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Glosse e commenti sul protocollo per la redazione dei ricorsi civili convenuto fra Corte di cassazione e Consiglio nazionale forense - Judicium

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Academic year: 2022

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Raffaele Frasca

Glosse e commenti sul protocollo per la redazione dei ricorsi civili convenuto fra Corte di cassazione e Consiglio nazionale forense

§1. Premessa.

Le presenti osservazioni si propongono di verificare le implicazioni che, dal punto di vista della Corte di Cassazione, sembrerebbero potersi trarre dalla “lettura” del ricorso secondo il modello stabilito nel Protocollo in oggetto, sia in sede di decisione dei ricorsi in sede camerale, cioè nella sede propria sella Sesta Sezione Civile, sia, di riflesso, anche in sede decisoria a seguito di udienza pubblica e, dunque, di regola, presso le sezioni ordinarie,.

Lo scopo è, quindi, quello di verificare se e come orientamenti più o meno consolidati espressi dalla giurisprudenza della Corte in punto di valutazione della idoneità sul piano c.d. del contenuto- forma del ricorso per cassazione (e del controricorso), siccome espresso essenzialmente dalla norma che lo regola, cioè l’art. 366 c.p.c., vi trovino conferma ed in che limiti, oppure non ve la trovino, oppure ancora ve la trovino solo in parte.

La verifica verrà svolta sia considerando quella prima parte del protocollo che individua le varie scansioni ed il relativo contenuto del modello di ricorso, nonché le “note” che risultano apposte in calce ad essa, sia valutando in sé e per sé, ma anche al lume di quanto emerso dalla detta prima parte, ciò che nel protocollo è scritto di seguito sotto il titolo “Il principio di autosufficienza”.

§2. Il modello previsto ….. non crea una nuova ipotesi di inammissibilità.

La prima osservazione è che, per quanto risulta espressamente dalla nota n. 2 ed è, poi, arricchito da quanto di dice nella nota n. 3 (che prevede le deroghe dimensionali ammesse), se non si rispetta il modello, il ricorso non può per ciò solo essere dichiarato inammissibile.

Se tanto non fosse stato previsto dalla nota n. 2 è certo, peraltro, che lo si sarebbe dovuto comunque, come si deve, ritenere, atteso che il Protocollo non può fare aggio sul codice di rito e, quindi, sulla legge: poiché la legge non detta limiti dimensionali il Protocollo non li può imporre, ma solo suggerire.

§3. …..ma crea un dovere istituzionale di interpretare l’art. 366 c.p.c. in conformità.

Diversamente, fermo che il Protocollo, nel disegnare la struttura ideale del ricorso prima e, quindi, nell’individuare il contenuto del principio di autosufficienza non li potrebbe imporre, tuttavia, se la ricognizione dell’una e dell’altro risulti conforme ad una delle possibili letture e, sperabilmente, a quella più convincente, della norma sui requisiti di contenuto-forma, cioè dell’art. 366 c.p.c., eventualmente in corrispondenza con quanto già emerge dalla giurisprudenza della Corte, allora ne dovrebbe conseguire che, in seno alla Corte (come tra gli Avvocati) la lectio offerta dovrebbe essere necessariamente adottata come modello decisionale (e, prima come modello redazionale).

Ne consegue che il non avere osservato il modello redazionale ed il non avere osservato i contenuti indicati per la c.d. autosufficienza, ove appaiano nient’altro che carenze di contenuto-forma

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ravvisabili secondo il paradigma dell’art. 366 c.p.c., esse dovrebbero essere senz’altro apprezzate esistenti, segnatamente dalla Sesta Sezione, rifuggendo da esegesi alternative e, se del caso, anche con evocazione del Protocollo.

Questo valore del Protocollo sembra discendere dalla circostanza che esso è frutto di una decisione “concordata”, che, dal punto di vista della Corte esprime e preannuncia la volontà di osservarlo.

Il doverlo osservare non è un obbligo, ma è un’esigenza conforme al Servizio Giustizia.

§4. La rilevanza ai fini delle spese.

La nota n. 2 per il mancato rispetto (ingiustificato) del modello sotto il profilo dimensionale e quella n. 4 evidenziano che l’inosservanza del Protocollo potrà essere assunta come criterio ai fini della liquidazione delle spese giudiziali tanto a favore di chi ha ragione quanto a carico di chi ha torto e, dunque, ai fini di una liquidazione verso il massimo o verso il minimo.

Poiché si parla di liquidazione non è pensabile, invece, che si indichi anche la possibilità di una compensazione.

Anche qui il criterio è suggerito, ma dovrebbe essere seguito senza tentennamenti, data l’origine del Protocollo.

§5. Sul requisito dell’esposizione del fatto.

L’espressa previsione come parte apposita in un quadro più ampio e secondo una scansione indicata di una parte dedicata allo “svolgimento del processo”, cioè a quello che l’art. 366 n. 3 chiama

“esposizione del fatto”, comporta, mi pare, una rilevante conseguenza.

Poiché il modello prevede questa parte del ricorso come una parte apposita ne deriva – sempre in ossequio al criterio per cui oportet che l’art. 366 venga interpretato in conformità al Protocollo – che dovrebbero essere abbandonati quegli orientamenti di giurisprudenza, i quali - con un’applicazione del principio di idoneità allo scopo (proprio delle nullità) diretta a superare l’inosservanza del requisito formale, che per la verità era dubbia, in quanto supponeva che, nonostante il legislatore abbia previsto che ognuno dei requisiti dell’art. 366 debba osservasi a pena di inammissibilità e, quindi, che il requisito debba trovare espressione in una parte specifica del ricorso e non possa, dunque, ricavarsi da altre parti o da altri contenuti – erano propensi ad ammettere che l’art. 366 n. 3 c.p.c. si potesse considerare osservato:

a) quando il ricorrente, senza esprimere nel ricorso una parte dedicata all’esposizione del fatto, avesse riprodotto la sentenza impugnata ed essa recasse sufficienti notizie sul fatto sostanziale e processuale;

b) quando mancasse proprio nel ricorso una parte dedicata al requisito del n. 3 e, tuttavia, i motivi del ricorso, ove letti, consentissero una percezione del detto requisito.

Confermare questi orientamenti (come aveva fatto Cass. sez. un. n. 5698 del 2012, successivamente allo scrutinio del diverso caso della c.d. esposizione assemblata e di figure similari) dopo il Protocollo non sembra consentito: se il modello prevede che ci debba essere una parte

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espressamente dedicata all’esposizione del fatto, non è conforme al dovere di applicarlo ed alla filosofia che lo caratterizza attribuire rilievo agli equipollenti indicati ricercandola in altre parti.

Fermo che l’art. 366 n. 3 – proprio valorizzando la prescrizione per ogni requisito della sanzione di inammissibilità del ricorso e la sua contrarietà all’applicazione del criterio, proprio delle nullità, della idoneità al raggiungimento dello scopo ricercata aliunde, cioè in altra parte del ricorso - già poteva, se non doveva, essere interpretto in senso contrario, ma ora dovrebbe esserlo senz’altro.

Altra notazione è la seguente.

Il modello del Protocollo legittima (nel senso anche del consenso del Foro) l’inidoneità dell’esposizione del fatto c.d. assemblata o rispondente a figure simili.

Non solo: impedisce di dare una lettura di Cass. sez. un. n. 5698 del 2012 nel senso che, in presenza di un’esposizione assemblata, immaginava potesse salvarsi un ricorso se dai motivi il “fatto”

emergeva (con grave contraddizione della stessa filosofia scelta dal ricorrente e rischio di sentirsi poi dire, con un ricorso per revocazione, che si era sbagliato, perché le cose stavano diversamente proprio in base a quanto assemblato).

Per la verità tale lettura, che traeva spunto da una precisazione finale della sentenza, era contraria al suo effettivo tenore: le Sezioni Unite, in realtà, per la contradizion che n’ol consente, avevano inteso riferirsi solo al caso di ricorso privo di esposizione del fatto e, dunque, non al caso di esposizione assemblata, dato che altrimenti l’assemblaggio da Esse censurato di per sé non avrebbe avuto mai rilievo come causa di inammissibilità diretta: si veda, in termini Cass. n. 3385 del 2016; si veda, pure Cass. n. 18363 del 2015, che, peraltro, non concerneva un caso di ricorso effettivamente assemblato.

Non conforme l’assemblaggio al Protocollo ed escluso che il “fatto” possa evincersi dai motivi, importa comunque notare che quella lettura (a mio avviso sbagliata) è ancora di più insostenibile.

§6) I motivi di impugnazione e la loro tecnica di esposizione.

Di particolare importanza è la prescrizione, contenuta nella parte del modello dedicata ai

“motivi di impugnazione”, che <<l’esposizione deve rispondere al criterio di specificità e di concentrazione dei motivi…>>.

§6.1. La specificità.

La prima prescrizione avalla, credo, innanzitutto la giurisprudenza che, pur nella mancanza nella disciplina del ricorso per cassazione di una norma come quella dell’art. 342 c.p.c. (sebbene nel testo anteriore all’ultima novellazione della norma, che, peraltro, secondo l’opinione preferibile, ha solo esemplificato i contenuti già sottesi al concetto di specificità), diretta a prescrivere la specificità del motivo di ricorso, ha da tempo evidenziato che essa è, in realtà coessenziale alla logica anche del motivo di ricorso per cassazione: si veda, seguita da numerose conformi e comunque espressiva di un principio da numerosissime decisioni espresso in altri modi formali, Cass. n. 4741 del 2005, secondo cui. <<Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorché la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali

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indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156, secondo comma, cod. proc. civ.). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 cod. proc. civ., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo.>>; la stessa decisione aveva affermato l’esigenza di specificità, si badi, anche con riguardo al vizio di violazione di norma del procedimento, risultando così massimata in prosecuzione: <<In riferimento alla deduzione di un "error in procedendo" e, particolarmente, con riguardo alla deduzione della violazione di una norma afferente allo svolgimento del processo nelle fasi di merito, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., il rispetto dell’esigenza di specificità non cessa di essere necessario per il fatto che, com’è noto, la Corte di Cassazione, essendo sollecitata a verificare se vi è stato errore nell’attività di conduzione del processo da parte del giudice del merito, abbia la possibilità di esaminare direttamente l’oggetto in cui detta attività trovasi estrinsecata, cioè gli atti processuali, giacché per poter essere utilmente esercitata tale attività della Corte presuppone che la denuncia del vizio processuale sia stata enunciata con l’indicazione del (o dei) singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale sarebbe stato commesso l’errore di applicazione della norma sul processo, di cui si denunci la violazione, in modo che la Corte venga posta nella condizione di procedere ad un controllo mirato sugli atti processuali in funzione di quella verifica. L’onere di specificazione in tal caso deve essere assolto tenendo conto delle regole processuali che presiedono alla rilevazione dell’errore ed alla sua deducibilità come motivo di impugnazione (Nella specie, poiché si trattava di errore consistente nell’ammissione di asserite prove nuove in appello nonostante un’eccezione di novità, la Suprema Corte ha rilevato che il motivo avrebbe dovuto essere dedotto con l’indicazione sia del momento di allegazione dell’eccezione, sia del mantenimento della stessa fino al momento in cui il giudice d’appello aveva ritenuto in decisione la causa, mentre si era allegato solo il primo momento, deducendosi, in particolare, soltanto di avere eccepito la novità della prova fin dall’atto di costituzione in appello e non anche di avere reiterato l’eccezione dopo l’ordinanza collegiale ammissiva delle prove e di averla mantenuta in sede di precisazione delle conclusioni).>>).

La giurisprudenza ora evocata trova, ai fini della logica motivazionale, il suo referente normativo nel n. 1 dell’art. 375, il quale dicendo inammissibile il ricorso per mancanza di motivi, autorizza, come nel più sta il meno, a dire inammissibile il motivo che è “mancante” perché aspecifico e, dunque, nullo.

Va avvertito che l’esigenza di specificità torna, del resto, nel punto 1 della parte intitolata al principio di autosufficienza, come se fosse un elemento costitutivo di essa: sul problema di questa (apparentemente) doppia rilevanza ci si soffermerà di seguito.

§6.2. La chiarezza e la concentrazione.

Ancorché sia immanente alla specificità, atteso che solo ciò che è specifico rispetto all’oggetto da criticare e, quindi, alla sentenza, può evidenziare chiaramente la volontà di impugnare sul piano

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oggettivo e, dunque, un effettivo motivo di ricorso per cassazione, si deve rilevare che l’esigenza di chiarezza è sottolineata già nelle premesse del Protocollo (pagina 2, rigo settimo).

Se ne deve ricavare questa implicazione: l’esposizione del motivo deve essere chiara, il che consente di predicare l’avallo di quella giurisprudenza consolidata che lega la chiarezza, come del resto a monte la specificità, alla necessaria individuazione della parte di motivazione della sentenza impugnata cui la critica sottesa al motivo si riferisce (Cass. n. 12984 del 2006, seguita da numerosissime conformi e la cui filosofia è espressa anche e comunque da altre numerosissime decisioni con massime di contenuto solo formalmente diverso) e pretende che la critica si correli necessariamente alla motivazione (Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi), ravvisando nell’uno e nell’altro caso l’inammissibilità del motivo.

Anche in questi casi la logica motivazionale può ripercorrere quella relativa alla mancanza di specificità e comunque trova il referente normativo sempre nel n. 1 dell’art. 375 c.p.c.

L’esigenza di chiarezza parrebbe implicare, inoltre, che l’esposizione del motivo, tanto se nella intestazione (che nel modello è da inserire nella parte indicante la “sintesi dei motivi”) sia denunciata la violazione di una sola norma o un solo vizio ai sensi del n. 5, quanto se sia denunciata la violazione di più norme, debba:

1a) nel primo caso (rispettivamente di motivo deducente la violazione di una sola norma o l’omesso esame di un solo fatto decisivo):

aa) contenere un’attività espositiva evocativa in modo chiaro (sarebbe consigliabile tramite espresso riferimento alla norma violata) della violazione denunciata, che faccia cioè comprendere in qual modo la norma sostanziale (nel motivo di cui al n. 3) o del procedimento (nel motivo di cui al n. 4, nonché in quelli di cui ai nn. 1 e 2) è stata violata o falsamente applicata, anche sotto il profilo c.d. del vizio di sussunzione;

bb) contenere l’indicazione e l’identificazione del fatto controverso su cui si sostenga omessa la decisione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

1b) nel secondo caso, che dovrebbe essere limitato all’ipotesi in cui la violazione si sostenga verificata per il congiunto operare di più norme nella specie, contenere l’indicazione chiara della parte espositiva in cui si denuncia la violazione o falsa applicazione di ciascuna.

Non dovrebbe considerarsi chiaro un motivo che pretenda di esporre violazione o falsa applicazioni di norme in modo alternativo o gradato: sembra vietarlo la sottolineatura dell’esigenza di concentrazione. Invero, se bisogna concentrare bisogna concentrarsi su un oggetto bene individuato.

Non dovrebbe considerarsi chiaro un motivo ai sensi del n. 5 che pretenda di denunciare congiuntamente l’omesso esame di più fatti controversi: lettura questa legittimata, del resto, mi pare, da Cass. sez. un. nn. 8053 e 8054 del 2014.

Chiarezza e concentrazione insieme impongono, dunque, qualora si ritengano violate o falsamente applicate norme in via alternativa o gradata, di esporre i relativi motivi separatamente, avvertendo semmai del nesso nella “sintesi dei motivi” (o nel motivo esposto successivamente).

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In buona sostanza si può dire che specificità e chiarezza risultano nel Protocollo una necessaria implicazione della prescrizione della concentrazione dei motivi.

§7. L’autosufficienza ovvero l’art. 366 n. 6 c.p.c.

La parte finale del Protocollo esordisce, sotto l’intitolazione “il principio di autosufficienza”, con l’affermazione che <<il rispetto del principio di autosufficienza non comporta un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti e documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento>> e, quindi, enuncia che il principio può ritenersi rispettato dal concorso di quattro condizioni.

§7.1. Estraneità tendenziale all’autosufficienza delle prescrizioni dei nn. 1 e 4.

Per la verità la proclamazione è eccedentaria, atteso che espressione del contenuto “convenuto”

del principio di autosufficienza sono, stricto sensu, solo le prescrizione del n. 2 e del n. 3.

Quella del n. 1 si riferisce al principio di specificità dei motivi, che si dice genericamente imposto dal codice di rito e non riguarda – nonostante nella giurisprudenza della Corte la si trovi evocata, con impropria commistione, a proposito del requisito dell’esposizione del fatto - l’autosufficienza, ma la tecnica di illustrazione del motivo e ciò a prescindere dal se essa comporti il dover argomentare da atti processuali o documenti (o contratti collettivi).

Certamente, se il motivo si appoggi su considerazioni che suppongano l’esame di essi, si può dire che risulta specifico solo se faccia comprendere anche a quale dei loro contenuti si riferisce l’argomentare, ma è certo pure che si può argomentare da un atto processuale o da un documento (o contratto collettivo) ragionando sul suo contenuto senza indicarlo come invece suppone l’art. 366 n. 6 c.p.c., cioè tramite riferimenti che neppure siano indiretti e relazionati in modo preciso ad essi.

Va avvertito, peraltro, che la prescrizione del n. 1 è comunque importante, perché semmai corrobora ed anzi impone (sebbene non da sola) la chiave di lettura giusta della prescrizione del n. 2.

Nel n. 4 si evoca espressamente l’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., che, inerendo alla produzione di atti processuali, documenti e contratti collettivi, impone non un requisito di contenuto- forma del ricorso, bensì di procedibilità dell’impugnazione.

§7.2. I contenuti delle prescrizioni dei nn. 2 e 3 (…. ovverossia di come essi avallino la c.d.

“autosufficienza buona”).

Dice il punto n. 2 che <<nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo si cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1. n. 6 cod.

proc. Civ.), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o del’accordo collettivo al quale ci si riferisce>>.

Se ne ricava:

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a1) che l’onere deve essere assolto in ciascun motivo <<che lo richieda>>, il che significa che l’articolazione delle considerazioni fondanti il motivo deve ex necesse richiedere che si faccia indicazione dell’atto, etc., e, dunque, deve rivelare essa stessa la necessità di leggere l’atto, il documento, il contratto in parte qua, cioè nella parte che giustifichi tale rilevanza;

a2) il modo di tale indicazione suppone la <<specifica indicazione>> del <<luogo (punto)>>

dell’atto, del documento, del contratto <<al qual ci si riferisce>>.

Apparentemente una prima lettura potrebbe suggerire che basti indicare il punto (la pagina, il rigo) senza preoccuparsi di chiarire a quale contenuto ivi presente ci si voglia riferire. Sicché si potrebbe pensare che si possa discorrere, per esempio della violazione di una norma di ermeneutica contrattuale da parte del giudice di merito oppure di una norma processuale, rispettivamente indicando la pagina ed i righi del primo o il verbale che giustificherebbero l’asserto, senza nulla dire sul contenuto che l’entità cui ci si riferisce abbia. In pratica potrebbe pensarsi che non si debba evocare né direttamente né indirettamente il contenuto dell’atto processuale, del documento, del contratto presente nel punto (luogo) indicato, rinviando alla percezione della Corte di Cassazione la percezione di tale contenuto.

Nulla di più sbagliato: poiché il motivo deve rispettare l’esigenza di specificità e poiché è il motivo che richiede di indicare l’atto processuale, il documento, il contratto, è necessario, quale implicazione dell’esigenza di specificità, che, per fondare il motivo su di essi si enunci chiaramente il loro contenuto e non ci si limiti a rinviare alla lettura del punto (luogo) di esso. L’onere di enunciazione del contenuto rilevante fa parte della stessa attività illustrativa del motivo doverosamente specifica e, pertanto, il Protocollo va necessariamente letto nel senso che contenuto della indicazione specifica di cui al n. 6 dell’art. 366 debba essere:

a2a) o la riproduzione diretta nell’àmbito dell’esposizione del motivo del contenuto dell’atto, del documento, del contratto riguardo alla parte su cui si svolge l’argomentazione, corredata dall’indicazione del punto in cui la diretta riproduzione della parte trovi corrispondenza;

a2b) o la riproduzione indiretta (riassuntiva, dunque) nell’àmbito dell’esposizione del motivo della detta parte del contenuto dell’atto, del documento, del contratto su cui si svolge l’argomentazione, corredata sempre dall’indicazione del punto in cui l’indiretta riproduzione trovi corrispondenza.

Non sembra possibile, dunque, leggere il Protocollo nel senso che abbia inteso espungere la necessità la parte dell’atto, del documento o del contratto, su cui si fonda il motivo, o direttamente o indirettamente.

Ne dà conferma, se ve ne fosse bisogno, il riferimento della premessa all’esclusione di <<un onere di trascrizione integrale nel ricorso>>.

Lo impone, come si è detto, il necessario amminicolo del principio di specificità del motivo: un motivo che si fondi su atti, documenti o contratti non può essere specifico senza indicare nella sua struttura espositiva il contenuto, cioè la parte, di essi da cui si argomenta e, quindi senza riprodurlo direttamente mediante trascrizione della relativa parte oppure senza riprodurlo indirettamente.

L’onere di riproduzione diretta od indiretta della parte che sorregge l’argomentazione non è escluso dal Protocollo, ma anzi è confermato pienamente.

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a3) il requisito del n. 3 della parte del Protocollo di ci si parla riproduce quanto avevano ritenuto implicare l’art. 366 n. 6 c.p.c. dapprima Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e, quindi, le Sezioni Unite, dapprima con la sentenza n. 28547 del 208 e, quindi, con la sentenza n. 7061 del 2010.

Conclusivamente sembrerebbe allora doversi dire che il Protocollo, inteso in questi termini, avalla l’esegesi del n. 6 dell’art. 366 che era stata fatta nel senso della approvazione della c.d.

autosufficienza “buona” (in termini Cass. sez. un. n. 16887 del 2013) e dell’espunzione degli eccessi che richiedevano riproduzioni integrali.

Confina giustamente l’autosufficienza nell’art. 366 n. 6 (norma che ne costituisce il c.d.

precipitato normativo: Cass. n. 7453 del 2013) e giustifica l’esclusione di ogni collegamento di essa con il requisito dell’esposizione del fatto (talvolta presente nella giurisprudenza della Corte ed invocato proprio per giustificare esposizioni assemblate: in termini Cass. (ord.) n. 23337 del 2014 e (ord.) n.

1926 del 2015).

§8. Un’implicazione della prescrizione del n. 4 riguardo all’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.

Nella logica – sempre persuasiva - del Protocollo la previsione del n. 4, là dove impone di allegare gli atti, i documenti, il contratto o il contratto collettivo su cui il motivo si fonda (e di farlo in apposito fascicoletto), implica – peraltro confermando l’esegesi letterale del n. 4 dell’art. 369 c.p.c. - il suggerimento di dover abbandonare la lettura della norma fatta a Cass. Sez. Un. n. 22726 del 2011, nel senso che il ricorrente o il controricorrente si possa esentare dall’onere di produzione di atti processuali contenuti in originale nel fascicolo d’ufficio del giudice di merito, purché rispetti l’art. 366 n. c.p.c. e, quindi,fra l’altro indichi di fare riferimento alla relativa presenza, indicandone la presenza nel detto fascicolo (sempre che abbia richiesto la trasmissione ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c.).

Il Protocollo non sembra consentire più tale interpretazione, per la verità quasi contra legem, che era anche contraria alle esigenze di speditezza, atteso che, se è vero che al ricorrente l’onere di richiedere la trasmissione del fascicolo e della mancata trasmissione egli non è responsabile, si risolveva in un’evidente avallo di ritardi e fra l’altro scontava anche il fatto che, se l’atto processuale fosse stato contenuto nel fascicolo di primo grado, nessuna certezza vi era dell’acquisizione del relativo fascicolo nel giudizio di appello (stante l’omessa previsione di nullità in caso di inadempimento dell’obbligo di cui al secondo comma dell’art. 347 c.p.c.).

Se dunque l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, ora ribadito dal punto 4 del Protocollo, risulti inadempiuto, ne dovrebbe derivare l’improcedibilità del ricorso, senza che essa posa superarsi se il fascicolo d’ufficio è pervenuto e senza che possa superarsi se l’atto o il documento o il contratto siano stati prodotti ex adverso.

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