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Dissolvenze dell io, dissolvenze soggettive Di Cristiana Fanelli 1

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Academic year: 2022

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Dissolvenze dell’io, dissolvenze soggettive Di Cristiana Fanelli1

«In nessun altro luogo il vuoto si esprime con così tanta forza come nel volto […]

Da nessun’altra parte il vuoto si trasforma così tanto in vacuità, in nulla».

I. Goldberg, L’eclissi del volto

La bipartizione proposta da Lacan (che distingue tra paranoie e schizofrenie) resta un riferimento.

Se nelle paranoie è preservata una consistenza immaginaria, nel polo delle schizofrenie l’automatismo mentale invade tutto il campo del pensiero mentre il corpo, in assenza del filtro immaginario, è consegnato al Reale, invaso da fenomeni elementari che lo disintegrano2. A ben vedere, però, il corpo è solo l’altra faccia di un discorso privo di unità, ma in balia di moltissimi disturbi del linguaggio, un discorso incoerente ed ermetico perché il piano immaginario della significazione fugge via. Questa, va da sé, è la situazione in cui il soggetto si trova maggiormente disorganizzato ed esposto.

Dobbiamo ascrivere al polo delle schizofrenie un’altra possibilità, dotata però di uno strumento in più. Si tratta di una psicosi a base di automatismo mentale, con un soggetto privo di io che, malgrado tale difetto, giunge a copiare dei comportamenti e ad incollarsi a ciò che attraversa il suo campo percettivo. Tale capacità mimetica non ha nulla a che vedere con un’identificazione, non implica alcuna iscrizione di tracce, pertanto questi copiaggi hanno una durata brevissima, poi si dissolvono – vanno quindi rinnovati di continuo:

«La persona senza personalità ci trasmette tutto ciò che ha potuto vedere o sentire nell’ultima mezz’ora prima, con una cancellazione molto caratteristica. Jean-Jacques Tyszler ha riportato il caso di una paziente che lo lasciava molto perplesso fin quando non si è reso conto che lei gli raccontava i giornali presenti nella sua sala d’attesa. Sono soggetti privi d’immaginazione, solo copia e incolla»3.

Questo copia e incolla automatico permette un’integrazione sociale di gran lunga superiore a quella degli schizofrenici e tampona in qualche modo anche i fenomeni allucinatori che investono il corpo.

Infatti è una psicosi che può perdurare in assenza di episodi deliranti e senza scatenamenti4. Sarebbe interessante indagare perché questo tipo di arrangiamento immaginario funzioni soprattutto nelle donne. È Czermak ad offrirci gli strumenti teorici per pensare questo quadro clinico e a fissarne i tratti distintivi.

Alla dimensione aleatoria dell’io corrisponde una forte atopia, anche corporea. Czermak racconta di una paziente che ha passato la vita a rimpiazzare la madre, senza mai definire una sua posizione. Non era titolare di alcun posto stabile, solo posti transitori. Se ne occupava uno, era sempre a breve termine. La donna lo spiega così: «Ero la persona temporanea che rimpiazza un’altra, a volte tre settimane, a volte un mese»5.

1 Questo articolo è un estratto dal testo Il folle è l’uomo libero? leggibile integralmente in Viviana Faschi (a cura di), L’insondabile decisione dell’essere. Filosofia e psicoanalisi dinnanzi alla causalità della follia, Orthones, Napoli-Salerno 2020, pp. 83-115.

2 Si produce così una regressione topica allo stadio dello specchio, un ritorno a quel corpo in frammenti che precede l’unità immaginaria (volentieri il discorso approda ai concetti di energia, di materia, di molecole e particelle, senza poter definire una forma del corpo che ne assicuri i confini o la separazione dal mondo esterno, circostante).

3 D.BRILLAUD, Classification lacanienne des structures subjectives, cit., p. 31.

4 Qui è opportuno un riferimento al come se di E. Deutch – che indica un modo di stare nel mondo retto da coordinate immaginarie, e privo di radici simboliche – e alla psicosi ordinaria di cui parla J.-A. Miller.

5 M.CZERMAK, “Psicosi senza io”, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 304-312, p. 308.

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Da cosa deriva l’impossibilità di guadagnare un posto simbolico? Dallo sfaldamento simbolico che invalida ogni tipo d’identificazione, in primis quella sessuale. Questa assenza d’identificazione è la radice del mancato posto simbolico. Il discorso non è quindi l’espressione di un io organizzato attorno a identificazioni contraddittorie che portano, come accade nell’isteria, a voler occupare posti diversi (per esempio, nel classico triangolo, un’isterica vorrà occupare ora il posto dell’uomo ora quello della donna). Mimetismo e identificazione sono due concetti diversissimi e ad agire qui sono solo giochi di riflessi e rivestimenti. Il raffronto non si ferma qui. Anche l’isterica può lamentare e persino soffrire di una posizione eccentrica ed extra-territoriale. Ma si tratta di una strategia soggettiva nei riguardi dell’Altro – perché si regola sul desiderio dell’Altro o cerca di suscitarlo. In questa psicosi, invece, il desiderio è escluso e il fuori posto è solo l’indice di un impossibile.

Notiamo inoltre una forma di extra-territorialità anche in relazione alla parola. Siamo in presenza di qualcuno che non parla mai a partire dalla propria personale esperienza: si sa qualcosa solo in base al dire degli altri che viene assorbito senza alcuna riflessione critica. Sono aspirati da persone, discorsi e situazioni, vi cadono dentro o si rivestono con l’immagine dell’altro. Una donna lo dice così: «Vado con te o senza di te, ma con la tua immagine che mi aiuta così tanto a vivere»6. O ancora la paziente di Czermak:

«Quello che cercavo, nella mia idea, era di assomigliare a qualcuno. È la condizione di vita. È il motivo per cui ricerco la loro vita, voglio prendere la loro vita, io non ho vita, prendo la vita dell’altro»7.

Non c’è nulla a partire da cui costruirsi o darsi un centro, è priva di riferimenti. Per questo cerca di assomigliare a qualcuno, si lega a ciò che le si offre: «Essere solo un abito che può essere abitato da chiunque. La donna diceva: “Mi piacerebbe vivere appesa… un vestito appeso”»8. È puro sembiante e perciò, come diceva Lacan a proposito di questi soggetti, il suo corpo «se la dà a gambe di continuo»9.

Una volta di più, possiamo cogliere la continuità tra corpo e discorso. Infatti, se il corpo svanisce di continuo, anche il discorso manca di un’implicazione soggettiva: non parlano mai per esperienza personale, ma solo per eco, per sentito dire, per doppio o sosiaggio. Attingono al grande bacino dei luoghi comuni, al “si dice”. Da qui l’uso di forme impersonali (on in francese) o di forme dubitative (credo che) che però non esprimono un vero dubbio, sono solo significanti di un’inconsistenza: niente del dire dell’altro come del proprio ha un peso, orienta, nulla cioè ha valore di menzogna o di verità.

Detto altrimenti, il soggetto tocca in permanenza l’inconsistenza dell’Altro: perciò si dissolvono anche la temporalità, la genealogia, la generazione, la filiazione. Del figlio di un’amica, la paziente dice: «È un’adulta, ma ha dovuto essere una bambina»10.

Se l’io è privo di peso, lo è inevitabilmente anche l’altro (lo stadio dello specchio c’insegna che la sorte dell’io e dell’altro sono intrecciate). C’è un’indifferenza di fondo perché né il soggetto né l’altro occupano un posto definito: l’altro è sempre sostituibile, uno vale l’altro11. E poi nulla della loro esperienza s’inscrive e lascia traccia. Nessuna memoria a comporre quell’archivio che permette di solito a ciascuno di raccontare una storia. Questa assenza di traccia è così radicale che una donna può

6 A.JESUINO-FERRETTO, “Produzioni attorno al nome, all’immagine e all’oggetto”, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 268-274, p. 274.

7 M.CZERMAK, “Psicosi senza io”, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 304-312, p. 310.

8 Ivi, p. 311.

9 J.LACAN, Il seminario. Libro XXII, R.S.I. (1974-1975), inedito, lezione del 13 gennaio 1975.

10 M.CZERMAK, “Psicosi senza io”, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 304-312, p. 307.

11 Ciò significa che gli esseri sono sempre simili allo stesso (siamo nel registro di quel che non cambia, dell’identico, dell’inerte, luogo in cui le differenze sono abolite).

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dire di suo figlio: «Come l’ho avuto? Come tutti, almeno… non si sa mai» e del padre: «Sì, c’è stato un padre; c’è per forza stato un padre… a meno che non sia una gravidanza nervosa»12.

Esitazioni molto lontane dal dubbio: dimostrano piuttosto fino a che punto queste esistenze siano prive di fondamento, aleatorie. Non c’è garanzia, solo supposizione di esistenza. Leggiamo assieme alcune frasi che descrivono bene l’assenza di io su cui poggia questa diversa forma di vita:

«Sono uno sguardo che si china sulle cose. Sguardo che non appartiene a nessuno. Io, la mia personalità:

sono solo parole […] Una scarpata piena di erbacce basta a riempirmi la giornata […] Il sentimento di esistere è un’evidenza, io sono. Non ci sono parole, piuttosto una sensazione, una visione, un’immagine»13.

Il caso di questa donna illustra molto bene come alla vacuità dell’io risponda sempre quella del soggetto. In mancanza di io e di soggetto si produce una topologia in cui lo spazio è insieme vasto e puntuale, lontanissimo e vicinissimo, e il tempo perde la scansione, la dimensione della durata precipita in istante. Al cuore di questo edificio sta la mancata separazione tra soggetto e oggetto. La sua è una forma di presenza istantanea, emancipata dalla nominazione delle cose:

«Laggiù non esiste distanza, io non sono da qualche parte, sono da me, sono ombra, vento, tutto.

Anche qui, sono laggiù. A e non A non sono opposti, e neppure A e B»14.

La donna va incontro al disfarsi della visione soggettiva, della tela della realtà. Quando, grazie al lavoro analitico, potrà ricomporre la trama della memoria e tornare a “vedersi”, dirà:

«La mia memoria ritorna […], la mia volontà riaffiora in superficie, si imprime nuovamente. È un lavoro di memoria. È dura funzionare senza un prima. Sono stata: è rassicurante e consolidante.

Ho rivisto qualche scena, mi sono rivista. Sono stupita di essere esistita nel frattempo»15.

La donna incontra nuovamente se stessa, si rivede e può ritrovare uno sguardo. Ma il tragitto c’è stato e lei ha maturato nuove prospettive:

«Abbiamo sempre l’impressione di essere qualcosa, ma non siamo un blocco unico. La mia esperienza apre delle prospettive. È l’esperienza di una rimessa in causa dell’io quale ho vissuta in forma così evidente: ho sperimentato la relatività dell’io. Che libertà e pace essere senza io, senza desiderio, senza proprietà! Si potrebbe davvero godere di uno stato sereno, è il sorriso di certi Budda»16.

12 M.CZERMAK, “Psicosi senza io”, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 304-312, p. 308.

13 S.HERGOTT, Lo spazio è il luogo da cui si parla, in AA.VV., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 123-136, p.

132.

14 Ivi, p. 133. Questa donna ha trovato nel buddismo una sponda teorica alla sua esperienza di assenza di desiderio.

Come scrive S. Hergott: «L’interesse, per noi, del pensiero buddista è di illuminare il punto di cecità interno alla chiarezza cartesiana o di distaccarsi un po’ dalla logica intuitiva che ci governa, quella dello spazio piano euclideo, della vettorializzazione del tempo e del dualismo soggetto/oggetto, per promuovere una lettura differente in cui prevale la radicale inconsistenza di questa separazione. […] In essa non solo è respinta l’esistenza di un’alterità in qualche modo esterna a favore di un sistema globale e unitario, ma soprattutto è affermata l’impossibilità dell’isolamento e della separazione di uno dei suoi elementi. Separare equivale a far sparire la realtà una e indivisibile dei termini».

15 Ivi, p. 135.

16 Ivi, p. 136.

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Il rapimento di Lol V. Stein di Marguerite Duras17

di Marcel Czermak

Il testo è interamente incentrato sullo sguardo e animato da esso. Lo sguardo è polarizzato sulla relazione fatta da Jacques Hold di quanto gli ha narrato Tatiana Karl, ma anche di quanto lui stesso ha vissuto con Lol. Il testo ci centra sullo sguardo di ciascuno dei protagonisti, noi compresi, lo sguardo di quelle marionette che siamo, mosse da Duras che fa di Lol quel luogo vuoto su cui si focalizzano tutti gli sguardi, che fa di essi quello di Lol, donna senza sguardo, enigma vivente che spinge ciascuno a esserne asservito sino alle midolla, Jacques Hold e la sua angoscia, Tatiana Karl stritolata dalla paura, il marito di Lol. Tutti divisi tra la finta serenità di ritenere di avere a che fare con niente, niente di serio, un’acqua placida, un’assenza, e l’angoscia che scaturisce da questo niente, che è quanto di più serio ci sia, questo niente che è l’oggetto a.

Questa prevalenza dello sguardo che spinge ciascuno ad azzardare interpretazioni, a dare libero corso alla vivificazione del suo proprio fantasma, a dispiegarlo, indica che siamo entrati in quel mondo eminentemente fragile e delicato delle relazioni immaginarie. D’altronde, come non lasciarsi andare durante questa lettura, come non sprofondare completamente, essere a propria volta rapiti, mettervi – come si dice – del proprio, vale a dire prestare la parola laddove non c’è che il vuoto? Non prevale sempre lo sguardo quando la parola degrada? Non è forse vero che il soggetto si sente osservato, messo al centro degli sguardi, quando la parola ha raggiunto quel punto estremo di degradazione indotto dalla forclusione del Nome-del-Padre? Ma nello stesso tempo questi sguardi che lo mettono al centro, in cui egli si riflette, rappresentano quel punto limite, ultimo, in cui il soggetto fissa quel po’ di umanità che gli resta.

Non è allora un mondo in cui le significazioni possano brulicare, darsi il cambio, concatenarsi, ma un mondo in cui tutte si risolvono in una sola, sempre la stessa, che può perfettamente costituire un punto interrogativo: cosa vogliono da me? Di che si tratta?

Questi sguardi che si riflettono gli uni negli altri, che si permutano, si interscambiano, fanno di ciascuno il doppio virtuale dell’altro e, da questo transitivismo in cui si risolve costantemente la posizione di ciascuna pedina, nasce uno spazio molto particolare, a due dimensioni, ovvero uno spazio che si sdoppia costantemente nel modo più precario, per poi implodere e sdoppiarsi nuovamente. È

17 Traduzione e note di Cristiana Fanelli.

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uno spazio fragile in cui, quando ci si pensa nella congiunzione, si produce immediatamente la disgiunzione e, quando ci si tiene nella disgiunzione, avviene immediatamente la congiunzione.

In mancanza di uno sguardo proprio, Lol è questo sguardo che la catapulta dall’uno all’altro, pur cercando di trovare un centro, di trovare un ancoraggio.

Chiunque sia sensibile al significante si è soffermato sul nome di Lol V. Stein. Lol volata via, la sparita, Lol la rapita, colei a cui manca qualcosa, che non si sa se sia il Simbolico o l’Immaginario, ma che cerca di ovviare con un’operazione reale, tentativo fallito di essere Stein perché, quando lo è, diviene pietra, pietrificata, indivisibile dalle lame aperte del punzone18. Lol scivola senza posa da un estremo all’altro della catena significante del suo nome.

Nel polo dell’erranza troviamo Lol che cammina per le strade, che è solo un vento, un soffio che s’incanala dove i muri la dirigono, che turbina senza che vi sia mai né prima né dopo, una pura presenza. La disposizione dei suoi mobili è la copia conforme delle vetrine dei negozi, in cui non appare nulla della sua cifra personale. Non si tratta di una regressione anale dinanzi a un desiderio inappagato, ma ancora una volta di un riflesso, presente persino nei suoi mobili, del mobilio prefabbricato delle immagini del mondo. Lol pura presenza perché – come indica benissimo la Duras – non c’è mai stata una prima crisi, Lol è questa stessa crisi. Lo è sempre stata.

Nell’altro polo, Stein, ripiegata su stessa, compatta, prostrata, scarto, si manifesta come pura sofferenza senza soggetto. Puro grido. Scarto da cui Lol cerca di separarsi. Ma può davvero uscire da questa fondamentale instabilità, da questa oscillazione permanente? In breve: è in grado di tenere assieme immagine e oggetto?

Come fare dunque perché vi sia almeno “i(a)”19? Potrebbe essere questa la domanda di Lol. Il suo sapere è là. Forse un Sapere senza soggetto? No, ma un sapere di puro soggetto.

Per il momento, notiamo questo vano punto di equilibrio, questa trappola della V, un vel20 inarticolabile. Come fare perché vi sia almeno dell’“i(a)”, dicevo, che il suo nome potrebbe tradurre bene, e che la sua condotta traduce altrettanto bene. In proposito, non sarebbe una forzatura contestualizzare tale questione con la tematica centrale, cruciale del vestito, vestito bianco e vestito

18 $<>a: è la formula del fantasma. La prima lettera rappresenta il soggetto diviso ad opera del significante. Poi troviamo il punzone, la losanga che descrive un movimento di esclusione (soggetto ed oggetto non coincidono, o si è in un posto o nell’altro), e al contempo crea una relazione tra le due lettere. L’oggetto a è quel che si perde entrando nella rete significante, l’oggetto perduto nel Reale, una perdita che sul piano simbolico si traduce in una mancanza da cui origina il desiderio del soggetto.

19 Con questa scrittura, Jacques Lacan rappresenta l’immagine del corpo indicando che la sua consistenza passa per la rimozione (rappresentata dalla messa tra parentesi) dell’oggetto a.

20 In latino vel è la disgiunzione inclusiva, rappresentata nella simbologia logica dal segno V.

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nero. Lol passa dal vestito bianco in cui tutto potrebbe iscriversi ma in cui nulla si marca, al vestito nero in cui nulla si marca, ma in cui tutto si svela. Di “i(a)” Lacan diceva: «Questo è l’oggetto inafferrabile allo specchio cui l’immagine speculare fa da abbigliamento»21. Che essere, dunque, sotto il vestito, quando esso viene tolto, se non uno scarto (a). Cadere, dunque, quando il vestito viene tolto.

Così l’involucro vela il più eminente, il più favoloso, ma anche il più ridicolo degli oggetti, osservazione che è valida anche per i capelli, capelli biondi di Lol e capelli neri di Tatiana Karl, sotto, la nudità dell’oggetto, la terrificante messa a nudo dell’oggetto.

Ecco come, attraverso un cammino circolare, si passa da Lol l’errante a Lol la pietrificata, da quei muri che guidano Lol-corrente d’aria, che avvolgono Lol-niente, all’abito, poi ai capelli, poi a quel corpo-oggetto a. Il corpo di Lol è una corrente d’aria. Sfugge in continuazione, ed è la situazione ordinaria di cui non ci si rende conto – diceva Lacan. Si cade nell’Altro. Da sempre, Lol è stata quella corrente d’aria che gira in tondo. Ricordatevi di quei giovedì di danza con Tatiana, che già era una sua marionetta, incorniciata dalle mura del salone vuoto della scuola, mentre le altre alunne erano uscite in fila, incorniciate dalle quattro mura, dal momento che Lol non è incorniciata dal significante e animata dalle note della musica.

E poi quella scena del ballo, incorniciata ancora dalle mura. Quando una donna entra, attirando lo sguardo del partner di Lol, che è anche il suo stesso sguardo, lei scivola nella donna che entra, è passata attraverso, eccola che avanza e comincia a volteggiare con Michaël. Ma Lol non occuperà la posizione del terzo dinanzi a questa coppia. Non vi è alcuna gelosia dell’altra donna.

Vi scorgo piuttosto l’odio mortale portato da quello sguardo che annichilisce il soggetto, quando quello di Lol, abolito o mai nato, fa di esso il centro di tutti gli sguardi, sguardi che si volgono tutti verso il centro del ballo e si richiudono su una completezza intollerabile. Ed è per questo che Tatiana Karl ha paura di Lol. Lol è la sua sentenza di morte. Regna un odio speculare che a ogni momento può risolversi in una frammentazione del corpo, e che non giunge a elaborarsi in un’identificazione secondaria. In partenza, il soggetto è l’altro e Lol non può contarsi tre. È quel che occorrerà operare in un tentativo tanto reiterato quanto vano.

Così, in modo tanto efficiente quanto gli involucri sopra evocati, lo sguardo compie esemplarmente quel ruolo di involucro, poiché a conferirgli questa funzione eminente è il fatto di essere altrettanto bene oggetto a – è quel punto d’inversione di rotta in cui l’involucro si rovescia per far cadere dal suo vuoto centrale l’oggetto per poi capovolgersi a inglobarlo. «Lei percepisce, infatti, che si tratta di

21J.LACAN, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Id., Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, pp.795-831, p. 821.

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un involucro senza più dentro né fuori – diceva Lacan – e che nella cucitura del suo centro tutti gli sguardi si rivoltano nel Suo»22.

Sicuramente si parla troppo in fretta di intenzionalità quando un soggetto mette in atto qualcosa. Può eventualmente trattarsi di una parola, agíta perché era stata esclusa, e che non mette mai in gioco nient’altro che la più esile soggettività. Allo stesso modo si parla sempre troppo in fretta di intersoggettività. Sono solo nostre imputazioni. Ancora una volta, siamo nel nostro ordinario delirio d’interpretazione.

Nel seminario I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), che è dello stesso periodo de Il rapimento di Lol V. Stein, servendosi dello schema ottico, Lacan riesamina i fenomeni di mimetismo sottolineando che in essi l’importante non è che ci sia qualcuno che è imitato, ma che le manifestazioni del mimetismo permettano a un soggetto di «inserirsi in una funzione il cui esercizio lo afferra»23. E non c’è nulla di più folle che prendersi per una funzione, esserne rapiti al punto di esserla. Può d’altronde trattarsi, comunque, del suo proprio nome. Può, ugualmente, portare ad agire il suo nome proprio – il che rappresenta un disturbo dell’identificazione che può essere ben più grave di quello che affetta l’isteria, poiché là, allora, può accadere che non vi sia alcuna identificazione con un desiderio insoddisfatto da mantenere, ma piuttosto un’interrogazione che consisterebbe nel domandarsi come un tale desiderio potrebbe soltanto trovare le condizioni per emergere – poiché bisognerebbe che vi si eserciti la significazione fallica. Vi si esercita forse quando il soggetto si prende per il suo nome?

Forse è in questa direzione che bisognerebbe orientarsi – come spesso dinanzi a dei problemi clinici che presentano degli aspetti “limite” –, la distinzione tra fantasma del fallo e bellezza dell’immagine umana24.

Da dove, in effetti, nel caso di Lol, dovremmo concludere con sicurezza che lei sia nel godimento fallico, quando possiamo far valere che lei opta per il godimento dell’Altro, che non esiste.

Della bellezza così insistente di Tatiana, dell’insistenza sulla bellezza di Tatiana, possiamo dire che sia fiamma che riaccende in Lol il desiderio oppure frontiera, luogo di allarme? A oltrepassarla, vi si

22J.LACAN, Omaggio a Marguerite Duras, del rapimento di Lol V. Stein, in Id., Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, pp. 191-197, p. 194.

23 J.LACAN, Il seminario. Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 99. Lacan si sofferma sui “fatti di mimetismo” in particolare nelle pp. 97-99. Qui, richiamandosi al libretto L’occhio di Medusa di Caillois, distingue tre principali dimensioni del mimetismo: il travestitismo, il camuffamento e l’intimidazione.

24 È nel seminario L’etica della psicoanalisi (1959-1960) che Lacan apportava questa osservazione essenziale che ho già evocata: «È allo stesso livello che il fantasma del fallo e la bellezza dell’immagine umana hanno il loro posto legittimo?

O c’è, al contrario, tra di loro un’impercettibile distinzione, una differenza irriducibile? Tutta l’impresa freudiana è andata a cozzare su questo. Freud, alla fine di uno dei suoi ultimi articoli, Analisi terminabile e interminabile, ci dice che in definitiva l’aspirazione del paziente si infrange con nostalgia irriducibile sul fatto che il fallo in nessun modo lui potrebbe esserlo, e che non essendolo, potrebbe averlo soltanto a condizione del Penisneid nella donna, della castrazione nell’uomo». Ivi, p. 376.

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produrrebbe non il fading del soggetto, ma la sua sparizione pura e semplice, la sua morte in quanto soggetto. Questa insistenza sarebbe allora un abbozzo, niente più che un presentimento di godimento fallico che, incagliandosi, si capovolge nel godimento dell’Altro. Vale a dire la morte di ogni desiderio lungo la strada percorsa per riafferrarlo.

È per questo che Lol si tiene per un certo tempo su questa frontiera, sul limitare di quel campo, in equilibrio instabile. La finestra dell’hotel dei Boschi, piccolo riquadro illuminato in cui si agitano delle ombre – che, sapendosi immaginate, si esaltano al desiderio – è la finestra, il quadro del fantasma di Lol, e Lol, pur avendo animato le sue marionette, rimane nondimeno bloccata. Cos’è il fantasma di Lol? È di essere lei stessa la parentesi di “i(a)”. E, non potendosi contare tre, di giungere a essere quell’immagine che il suo vestito avvolgerebbe come oggetto e che si offrirebbe al desiderio, non fantasma d’isterica, ma abbozzo fantasmatico di arrivare a esserlo.

Andrò ancora più lontano. La parentesi di “i(a)” – se, come ci mostra l’esperienza, è giusto che nella psicosi Reale, Simbolico e Immaginario possano disgiungersi e disfare “i(a)” –, la parentesi di “i(a)”

può essere detta una delle varianti del Nome-del-Padre, uno dei Nomi-del-Padre. Lol, che si cimenta nell’isteria, giunge soltanto a prendersi per il Nome-del-Padre. A un’estremità Lol è questo “i(a)”, mentre all’altra il suo nome è Stein, e questo la pietrifica. Si tratta infatti dello stesso e unico bordo.

In vista di una stessa dimostrazione, possiamo anche prendere le cose per un altro verso, vicino a quello che ho appena affrontato. Da cui la domanda: l’Immaginario di Lol è l’Immaginario di un io esaltato o, al contrario, un Immaginario senza io? Anche in questo caso, sceglierò di andare verso un estremo, che vale solo per esemplificare alcuni fatti.

Per cominciare, prendiamo le cose dall’angolatura di ciò che costituisce un “io”, vale a dire questo guazzabuglio eteroclito di identificazioni contraddittorie, eterogenee. Che cosa potremmo attenderci da un’isterica? Quanto segue, e che ci è così di frequente ricordato dalla clinica: dinanzi all’altra donna desiderata da un uomo, e domandandosi quel che quest’uomo possa trovare in lei, cioè chiedendosi cosa faccia dell’altra donna “una donna” desiderabile, vedremmo Lol identificarsi immaginariamente all’altra donna. O, all’inverso, sempre chiedendosi qual è il segreto dell’altra donna, vedremmo Lol manovrarla, sedurla, identificandosi immaginariamente all’uomo, prendendo persino la posizione del partner maschile. Così vedremmo Lol congiungere, nelle rappresentazioni immaginarie del suo io, l’una o l’altra posizione, che si mettono in questione, si scontrano, si contraddicono riconducendola puntualmente alla domanda: ma in fin dei conti, che cosa sono io?

Uomo o donna? Così vedremmo dunque l’opera di un io capace di far manifestare modi identificatori contraddittori e fonte di imbarazzo.

Ma potremmo riscontrare con certezza questa problematica nel caso di Lol? I discorsi di Lol sosterrebbero il palesarsi di questo tipo di difficoltà? Non ne sono sicuro. Sicuramente, nella sua

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assenza di discorso, Lol mette in azione i personaggi in un modo che autorizza una simile interpretazione ma, in fondo, non c’è nulla che la segni, che la segni davvero. Questa donna in cui nulla s’iscrive, nulla lascia traccia, nulla produce conflitto, resta una pagina bianca, un pezzo di carta sul quale noi scriveremo le nostre supposizioni, la nostra interpretazione.

Ecco perché io le negherò di avere un io, accordandole però un Immaginario senza io; “i(a)” corre senza posa il rischio di disfarsi e riesce a realizzarsi solo quel po’ che mira a mantenere un solo essere in tre. Da cui il suo panico quando Jacques vuole lasciare Tatiana: insiste accanitamente perché non se ne faccia nulla e lo spinge a reiterare gli incontri all’hotel dei Boschi, facendogli sapere che lei è là fuori, a vegliare alla finestra illuminata.

Quanto a Lol, il suo Immaginario senza io rischia costantemente di disfarsi e di sprofondarla nella follia conclamata. È per questo che lei cerca, fragilmente, di costituirlo in un io per mezzo della congiunzione reale di tre elementi, non potendo contarsi simbolicamente tre, vale a dire prendere posizione come terza, eccetto in rari momenti, e in modo transitorio, accennato – prova ne sia la fine della storia. Poiché quando la parentesi e il vestito saltano, l’immagine va da un lato e l’oggetto dall’altro, e tutto lo sforzo di Lol è di tenerli insieme cercando al contempo di far sì che l’oggetto sia esteriore al soggetto, che sia per lui una mancanza. Ed è qui che fallisce.

Quello schermo che è la finestra, lo schermo del suo fantasma, non può in effetti avere in alcun caso valore di mediazione, per rendere il piacere atto al desiderio. Chi può dirci dunque che non sia il fantasma di giungere a contarsi tre? Chi ci dice anche che, in tal caso, non sarebbe un salto attraverso il cerchio di carta del fantasma?

Arriviamo dunque allo scatenamento della follia. Tatiana non è più lì. Lol è a letto con Jacques Hold, e non è più nella posizione di far tenere assieme un teatro di ombre, nel riquadro della finestra. Le apparenze non valgono più. È con Jacques Hold. L’uomo ha dovuto spogliarla, lui stesso si è spogliato, la disposizione a tre si è dissolta. Allora lei dice: «Giù c’è la polizia»… «Stanno bastonando qualcuno per le scale». Si produce una rotazione che irrompe nel Reale: lei non è più al suo posto di terzo, sta per prendere il posto di Tatiana Karl, è Tatiana Karl, ecco che allora nel Reale irrompe la polizia. La polizia regola, dispone, legifera e aziona, proprio come lei aveva prima cercato di disporre e azionare l’uomo e la donna. Laddove prima c’era Lol guardata, ora c’è una voce autoritaria.

Ancor più: in anticipo su un rapporto sessuale fuori Simbolico, giunge a questa certezza allucinatoria:

«Stanno bastonando qualcuno sulle scale!». Non sono lei e l’uomo che sono andati a letto, che si preparano al rapporto sessuale; in mancanza di simbolizzazione, è apparso fuori da ogni desiderio e da ogni piacere: «Stanno bastonando qualcuno per le scale…». Il rapporto sessuale, divenuto assurdo, enigmatico, tagliato fuori da ogni rappresentazione simbolica, risorge a lato a partire dal momento in cui la sua domanda arriva a essere pensata, posta! Che vuole da me Jacques Hold? Risposta: stanno

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bastonando qualcuno per le scale – perché in realtà Lol non è in grado di formulare proprio questa domanda, perché il rapporto sessuale si riduce a una fustigazione annichilente.

Allora un terzo termine viene a emergere nel Reale: sorge un on, pronome impersonale che indica il soggetto morto, neutralizzato; un on che la rappresenta, svanita come soggetto e di cui non sa più se sia lei stessa o l’altra, implose; un on si oppone a quella coppia in cui lei stessa non sa più chi sia. Se vi si oppone è per cercare di disgiungerlo, ma è vano in partenza, poiché è crollo simbolico, è apparso nel Reale.

La polizia è giù, vengono a prenderla, ad acciuffarla, a farla sparire dopo averla bastonata; quel che Lol ignora è che è il suo proprio io (fr. Je), pronome personale, sparito, mortificato, che appare sulle scale, bastonato e preso da quel super-io poliziesco e selvaggio, il super-io arcaico e osceno.

Constatiamo quindi la posizione che contrassegna la follia di Lol, punzone che cerca di tenere assieme soggetto e oggetto su un modo disgiuntivo e terzo, ma fallendo. Punzone ◊ aperto V, che vale come parentesi, e che si sforza di scrivere “i(a)” non riuscendovi.

Modo di dire, dopo aver formulato che la parentesi poteva essere proprio una delle scritture del Nome- del-Padre, e che il punzone ne sarebbe un’altra: Lol, che non è stata punzonata, è, per questo, o tutto oggetto – puro oggetto – o tutto soggetto, puro soggetto.

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