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Australia: Terra Australis Incognita 1. Considerazioni preliminari.

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4 CAPITOLO PRIMO

Australia: Terra Australis Incognita

1. Considerazioni preliminari.

We have tended, when thinking as 'Australians', to turn away from difference, even to assume that difference does not exist, and fix our attention on what is common to us; to assume that some general quality of Australianness exists, a national identity that derives from our history in the place and from the place itself. But Australians have had different histories. The states have produced, I would want to claim, very different social forms, different political forms as well, and so far landscape and climate is concerned, Australia in not one place1.

Nell’immaginario collettivo degli Europei occidentali, probabilmente ad eccezione della popolazione britannica, l’Australia si configura come un paese lontano, molto distante, più remoto di quanto conferma l’effettiva distanza geografica, che pure è indubbiamente grande. A questa singolare percezione di lontananza concorrono vari fattori: l’Australia non è soltanto un paese transoceanico, come gli Stati Unti o il Canada, ma anche un paese dell’emisfero opposto al nostro. Si potrebbe obiettare che tale è pure la condizione dell’Argentina; ma, a parte il fatto che essa è effettivamente meno distante ed è bagnata dallo stesso mare che interessa l’Europa, l’Argentina è stata meta di una massiccia emigrazione, genericamente sudeuropea, che l’ha resa culturalmente vicina; l’emigrazione in Australia non è certo mancata, ma è stata assai più tardiva e molto meno intensa.

L’Australia, insomma, è rimasta a lungo nell’immaginario comune, e in buona parte rimane tuttora, una terra agli antipodi, toccata da oceani per noi noti solo attraverso la letteratura, o per le nozioni di geografia che si apprendono sui banchi di scuola: una terra che con noi ha poco da spartire, un “altrove” ancor più lontano dell’Estremo Oriente, un’anticamera delle fascinose e ignote isole del mondo oceanico. In definitiva, le si potrebbe ancora attribuire quel dotto nome di Terra Australis Incognita, con il quale nel Cinquecento e nel Seicento si indicavano

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5 ipotetici spazi geografici meridionali non ancora acquisiti dalle conoscenze europee. Singolari, e almeno all’apparenza contraddittorie, sono molte peculiarità dell’Australia. Anzitutto, è da notare il contrasto tra le dimensioni territoriali e quelle demografiche; la sua immensa superficie le assicura per estensione il sesto posto tra le nazioni più grandi del globo, nettamente al di sotto della Federazione Russa, ma a un passo di distanza da altri “giganti” come il Canada, la Cina, gli Stati Uniti e il Brasile. L’Australia, però, non si annovera nemmeno tra i primi cinquanta stati per numero di abitanti, superata da moltissimi paesi, sparsi in tutti i continenti. Si dica pure in tutti gli altri continenti, perché l’Australia è essa stessa, a sua volta, un continente: sia anche il più piccolo, dalle assai modeste dimensioni rispetto agli altri, ma un continente in piena regola, con caratteristiche fisiche che sono alla base della natura continentale, come la forma massiccia e il contorno ben individuato (pertanto sarebbe riduttivo definirla, come talvolta si è detto e scritto, un’“isola-continente”). Peculiare dell’Australia, e solo dell’Australia, è poi il fatto che l’unità fisica coincide con l’unità politica: un unico grande stato federale occupa il continente, anzi, per la precisione, ne supera i confini, comprendendo anche l’isola di Tasmania, all’estremità sud-orientale. Dunque non un’isola-continente; ma, questo sì, uno stato-continente.

Scarsamente popolata (appena due abitanti/kmq), l’Australia, accanto alle sue vastissime zone aride, povere di insediamenti o addirittura quasi del tutto estranee all’intervento dell’uomo, ne possiede una, corrispondente alla sua estrema parte sud-orientale, dove fortunate condizioni climatiche e naturali hanno consentito e poi favorito un’intensa utilizzazione di risorse agricole e minerarie, la nascita di sempre più vaste agglomerazioni urbane risultanti infine in una straordinaria concentrazione demografica. Tutto ciò è il risultato di una colonizzazione europea ‒ ma si dovrebbe dire britannica ‒ tardiva2, colonizzazione destinata sin dai suoi

2 Non è noto con esattezza chi, fra i tanti navigatori europei avventuratisi fin dal sec. XVI al di

là dei mari di Giava, sia stato il primo a mettere piede sul continente australiano. Tuttavia, nella scoperta del nuovo continente, un posto di rilievo lo hanno avuto Portoghesi prima e Spagnoli poi, ben presto soppiantati dagli Olandesi. Grazie alle conoscenze fornite da questi, l’esplorazione britannica fu senza dubbio facilitata, e in quest’impresa si distinse il navigatore e cartografo inglese James Cook, primo europeo a raggiungere la località dell’attuale Sidney nell’agosto del 1770, di cui prese possesso in nome dell’allora re d’Inghilterra Giorgio III di Hannover.

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6 esordi a rispondere ad una particolare esigenza: quella di una struttura penale. Nell’albero genealogico degli australiani bianchi figurano carcerati che, lungo vari decenni, furono deportati per decongestionare le carceri inglesi; un’origine, questa, sulla quale si potrebbero tessere facili e non generose ironie, ma che, di fatto, è il seme della crescita di un paese che ha saputo evolversi, svilupparsi e conquistare una propria identità culturale, benché in stretta consonanza con la civiltà britannica.

Che l’Australia “bianca” sia stata una “creatura” della Gran Bretagna è indiscutibile, ed è altrettanto indiscutibile che lo sia rimasta molto a lungo. Solamente quattro paesi in tutto il mondo, tra quelli, comprensibilmente numerosissimi, di colonizzazione inglese, hanno costituito a lungo delle vere e proprie appendici, o delle proiezioni, della madrepatria in continenti extraeuropei (lo prova, in particolare, il fatto che vi si sia diffusa e pressoché totalmente conservata, sia pure con una propria evoluzione, la lingua inglese). Questi paesi sono l’Australia stessa, la vicina Nuova Zelanda, gli Stati Uniti e parte del Canada. Occorre precisare, però, che gli Sati Uniti imboccarono presto una fortunata strada che li ha condotti a divenire uno dei protagonisti della storia mondiale e poi addirittura una potenza globale, strada resa percorribile dalla pianificazione politica, dalle immense ricchezze del loro territorio e dalla loro sostanziale, sebbene talora incontrastata, apertura al dialogo multiculturale. Il Canada, cui l’Australia sotto certi aspetti rassomiglia nonostante la posizione quasi simmetricamente opposta e parecchi caratteri fisici differenti, si profila anche come risultato di una minoritaria (ma tutt’altro che irrilevante) colonizzazione francese e, inoltre, è stato condizionato dalla vicinanza agli Stati Uniti, alla cui influenza si è fattivamente sottratto. Al contrario, i restanti due paesi dell’emisfero meridionale, ma con modalità più incisive l’Australia, hanno saputo conservare molto a lungo, e con straordinaria intensità, i legami con la terra d’origine.

L’Australia è divenuta “inglese” due secoli fa, nel corso dei quali si è trasformata in un paese di fatto indipendente, mantenendo però stretti rapporti politici, economici e culturali con la Gran Bretagna. È dovuto trascorrere quasi un altro secolo perché si cominciasse a delineare un orientamento diverso, con un lento e

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7 graduale distacco dalla madrepatria. Fino a tempi a noi molto vicini, senz’altro fino ai tre quarti del sec. XX, l’Australia ha continuato a privilegiare l’immigrazione britannica ed irlandese, a danno di quella dai paesi europei mediterranei prima, e da quelli dell’Asia sud-orientale e dell’Oceania poi, restando uno dei pochi membri del Commonwealth effettivamente legati da relazioni commerciali molto intense con il Regno Unito, nel quale affluiva la maggior parte delle principali esportazioni di prodotti agricoli, d’allevamento e minerarie. L’autonomia si è andata manifestando in linea con i profondi cambiamenti che hanno caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ovvero una sempre più preminente egemonia statunitense, il consolidamento del Giappone come vicina potenza economica, la nascita di nuove realtà industriali nell’Asia orientale e le rotte mercantili dell’Oceano Pacifico. Si allentarono così i vincoli con la Gran Bretagna, tanto da arrivare, nel 1999, a indire un referendum per la scelta dello statuto repubblicano, referendum che, se avesse avuto esito positivo, avrebbe rescisso quello che probabilmente è l’ultimo importante simbolo della Britishness extraeuropea: la monarchia parlamentare federale e la sudditanza degli Australiani al sovrano del Regno Unito.

Lo stato australiano, consapevole delle sue vaste dimensioni fisiche, e ormai anche economiche, nonché dell’importanza che la posizione geografica riveste nelle sue relazioni internazionali, è altresì alla ricerca di un ruolo attivo. Ricerca che, come si vedrà, assume le forme di un imperativo e risponde all’esigenza sociale di definirsi, trovare una collocazione autonoma. C’è da dire, peraltro, che forse tale collocazione non le è ancora del tutto chiara; e che forse, paradossalmente, il paese non sa quale sia da considerare la “propria” area. Probabilmente, tale mancanza di chiarezza sugli obiettivi da perseguire e sulle politiche da adottare è dovuta all’evoluzione incredibilmente rapida della società contemporanea, che ha trovato il paese alquanto impreparato ai cambiamenti, restio ad abbandonare idee e pregiudizi che riaffiorano spesso, soprattutto quanto si tratta di affrontare seriamente problemi pressanti come quello dei rapporti con le popolazioni aborigene o quello dell’immigrazione. L’Australia è un giovane paese cresciuto troppo in fretta, si potrebbe pensare, e la stessa tensione che si percepisce nella sua

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8 evoluzione storica la si rinviene nella sua storia letteraria, caratterizzata da uno slancio ed una propensione continui, tesi a dare nuovi volti e voci al paese, senza però allontanarsi mai troppo da determinati canoni. Del resto, il continente australiano per sua stessa natura è un paese agli antipodi, agli estremi, non del tutto omologabile alle dinamiche e alle convenzioni socioculturali di stampo e a matrice europei. I binarismi che ancora oggi contrassegnano la nostra forma mentis trovano in questa terra un campo di sfida, nuovi paradigmi e sfumature che l’Australia mostra a chi vi si approccia. Negare una visione che contempli nuove aperture significa dunque non riconoscere ‒ e non rispettare ‒ la natura variegata dei territori australiani, la cui storia è stata plasmata dalla tirannia della distanza, l’overseas, l’Oltremare che si traduce in un concetto ricorrente nella cultura e nella sensibilità di chi vi risiede. L’Australia, naturalmente, non disponeva in origine di una propria tradizione culturale, una propria storiografia scritta; la letteratura di riferimento fu a lungo tempo quella inglese, anche a scapito del patrimonio orale aborigeno, che oggi sta riemergendo con impeto3.

Gli esordi della storia australiana si manifestarono, così, all’insegna di una tensione tra il “qui” e “l’altrove”, tra l’Europa e la frontiera periferica ed insulare in cui si giocava la sfida di una nuova vita. Questa tensione non è mai stata completamente risolta: immagini di arrivi e partenze, di porti e orizzonti, con riflessioni che scaturiscono dalla dialettica tra un’identità locale o nazionale e il background europeo sono infatti temi topici e ricorrenti nella letteratura australiana anglofona. Se, per molto tempo, l’Australia è stata l’ultima frontiera del colonialismo e dell’imperialismo economico e culturale occidentale, anche qui, come negli Stati Uniti d’America, esiste una frontiera interna, oltre la quale si

3 La questione che vede protagonisti l’Australia e i rapporti intrattenuti nel corso dei secoli con

le popolazioni aborigene costituisce ancora oggi un aspetto che richiede una certa cautela per il ritardo con cui le istituzioni hanno rivolto la loro attenzione a tali tensioni sociali. Si tenga presente che risale solo al 1992 la sentenza che sancì definitivamente il declino del principio di terra nullius, istituito nel 1788 e che permise ai colonizzatori di parificare i territori australiani a terre disabitate. I giudici della High Court riconobbero che l’annessione ai territori del Commonwealth non aveva estinto i diritti di proprietà tradizionale degli aborigeni e che, se questi fossero stati dimostrabili, la legge avrebbe dovuto riconoscerli. Questa legittimazione, naturalmente, fu raggiunta anche grazie ad uno nuovo clima culturale che, già a partire dagli anni Sessanta, cominciò ad attingere e a riscoprire il patrimonio culturale aborigeno, contribuendo così a diffonderlo e a rendere il comune sentire più permeabile e sensibile.

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9 profilano aree immense, completamente disabitate o quasi, talvolta ancora inesplorate. L’outback (gli immensi altopiani, i deserti, le alture brulle ed aride), il grande spazio vuoto, è per certi versi la cifra caratterizzante delle due maggiori nazioni che si affacciano sul Pacifico. Agli occhi di un europeo, un viaggio in queste zone è stato un’occasione per esprimere “il niente e il nessuno”; perfino i segni della presenza umana sono rari e discreti: viottoli, piste, staccionate, tralicci di legno per l’energia elettrica; la stessa strada è un “evento” nei quadri paesisti del bush australiano, cui si aggiunge l’immenso cuore desertico, identificato nell’immaginario collettivo dal landmark dell’Ayers Rock. I paesaggi sono maestosi e variegati, con una natura imponente che impressionò fortemente i primi coloni chiamati a misurarsi con la sua dominante presenza. L’ambiente naturale era spesso, ai loro occhi, non soltanto ostile all’insediamento e alle attività umane, ma anche inquietante e misterioso. Ecco allora la messa in atto di tutta una serie di strategie per tramutare in “familiari” quei paesaggi antipodali: l’acclimatamento di specie animali e vegetali europee, il disboscamento massiccio, le bonifiche, il tentativo di replicare elementi del paesaggio agrario britannico, il ricorso all’esplorazione, alla pianificazione cartografica, alla denominazione, attingendo a piene mani a toponimi noti per rendere quelle terre meno estranee.

Nel contesto di questa natura maestosa e scarsamente umanizzata ha preso forma uno dei miti più radicati nella letteratura e nell’immaginario austro-neozelandese: il mito dell’uomo solo, figura eroica, nella quale confluiscono il pioniere, l’esploratore e l’allevatore di frontiera; è un eroe solitario, che tuttavia non disdegna la vicinanza di compagni nei confronti dei quali la sua lealtà e solidarietà sono assolute. La mateship, concetto affine al cameratismo e alla solidarietà maschili, non è solo un luogo comune letterario, ma una realtà profondamente radicata nelle società australiana e neozelandese: in essa si ritrova la traccia dell’“egualitarismo di elezione” tipico delle civiltà di pionieri, dove è naturale che si sviluppi un forte senso di comunità e condivisione, soprattutto tra uomini della stessa origine ed etnia. D’altro canto, la natura e i grandi spazi degli antipodi erano percepiti anche come una risorsa: l’Australia rappresentò per i primi coloni la possibilità di fondare una civiltà di matrice culturale anglosassone, ma idealmente sanata rispetto ai

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10 grandi mali sociali della Gran Bretagna di allora. L’abbondanza delle risorse naturali e di sterminati spazi, unita alla libertà di movimento, divennero nel migliore dei casi sinonimo di magnifiche opportunità per un individuo volenteroso e capace, che volesse acquisire competenza ed indipendenza. Qui non si richiedevano privilegi di nascita, di preparazione scolastica, o di conoscenze, né di un capitale di partenza: i requisiti necessari erano piuttosto qualità quali la disciplina, la dedizione al lavoro, la perseveranza, la buona volontà.

Come è ovvio, fin dall’inizio del periodo coloniale4, la realtà in vari casi acquisì tratti diversi rispetto a quest’immagine utopica. Eppure, quella mitologia deve essere stata un potente catalizzatore di identità, se, ancora oggi, molti Australiani sottolineano il proprio stile di vita aperto e frugale, salutare, semplice, libero da molti paludamenti di natura sociale assai diffusi, invece, altrove. I discendenti di quei coloni credono ancora che ciò che distingue il loro paese sia la libertà dalla deferenza sociale e dal servilismo, dagli odi di classe e dallo snobismo, dalle convenzioni, dalle rigidità. Insomma, parrebbe sussistere in larghi strati della popolazione un’etica egualitaria che deriva dal passato pionieristico, anche se l’edonismo, l’individualismo e il materialismo, modellati su certi tratti della cultura popolare statunitense, tendono a erodere questo spirito. Indubbiamente, queste premesse si coniugano all’immagine di una società in cui l’individuo appare come artefice del proprio destino, proiettandosi nel modello del self-made man. Non può tuttavia non emergere una profonda lacerazione che attraversa tutta la storia moderna e contemporanea del continente australiano: il rapporto con le popolazioni aborigene, alle quali solo in funzione di un referendum abrogativo del 1967 venne riconosciuta la piena cittadinanza, eliminando due articoli5 dalla Costituzione del

4 Nonostante nel 1770 Cook avesse rivendicato la sovranità della Corona britannica su tutta la

costa orientale dell’Australia (battezzandola col nome di New South Wales), dovettero trascorrere diciassette anni prima che la sua dichiarazione si concretizzasse: fu infatti nel maggio del 1787 che la prima flotta, composta da undici navi con un carico di 1450 persone, di cui metà galeotti, salpò da Portsmouth per approdare a Botany Bay nel gennaio dell’anno successivo. Questa prima esplorazione segnò una svolta nella storia della regione, non solo perché avrebbe trasformato il porto in un punto d’appoggio, ma anche perché sancì l’inizio di due tendenze complementari che avrebbero predominato sulla storia della regione nel secolo XIX: la crescita straordinariamente rapida delle nuove società coloniali, e il drastico declino demografico della popolazione indigena. 5 Gli articoli cui si fa riferimento erano il 51 e il 127. Il primo stabiliva che il governo federale

potesse emanare leggi ad hoc per le tutte le minoranze etniche residenti sul territorio, come i lavoratori prelevati dal sudest asiatico e i pescatori di perle giapponesi, escludendo però gli

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11 1901, quando tutti gli stati del New South Wales, Victoria, Tasmania, Southern Australia, Western Australia e Queensland avevano costituito una federazione.

Nei primi decenni del sec. XX, quasi tutti gli stati australiani adottarono misure intransigenti che, se miravano a proteggere le popolazioni indigene, in realtà, finirono per segregale in modo definitivo. Molti gruppi vennero costretti a vivere in riserve, amministrate da missionari o ufficiali statali, in cui vigeva un vero e proprio regime di segregazione razziale: fu tolta loro la libertà di movimento, la loro corrispondenza veniva controllata dalle autorità che gestivano, fra l’altro, i salari delle donne impiegate come domestiche presso le famiglie bianche e i salari degli uomini impiegati nell’agricoltura e nella pastorizia. I vari stati della federazione si erano inoltre arrogati il diritto di sottrarre i bambini indigeni alle loro famiglie6 a fronte di un incremento del tasso di natalità, ritenuto eccessivo, soprattutto nelle riserve amministrate da missionari cristiani, dove le cure sanitarie unite alle opportunità scolastiche e lavorative erano generalmente migliori di quelle offerte negli insediamenti gestititi dallo stato. Ad aumentare, però, furono soprattutto i meticci, la cui esistenza induceva a confrontarsi con uno dei tabù più rigidi della società australiana, ossia le unioni interrazziali. Una componente di razzismo scientifico vedeva nella permanenza di bambini dal “sangue bianco” presso le comunità native un pericoloso errore, una condanna al degrado e all’abbruttimento; occorreva, per il loro stesso bene, affidarli a “rispettabili” famiglie bianche.

Il risultato di queste politiche fu quello di aprire una ferita che non si è ancora rimarginata del tutto, le cui gravi implicazioni sono emerse in modo lampante solo nell’ultimo decennio. Di straordinaria efficacia sono state le parole dell’allora neo-eletto Primo Ministro Kevin Rudd (in carica dal 2008 al 2010), che per la prima

Aborigeni, e dunque non riconoscendoli come etnia; il secondo articolo escludeva gli indigeni australiani dal calcolo della popolazione in occasione dei censimenti. Nel documento fondante della nazione, questi erano gli unici riferimenti agli Aborigeni, entrambi in senso negativo.

6 Il dato storico cui si accenna è noto come la “Generazione Perduta” (ing. Stolen Generation),

nome con cui si indicano tutti quei bambini aborigeni australiani ed isolani dello Stretto di Torres che furono allontanati dai rispettivi nuclei familiari. Avviati nel 1869, gli allontanamenti forzati si protrassero fino al 1969; lo scopo era quello di eliminare nel tempo testimonianze incisive di quella cultura.

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12 volta esprimono un reale sentimento di cordoglio e pentimento per i soprusi e gli abusi che le popolazioni aborigene hanno subito nel corso di decenni:

Today we honour the indigenous peoples of this land, the oldest continuing cultures in human history. We reflect on their past mistreatment. We reflect in particular on the mistreatment of those who were stolen generations ‒ this blemished chapter in our nation's history. The time has now come for the nation to turn a new page in Australia's history by righting the wrongs of the past and so moving forward with confidence to the future. We apologise for the laws and policies of successive parliaments and governments that have inflicted profound grief, suffering and loss on these our fellow Australians. We apologise especially for the removal of Aboriginal and Torres Strait Islander children from their families, their communities and their country. For the pain, suffering and hurt of these stolen generations, their descendants and for their families left behind, we say sorry. To the mothers and the fathers, the brothers and the sisters, for the breaking up of families and communities, we say sorry. And for the indignity and degradation thus inflicted on a proud people and a proud culture, we say sorry7.

Fu solo a partire dal 1945, con la diffusione della cultura dei diritti umani e il processo di decolonizzazione, che si crearono le condizioni propizie perché il dramma degli Aborigeni venisse preso in maggiore considerazione. Di fronte ad un’opinione pubblica internazionale sempre più sensibile a tematiche quali le discriminazioni razziali, non fu più difendibile la posizione di una nazione che giudicava gli Aborigeni adatti a combattere ‒ e a morire ‒ in entrambi i conflitti mondiali, ma, contemporaneamente, alieni dal diritto di votare per il governo del proprio paese o dal godere dei comuni diritti di cittadinanza. Ispirate dalle campagne internazionali contro l’Apartheid e dalla lotta per i diritti civili degli afro-americani, le organizzazioni pro-aborigeni acquisirono maggiore coesione nel corso degli anni Sessanta, tanto che nel 1963, in quasi tutti gli stati australiani, il diritto di voto fu esteso alla popolazione aborigena e, nel 1965, un decreto legge stabilì che la paga dei lavoratori aborigeni dovesse essere parificata a quella di ogni altro lavoratore. Non sarebbe più stato, così, legale retribuirli con pochi scellini o in natura con farina, thè, zucchero e tabacco. Oggi si è finalmente compreso che quella del 1967 fu una vittoria soprattutto da un punto di vista simbolico. C’era molta

7 Il discorso fu pronunciato a Sydney il 13 febbraio 2008, in occasione delle elezioni che videro

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13 ingenuità in chi pensava che sarebbe stato sufficiente eliminare un paio di articoli dal testo della Costituzione per risolvere i problemi causati da molti decenni di discriminazioni, razzismo e di difficile convivenza tra due culture radicalmente diverse. Le nuove sfide non potranno che concentrarsi anche sui risultati concreti: l’immagine dell’aborigeno tribale, in sintonia con la Madre Terra, ieraticamente immerso nel “Tempo del Sogno”, strizza ormai l’occhio solo ai turisti, ma è ben lontana da una realtà socialmente ibrida, fatta di interconnessioni e costruita sui principi di integrazione.

In conclusione, l’Australia è da concepirsi come un paese dai molteplici volti, talvolta inconciliabili, se non al costo di una sorta di annullamento ed omologazione delle identità, per le quali occorre invece mantenere un equilibrio tra il given ed il chosen8. Essere australiani significa pertanto avere esperienza di una perenne conflittualità tra miti fondanti e il bisogno di conferire nuovi volti al paese, cosìcche il chosen non sia soffocato dal given. Inserito in tale prospettiva, l’intellettuale australiano deve misurarsi, e quindi anche dare spazio a più antinomie di quante non lo investano come persona; dovrà tentare esplorazioni sempre più ampie e funamboliche del proprio orizzonte personale o domestico9. È a questo punto che la questione dell’identità di ciascuno assume i contorni e le dimensioni di una convergenza più grande, inscindibile da quella del luogo e delle sue tracce ultrasecolari.

2. Esordi letterari e rapporto con il canone europeo.

In Australia, dunque, la voce del singolo parrebbe far eco a quella del luogo e viceversa, come se tra uomini e terra vigesse una sorta di complementarità da cui affrancarsi del tutto significherebbe sottrarsi a un processo di ricerca ed affermazione di identità. I luoghi sono dunque depositari e custodi di storie nella stessa misura in cui lo sono le persone; pertanto, le due dimensioni non possono

8 P. Spinucci, Un poeta australiano: David Malouf, Roma, Bulzoni Editore, 1985, p. 12.

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14 essere in alcun modo svincolate l’una dall’altra. Entrambe costituiscono gli estremi di quello slancio dialogico di cui la letteratura australiana si nutre:

Literary geography is the complementary dimension to literal history, as space is in the other side of time. Although literary scholars have tended to be wary of geography […] and have constrained themselves to rather innocent comments on 'landscape', which is immediately subsumed in other aesthetic, psychological or political consideration, historians and geographers have long used imaginative literature as a chief source of documentation for the way human beings through ages have perceived their environment10.

Orientarsi all’interno di quel che costituisce il patrimonio letterario dell’isola-continente e “maneggiarne” i contenuti significa tenere in considerazione gli assetti e le geografie, così come anche le dinamiche delle periodizzazioni che si riscontrano nelle storie letterarie cui noi Europei siamo abituati, che altrove suggerirebbero scadenze e successioni di tempo intuibilmente riconoscibili. Qui, tuttavia, certe categorie trovano una difficile applicazione: in Australia, infatti, fenomeni quali Romanticismo, Realismo, Simbolismo, Surrealismo, Modernismo si sono succeduti o integrati a ritmi così ravvicinati da ribaltare i nostri abituali schemi di comprensione e collocazione temporale. Ad uno sviluppo accelerato deve poi sommarsi una mancata sincronia rispetto all’asse temporale in cui, su larga scala, si sono collocati tali orientamenti letterari: pertanto, impiegare una certa terminologia critico-letteraria non soltanto risulterebbe fuori tempo rispetto all’Europa, ma persino fuori formula, laddove venisse applicata al contesto australiano. Il rischio di incorrere in una suddivisione impropria è più alto nella letteratura australiana, poiché ogni scrittore ha qui generalmente in sé una componente romantica e sperimentalista, realista e simbolica allo stesso tempo, e talvolta in queste convergenze riecheggiano più voci all’unisono11.

La concentrazione che caratterizzò il processo di formazione del panorama culturale e letterario australiano bianco è un concetto chiave di riferimento per chiunque voglia comprendere gli orizzonti entro i quali la fisionomia degli esordi

10 M. Leer, “Imagined Counterpart: Outlining a Conceptual Literary Geography of Australia”, in

Giovanna Capone (ed.), European Perspectives – Contemporary Essays on Australian Literature, A Special Issue of Australian Literary Studies, XV, 2, 1992, p. 3.

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15 si è inserita. È falsa infatti la prospettiva in base alla quale la poesia australiana avrebbe avuto almeno un secolo e mezzo per nascere e consolidarsi, ossia un arco temporale ritenuto abbastanza lungo per maturare, affermarsi e riconoscersi in un’identità culturale. In realtà, i tempi sono stati molto più stretti di quanto si possa ritenere12: benché nei decenni centrali del sec. XIX siano emersi autori di un certo rilievo, essi appartengono ad una fase ‒ in un certo senso ‒ arcaica della storia letteraria della nazione. In loro si colgono rari tentativi o accenni di costruzione identitaria che non siano dominati e, talvolta, schiacciati da quella exile consciousness che, naturalmente, non poté non incidere pesantemente sui toni, le forme ed i contenuti. Il primo superamento di questo sentire ebbe luogo soltanto verso la fine del sec. XIX, anche se in modo poco percettibile: non si sottovaluti il fatto che, per quasi tutto il corso di tale secolo, la fedeltà e la “devozione” alla tradizione britannica, anche e soprattutto in ambito culturale, alimentò negli australiani bianchi un sentimento di fiera appartenenza che, ai loro occhi, costituiva inevitabilmente (e comprensibilmente) l’unico passato cui potevano far riferimento, l’unico mezzo espressivo. La poesia inglese non era uno dei tanti generi la cui conoscenza era segno denotativo di una certa cultura ed estrazione sociale, bensì la “poesia” per antonomasia, il veicolo supremo con cui esorcizzare il disagio della lontananza e l’amarezza del proprio esilio.

Focalizzandoci sulla fase più propositiva, ricordiamo che la pubblicazione, nel 1845, del volume di sonetti Thoughts, a Series of Sonnets, segnò una data importante nell’evolversi della poesia australiana. Da un lato, la raccolta cominciò a siglare il tramonto dell’influsso dei poeti inglesi del Settecento e l’emergere di quello più creativo dei romantici (soprattutto Wordsworth); dall’altro, testimoniò la presenza dell’autore del volume: Charles Harpur (1813-1868), di estrazione anglo-irlandese. Questi seppe declinare magistralmente il contesto letterario da cui prese le mosse, introducendo ex novo immagini e simboli che istituivano un’armonia profonda ed un’intima unione con la realtà locale, anche se filtrati da un’aura che celebrava il patrimonio culturale britannico.

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16 A fronte di un’evoluzione, si manifestano però anche pause e fasi di stallo, oscillazioni tra ancoraggi al noto e slanci verso la modernità, una tensione tra sentimenti nazionalisti e desiderio di affermare nuove istanze. Questo movimento oscillatorio, che si rinnovava ogni qualvolta lo spirito poetico australiano tentava di stabilire un contatto con le voci europee che, di volta in volta, si susseguivano, non consente di tracciare un divide netto tra la fase “coloniale” della scrittura e quella più propriamente “australiana”. Il sentirsi australiani, in altri termini l’ Australianness, fu percepito fin dagli inizi dello scorso secolo come una condizione di sofferto distacco dal paradigma britannico; “l’idea di essere un’appendice era assai meno problematica e complessa di un’identità ancora tutta da ricercare”13. Ad una morfologia letteraria che si fonda, almeno agli esordi, su meccanismi di consolidamento prima, e di affrancamento dalla tradizione poi, corrisponde la rappresentazione di una geografia fisica che sembra confermare questa dialettica: un processo i cui estremi vengono percepiti in termini di “centro” e “periferia”, ma dove la logica aristotelica ‒ che caratterizza la forma mentis europea ‒ viene meno. Qui non risulta più sufficiente categorizzare, ma occorre adottare una visione più elastica e plurivalente, in cui le differenze, gli antipodi e i margini vadano insieme a sostituirsi al concetto di “centro”:

Both of Stead’s literary maps are anthologies of stock geographical images and epithets of Australia, which tend to cluster round two main coordinates. The older of these is the idea of Antipodean inversion, […] which seemed to be confirmed by the reverse seasonal pattern of Southern Hemisphere and peculiarities of Australia flora and fauna. The other coordinate of images grew from the progress of inland exploration. It sees Australia essentially in terms of centre and periphery, as a circle both alluring and impenetrable, a succession of zones from the habitable rim to the riches and/or barrenness of the Centre […]14.

È poi doveroso precisare che i territori dell’isola-continente suscitarono ed esercitarono sui primi coloni l’impellente bisogno di “giustificare” la propria esistenza, semplicemente perché, a differenza che altrove, quella terra sembrò apparire sulle carte geografiche, senza che nessuno avesse pianificato di cercarla15.

13 Ivi, p. 11.

14 M. Leer, op. cit., p. 2.

15 Si vuole qui porre in evidenza quale fosse il sentimento che animava i primi esploratori europei

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17 Le incertezze che derivavano dalla percezione dall’assenza di confini ben delimitati (anche e soprattutto geograficamente) ebbero un impatto considerevole sugli animi dei primi coloni, poiché li costringevano ad un confronto ancor più diretto con il contesto: “Australian culture and literature […] have been centrally concerned with a process of 'coming to terms'”16.

3. Il costruirsi di un’identità letteraria.

La tensione tra due polarità perdurò sino verso la fine dell’Ottocento, quando nel paese si registrò un’accelerazione decisiva nel processo di costruzione di un’identità letteraria australiana. Centrale fu il ruolo della rivista The Bulletin, periodico fondato a Sydney nel 1880 da Jules François Archibald (1865-1919), che si dichiarò sin dall’inizio pronto ad accogliere testi letterari purché preferibilmente brevi, capaci di rivolgersi ad un vasto pubblico e aderenti a temi e aspetti della vita australiana. Archibald, con questa rivista, intendeva sostituire alla exile consciousness una letteratura veramente e propriamente australiana, incoraggiando ad esempio gli scrittori di ballate e pubblicando un gran numero di racconti. Non è questo il luogo per soffermarsi a lungo sul ruolo e l’impatto che The Bulletin ebbe nell’evoluzione del gusto e del codice letterario; sarà però opportuno ricordare che i suoi effetti possono essere paragonati, in un qualche modo, al Trascendentalismo statunitense di Ralph Waldo Emerson, sebbene in Australia tale fervore non sia stato seguito da una vera e propria rivoluzione culturale17. A trarne il maggiore vantaggio fu il genere della short story, che assunse i tratti e i precisi contorni di un crudo reportage sulla condizione umana al cospetto di una natura sterminata ed ostile, facendo così emergere il versante meno appetibile dell’avventura e dei viaggi

isole che gravitano attorno al contesto australiano, di poche fu tracciata con precisione la mappa, e le scoperte effettuate non ebbero alcun seguito. Fino al tardo sec. XVIII le tecniche di navigazione europee erano imperfette e il primo grande risultato del progresso tecnologico, accompagnato dall’enorme espansione delle attività esplorative, si registrò a partire dal decennio 1760-1770, grazie al perfezionamento dei cronometri e delle tecniche di navigazione. Il capitano James Cook fu incaricato dalla Royal Society nel 1769 di determinare se le regioni precedentemente rilevate ‒ l’Australia occidentale, la Nuova Guinea, la Tasmania e la Nuova Zelanda‒ fossero o meno le propaggini di un’unica massa terrestre.

16 M. Leer, op. cit., p. 4.

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18 d’esplorazione. Elementi connotativi furono qui la tragedia e, al contempo, un velo di ironia:

[…] our attention has been turned to the sometimes desperate, sometimes ironical way in which explorers applied the preconceived names of features like 'hill' or 'river' to a landscape in which these categories had practically no meaning. Placenames can be read coherently as a text, speaking in different modes of meaning (descriptive vs. associative naming) of different philosophies, political ideologies and personalities18.

Fu comunque grazie a questo filone che il bush e l’outback, il senso di solitudine e la miseria che caratterizzarono le prime fasi del “Down-under”, entrarono a far parte dell’immaginario australiano, che in ambito poetico trovò una modalità espressiva nelle bush-ballads19:

The bush has its history, which is that of Australia. The bush is not a fixed place. A country that one can describe on a map, it is a place in movement, almost a state of things: the meeting ground of unspoilt nature modern men. And the busmen are therefore the vanguard of Australia. It is in the bush, too, that the individual life of the Australian is most characteristic, and lends itself best to literary interpretation20.

C’è da dire, però, che la poetica del bush diede immediatamente vita ad altri stereotipi e visioni filtrate dal sentimentalismo, finendo per sfociare in una “ripetitività complessiva che era persino più accentuata che non in altre forme poetiche tradizionali”21. In particolar modo, tra le immagini più tipicamente evocate dalle bush-ballads, quella del self-made man finì col perdere i forti tratti realistici che la contraddistinsero fin dagli esordi, a vantaggio di una visione più edulcorata e meno ostile nei confronti del contesto geografico. Questo cambio di prospettiva

18 M. Leer, op. cit., p. 8.

19 Le bush-ballads appartengono al patrimonio culturale australiano e costituiscono una

testimonianza del profondo e complesso legame tra uomini e ambiente, oltre ad essere un genere fortemente connotato in quanto prima espressione di tutti quei detenuti o fuggiaschi ‒ i convicts ‒ che si ritrovarono improvvisamente in un luogo a loro del tutto estraneo. Il termine “bush” indica infatti, in senso stretto, la regione stepposa e cespugliosa dell’interno, che qui funge da catalizzatore di tutti quei sentimenti di nostalgia e, talvolta, malinconia, che albergavano in chi si fosse trovato relegato in quei luoghi inospitali. Le ballate, tipicamente orali, mostrano i tratti della canzone rimata dai toni e dai contenuti popolari: caratteristiche sono tematiche quali il rapporto con flora e fauna, le avversità del clima, ma anche il rapporto tra singoli individui e la madrepatria.

20 Inglis T. Moore, Social Patterns in Australian Literature, Canberra, Angus & Robertson

Publishers, 1971, p. 67.

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19 impone una riflessione sui flussi migratori verso il paese: se, fino ad allora erano stati essenzialmente gli Inglesi a lasciare la madrepatria, adesso cominciavano a trasferirsi anche Irlandesi, Scozzesi e Gallesi. Ciò si tradusse in un crescente sentire sociale e comunitario:

The Irish immigrants had no difficulty in finding employment and were soon merged into the colonial population. Like the English, Scotch and Welsh, they lost many of the national characteristics which may have distinguished them from the rest of the population. It was not long before English, Scotch and Irish forgot national antipathies and settled down as a united people in a new land22.

Familiarizzare con l’Australianness, dunque, comporta lo sforzo di proiettarsi nei luoghi stessi, cardini ed orizzonti imprescindibili che “dettarono le condizioni” e influirono sugli orientamenti dell’incipiente profilo culturale:

It is but a paradoxical evidence that a good part of Australian history and literature are about land. […] it remembered the way which land works upon people, who reciprocally transform it. Therefore, climate, orography and the lie of the land provide people with an attitude to spread and develop. These elements approve the region’s capacity to produce civilizations. Geomorphology and the land’s location have an influence on the nations’ policies, but also on the people’s attitude to take root. This is so because culture and language tracks, in spite of their expensive nature, are enclosed by geomorphology23.

Si comprende allora meglio perché, nell’Australia dei primi decenni dell’Ottocento, non potessero trovare terreno fertile i generi letterari dell’utopia settecentesca, nonché l’idillio romantico. A renderli impraticabili vi erano le stesse modalità in cui l’isola-continente era stata conosciuta, in maniera diametralmente opposta a quanto avvenne, invece, per il continente americano, un Nuovo Mondo catalizzatore di sogni e ambizioni:

For while America will forever be an idea against which reality fails to measure up, a world 'known' to be something else (the Indies, the New Jerusalem) before it was found, mapped, explored and turned out to be

22 I.T. Moore, op. cit., p. 50.

23 José Carlos R., Olmedilla, “Mapping Australian Literature: The Refraction Principle”, in J.

Sarangi, B. Mischra (eds.), Explorations in Australian Literature, New Delhi, SARUP & SONS, 2006, p.35.

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20 different, Australia appeared on maps before it was known to exist. […] Australia is a phantom which turned out to be real. In this it is both like and unlike other the 'New World' of America24.

L’Australia non si prestava ad alcun modello di “Terra Promessa”, a nessuna ambizione di superare una frontiera per arricchire l’esperienza umana, a nessun senso di provvidenziale teleologia che mosse, al contrario, i Puritani decisi a lasciarsi l’Europa alle spalle. Nessuno fra i convicts o tra le guardie della Corona, sbarcando sulla costa orientale australiana aveva creduto di vedere ciò che i marinai olandesi del sec. XVII descrissero sbracando a Long Island; né, tantomeno, pensarono di mettere piede in quella terra da uomini liberi. Approcciarsi all’universo australiano bianco, e quindi anche alle sue modalità di scrittura e proiezione dell’immaginario, significa tener sempre a mente la sua origine peculiare di colonia penale agli antipodi, nel cuore di un “vuoto” geografico e storico, a confronto del quale le terre d’America erano una sorta di paradiso. Le crudezze e i disagi di una condizione spesso di sopravvivenza andavano sommandosi alla rigidità del clima, come se l’isolamento geografico ribadisse la condanna ad una segregazione violenta. L’Australia non fu mai, né per i carcerati, né per i carcerieri, una Terra Promessa o un nuovo Eldorado25. Agli occhi degli europei essa appariva piuttosto come un inferno o come lo scenario di un esilio purgatoriale, dai quali non sarebbe stato più possibile disancorarsi; motivo, quest’ultimo, per il quale, il mito del self-made man si impose immediatamente. Sottomettere il territorio era l’unico modo per dominarlo e poter così acquisire una propria identità, che, inevitabilmente, non poteva che dipendere dal singolo stesso:

This dominant economic drive of the colonists made the colonial society eminently utilitarian, materialistic and realistic in temper. The realism became a main pattern, reinforced by the pioneering conditions on the land and the prevailing practicality of the contemporary Englishman. Inevitably the English settlers made many mistakes in trying to subdue the baffling, resistant country. Yet they persisted and prospered with that capacity26.

24 M. Leer, op. cit., p. 4.

25 P. Spinucci, La poesia australiana, cit., p. 15.

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21 Quanto la forma e lo spirito della ballata fossero congeniali alla “Australian mind” di quel periodo, quasi da costituire il leit-motiv al quale sarebbe ricorso ogni scrittore australiano, lo dimostrano le molte figure di poeti minori quali Mary Gimlore, Frank Leslie Wilmot, Henry Lawson, Bernard O’Dowd, Banjo Paterson, il cui arco anagrafico (fine sec. XIX primi anni sec. XX) copre un momento di cruciale importanza per lo sviluppo di nuovi generi letterari27. Il loro stile, infatti, ci aiuta a capire in quali vieti condizionamenti era precipitata negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale la produzione letteraria dell’isola-continente, quando la “qualità poetica” doveva rispondere a un assetto formale selezionato per generi, tramite l’onnipresenza della rima, il ricorso a un certo gusto vittoriano e un tono ‒ a tratti impropriamente ‒ celebrativo, riducendosi in niente di più che banali componimenti:

Psychologically, too, the colonial complex often inhibited the writer by prompting an artificial self-consciousness. Practically, the dependence upon English publishers and critics tented to force writers to use models and appeal to English tastes, to cultivate imitation, in short, rather than a genuine originally. Their writing became, almost inevitably, provincial in character28.

Si percepiva ormai l’esigenza di ripartire o appellandosi a idee veramente nuove, o con singolari personalità poetiche che, per creatività e per impeto, sarebbero state in grado di scardinare un assioma vetero-settecentesco. Ovviamente, il passo successivo verso un’identità letteraria nazionale non poteva più venire soltanto dal genere delle ballate popolari con il loro colore locale, da un mondo del bush e dell’outback tratteggiato in termini pittoreschi: “In the development of a national literature the colonial stage represented a period of infancy, since usually the only Australian element in the writing was the local scene”29. L’unica via d’uscita pareva essere quella di orizzonti più cosmopoliti che consentissero di attivare una diversificazione non soltanto nella scelta dei soggetti, bensì nelle stesse strutture poetiche, nell’uso del linguaggio e, soprattutto, relativamente al concetto stesso di poesia: “The folk ballads and old bush songs formed a popular, oral literature which

27 P. Spinucci, La poesia australiana, cit., p. 77.

28 I.T. Moore, op. cit., p. 106.

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22 took its measures and tunes from the old country”30. In questo senso, il Simbolismo di matrice europea giocò un ruolo fondamentale, poiché incentivò un processo di ricerca identitaria, innescando un ulteriore movimento che si articolò tra nazionalismo e cosmopolitismo. La critica ha individuato in Christopher Brennan (1870-1932) “la figura più interessante che la poesia australiana abbia avuto sino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, riconoscendo in lui la più ricca ed equilibrata mescolanza tra capacità intellettuali e capacità creative”31. Per Brennan, lo spessore semantico connaturato al linguaggio simbolico consente di proiettarsi verso la realtà profonda del mondo e dell’io, nonché verso le aree dell’inconscio, creando così una condizione nella quale “man shall have taken up into himself the whole world that is outside him, and the whole world that is within”32. In altre parole, quella forma di Assoluto che l’umanità continua a cercare non parrebbe attingibile dal solo intelletto, bensì dalla piena potenzialità dell’esperienza umana. È chiaro che una concezione della poesia legata a questi principi presupponeva non soltanto una mente autoriale capace di utilizzare al meglio gli strumenti “tecnici”, ma anche in dialogo con la dimensione interiore33. Quella di Brennan era infatti una tipica “quest” di spirito novecentesco, vissuta come esperienza estetica ed epistemologica, a fronte della frammentarietà dell’esperienza moderna. Tuttavia, questi testi, in generale, mostrano alcune note stridenti, finendo col suonare ‒ a tratti ‒ ambivalenti e contraddittori; come osserva Leer:

[…] another, allegorical, level or type of literary geography reads Australia as a figure of Paradise or Hell. Australian literary self-perception is perhaps unique in the way that both readings are equally possible and interrelated: 'Botany Bay' sounds like a place of Edenic renewal, of hope, but acquires the opposite meanings in the convict ballads. […] This irony in allegorical geography has continued through Australian history34.

Con Brennan la poesia australiana compie certamente un importante passo in avanti, rimanendo nel complesso legata ad una tradizione di stampo inglese, ma

30 Ivi, p. 105.

31 P. Spinucci, La poesia australiana, cit., p. 88.

32 Clement Semmler, Twentieth Century Literary Criticism, Melbourne, Angus & Robertson

Publishers, 1967, p.89.

33 P. Spinucci, La poesia australiana, cit., p. 89.

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23 proiettata su un background decisamente più cosmopolita, (soprattutto francese). I Poems (1913), “animati da una segreta architettura strutturale e mistica”35, convergono tutti verso una trascendenza, verso una mistica perfezione perduta, verso un paradiso da ritrovare e recuperare. Al tempo stesso, vi si respira un profondo senso di solitudine e di isolamento.

In quasi tutti i paesi europei, il nuovo secolo letterario non cominciò all’alba del Novecento, ma si delineò sulla scia di un’esperienza tragica che evidenziò i limiti delle poetiche delle precedenti generazioni36. La stessa cosa si verificò anche in Australia, la cui “remoteness” tanto geografica, quanto storica, non le consentì di sottrarsi al confronto con le politiche della vecchia Europa: il contesto della Prima Guerra Mondiale, infatti, impose all’Australia che più di 60.000 uomini partecipassero ai combattimenti sacrificandosi per l’Impero, questione che, inevitabilmente, risollevò il problema stesso dell’ “essere australiani” in un contesto storico, economico ed identitario che, tuttavia, rimaneva periferico e marginale rispetto ad una geopolitica incentrata altrove. L’idea che l’Australia si fosse immolata per altri e che avesse combattuto una guerra non sua, e che il paese dovesse finalmente conoscere se stesso e misurarsi con la propria realtà per liberarsi dal giogo di una sudditanza culturale, fu una posizione che coinvolse gli intellettuali del periodo, cui andò sommandosi, naturalmente, un forte sentimento nazionalistico37.

Una delle personalità che seppe distinguersi, anche se in modo talora stridente, fu Norman Lindsay (1879-1969), già illustratore del Bulletin, fondatore e critico letterario della rivista Vision, negli anni Venti. La sua concezione della vita, modellata sul pensiero di Nietzsche, lo portò ad una critica dissacrante delle istituzioni borghesi e ad un culto della personalità che si tradusse in arrogante

35 P. Spinucci, La poesia australiana, cit., p. 91.

36 Ivi, p. 119.

37 Già nel 1907 il neonato parlamento australiano aveva approvato l’Immigration Restriction Act,

con cui si intendeva difendere e regolare principalmente l’occupazione. La guerra rese difficili e precari gli scambi commerciali, rendendo così necessario potenziare le industrie interne per sopperire ai bisogni della nazione; occorreva manodopera, e il governo non esitò a sfruttare i migranti stranieri e gli Aborigeni, sottraendo loro terre, domini e uomini.

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24 individualismo: pur accettando alcuni aspetti del Modernismo, non si riconobbe mai in scrittori quali James Joyce o David Herbert Lawrence, suggerendo invece di riallacciarsi alla grande tradizione dei poeti latini come Catullo, o di poeti e drammaturgi inglesi del calibro di Marlowe. Benché la rivista Vision abbia avuto vita breve, ‒ uscì infatti per soli due anni38 ‒ riuscì a provocare diverse e contrapposte reazioni. Qui trova spazio il movimento del Jindyworobak (che in lingua aborigena significa “unire”, “connettere”), il cui portavoce, Rex Ingamells (1912-1955) sosteneva che la poesia, pur rimanendo fedele all’eredità europea, dovesse comunque riflettere l’ambiente da cui scaturiva. Il Movimento sviluppava altresì temi già presenti nella cultura australiana, come il contrasto tra città e bush; tra la piccolezza dell’uomo e la grandezza della natura. Non è poi da sottovalutare il fatto che il Movimento avesse un nome aborigeno, indice di una nuova ‒ se pur ancora appena accennata ‒ apertura alla realtà locale. In contrapposizione a ciò, negli anni Quaranta Max Harris fondò il Movimento degli Angry Penguins, improntato all’internazionalismo dialogante con il surrealismo e il modernismo in tutte le loro sfaccettature. L’intenzione era richiamare l’attenzione del pubblico sugli sviluppi e le direzioni della poesia australiana, alimentando dibattiti tra fautori di un modo più tradizionale di far poesia e i propugnatori, invece, di forme di sperimentalismo.

Con il rilievo assunto dal rapporto tra cultura e società39, cominciano ad affacciarsi sul panorama letterario australiano alcune tra le personalità più di spicco, che, naturalmente, non trovano collocazione, né si riconoscono precisamente in una delle precedenti correnti di pensiero. Pur debitori di Eliot, di Pound e degli Imagisti, Kenneth Slessor e Robert David Fitzgerald, i poeti più importanti tra le due guerre, riescono, sia per contenuto che per forma, ad aprire nuove ulteriori vie alla poesia australiana: lo stile di entrambi comunica il senso del flusso della vita e della caducità umana, esplorando così l’ancestrale necessità di capire e giustificare i significati del reale, le connessioni tra passato e presente. A loro presto si affiancherà anche James McAuley (1917-1976), che, attraverso un sapiente uso

38 C. Semmler, op. cit., p. 102.

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25 della mitologia greca, muove critiche alla civiltà moderna, tendando di riaffermare i tradizionali valori morali e spirituali; da ricordare è anche e la poetessa Judith Wright, colei che per prima tratterà il rapporto tra l’immagine europea dell’Australia e la realtà australiana vera e propria, la sofferenza degli aborigeni e delle persone emarginate più in generale40.

Intanto, sull’Australia si stava abbattendo la minaccia della Seconda Guerra Mondiale, con altro sangue sacrificato per un’altra causa solo remotamente australiana. Aver sperimentato, per la prima volta nel corso di tutta la sua storia, il pericolo di un’invasione e di una guerra sul proprio territorio, l’essersi trovata sprovvista di una propria struttura di difesa e persino del sostegno inglese di fronte all’attacco del Giappone, e l’essere stata salvata ‒ in extremis ‒ dall’intervento americano, sono tutti fattori che concorsero nell’accelerare il processo di completo distacco e quindi di un graduale acquisto di autonomia. Questi segni sono rintracciabili soprattutto nel campo della letteratura, da cui gli scrittori hanno cercato di eliminare ogni residuo del vecchio provincialismo culturale per far posto ad una produzione che sapesse rivolgersi ad un pubblico più vasto di quello compreso entro i confini nazionali.

La predilezione per l’impianto metaforico tipicho della poesia di Fitzgerald e McCauley va via via cedendo il passo ad un tipo di poesia caratterizzato da annotazioni precise, dall’enfasi su particolari ed osservazioni concrete, dallo sforzo di delineare un ritratto socio-culturale41. In questi ultimi decenni, scrittori e poeti mostrano di essere maggiormente integrati nel mondo che li circonda, e sempre più raramente esprimono il senso di alienazione e di esilio, cosa che, al contrario, aveva caratterizzato lo stile dei predecessori. Questo nuovo atteggiamento esistenziale si

40 Le prime raccolte poetiche scritte da mano aborigena e legate a tematiche aborigene

cominciarono a circolare solo dopo gli anni ’60. Grande rilievo assunsero le raccolte We are going (1964) e My People: A Kath Walker Collection (1970) di Kath Walker (pseudonimo di Oodgeroo Noonuccal). I testi si confrontano con la tradizione etnica orale, ma in essi l’autrice esprime pure una volontà di riconciliazione con l’uomo bianco, di recupero e reinterpretazione del passato. Si ricorda, infine, che al 1972 risalgono l’istituzione e il riconoscimento da parte del governo australiano dell’Aboriginal Tent Embassy, a Canberra, simbolo delle lotte per i diritti civili. 41 Chris, Wallace Crabb, Toil and Spin: Two Directions in Modern Poetry, Angus & Robertson

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26 è rispecchiato in una notevole quantità di scritti autobiografici, tanto da parte di poeti già attivi, quanto da giovani scrittori emergenti che iniziarono a pubblicare a partire dagli anni Sessanta, tra cui David Malouf. Si coglie la volontà di acquisire fiducia nella continuità di una tradizione poetica australiana42. Fino ad allora, gli scrittori si erano preoccupati di descrivere, di definire, di “narrare” il loro paese; ora, i poeti stabiliscono un dialogo anche con il passato e la storia, compresa la realtà aborigena, intravedendovi gli elementi cruciali per una piena e matura consapevolezza di sé e della propria identità. Si tratta di una questione ‒ ormai risulterà chiaro ‒ che non ha mai smesso di porsi come interrogativo spinoso e di difficile trattazione:

In fact, the identity crisis plagued not only the white settlers, but also the natives. The whites for a long period tried to subordinate the natives and almost eliminated them. But it did not solve any problem. The judgment of 1967, which proclaimed that the Aboriginals were the original landholders of the continent, was a landmark in the White Settlers-Aboriginal relationship. It brought them to a deep understanding of their individual situations and created a mutual trust, which helped both the communities to understand each other and evaluate their former bitter relationship in a new perspective43.

È questa la strada che la poesia australiana ha intrapreso negli ultimi anni, arricchita dalle esperienze di gruppi che includono poeti aborigeni come Kath Walker e Kevin Gilbet, poeti etnici del calibro di Antigone Kefala, uniti al gran numero di autrici le cui voci hanno trovato espressione in The Penguin Book of Australian Women Poets. Ciò è una testimonianza tangibile della vivacità ‒ e dell’Australianness ‒ che sta caratterizzando una nuova era. Ad oggi, non si è del tutto chiuso il cerchio di una convincente identificazione tra il luogo, i suoi abitanti e la sua storia: d’altra parte, questo è tipico di tutte le letterature “derivate” che per lungo tempo sono rimaste appiattite su modelli ritenuti perfetti, e quando hanno tentato di metterci dentro il proprio vissuto, ecco che il modello non era più uno strumento adeguato a rivestire e dar voce ad un certo tipo d’esperienza.

42 Ibidem.

43 D. Sripana, “David Malouf’s Exploration of the Problem of Identity”, in J. Sarangi, B. Mischra

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27 CAPITOLO SECONDO

David Malouf

1. La poetica maloufiana.

We no longer ask if Australian literature exists, although it is still suggested in some quarters that it only exists as the provincial literature of a metropolitan centre. The focus has now shifted from mere existence to identity, and may be shifting again away from seeking identity toward establishing provisional identifications44.

Concepire la letteratura australiana come un corpo che non fosse “a immagine e somiglianza” di quella inglese è stata la sfida che ha caratterizzato e contraddistinto gli animi di chi ha contribuito a creare un contesto ed un’eredità letteraria nel paese. In quanto “letteratura di matrice anglofona”, si è visto come gli scrittori australiani avvertissero ‒ forse più che altrove ‒ non solo l’esigenza di dar vita a quella che poi sarebbe divenuta una tradizione letteraria, ma anche il bisogno di legittimare, in una qualche maniera, il loro operato. Sarebbe infatti fuorviante porre in assoluto primo piano il debito nei confronti di un’eredità antica e canonizzata come quella britannica, poiché “anglocentrism refuses postcolonial territories the right to their own identities, assuming instead that they are merely the engulfable margins of the imperial centre”45. Sottostimare l’esistenza di contesti letterari postcoloniali si configurerebbe come un’ulteriore imposizione di un modello imperialista, che nella contemporaneità risulta ormai impraticabile. In virtù di ciò, si comprende come solo dopo il secondo conflitto mondiale nelle “periferie” cominciassero a delinearsi un maggiore spirito critico, una nuova prospettiva e ‒ se vogliamo ‒ anche una nuova dialettica in cui le divergenze e le alterità non costituivano più un ostacolo, bensì una risorsa:

Instead of assuming a one-way transmission of culture from metropolis to periphery, we posit a two-way traffic characterised by the failure of the

44 D. Brydon, H. Tiffin, Decolonising Fictions, Dangaroo Press, Sydney 1993, p. 59.

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28 imperial power to acknowledge colonial and postcolonial cultural contributions and their differences46.

Ecco allora sorgere inevitabilmente l’interrogativo di come porsi di fronte ad un nuovo contesto in cui dar voce e spazio a necessità non più marginali, o di minore rilevanza solo perché australiane e non inglesi; emergono dunque stimoli che mirano ad individuare una visione “consapevole” del paese, delle proprie radici, della propria storia, delle proprie esigenze, che confluiranno nella ricerca di un’identità, spesso in connessione con il passato ed il rapporto con il territorio. All’interno di questo scenario, la penna del poeta e scrittore David Malouf ha saputo distinguersi declinando magistralmente il topos della ricerca identitaria secondo modalità ed obbiettivi sempre più complessi ed articolati, ponendo però sempre al centro della narrazione la dicotomia sé vs. altro da sé. Questa ricerca non dovrebbe mai cessare di accompagnare l’individuo nel corso della vita:

An examination of David Malouf’s overall writing career reveals a remarkably continuous concern with encounters between self and other. What most distinguishes his work is its strong tendency to find in otherness (or alterity) the stimulus and orientation for a creative unsettling of identity. The other, in Malouf, does not typically enable a consolidation of selfhood, nor does it unproductively impede or confuse identity formation. Encounter with the other provokes creative self-transformation, a self-overcoming […]. For Malouf, the project of human life should not be secure self-definition; a human life should remain on, or at least repeatedly return on, the path of becoming47.

Potrebbe sembrare che, per Malouf, la piena convinzione sé sia un concetto vagamente pericoloso. In effetti, nell’ottica dell’autore, sentirsi incrollabilmente sicuri di sé non porterebbe progresso o crescita alcuna nella vita: è dall’incontro/scontro con la otherness che scaturisce infatti il presupposto di un cambiamento. Non riconoscere il potenziale di ciò che è altro da noi diviene conseguentemente segno di una mente chiusa, limitata e ancorata ad orizzonti autoreferenziali. Simile atteggiamento negherebbe ciò che contraddistingue la vita stessa: il movimento, il cambiamento, l’essere in fieri. È infatti nell’ottica del

46 Ibidem.

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29 cambiamento che ci si rivolge al futuro e si coltiva la nostra visione del passato, e soltanto lungo la traiettoria di un’evoluzione è possibile guardare al percorso di ognuno con strumenti adeguati. L’altro da sé si rende insomma necessario: “Always, we should seek to become other than we have been, other than we are, and the other is the indispensable agent of our changes”48. L’originalità di Malouf risiede nell’aver individuato una chiave di comprensione del sé proprio in questo perenne movimento, tanto fisico quanto interiore, che conferirà autenticità e, soprattutto, universalità ai suoi testi e agli stessi personaggi che li animano.

L’Australia non è dunque più il luogo dell’esilio coatto; la condizione di esule, nella prospettiva maloufiana, sussiste solo in virtù di una scelta libera, magari non troppo consapevole dell’individuo: “Australia, for Malouf, is a place of exile from which one can 'exile oneself'; indeed, it is not so much 'the place of exile' but more meaningfully 'the place of return'”49. Non stupisce allora constatare come i personaggi cui Malouf dà vita siano tutti caratterizzati da un’esistenza all’insegna di viaggi, allontanamenti dal luogo natale e ritorni in patria; ogni qualvolta il movimento si presenta nella vita dei personaggi, ecco che la prospettiva muta, accogliendone o rigettandone altre (la propria, e naturalmente quella di altri soggetti con cui si entra in contatto). Il risultato, qualunque siano i presupposti di quel movimento, resta sempre lo stesso, ovvero finisce col conferire alla persona una più piena e matura comprensione del proprio vissuto. Sapersi scoprire ed adattarsi, di volta in volta, ai contesti: questa è una chiave di lettura essenziale del macrotesto maloufiano:

Malouf is a writer whose main project is to rediscover and remake himself and his world. Not surprisingly, his career in poetry aims at a complexly detailed elaboration of personal experience, of the self and of the places of the self; in career in fiction moves dense portrayals of singularity in the first-person voice to the representation of a multiplicity of perspectives. The valorisation of multiplicity, in fictional presentation and in the social world, emerges out of a preceding valorisation of the otherness. Malouf does not seek, however, to resolve difference or assimilate otherness; his sense is always that difference and otherness should be recognised, acknowledged, and valued50.

48 Ibidem.

49 Ivi, p. 11.

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30 La otherness può essere oggettivata anche dai luoghi, tratto che emerge in Malouf sin dai primissimi scritti, come sottolinea Randall: Malouf ascribes to landscape ‒ more particularly Queensland landscape ‒ the self-unsettling power of otherness51. Riconoscere al paesaggio la capacità di fungere da catalizzatore di emozioni e sentimenti ha indotto molti critici a considerare Malouf uno scrittore post-romantico52, in particolare in virtù del lyrical-I, la voce interna che anima i personaggi principali, e che si fonde con il paesaggio: “This 'I', moreover, possesses a world-making power of imagination, and thus enables a creative conjuction between nature and consciousness”53. Naturalmente, il veicolo privilegiato, tramite il quale si palesa tale consapevolezza, è il linguaggio stesso, veicolo che consente ai singoli di rapportarsi e condividere il proprio vissuto, in direzione collettiva54.

La chiave di lettura improntata a una direzione romantica, fornita da Nielsen nella sua monografia del 1990, (che si confronta con la prima metà della produzione maloufiana), si è rivelata funzionale, tant’è vero che può essere applicata anche alle opere successive di Malouf. Tuttavia, è opportuno affiancare a questa chiave un approccio che tenga anche conto di punti di contatto ed affinità tematiche con la contemporaneità. Uno spunto prezioso si rintraccia nello studio portato avanti da Amanda Nettelbeck, che riconosce il contributo di Nielsen, ma vi aggiunge una componente più moderna, asserendo che “Malouf combines 'Romantic Idealism' with a 'post-colonial' conception of language, world and subjectivity”55. Ella entra nel merito del linguaggio e del suo potere di rappresentazione e creazione del reale, con vari strati di complessità e ambiguità. Andrew Taylor ribadisce il ruolo cruciale di uno strumento linguistico che Malouf affina e rende intenso, evocativo:

Even the most cursory reading of Malouf’s work shows the importance of language within it […]. As a medium, Malouf’s language has a sensitivity and sophistication in excess of conventional requirements. Especially at key moments, such as endings, it takes on a lyric quality of such intensity that one

51 Ivi, p. 2.

52 P. Nielsen, Imagined Lives: A Study of David Malouf, University of Queensland Press, St.

Lucia, 1990, p. 4.

53 D. Randall, op. cit., p. 3.

54 Ibidem.

55 A. Nettelbeck, Provisional Maps: Critical Essays on David Malouf, Centre for Studies in

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