono schematizzate le assunzioni teoriche sulle relazioni che intercorrono tra le caratteristiche delle imprese e i livelli di cash facendo distinzione, ove possibile, fra le diverse ipotesi.

Dimensione dell’impresa (SIZE):

La relazione attesa tra il cash holdings e la dimensione è ambigua.

Relazione negativa: Secondo Baumol (1952), Miller e Orr (1966), esistono economie di scala nel cash management. Ciò implica che le imprese più grandi detengono meno cash rispetto a quelle più piccole. Inoltre le imprese più grandi mostrano minori asimmetrie informative e affrontano costi più bassi di finanziamenti esterni (Fazzari e Petersen (1993)). E’ generalmente accettato che le imprese più grandi, a causa di una maggiore diversificazione, hanno una probabilità più bassa di trovarsi in una situazione di dissesto finanziario (Rajan e Zingales 1995). Anche per questo motivo ci si aspetta una relazione negativa tra cash holdings e size (dimensione).

Relazione positiva: secondo la Pecking Order Theory le imprese più grandi dovrebbero essere quelle più di successo e potrebbero avere accumulato riserve di cassa più alte (Myers e Majluf (1984)).

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Anche il grado di leverage ha un effetto ambiguo sulle politiche di cash. Gli studi americani non fanno distinzione sulla durate del debito, considerando assieme debito a breve e debito a medio lungo termine (Kim, Mauer e Sherman (1998), Opler et al. (1999)). Alcuni lavori sulle imprese europee (Ferrando e Pal (2004), Ferreira e Vilela (2006)), invece, separano il ratio in due indici, uno che approssima il debito a breve, e l’altro che riflette il debito a medio lungo termine. E’ una scelta ragionevole, visto che il debito a medio lungo termine ha caratteristiche totalmente diverse da quello a breve. Il debito a breve drena liquidità, quello a medio lungo termine è più simile all’equity, tant’è che è spesso proposto, ad esempio nelle regole prudenziali, che una parte del debito a lungo termine sia considerato alla stregua dell’equity, nonostante siano ben chiare le differenze di diritti di cash flow e di diritti di controllo con quest’ultimo. Infine, alcuni lavori, anche in questo caso prevalentemente europei (Ozkan e Ozkan (2004), Ferreira e Vilela (2006)), studiano la relazione tra debito bancario e cash holdings. Come già si è detto il debito bancario è la forma di finanziamento esterno più utilizzata.

Relazione positiva: è generalmente accettato che il leverage incrementa la probabilità di bancarotta dovuta alla pressione di rigidi piani di ammortamento. Quindi per ridurre la probabilità di dissesto finanziario ci si aspetta che l’impresa con un alto leverage mantenga più alti livelli di cassa. Inoltre abbiamo visto che un alto grado di leverage provoca il problema di underinvestment introdotto da Myers (1977), per cui mantenendo liquidità all’interno questa minimizza i potenziali agency costs del debito.

Relazione negativa: per la teoria della gerarchia di finanziamento di Myers e Majluf il debito dovrebbe scendere ogni qualvolta il cash flow eccede la spesa d’investimento. Infatti in questo caso il cash flow è utilizzato, una volta controllata la spesa d’investimento, per ridurre il debito esistente e per aumentare la scorta di cash a motivo precauzionale. Questa relazione tra leverage, investimento e cash holdings suggerisce che vi sia una relazione negativa tra cash holdings e leverage.

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Inoltre, per il fatto che l’indice di leverage agisce come un’approssimazione dell’abilità dell’impresa di emettere debiti ci si potrebbe aspettare che le imprese con un leverage più alto trattenga meno liquidità.

Opportunità d’investimento

In questo caso le due teorie trovano entrambe un collegamento positivo delle opportunità d’investimento con le riserve di cassa.

Relazione positiva: la Trade Off Theory suggerisce che il costo dell’incorrere in situazioni di scarsa liquidità è maggiore quando vi sono elevate opportunità d’investimento, perché la perdita che deriva dalla non attuazione dell’investimento profittevole è maggiore. Il confine di separazione dalla Pecking Order Theory non è netto; secondo Myers e Majluf (1984) infatti, l’impresa accumulerà cash per evitare di non poter effettuare investimenti in futuro, nel caso i fondi esterni non siano disponibili a un costo accettabile.

Inoltre, poiché le opportunità di crescita sono intangibili in natura e poiché l’NPV positivo di questi investimenti scompare (quasi interamente) in caso di bancarotta, le imprese avranno un costo del dissesto molto alto e cercheranno di evitarlo o di minimizzarlo, trattenendo una quantità più elevata di risorse liquide (Williamson (1988), Harris e Raviv (1990), Shleifer e Vishny (1992))

Cash flow

Relazione positiva: di riflesso alle dinamiche del leverage nella Pecking Order Theory, il cash flow mostra una relazione positiva con il cash holdings, in quanto dopo aver ripagato il debito esso è usato per aumentare il saldo di cassa.

Relazione negativa: il cash flow è visto nella teoria del trade-off come un sostituto della liquidità che è possibile utilizzare per finanziare gli investimenti.

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Incertezza del cash flow

Relazione positiva: un cash flow altamente variabile aumenta la possibilità di incappare in una situazione di scarsità di fondi liquidi. Per evitare i costi connessi a questo stato, l’impresa preferisce accumulare denaro liquido (Trade Off Theory).

Rischio di dissesto finanziario

Relazione positiva: l’impresa con un’alta possibilità di dissesto finanziario cerca di mantenere un livello elevato di cash holdings per alleviare le conseguenze del deficit finanziario.

Relazione negativa: rispecchia solamente il fatto che un’impresa in situazione di stress finanziario non possa avere cash in eccesso. Si tratta quindi di differenze nella direzione di causalità.

Entrambe le relazioni possono sembrare plausibili.

Liquidità diversa dal cash

Relazione negativa: in linea con la Trade Off Theory, essa funge da sostituto del cash.

Dividendi

Relazione negativa: il pagamento dei dividendi comporta un’uscita di contante per ripagare gli azionisti. Il livello di cash holding diminuisce all’aumentare dei dividendi. Inoltre la possibilità di poter ridurre il pagamento dei dividendi quando c’è un problema di liquidità giustifica livelli di cash minori per le imprese che pagano dividendi.

Relazione positiva: può accadere che le imprese che pagano dividendi sono particolarmente riluttanti a tagliarli e quindi tendono a mantenere un alto ammontare di cash.

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Di seguito è riportata la tabella che sintetizza le predizioni teoriche esistenti e i principali risultati ottenuti in letteratura.

Tab.2 Risultati letteratura empirica

La tabella mostra i principali risultati degli studi che analizzano le determinanti del livello di cash holdings. Le colonne riportano le predizioni delle teorie (Trade Off (TOT) e della gerarchia di finanziamento (POT)) e i risultati ottenuti dai vari autori in letteratura. Il segno + indica una relazione positiva, il segno - indica una relazione negativa. Il segno / indica che la variabile è mancante. N.s. sta a significare la non significatività del risultato.

Variabili POT TOT Opler et al. Kim et al. Ozkan e

Ozkan Ferreira e Vilela Leverage

-

+/

-

-

-

-

-Dimension e +

-

-

/ n.s. n.s. Cash flow +

-

+

-

-

+ σ Cash flow

/

+ + +

-

-

Altra liquidità

/

-

-

-

-

-

Opp. Crescita + + + + + + Bankrupty cost /

-

/

-

/ /

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Dividendi /

-

-

-

-

-

Variabili POT TOT Bruinshoof

Gruningen Ginglinger Saddour Drobetz Gruninger Garcia e Solano Leverage

-

+/

-

-

-

-

+ Dimension e +

-

-

-

-

n.s. Cash flow +

-

/ + + + Σ Cash flow / + + + / / Altra liquidità /

-

/

-

-

-

Opp. Crescita + + / + n.s. + Bankrupty cost /

-

/ /

-

n.s. Dividendi /

-

/ + + /

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E’ utile confrontare le evidenze fornite da Kim, Mauer e Sherman e quelle di Opler et al. perché i loro lavori sono molto simili tra di loro: entrambi analizzano imprese manifatturiere americane; il periodo che si va a coprire è più o meno lo stesso (1975-1994 per i primi; 1971-1994 i secondi). I risultati sembrano essere somiglianti. La differenza che balza agli occhi è il segno della relazione del coefficiente del cash flow. In Opler et al. il segno positivo è espressione della teoria di Myers e Majluf, per cui un’azienda con un livello di cash flow alto ne trattiene una parte all’interno. Ciò è in linea con il comportamento delle imprese finanziariamente costrette di Almeida, Campello e Weisbach (2004) che dimostrano una sensibilità del cash al cash flow positiva. Kim, Mauer e Sherman trovano, invece, un coefficiente negativo del cash flow, che quindi è visto come fonte alternativa di liquidità. A parte questa differenza i due lavori sembrano spiegare il cash holdings delle imprese con il motivo precauzionale; in Kim, Mauer e Sherman (1998) le imprese che detengono maggiormente cash sono quelle che fronteggiano un costo elevato dei finanziamenti esterni, come si nota dal coefficiente della variabile Market to Book ratio, che per gli autori rappresenta una proxy del costo del finanziamento esterno. Opler, Pinkowitz, Williamson e Stulz (1999) trovano che le imprese di piccole dimensioni, che in teoria dovrebbero essere più affette dai vincoli finanziari e quelle le cui attività sono più rischiose, trattengono maggiore liquidità. Al contrario le imprese di grandi dimensioni, quelle che presentano un rating più alto del debito hanno un livello più basso di liquidità. Pare quindi che le imprese siano guidate dal motivo precauzionale nelle loro politiche di cash. Infatti, come abbiamo visto prima, il flusso di fondi ha un forte impatto sul cash holdings, il che è confermato dalla relazione positiva tra cash flow e cash holdings, che evidenzia come il management mantenga liquidità appena ne ha la possibilità, ossia appena i cash flow hanno un livello abbastanza alto.

Tuttavia questo motivo precauzionale, nonostante si presenti una relazione positiva tra cash e opportunità d’investimento, sembra poco collegato alle spese di investimento. Infatti gli autori trovano una persistenza del cash holdings piuttosto elevata. Esso non è speso rapidamente in

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investimenti, né in acquisizioni (come documenta Harford (1999)). Il cash in azienda è trattenuto principalmente come cuscinetto per le perdite operative, come dimostra il fatto che variazioni maggiori nel cash in eccesso, in media, sperimentano cash flow operativi largamente negativi.

Il paper di Opler,Pinkowitz, Stulz e Williamson (in parte anche quello di Kim, Mauer e Sherman) è diventato un modello da cui prendono spunto molti dei lavori che studiano il cash holdings. Ferreira e Vilela (2006) lo ripercorrono fedelmente in un campione di imprese di 12 paesi europei9. La motivazione è chiara, cioè quella di vedere i risultati di uno studio pressoché uguale su imprese che vivono in ambienti totalmente diversi, come lo è il contesto europeo rispetto a quello americano. E lo stesso fa Anderson (2002).

I risultati riportati da Ferreira e Vilela (2006) sono in linea con quelli di Opler,Pinkowitz, Stulz e Williamson (1999), l’unica differenza è data dalla volatilità del settore che è collegata negativamente con il cash holdings. Un elemento di novità che gli autori inseriscono è dato dalla variabile che approssima il debito bancario. E’ già nota la stretta relazione che le imprese europee hanno con gli istituti finanziari, e infatti anche altri studi sulle determinanti del cash holdings analizzano come questa relazione agisca sul cash holdings (Ozkan e Ozkan (2004); Guney , Ozkan e Ozkan (2006)).

Un paper essenziale a riguardo è quello di Pinkowitz e Williamson (2001), i quali studiano panel di imprese giapponesi, tedesche e americane e dimostrano come le prime trattengano un livello di cash holding superiore alle altre. La differenza sta nel maggiore potere delle grandi banche giapponesi le quali detengono un ruolo centrale nel sistema finanziario locale. Queste spingono le imprese ad aumentare le riserve di liquidità per estrarre rendite a proprio favore o per diminuire i costi di monitoraggio.

Vi è da dire che nel sistema nipponico le banche rappresentano la maggior parte degli ultimate owner, per cui non si parla solamente di debito bancario. Allo stesso modo, però, il sistema

9 Si tratta di Germania, Francia, Olanda, Italia, Spagna, Finlandia, Belgio, Austria, Irlanda, Lussemburgo, Grecia e Portogallo

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finanziario tedesco è molto simile e, in questo caso, uno stretto rapporto con le banche induce a un cash holdings più basso. Ferreira e Vilela (2006) trovano che il debito bancario riduce l’accumulo di cash. E’ quindi ragionevole pensare che il debito bancario, e quello che ne consegue (un rapporto molto stretto con la banca), funga da cuscinetto e permetta di avere minori livelli di cash. Inoltre la relazione negativa tra debito bancario e cash supporta l’idea che la banca sia in una posizione migliore per valutare la qualità del credito delle imprese e per monitorare le loro politiche finanziarie, con la conseguenza di diminuire drasticamente i problemi di asimmetria informativa associati ad altri tipi di debito.

A questi stessi risultati arrivano Ozkan e Ozkan (2004) i quali, per un panel di imprese inglesi quotate, forniscono forte evidenza del fatto che il debito bancario esercita una negativa e significativa influenza sul cash trattenuto in azienda. Essi apportano un’ulteriore spiegazione, ossia che il debito bancario sia più facilmente rinegoziabile, quindi permette all’impresa di non mantenere cash a scopo precauzionale a causa di probabili difficoltà di rinegoziazione dei contratti finanziari.

Molti altri studi hanno aggiunto ulteriori specificazioni per quanto riguarda il debito rispetto ai lavori di riferimento americani. Infatti, Opler,Pinkowitz, Stulz e Williamson (1999), Kim, Mauer e Sherman (1998), così come Almeida, Campello e Weisbach (2004), non si focalizzano sulla durata del debito. Essi studiano solo il rapporto esistente tra grado di leverage e cash holdings, aggregando debiti di tutte le scadenze, dimostrando una relazione negativa e significativa che vede il debito come una fonte di liquidità, e quindi un sostituto del asset in cash. Ciò è realistico soprattutto per il debito a breve, e negli USA i debiti a breve tendono a predominare nelle strutture di capitale delle imprese. Gli studi europei sono più attenti ad analizzare le differenze di impatto delle diverse durate del debito sul cash holdings. Anderson (2002) per le imprese inglesi trova una connessione positiva tra debito a lungo termine e cash holdings. Questo è in linea con la presenza di un motivo precauzionale, perché le imprese mantengono un alto leverage che funge da caratteristica durevole della loro struttura del

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capitale alla quale altre politiche, quali ad esempio quelle dei dividendi e quella del cash holdings, sono adattate. Ferrando e Pal (2006) giungono ad un simile risultato per imprese europee di medio grandi dimensioni, le quali sembra che utilizzino il debito di lungo periodo non per investimenti immediati, ma per una allocazione nel tempo delle risorse. Bruinshoofd e Kool (2004) trovano invece risultati opposti per le imprese olandesi. Il debito totale incide negativamente sul cash holdings, ma osservando la relazione che intercorre tra debito a breve e livello di cassa, questa è positiva. Questo fenomeno potrebbe essere motivato, secondo gli autori, dall’incertezza della rinegoziazione che impatta sui costi d’informazione del finanziamento esterno.

Recentemente alcuni autori hanno aggiunto nell’analisi, oltre al leverage, il leverage al quadrato, per dimostrare la relazione non lineare che vi è tra leverage e cash holdings (Guney et al. (2006); Ginglinger e Saddour (2007); Drobetz e Ginglinger (2006)). Così, se l’effetto del leverage è negativo, quello del leverage al quadrato risulta al contrario positivo. Marchica e Mura (2007) riescono a trovare per le impresi inglesi il punto di flesso, ossia il punto corrispondente al livello di debito in cui le imprese incominciano a mantenere cash. Questo corrisponde al 32% di debito delle attività totali. Vi sono differenti visioni che cercano di spiegare questa relazione non lineare: Ginglinger e Saddour parlano di costrizioni finanziarie: un’impresa con un alto leverage è probabile che sia soggetta a vincoli finanziari, e quindi per motivi precauzionali ci si attende che incrementi le disponibilità liquide. Guney, Ozkan e Ozkan invece spiegano che un azienda altamente indebitata accumulerà più cash perché è più soggetta al rischio di dissesto finanziario.

Uno studio di John (1993) analizza la liquidità dell’azienda in rapporto ai vari costi, diretti e indiretti del dissesto finanziario, e trova che le disponibilità liquide dell’azienda siano crescenti nelle variabili che approssimano i costi di fnancial distress, e decrescenti nel valore collaterale degli assets e nella altre risorse di liquidità disponibili.

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