I
je annuali pubblicazioni artistiche promosse dall’ISTITUTO
BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO risalgono ormai, com’è
noto, al 1952. Esse costituiscono dunque una piccola
“biblio
S’ebbero così finora le illustrazioni della Galleria Sabauda
(1952), della Galleria Civica d’Arte Moderna (1953), del Mu
seo Civico d’Arte Antica unitamente alla sua storica
sede di Palazzo Madama (1954-), di Torino; di ventiquattro
capolavori della città di Vercelli (1955); della Galleria di
Palazzo Bianco a Genova (1956). Quest’anno, dopo la parentesi
genovese, s’è tornati in terra subalpina per la miglior cono
scenza di tre insigni monumenti pittorici piemontesi, che per
la prima volta si riproducono a colori in così gran copia di
particolari: e precisamente gli affreschi di Giacomo Jaquerio
nella chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso, all’inizio
della Val di Susa; quelli della sala baronale del castello della
Manta, presso Saluzzo, di anonimo maestro piemontese della
prima metà del Quattrocento; e infine quelli di Giovanni
Martino Spanzotti, databili intorno al 1500, nella chiesa dell’ex
convento di S. Bernardino ad Ivrea.
Giacomo Jaquerio è il massimo rappresentante in Piemonte
—
con il frescante della Manta
—dello stile neogotico inter
DI QUESTO LIBRO
SONO STATI STAMPATI
2000 ESEMPLARI
DEI QUALI 099
FUORI COMMERCIO
ISTITUTO BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO
TRE
MONUMENTI PITTORICI
DEL PIEMONTE ANTICO
A CURA DI M A RZ I A N O BERNARDI
Particolare della predella del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa
dell’Abbazia di S. Antonio di Ranverso.
1942) puntualizzò in poche righe riassuntive: «Crediamo che, in breve, il pano
rama della pittura quattrocentesca in Piemonte possa disegnarsi sulla trama di
una civiltà gotico-fiorita che si svolge in prevalenza nel Piemonte Occidentale,
in Savoia, nel Cantone Ginevrino, per un quarantennio circa, poi si affievolisce
e declina fino alle soglie del 500; e di un’altra corrente, più legata alle scuole di
Lombardia, avente il suo centro più ad oriente, che si afferma nelPultimo quarto
del secolo ed esprime la figura di Gian Martino Spanzotti ».
Ecco infatti dalla presente pubblicazione esemplificate nella loro qualità, per
prestigio d’arte, più convincente, sia quella civiltà sia quelle tendenze: l’una, dalle
pitture pressoché coeve della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso, allo
sbocco della Val di Susa, e del castello della Manta, prossimo a Saluzzo; l’altra,
dagli affreschi della chiesuola dell’ex convento di S. Bernardino, nei dintorni
d’Ivrea. Le prime, di solito assegnate al secondo quarto del secolo XV; i secondi,
a circa il 1500. Se i dipinti della Manta sono considerati dalla maggior parte degli
studiosi opera di un eccellente maestro non ancora uscito dall’anonimato, quelli
di Ranverso e d’Ivrea hanno da tempo trovato paternità ormai indiscussa in due
dei più forti esponenti del suddetto panorama: Giacomo Jaquerio, attivo fra il
1401 e (presumibilmente) il 1453, anno della sua morte, e Giovanni Martino
Spanzotti, della cui vitalità si hanno notizie dal 1480 al 1526.
Il tema della cultura artistica piemontese nel periodo che corre fra queste
date — un tema di eccezionale interesse, suscettibile dei più sottili dibattiti — è stato
più volte trattato, con risultati che in passato si fissarono di solito in termini
negativi. Scriveva ad esempio sullo scorcio del Settecento nella sua Storia pittorica
l’abate Luigi Lanzi, pur riconoscendo al Piemonte il diritto di « aver luogo »
nella storia della pittura : « Il Piemonte per la sua situazione è paese guerriero; e
se ha il merito di avere al resto d’Italia protetto l’ozio necessario per le belle arti,
ha lo svantaggio di non aver mai potuto proteggerlo durevolmente a se stesso.
Quindi Torino, quantunque ferace d’ingegni abili a ogni bell’arte, per adornarsi
da città capitale, ha dovuto cercare altrove i pittori, o almen le pitture; e quanto
ivi è di meglio, sia nel palazzo e nelle ville reali, sia ne’ pubblici luoghi sacri,
profani, sia nelle quadrerie de’ privati, tutto è lavoro di esteri ».
basti pensare allo Spanzotti, a Defendente Ferrari poco più tardi) « gli artefici
del Monferrato » i quali « non son forse mai nominati fra gli allievi de’ milanesi »;
sì che rudimentalmente egli delineava un gusto locale — nell’« antico Piemonte »,
nella Savoia e « luoghi finitimi » — per i pochi artisti che le scarse esplorazioni
gli concedevano conoscere; non dimenticando quegli altri « esteri » che i conti
e duchi sabaudi avevan chiamato alla loro corte, il fiorentino Giorgio (Giorgio
dell’Aquila), il veneziano Gregorio Bono, «Nicolas Robert francese» (il Nicolao
Roberti che secondo documenti ai quali purtroppo non corrispondono le perdute
opere avrebbe diviso con Amedeo Albini la successione del prestigio già goduto
nella prima metà del secolo dal Jaquerio). Assai più tardi, nel 1876, il pittore
Francesco Gamba, allora direttore della Pinacoteca di Torino, nel suo saggio sulla
Abbadia di S. Antonio di Ranverso e Defendente De Ferrari da Chivasso, reagiva
contro la « falsa sentenza » emessa dal Lanzi « cui seguirono il Bartoli, il De Rossi,
il Paroletti, il Bertolotti, il Cibrario, Pietro Baricco » (poligrafi, storici, e non
critici d’arte) « che prima del secolo XVI le arti della pittura » non avessero
« ancora posto la loro sede in questa nostra contrada » ; e per merito di alcuni
studiosi s’iniziava un periodo di ricerche che nel giro d’un settantennio dovevano
fornire un ben diverso quadro della cultura artistica in Piemonte, anteriore al
Cinquecento.
chiamava nel 1341 dilectum familiarem et pictorem nostrum, attivo fra il 1314 e il
1348 per gli affreschi di Chambéry, di Bourget, di Pinerolo, di Pont d’Ain, di
Altacomba; di Barnaba da Modena probabilmente operoso in Piemonte fra il 1370
ed il ’77; di Jean de Grandson, pittore intorno al 1344 della camera domini del
castello di Chillon che Pietro II di Savoia s’era costruito sul Lemano (« J’ay fait
et edifié ung moult beau chastel apellé Chillions; et est sur le lac, et in bel et bon
air, et est fort et seur ».); di Claus Sluter e Giovanni de Prindhalle, scultori borgo
gnoni a Chambéry sul principio del Quattrocento; del veneto Gregorio Bono,
frescante verso il 1430 il chiostro gotico dell’abbazia di Abondance nel Chiablese;
di Jean Bapteur e di Perineto Lamy, miniatori per ordine di Amedeo Vili dello
stupendo Apocalisse oggi all’Escoriale (Vittorio Viale, Arte alla corte sabauda e
in Piemonte nel XIV e XV secolo, conferenza tenuta al « Lyceum » di Firenze e
pubblicata in I Savoia a cura di Jolanda De Blasi, Firenze, 1940; id., Gotico e
Rinascimento in Piemonte, catalogo della seconda mostra a Palazzo Carignano,
Torino, 1939: da notare che questo catalogo costituisce un presupposto fonda-
mentale per lo studio dell’arte in Piemonte dal Duecento al Cinquecento); questa
tradizione avrebbe dovuto riaffermarsi nella maggioranza delle testimonianze arti
stiche di qualche valore in Piemonte durante l’intero Quattrocento.
togliendo ogni autonomia ai maestri, maggiori o minori, piemontesi: quell’auto
nomia che venticinque anni dopo il Valentiner, come si vedrà, avrebbe viceversa
esagerato facendo del Jaquerio un protagonista « europeo » del gusto neogotico,
spaziante dal Piemonte alla Savoia, dalla Sicilia alla Spagna.
La revisione critica d’una tesi forse troppo facilmente accettata s’imponeva
col progredir degli studi sull’arte subalpina quattrocentesca: ed era annunziata
da Pietro Toesca (Antichi affreschi piemontesi, « Atti della Società di Archeologia e
Belle Arti per la provincia di Torino », 1910) in termini che restituivano a questa
arte un suo grado di originalità: « Nella decorazione della sala baronale di Manta
le iscrizioni francesi e l’iconografia suggeriscono che spetti ad artista straniero, ma
i caratteri stilistici ci lasciano incerti di tale opinione: essi corrispondono alle ten
denze che, sul principio del XV secolo, dominavano la pittura non soltanto d’oltre
Alpe ma di gran parte d’Italia, derivano dal verismo superficiale, non sciolto da
convenzionalismi gotici, che si ritrova in miniature franco-fiamminghe come in
affreschi della Lombardia, dell’Emilia, delle Marche, persistente ancora in qualche
luogo sino alla metà del secolo. Perciò, se, col progredire delle ricerche, non si
troveranno al di là delle Alpi — forse in Provenza — altre pitture che siano
intieramente affini a quelle del Castello di Manta, non avremo sufficienti ragioni
per negare che queste siano lavoro di artisti locali e si possano avere per squisita
varietà regionale di uno stile che si estendeva sopra vastissimo territorio ». Era,
si potrebbe dire, una «assoluzione per mancanza di prove»; ed il Toesca, ritor
nando sull’argomento in La pittura e la miniatura nella Lombardia dai più antichi
monumenti alla metà del Quattrocento (Milano, 1912), non smentiva la sua cautela:
« Tali affreschi piemontesi offrono un saldo addentellato con l’Arte francese; ma
anche altre varietà della Pittura del principio del Quattrocento, nell’Italia supe
riore, hanno molti rapporti con le forme oltramontane, e valgono a stringere
vieppiù in una unità stilistica il vastissimo terreno che abbiamo corso: come nelle
valli alpine del Piemonte, anche a Milano e a Verona la Pittura oltramontana e
la Pittura locale digradano l’una verso l’altra così che i loro confini non sono
precisi ed esse si saldano insieme con un trapasso quasi insensibile di stile ».
Particolare del polittico di Defendente Ferrari, firmato e datato 1531, esistente nella chiesa
dell'abbazia di S. Antonio di Ranverso. L’atto stipulato in data 1530 fra la comunità
di Moncalieri e « Defendente de Ferraris de Clavaxio » per l’esecuzione del polittico, è
l’unico documento scritto che sia stato rinvenuto (dal padre Bruzza nell’archivio
con l’indicazione «École française vers 1425 », scrive: «À Manta, le style des
peintures se ressent d’une profonde influence française tandis que dans les fresques
du château de Fénis (Piémont), de la fin du XIV siècle, ont doit même reconnaître
la main d’un peintre français»; mentre la moderna critica italiana ravvisa a
Fénis, come a S. Antonio di Ranverso ed alla Manta, l’opera di artisti autoctoni.
Comunque, come bene osservò Augusto Cavallari Murat (Considerazioni sulla
pittura piemontese verso la metà del secolo XV, « Bollettino Storico-Bibliografico
Subalpino», 1 orino, 1956), la «chiave risolutiva» per la nuova apertura critica
era trovata. E si noti la sua importanza: «varietà», e non soltanto — quale
prima s intendeva — dipendenza d’uno stile; cioè una voce propria d’arte che si
laceva udire dal Vaud sulle rive del Lemano a Nizza sulla sponda mediterranea,
dalla Bresse racchiusa fra il Rodano, la Saona e l’Ain, a Vercelli sui confini del
Ducato di Milano: «regione» sabauda al cui centro stava la «Savoie propre»
con la capitale Chambéry al di là delle Alpi, ed al di qua il « Piemonte » della
prima metà del Quattrocento, fra il Dclfinato e i marchesati di Saluzzo e Monferrato,
e la signoria milanese, governato per oltre un secolo — da Pinerolo e da Torino —
dai D’Acaia. Insomma, nel quadro del neogoticismo europeo veniva riconosciuta
una « vena lirica » del popolo piemontese, destro nel rude maneggio delle armi,
ma pur sempre credente fervido ed umile al cospetto della Divinità » (Cavallari
Murat, op. cit.); ed agli artisti sorti da questo popolo una possibilità di esprimersi
sulla medesima linea tenuta da Michelino da Besozzo e dagli Zavattari in Lom
bardia, da Stefano da Zcvio e dal Pisanello a Verona, da Gentile da Fabriano nelle
Marche, da Masolino da Panicale in Toscana. Al colore di Michelino da Besozzo e
di Masolino da Panicale faceva appunto accenno il Toesca (La pittura e la minia
tura nella Lombardia, op. cit.) a proposito d’alcune figure affrescate a Fénis; e
il Cavallari Murat (op. cit.) calorosamente affermava che « l’adesione dei pie
montesi allo stile neogotico non rappresenta, in quei tempi lontani, una passiva
e ritardataria conseguenza di più o meno sentiti contatti con l’esterno, bensì un
fatto di viva, spontanea e palpitante attualità », onde « il più prezioso mazzo dei
quattrocenteschi fiori pittorici del forte e guerriero Piemonte non deve più temere
la grave responsabilità dell’appartenenza ad un’epoca che vantava già la diffusione
e le affermazioni degli insegnamenti masacceschi e mantegneschi ».
noto che non vai la pena insistervi. Il suo linguaggio più tipico echeggia con
inflessioni formali diverse, ma con un contenuto fondamentalmente unitario, tanto
nel S. Giorgio e la Principessa del Pisanello a S. Anastasia di Verona quanto nel
Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani a Palermo, di non ancora accertato autore
(Liliane Guerry, Le thème du Triomphe de la Mort clans la peinture italienne,
Paris, 1950); tanto nel maestro catalano della Leggenda di S. Giorgio del Louvre
e dell’Art Institute di Chicago quanto nel « primitivo » svizzero Conrad Witz dello
Specchio miracoloso; tanto nella Comunione di S. Dionigi di Jean Malouel e di
Henri Bellechose al Louvre quanto negli affreschi di Masolino da Panicale a
Castiglione Olona. Forme e contenuti che il Toesca or non è molto perfettamente
definì proprio parlando di questi affreschi (Masolino a Castiglione Olona, Milano,
s.d.) e dello « stile gotico che tra la fine del Trecento e il principio del Quattrocento
ebbe una gradazione, fra idealismo e realismo, detta del “gotico internazionale”
— poco curante dell’intrinseca natura delle cose, o dell’animo, e d’interpretare il
sensibile in modo personale a ciascun artista, pur di ornare, tutto trasponendo
in modi armoniosi ma superficiali, brillanti ma di tenue sostanza, sia corporea sia
spirituale: uno stile che ha singolari qualità poetiche, e un potere di trasfigurazione
fantastica per l’attenuarvisi di molti dati dei sensi — spazio; volume e peso; strut
tura e proporzioni dei corpi — che non è difetto, se libera l’immaginazione del
pittore a trovare ciò che più gli importa: lievità di ritmi; vaghe suggestioni; uno
svanire della “realtà” in un mondo incantato. Era uno stile che consentiva molte
varietà ai suoi fedeli: dalle miniature franco-fiamminghe più intese ad astratta
decorazione, a quelle splendenti del chiarore e del senso del paesaggio nelle “Très
riches Heures” del Duca di Berry; dalle opere di Lorenzo Monaco a quelle di
Gentile da Fabriano, dei Sanseverinati, del Pisanello».
crea-Facciata dell’ospedaletto
zione dì un ambiente tragico, di un mondo triste, severo e violentemente emotivo » ;
il prevalere del tema religioso, « più aderente alla psiche piemontese e savoiarda
d’allora», su quello profano, cortigiano e cavalleresco; e infine un tono volentieri
popolare anche negli esempi di maggior levatura artistica, una rusticità — come
ha osservato acutamente la Brizio (op. cit.) per gli affreschi di S. Antonio di
Ranverso — « che non è rozzezza, anzi non esclude la finezza e l’eleganza, ma è
una varietà meno “aulica” del gotico fiorito ».
Identificato il clima in cui si svolse questa civiltà pittorica con l’ambiente
storico sabaudo all’apogeo del suo splendore nell’età di Amedeo Vili — sessanta
anni di regno, 1391-1451, ora dichiarato ed ora dissimulato, compreso il pontificato
col nome di Felice V — e nel periodo immediatamente precedente; ribadito il
concetto che per almeno un trentennio « la pittura pedemontana fu perfettamente
aggiornata con le contemporanee scuole europee, ebbe un contenuto suo proprio
che la differenzia dalle altre, fu arte di primo piano perché realizzò un perfetto
equilibrio tra elementi illustrativi e decorativi»; potevano maturare più ampi e
rigorosi studi come quelli citati della Brizio, del Cavallari Murat, del Viale; come
quello recentissimo di Roberto Carità (La pittura nel Ducato di Amedeo Vili,
Revisione di Giacomo Jaquerio, « Bollettino d’arte », Roma, 1956), qua e là forse
discutibile per certe attribuzioni; mentre s’infittivano le ricerche parziali (per
esempio: Noemi Gabrielli, Un dipinto su tavola di Giacomo Jaquerio, « Bollettino
Storico-Bibliografico Subalpino», Torino, 1941), e addirittura alcuni giudizi,
prima eccessivamente restrittivi, si capovolgevano in esaltazioni, tipo quella, già
accennata, del Jaquerio ad opera di W. R. Valentiner (Le maître du Triomphe
de la Mort à Paierme, «Gazette des Beaux-Arts», Paris, 1937).
Le pareti affrescate con l’Andata al Calvario, l’Orazione nell’orto, l’Annun
ciazione, la volta con I quattro Evangelisti nella sagrestia dell’abbazia di S. Antonio
di Ranverso o d’inverso, fondata con l'annesso ospedale «per i leprosi» e i malati
di « fuoco di S. Antonio » (erpete zoster) da Umberto III di Savoia sul finir del
secolo XII ed affidata ai monaci antoniani di Vienne, erano note — al pari d’altri
L’avanzo del chiostro, costruito nell’ultimo trentennio
del secolo XV, dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso.
dazione», la dichiarava «degna di conservazione»; e notata la disparità, a paret
suo, esistente fra « alcuni personaggi nel cui volto è ammirabilmente dipinta
l’espressione del dolore e della compassione », ed altri « male espressi, male disegnati,
specialmente nelle estremità, ed indegni di stare a paro coi primi descritti », affer
mava che la pittura a fresco da un « vandalo » era stata « in molte parti rifatta
con colore a tempera ».
L’anno dopo C. Edoardo Mella, trattando nuovamente Dell’abbazia e chiesa
di S. Antonio di Ranverso (« Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per
la provincia di Torino», 1877), segnalava «come interessanti le pitture della
sagrestia che arieggiano il fare della scuola tedesca ». Ancor nel 1911 Pietro Toesca
(Torino, Bergamo, 1911) accennando a questi affreschi doveva accontentarsi di
assegnarli ad uno di quegli anonimi artisti i quali « tutti dimostrano come nel
corso del Quattrocento fosse profonda e prevalente l’influenza della pittura ol
tramontana nel Piemonte, anche in opere che si posson credere eseguite da artisti
piemontesi ». Fu infatti soltanto nel 1914 che Cesare Bertea, nella relazione sui
lavori di restauro compiuti a Ranverso dall’Ordine Mauriziano (Gli affreschi di
Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, «Atti
della Società Piemontese d’Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino »,
1914), potè annunziare la scoperta della scritta: (pietà) fuit ista capella p(er)
manu(m) Iacobi Jaqueri de Taurino, sulla fascia bianca della cornice a chiaro
scuro che corre orizzontalmente al di sopra della testa dei due profeti dipinti
sotto una Madonna in trono, resa visibile con gli altri affreschi del presbiterio
quando ne furono asportate le tinte moderne e tolti gli stalli settecenteschi
addossati alla parete.
GIACOMO JAQUERIO: Particolare del Sonno degli Apostoli della Orazione nel
l’Orto (affresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso).
figlio di Giovanni e nel 1404 abitante col fratello Matteo in case a S. Agnese e
a S. Simeone, passato al servizio di Lodovico d’Acaia, era pagato nel 1418 per
pitture eseguite nella camera del principe e nella contigua cappelletta del castello
di Pinerolo, e nuovamente rimunerato nel 1426 per lavori pittorici ordinati da
Amedeo Vili nella cappella del castello di Thonon. Lo stesso Giacomo Jaquerio
era poi dato presente a Torino nel 1426, nel 1429, nel 1440 col ragguardevole
incarico di clavarius comunale; ed a Torino moriva il 27 aprile 1453. I documenti
menzionavano ancora altri pittori Jaquerio attivi dal 1427 al 1485: Giovanni,
figlio di Matteo; Giorgio e Giacomo, figli del secondo Giovanni. Una famiglia
d’artisti torinesi, dunque, operosa per un secolo. Queste notizie vanno completate
con quelle fornite successivamente da Vittorio Viale, circa una pittura eseguita
nel 1401 da Giacomo Jaquerio nel convento dei Domenicani a Ginevra (Notizia
di una pittura di Jacobo Jaquerio a Ginevra, « Bollettino della Società Piemontese
d’Archeologia e Belle Arti », Torino, 1947), e da Roberto Carità (op. cit.) su
altri lavori che sarebbero stati condotti da Giacomo a Torino (il Carità sostiene
che il pittore del castello di Porta Fibellona fu Giacomo e non Giovanni), a
Ripaglia, a Thonon, a Pinerolo.
pareti, e sulla volta i Quattro Evangelisti; nell’ultima campata della navata destra,
S. Barbara e Due Santi negli sguanci della bifora e in una rientranza. Ultimamente
il Carità (op. cit.) tornava su una precedente attribuzione a Giacomo delle Storie
di S. Biagio in capo alla navata destra (attribuzione detta dalla Brizio « senza
fondamento »), e dava al Jaquerio anche queste pitture; non senza osservare che
l’Andata al Calvario con la sua violenza, il suo movimento, le sue durezze, i suoi
spunti espressionistici drammatico-grotteschi, rappresenta « un momento un poco
eccentrico nello svolgimento dell’attività dell’artista », il quale altrove si rivela
come un « temperamento sognante e malinconico, incline a stati contemplativi,
espressi — in senso pittorico — con figure stanche e dolenti, di una eleganza
raffinata di sapore romantico ». Una osservazione che — considerando anche le
pitture della chiesa di S. Pietro di Pianezza, le quali sono ormai concordemente, per
lo stile, date al Jaquerio (Eugenio Olivero, L’antica pieve di S. Pietro presso Pia
nezza, Torino, 1928; Cavallari Murat, Brizio, Carità, op. cit.) — non appare priva
di valore, e potrebbe forse indicare, sia pure in modo molto dubitativo, un cam
mino dell’interessante pittore torinese da Ranverso e da Pianezza fino al castello
della Manta, per i Nove Prodi e le Nove Eroine della sala baronale. E’ un’ipotesi
assai azzardata, la quale, ove trovasse credito, darebbe finalmente una paternità a
quei suggestivi affreschi, e che è sostenuta (per comunicazione orale) da Noemi
Gabrielli. Del resto, anche un osservatore acuto come il Toesca (Antichi affre
schi piemontesi, op. cit.), benché asserendo che le decorazioni della Manta spettano
« ad altro pittore », non poteva fare a meno di notare che « nella tumultuosa
scena dell’Andata al Calvario si esplica ampiamente la predilezione di ritrarre at
teggiamenti e figure grottesche che si scorge anche nella Fontana di Giovinezza
dipinta nel castello di Manta: tendenza più propria assai dell’arte oltramontana
che della nostra, ma rinnovantesi in altri periodi dell’arte nelle regioni alpine
dell’Italia settentrionale. Nei tipi delle figure, nella tecnica del colore anche più
appaiono strette somiglianze fra gli affreschi di Manta e quelli di Ranverso: tinte
piatte sul terreno e nello sfondo, vivacissime nelle vesti, ora scialbe ora ardenti e
rossastre nei visi ». Malgrado quell’« altro pittore », pare che il Toesca si trattenga
con rammarico dal dichiarare che i due affreschi sono addirittura della stessa mano.
E se mai, non potrebbe essersi rinnovato alla Manta il « momento eccentrico » del
Calvario di Ranverso?
GIACOMO JAQUERIO
A n d a t a a l Ca l v a r i o
Affresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso.
varia e vivace, ora impetuosa, energica, rude, passionale, ora meditativa e raccolta
in una aristocratica difesa della propria intimità; una individualità degna, per
incisività di stile e spontaneità di sentimento, per padronanza di mezzi espressivi
e libertà di fantasia, di andare accanto alle maggiori della pittura coeva dell’Italia
del Nord e del Centro. Fare di Giacomo Jaquerio il multiforme maestro che ha
voluto in lui disegnare il Valentiner (op. cit.), l’autore del Trionfo della Morte
di Palazzo Sclafani a Palermo e della Leggenda di S. Giorgio divisa fra Parigi e
Chicago, il coltissimo artista che viaggia dalla Borgogna alla Catalogna eserci
tandovi la sua influenza è senza dubbio eccessivo, anche perchè le analogie viste
dal Valentiner stentano a reggere una serrata analisi stilistica, come hanno
dimostrato sia Carlo Lodovico Ragghiami (« La Critica d’Arte », Firenze, aprile
1938, sia la Brizio, op. cit.). Ma del Valentiner è accettabile l’asserzione che il
Jaquerio è « un maitre de premier pian », di « singulière vigueur », il cui talento
è « tout autre que celui d’un simple imitateur », sì che meriterebbe gli fosse asse
gnata nella storia della pittura del Quattrocento « une place plus éminente que
celle dont on l’a jugé digne jusqu’à present ». E’ un giudizio che coincide con
quello del Viale (op. cit.), quando parla di « una vigoria plastica, una larghezza di
pennellata, un senso del colore, una padronanza del chiaroscuro, una profondità
di espressione interiore, un equilibrato concorrere insomma di nuovi elementi sti
listici e psicologici, da far pensare veramente che il Jaquerio sia non solo il più
dotato e squisito pittore del neo gotico locale, ma un maestro di forte e originale
personalità, vigoroso preannunziatore dell’arte nuova ».
alle terrestri debolezze della carne. Ma con franchezza, senza il minimo imbarazzo,
senza la minima ambiguità di pensieri, i Preus e le Preuses del poema cavalleresco
contemplano le smanie, i lazzi, le soddisfazioni amorose, dei vecchioni accorrenti
alla Fontana di Giovinezza e subito rinvigoriti dal bagno miracoloso.
Questo perfetto esempio di pittura neogotica profana, il più alto del Piemonte
insieme con alcuni affreschi di Fénis, fu voluto da Valerano di Saluzzo, figlio ille
gittimo (e perciò detto il Bardo, bastardo nel dialetto locale) del marchese Tom
maso III, autore dello Chevalier Errant, « romanzo cavalleresco ove le più strane
avventure si frammischiano a fatti contemporanei, e i ragionamenti scientifici e
morali a racconti di tornei, caccie, battaglie, incantesimi » (Paolo D’Ancona, op.
cit.). Tommaso III, di gusti francesizzanti, marito d’una francese, Margherita di
Roussy, compose a Parigi, presso la corte di Carlo VI, probabilmente fra il 1403
e il 1404, il suo poema, pervenuto ai posteri in due manoscritti membranacei mi
niati : uno già appartenente ai Savoia, ricordato nel secolo XV come « ung gros livre
en parchemin, escript à la main en françois, et nommé le Chevalier errant, historié
et illuminé d’or et d’azur », passato alla Biblioteca Nazionale di Torino e pressoché
distrutto dall’incendio del 1904 (ma restaurato in una dozzina di miniature); l’al
tro, più riccamente illustrato, conservato intatto alla Nazionale di Parigi.
Tommaso III morì nel 1416 lasciando a Valerano castrum et villam della Manta.
L’erede, uomo di spiriti larghi — il quale, anche durante la reggenza del mar
chesato tenuto durante la minore età di Lodovico I, accrebbe di potenza e ricchezza
Delfila vincitrice di Tebe, Semiramide regina degli Assiri, Sinope amazzone guer
riera, Ippolita avversaria di Ercole, Etiope conquistatrice dell’India, Lampeto,
Tamiramide, Teuca, Pentesilea regina delle amazzoni uccisa da Achille: personaggi
tutti che Tommaso III aveva trovato in precedenti romanzi cavallereschi francesi,
e che gli artisti non tardarono a raffigurare nei costumi contemporanei, ond’essi
— come alla Manta — si distinguono soltanto per le scritte che li accompagnano.
Neppure in Italia queste rappresentazioni di cicli onorifici costituivano, da Milano
a Verona, da Roma a Napoli, una novità; gli arazzi francesi le ripetevano almeno
dal 1360; ma non v’è dubbio che le diciotto figure della Manta sian state tolte
dal manoscritto miniato, adesso della Nazionale di Parigi, opera di amanuense e
miniatore francese; come risulta evidente dalla carta 125, recto e verso, del pre
detto codice 12559 f. Fr., dove appunto si vedono riuniti in una pagina i Neuf
Prens e in un’altra le nove dame.
I NOVE PRODI e le NOVE EROINE
A ffresco d e lla sala b a ro n a le d el ca stello d e lla M an ta, presso Saluzzo.
Delle figure delle ultime due Eroine — Teuca e Pentesilea — restano soltanto
alcune parti dipinte: come la metà superiore di Teuca, riprodotta in copertina.
Riproduzione d’una delle scritte che stanno sotto i personaggi affrescati nella sala baronale
del castello della Manta. Questa si riferisce a Giuda Maccabeo.
Saluzzo, 1829-1833) vedeva — meglio che non si veda ora per il guasto della
pittura a sinistra — dirigersi verso la Fontana; e allegramente spregiudicato. Il
mito appare quasi trasformato in farsa; ed alla raffigurazione dei suoi attoii 1 ar
tista, trascinato forse dal brio, non diede certo la cura rappresentativa, 1 impegno
stilistico dell’affresco di fronte, tanto più raffinato in ogni particolare. Sempie
che si tratti di un medesimo pittore: cosa finora non messa in dubbio malgrado
il diverso modo — molto più corrivo nella Fontana che non nei liodi e nelle
Eroine — di trattar le figure e le vesti, e soprattutto il colore. Si ripete qui, forse
con maggior accentuazione, il contrasto che si scorge anche a Ranverso fra alcune
pitture del presbiterio e l'Andata al Calvario. Influì il soggetto sull artista?
0 dall’intervento massiccio di uno o piti aiuti derivarono queste inconseguenze sti
listiche? E’ un problema che probabilmente andrebbe riesaminato; mentre dal
D’Ancona in poi (op. cit.) fu senz’altro accettata l’identità di mano nelle due opere
benché come tema tanto differenti.
e a Pianezza, e quelle d’alcuni volti dei Prodi e delle Eroine: per esempio si
confronti il viso della Madonna del presbiterio di Ranverso col viso di Teuca
nella sala baronale della Manta.
Qual fosse ancora una settantina d’anni fa l’ignoranza non del nome ma
dell’arte dello Spanzotti malgrado la scoperta del padre Luigi Bruzza (Miscellanea
di storia italiana, Torino, 1862) relativa all’alunnato del Sodoma, a partire dal
1490, nella bottega a Vercelli del « magistro Martino de Spanzotis de Casale
pinctore », lo prova la domanda postasi nel 1880 dal Gamba (L’arte antica in
Piemonte, op. cit.): « Chi era questo Martino de Spanzotis? Quale il suo merito
artistico? Credo poter rispondere in modo sicuro essere egli stato uno dei tanti
ammiratori e seguaci del Leonardo alla cui scuola iniziò il suo discepolo». Noto
è poi il gran passo compiuto sulla via degli accertamenti spanzottiani da Alessandro
Baudi di Vesme con l’acquisto nel 1899 per la Pinacoteca torinese dell’unica
opera firmata (« Hopus Iohis Martini Casalen ») dal pittore, la tavola centrale
del Trittico della Galleria Sabauda, base di tutte le seguenti attribuzioni al maestro
casalese. E’ da questa Madonna in trono e dall’altra, tosto identificata da Adolfo
Venturi, ma da qualche posteriore studioso esclusa dalla produzione spanzottiana,
della Galleria dell’Accademia Albertina di Torino, che mosse Lisetta Ciaccio
(Gian Martino Spanzotti da Casale, op. cit.) per stabilire nel 1904 che il ciclo
d’affreschi del S. Bernardino d’Ivrea, allora « adibito ad uso di fienile e legnaia »
— affreschi « conosciuti e tenuti già in bastante considerazione, benché anonimi,
dagli amatori piemontesi » — doveva esser considerato « un’altra opera del maestro
di Sodoma ». Merito grandissimo che va riconosciuto a questa pioniera degli studi
artistici piemontesi, nonostante i suoi errori di visione critica, se anche un’auto
revole indagatrice dell’arte spanzottiana quale è la Brizio (op. cit.), meravigliandosi
delle reticenze del Vesme ad attribuire gli affreschi d’Ivrea allo Spanzotti, li
dichiara di questo « l’opera maggiore e più significativa » : un’opera che potrà
esser completata dalle pitture che adesso vanno scoprendosi sotto lo scialbo sulle
altre pareti della chiesuola, che per l’ingrandirsi dello stabilimento Olivetti risulta
purtroppo ora rinchiusa fra edifici industriali.
naio 1954) che opponendosi particolarmente al Berenson, il quale (Pitture italiane
del Rinascimento, Milano, 1936) ha sempre considerato la parete d’Ivrea un’opera
tarda, non concede a questa — riscontrandovi troppe analogie col trittico della
Sabauda, da avvicinare al 1480 — di «oltrepassare il nono decennio» del
Quattrocento. Dal che si vede quanto ingenua fosse la « certezza » del Gamba
nel fare dello Spanzotti un « seguace » di Leonardo!
Spanzotti, uomo nuovo nella tradizione culturale piemontese del Quattrocento,
sostituisce il gusto della semplicità narrativa e un’inconsueta serietà morale. La
sua religiosità non è maggiore di quella del Jaquerio, ma ha un timbro più grave
e profondo che deriva dall’essenzialità delle sue solide forme, sulle quali si frange
l’ultimo flutto dell’arte « cortese ».
Perciò la grande parete istoriata del S. Bernardino d’Ivrea, mentre conclude,
riassumendola, la civiltà pittorica subalpina più intrisa di cultura internazionale,
preannunzia il tempo dell’affermazione dell’unico maestro piemontese — e rimasto
« piemontese » come non rimase il Sodoma — di respiro veramente rinascimentale-
italiano: Gaudenzio Ferrari.
MARZIANO BERNARDI
Giovanni Martino Spanzotti: Cristo nel sepolcro, piccolo
affresco su uno dei due pilastri che reggono la
NOTA BIBLIOGRAFICA
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F o n d a ta su l fin ire d el seco lo X II da U m b e r to IH d i S av oia, l ’ab b azia d i S. A n to n io d i R a n verso, o d ’in v e rso , fu affid ata ai m o n a ci a n to n ia n i v e n u ti, pare, d i F ran cia, i q u a li a v ev a n o in cura i m a la ti d i leb b ra e d i « fu o c o d i S. A n to n io » , cio è l ’erp ete zoster: d i q u i 1’esisten za d el p icc o lo o sp ed a le presso la ch iesa, ch e a cco g liev a i p e lle g r in i in fe r m i su lla g ra n d e v ia d i tran sito d ella V al d i Susa, a d d u cen te ai c o lli d el M o n ce n isio e d e l M o n g in ev ro , ed al cu i sb occo, a p o c h i ch ilo m etri a m o n te d i R iv o li, è situ a ta l ’ab b azia. A lla fine d el seco lo X II la ch iesa, d i p icc o le d im e n sio n i, aveva u n a so la n av ata con ab sid e sem icircolare e u n b asso ca m p a n ile ch e serve d i base a ll’a ttu a le, d ella seco n d a m età d el T rec en to . N e l seco lo X III l ’ab sid e fu a m p lia ta in u n p resb i terio a p ia n ta q u a d ra ta e v o lta a crociera. N e l corso d e l T r e c e n to v en n ero co stru ite le ca p p elle d e l fian co sette n trio n a le , la ch iesa an cora s’a llu n g ò , fu d o ta ta d e lla sagrestia, creato il p o rtico d ’in g resso a tre arch i a cu ti, a g g iu n ta la n a v e m in o re a su d . N e ll’u ltim o tr e n te n n io d e l Q u a ttro cen to d a u n n u o v o a llu n g a m e n to risu ltò l ’a ttu a le ab sid e p o lig o n a le . S o n o d i q u e sto tem p o la ricca d eco ra zio n e a terreco tte sagom ate, co n d iseg n i d i fiori e fru tti su lla fron te a p o n e n te , la faccia ta d e ll’osp ed a le, il ch io strin o a su d d e lla ch iesa, d el q u a le n o n avan za ch e u n la to : la v o ri o r d in a ti d a G io v a n n i d i M o n tch en u , vesco vo d i V iviers, n o m in a to co m m e n d a ta rio e ce lla rio d i R a n v er so il 22 a p rile 1470, a lla m o rte d i G io v a n n i d i R o m a g n a n o . (B ertea, op. cit.)
L a ch iesa fu affrescata a p a rtire d al D u e c e n to (affreschi n e ll’u ltim a cam p ata d ella n a v e m a gg iore, n e l n a rtece e a sin istra d e ll’arcata d e lla seco n d a ca p p ella). T rec en tesch i so n o g li affreschi d ella terza ca p p ella a sin istra ; a ltri q u a ttro cen tesch i, n u m ero si, d eco ra n o la ch iesa ed il p ic c o lo o ra to rio d i G io v a n n i d i M o n tch en u n e ll’a n tico co n v en to . P er la d escrizio n e p a rtico la reg g ia ta d i essi e d i a lc u n i a ltri cin q u ece n te sc h i, v. B rizio (op. cit.). I d ip in ti p iù im p o r ta n ti
so n o q u e lli d i G ia co m o J a q u erio : n e l p resb iterio , Madonna, Profeti, Santi, Storie di S. Antonio, Contadini con animali; n e lla sagrestia, Andata al Calvario, Annunciazione, Orazione nell’ Orto, I quattro Evangelisti; n e ll’u ltim a ca m p ata
d ella n a v e destra, S. Barbara, Due santi. (B rizio, op. cit.). P er a ltre a ttrib u
z io n i v. C arità, op. cit.). (P er i rife r im e n ti b ib lio g ra fici d i q u este cita zio n i,
T a v o l a
I
Ma d o n n a i n t r o n o c o l Ba m b i n o e d o n a t o r e
(Altresco della parete sinistra del presbiterio nella chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso)
È so tto q u esta M a d o n n a , affrescata su u n p ila stro fra d u e fin estre e sovrastan te u n a fascia su cu i so n o d ip in te b ellissim e figu re d i P ro feti, ch e fu scop erta — n ella fascia b ian ca d ella co rn ice a ch ia roscu ro ch e corre sop ra la testa di d u e d i co d este figure — la scritta: «[Pietà] fuit ista capella p[er\ marni (>rì) lacchi Iaqueri de Taurino », d a lla q u a le si d ed u sse n e l 1914 la p a tern ità d eg li
affreschi d el p resb iterio, d ella sagrestia e d e ll’u ltim a ca m p ata d ella n avata d estra d e lla ch iesa d e ll’ab b a zia d i S. A n to n io d i R a n v erso . (B ertea, op. cit.)
C irca q u a r a n t’a n n i p rim a il G am b a (op. cit.) aveva su p p o sto l ’esisten za di
q u esti affreschi, rico p erti d a llo scialb o , d a lle r id ip in tu r e e d a g li sta lli d el coro; e p iù tard i R icca rd o B rayd a aveva rim esso in lu ce q u e lli d e lla ca p p ella d i fian co al ca m p a n ile. Q u esta fin e e g e n tile p ittu ra , i co lo ri d ella q u a le so n o sta ti u n p o co sp en ti d a l tem p o e p iù d a ll’in cu ria d eg li u o m in i,
è
p u r tr o p p o gu a sta n e lla figura d el d o n a to re — l ’a b a te co m m e n d a ta rio ch e o r d in ò la d eco ra zio n e d e l p resb iterio — d a ll’ap ertu ra d i u n b u co op era ta n el m u ro q u a n d o si d rizzaron o le im p a lca tu re p er im b ia n ca re (com e si usava in p assato d o p o le e p id em ie) le p a reti. R esta tu tta v ia la traccia d i u n a lto stile e d i u n d elic a to se n tim e n to relig io so . A n ch e la co m p o sizio n e a r ch itetto n ica ch e in q u a d ra il tro n o a ch ia roscu ro e ra p p resen ta l’in tern o d ’u n a ch iesa con arch i e p in n a c o li, p erfetta m en te riflette il g u sto n eo g o tico , d el q u a le il Jaq u erio è torse il m assim o e sp o n e n te in P iem o n te. M o lte so n o le a n a lo g ie ch e si p o treb b ero riscon trare fra q u e st’im m a g in e ed a ltre d e llo stile « in tern a zio n a le » . P er esem p io il ta g lio d e lla b occaè
id e n tic o a q u e llo ch e ap p a re in M a d o n n e di scu o la ca ta la n a e fran cese, e n e lle m in ia tu re p er il d u ca d i B erry d ei fra telli L im b o u rg . M a a ltretta n ta a ffin ità d i lin g u a g g io si trova in a lcu n e figure fe m m in ili d ella sala b a ro n a le d ella M a n ta , sp ecie n e lla p rim a e n ella p e n u ltim a d e lle n o v e E ro in e. P er q u a n to rig u ard a la d a ta d ’esecu zio n e, si ved a il co m m e n to d ella ta v o la seg u en te. (P er i rife r im e n ti b ib lio g ra fici d i q u este cita zio n i, v. in tro d u zio n e .)GIACOMO JAQUERIO
Ta v o l a II
A n d a t a a l Ca l v a r i o
(Particolare dell'afiresco nella sagrestia della chiesa dell'abbazia di S. Antonio di Ranverso)
L e n o tizie in to r n o a G ia co m o J a q u erio , so n o sta te a n ticip a te d a l 1418 (R on - d o lin o , B rizio, op. cit.) a l 1401, a n n o in cu i eg li firm ò « J a cob u s J a q u eri de
C iv ita te T a u r in i P e d e m o n tio » u n a p ittu ra n e l c o n v en to d ei D o m e n ic a n i a G in ev ra (V ia le, op. cit.). C iò sign ifica c h ’e g li visse p iù d i se tta n t’an n i, forse
q u a si o tta n ta , e ch ’era n e l p ie n o d ella m a tu rità q u a n d o affrescò a S. A n to n io d i R a n v erso : se è v ero ch e q u i d ip in se d o p o il su o rito rn o d a T h o n o n a T o r in o n el 1426, d ata p ro p o sta d a l B ertea (op. cit.), m a ch e il C a rità h a
osserva to essere u n ’ip o tesi p erso n a le d e l B ertea stesso. In fa tti q u esti affreschi, ch e p r u d en tem en te la B rizio p o n e n e l seco n d o q u a rto d e l seco lo X V , p o tre b b ero esser sta ti d ip in ti assai p iù tard i d e l 1426, d u ra n te la d im o ra d el J a q u erio a T o r in o , testim o n ia ta n el 1429 e n e l 1440; m a a n ch e p rim a , a ll’in circa n e l tem p o c h ’e g li lavo rava a P in ero lo . Il C arità, p o i, so stien e — co n tra ria m en te a l p arere d ei p iù — ch e le p ittu re d e lla sagrestia p reced ettero d ’assai q u e lle d el p resb iterio , a lle q u a li, al d i sop ra d e lle teste d e i d u e P ro feti che sta n n o so tto la Madonna col Bambino e donatore, l’artista ap p o se la su a firm a.
Il p a rtico la re q u i rip r o d o tto , e l’altro d e lla ta v o la seg u e n te d o v e si v ed e il m a n ig o ld o ch e trascina g h ig n a n d o co n u n a cord a G esù , m ostra q u a n ta affinità a b b ia la co m p o sizio n e co n il celeb re Parement de Narbonne (L ou vre), d ip in to
ad in ch io stro su seta verso il 1373-1378, op era ca p ita le d i scu o la p a rig in a p er la sto ria d ella p ittu ra in F ran cia, e ch e riv ela la co n cez io n e n u o v a , in q u e ll’età d i tran sizio n e, n e lla ra p p resen ta zio n e d ei Sacri M isteri. P iù d i m ezzo seco lo d iv id e il Parement fran cese d a q u esta ita lia n a Andata al Calvario in
cu i « co m p a io n o a n ch e in flu ssi svizzero-ted esch i » (B rizio, op. cit.); m a l’affi
n ità co m p o sitiv a d im ostra q u a n to lo sch em a fosse v iv o n e lla m em o ria d el J a q u erio , ch e lo p o tè co n o scere d a m in ia tu re fran cesi : sch em a, d el resto, p ie n o d i rem in iscen ze ita lia n e , m en tre i ceffi r ip u g n a n ti d e i carn efici h a n n o u n a ccen to tip ica m e n te n o rd ico . (P er i rifer im en ti b ib lio g ra fici d i q u este cita zio n i, v. in tro d u zio n e.)
GIACOMO JAQUERIO
T
avola
III
GIACOMO JAQUERIO
(Notizie dal 1401 alla morte, il 27 aprile 1453)
An d a t a a l Ca l v a r i o
(Particolare dell'attresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso)
N o n esiste n e lla p ittu ra p iem o n te se d el Q u a ttro cen to u n b ra n o d i p o ten za — e si p o treb b e d ir v io len za — ra p p resen ta tiv a p ari a q u est 'Andata al Calvario;
e n o n m o lti, fu o ri d ella re g io n e su b a lp in a , sem p re su l p ia n o d i u n a tru cu len ta efficacia d escrittiva , n e reg g o n o , n el seco n d o q u a rto d e l seco lo X V , il co n fro n to . S i ca p isce ch e il V a len tin er , il q u a le v i scorge « la stessa co m p o sizio n e, l ’oriz zo n te m o lto a lto , le figu re p ig ia te neH ’a ffo lla m en to d e lla p a rte su p erio re... lo stesso m o v im e n to d ra m m a tico coi g ru p p i in p rim o p ia n o d e lle p erso n e a g ita te, le stesse figure in e q u ilib r io m alcerto, co n le g a m b e cu rve in fu o ri a lla m an iera go tica , i p ie d i a p in n a p o sa ti n el m ed e sim o m o d o su l su o lo » d ella Leggenda di S. Giorgio al L ou vre, n e sia rim asto così im p ressio n a to d a con sid erare il
J a q u erio u n m aestro di sta tu ra eccezio n a le. E g li afferm a (op. cit.) ch e l’artista
co n o b b e, o ltre le p ittu re ted esch e cu i fa p en sa re la b ru ta lità d i p a recch i d i q u esti ca rn efici, « d e lle co m p o siz io n i fran cesi co n le q u a li s’im p a r en ta n o le figure d a lla b arb a a d u e p u n te con i lo ro stra o rd in a ri co p rica p i ». A n ch e la B rizio (op. cit.) n o ta d el resto le in flu en ze svizzero-ted esch e n e lla tip o lo g ia e
n e ll’a ccen tu a zio n e, in u n certo senso, esp ressio n istica , d e lle p a ssio n i. Il p itto re è in fa tti riu scito a in fo n d e re n ei p erso n a g g i, sin g o la r m en te caratterizzati n ella tip icità fisica e n ella varietà p sico lo g ica , u n a forza tu m u ltu a n te e selvag gia ch e si p o treb b e d ire « co rale ». C osi aveva a g ito a n ch e l ’artista d el Parement de Narbonne (v. c o m m e n to d ella ta v o la p reced en te), m a q u i la q u asi astratta
ico n ogra fia d e l ra cco n to trecen tesco è d iv e n ta ta tu rgid a realtà fin o a ll’orrid o e al g rottesco . U n a fu riosa eccita zio n e sq u assa il tragico co rteo d eg li arm igeri, d ei carn efici, d ei m a n ig o ld i, ch e an cor p iù d el R e d en to r e si fa n n o p ro ta g o n isti d e lla scen a atroce, e su q u e ll’o n d a u m a n a d i cieca b estia lità o n d e g g ia il m a g n ifico o r n a m en to d e lle aste, d e lle la n ce, d e lle alab ard e, d eg li sten d ard i, p recorren te d i tre d ec en n i il P a o lo U c c e llo n e lla Battaglia di San Romano, e
g ià a ccen n a to d a G io tto n e lla Cattura di Cristo a ll’A ren a d i P ad ova. (P er i
T a v o l a
IV
GIACOMO JAQUERIO
(Notizie dal 1401 alla morte, il 27 aprile 1453)
A n d a t a a l Ca l v a r i o
(Particolare deH'affresco nella sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso)
D a q u e sto p a rtico la re risu lta ev id e n te l ’im p e g n o veristico p o sto d al J a q u erio n e l su o fosco ra ccon to. T u tto vi è stu d ia to e d escritto co n im p la c a b ile p reci sio n e: la fo g g ia d e i c a p p elli, d e i ca p p u cci, d e i m o r io n i, d e lle vesti, d e lle arm i, co n u n a cu riosa m iscela d i ele m e n ti d i co stu m i co n te m p o ra n ei e d i fo g g e p iù a n tich e. M a la su a a tten zio n e s’è a p p u n ta ta so p ra ttu tto su i v o lti p er sta b ilire u n a v a rietà d ’esp ression e seco n d o la n a tu ra e la fu n zio n e d e i p erso n a g g i: da q u e lli d e i so ld a ti, ad esem p io , si co m p ren d e c h ’è il d ov ere a sp in g er li a lla triste b isogn a , m en tre n e i v isi d ei carn efici e d ei loro a cco m p a g n a to ri si sta m p a la m a lv a g ità , il co m p ia cim en to cru d ele d i q u a n to sta p er avven ire. A p a rte l ’in te n to p sico lo g ico , così sco p erto d a riu scire in g e n u o , il p itto re dà u n a m agn ifica p ro va d i p erizia n el ra g g ru p p a m en to d e lle teste, tu tte p la stica m en te in d iv id u a te m a lg ra d o la co m p o sizio n e p ig ia ta , e n e lla ritm ica d isp o si zio n e d e lle m a n i, e l’osserva zion e d e l V a le n tin e r (op. cit.) ch e le figu re in
T a v o l a
V
GIACOMO JAQUERIO
(Notizie dal 1401 alla morte, il 27 aprile 1453)
An d a t a a l Ca l v a r i o
(Particolare dell’aftresco nella sagrestia della chiesa dell'abbazia di S. Antonio di Ranverso)
T a v o l a
VI
GIACOMO JAQUERIO
(Notizie dal 1401 alla morte, il 27 aprile 1453)
O r a z i o n e n e l l’o r t o
(Particolare dell’affresco sulla parete di ponente nella
sagrestia della chiesa dell’abbazia di S. Antonio di Ranverso)
O p p o rtu n a m en te h a so tto lin e a to il C arità (op. cit.) ch e q u esta Orazione « è
u n a d e lle m ig lio r i cose ch e l ’arte ja q u e ria n a , n o n so lo , m a l ’arte d el p rim o ’400 d i tu tta la re g io n e ci a b b ia la scia to ». « In tern a z io n a le », m a co n sfu m a tu ra p r o fo n d a m en te lo m b a rd a , è q u eU ’/to r iu i conclusus, co n to rn a to d a tra licci d i
ram i, m o tiv o così caro ai m in ia tu risti d el tem p o . L a sem p lice m essin scen a esclu d e fioritu re d i co lo rite co ro lle, ricam i d i ste li a rcu a ti: « Q u i è u n terren o in d eso la to a b b a n d o n o , cosp arso d i rocce stratificate e corrose, ch e fa p iù so la la d isp era zio n e d e l C risto d i fro n te a ll’a n g e lo ch e g li a d d ita il cielo . N o n v ’è u m a n o co n fo rto , ch é il so n n o d e g li a p o sto li è p esa n te q u a n to l ’im m o b ilità d e lle rocce ». (In fa tti n e lla p a rte sin istra d e ll’affresco, in form a d i lu n e tta , si sco rg o n o i tre a p o sto li a d d o rm en ta ti, u n o d ei q u a li stra o rd in a ria m en te ra sso m ig lia n te al so ld a to d e lla T a v o la V .) L a m ed e sim a sem p licità p itto rica , la stessa severità sp iritu a le trov erem o u n a se tta n tin a d ’a n n i d o p o n e ll’Orazione nell’Orto d ip in ta ad Ivrea (v. T a v o la X X II) d a llo S p an zotti, n e l
q u a le il p re d etto lo m b a rd ism o è d i gran lu n g a p iù ev id en te, m a ch e certa m en te a ll’op era d el J a q u erio n o n p o tè essere in sen sib ile. C erto è p erò che in en tra m b e le p ittu re si riscon tra la stessa v o lo n tà d i sem p lifica zio n e, di so b rietà m ora le, e ch e le figu re d el v e cch io d iscep o lo co n la b arba so n o di affinità so rp ren d en te. Il m o tiv o p o i d e ll’o rto conclusus co n la siep e d i v im in i
in trec cia ti lo si ritro va id e n tic o p ersin o n e l p a rtico la re d e i p a le tti fo rcu ti in u n o scom p arto d e lla p re d ella d ella Madonna della Misericordia (M u seo M as-
sen a a N izza) d el p itto re p ro v en za le J ea n M ira ilh et, co n te m p o ra n eo d el Ja q u erio . N e p p u r e q u esta v o lta si p re te n d e ch e fra il m a estro p iem o n te se ed il m aestro fran cese ci sian sta ti c o n ta tti d ire tti: b a sta n o q u e lli fa v o r iti d a u n o stesso clim a
T a v o l a
VII
GIACOMO JAQUERIO
(Notizie dal 1401 alla morte, il 27 aprile 1453)
S.
Gi o v a n n i E v a n g e l i s t a(Uno dei quattro Evangelisti affrescati sulla volta nella
sagrestia della chiesa dell'abbazia di S. Antonio di Ranverso)
Q u esta fin issim a figura d i E v a n g elista ch e sta m e d ita n d o e scriv en d o sed u to su u n ’a d o rn a catted ra g o tica gra zio sa m en te p osata su l terren o fiorito, è u n ’altra p rova d elle a ltissim e p o ssib ilità p itto rich e d i G ia co m o J a q u erio . S u l v o lto d i G io v a n n i rito rn a la p en so sità d e l so ld a to (T a v o la V ) deW Andata al Calvario,
co n in p iù u n a n o ta d i eleg a n za , d i ricercatezza tip ica d ella p ittu ra « cortese » d e l tem p o : m a n i d i aristocratico, ca p elli in a n e lla ti d a p a g g io , u n a tteg g ia m en to ch e sta fra riflession e e m a lin c o n ia , si d a g iu stificare il « tem p era m en to so g n a n te », in c lin e a sta ti co n te m p la tiv i, ch e il C arità (op. cit.) h a a ttr ib u ito al
J a q u erio ; il tu tto a n im a to d a u n co lore lev ita n te , p a rsim o n io sa m en te m o d u la to . G li E v a n g e listi d e lla v o lta d i R a n verso, ch e p re su m ib ilm en te d o v ettero essere d ip in ti d o p o l'Andata al Calvario, a term in a re la d eco ra zio n e d e ll’a m b ien te,
seg n a n o u n a sald atu ra stilistica fra la g ra n d e scen a d ra m m a tica d ella sagrestia e g li affreschi d e l p reb isterio : sia ch e q u e sti — co m e vo rreb b e il C arità — a b b ia n o seg u ito q u e lla , o viceversa. Il C a v allari-M u rat d ied e so m m a ria m en te al J a q u erio « la d eco ra zio n e d e l p reb isterio d e lla ch iesa d i S an P ietro n e i pressi d i P ian ezza, con affreschi m o lto affini a q u e lli d i S a n t’A n to n io d i R a n v erso », in clu d en d o si p erciò an ch e i q u a ttro E v a n g e listi d ip in ti su lla v o lta (op. cit.).
L a B rizio lo seg u ì (op. cit.) osserva n d o ch e « s’a tteg g ia n o in p ose sim ili agli