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FESTA I MAGGIO TRA DISOCCUPAZIONE E PRECARIETÀ di Carmelo Palmisano

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APRILE 2018

FESTA I° MAGGIO TRA DISOCCUPAZIONE E PRECARIETÀ’

Periodico Mosorrofano di cultura sport e attualità

Leggete e diffondete ‘U MANDAGGHIU- PISA POCU E NON CUSTA

Contatti:

Redazione: redazione.umandagghiu@gmail.com

Giuseppe Nicolò: pinonicolo@gmail.com - 3393437559

Demetrio Giordano: demetriogiordano94@gmail.com - 3454663695 Demetrio Crea: demetrio.cre@gmail.com - 3932988880

Seguici anche su: www.umandagghiu.wordpress.com U Mandagghiu Periodico Mosorrofano Periodico a cura dell‟Associazione Culturale “Messòchora”

Anno V Numero 3

SOMMARIO:

PAG.2 NONHOMOLLATO, ERACOSTATO TROPPOPARTIREPERFERMARSI

PAG.3 FRUGALITÀ

PAG.4 UNSALUTODA MELBOURNE Pag.5 LE MONETE ITALIANE E LA GRANDE GUERRA Pag.6 UN PICCOLO MOSORROFANO

INTERVISTA IL PRESIDENTE DEL- LA REPUBBLICA

di Carmelo Palmisano

Il 1° Maggio, in decine di Paesi nel Mondo, si festeggia il lavoro ed i lavoratori. Tale data fu stabilita a Parigi nel 1889, durante il primo Congresso della “Seconda Interna- zionale”, ispirandosi ad un episodio avvenuto tre anni prima a Chicago.

Il 1° Maggio 1886, infatti, in tutti gli Stati Uniti venne indetto uno sciope- ro generale col quale gli operai ri- vendicavano maggiori diritti e condi- zioni di lavoro più umane. La prote- sta proseguì per tre giorni e, il 4 maggio, culminò in decine di scontri tra lavoratori e Forze dell’Ordine.

In una di queste “battaglie”, passata alla storia come il “massacro di Hay- market”, persero la vita undici per- sone. Dal 1° Maggio 1947, anche in Italia, si celebra ufficialmente la Fe-

sta del lavoro e dei lavoratori. dopo aver attraversato stagioni culturali e sociali molto diverse, tale ricorrenza giunge a noi rischiando di apparire come celebrazione malinconica di un passato di sofferenze, lotte, vittorie e sconfitte che hanno contribuito ad alimentare la speranza di un futuro carico d’attese, tristemente palesato- si in un presente colmo d’incertezze, caratterizzato dalla polverizzazione dei posti di lavoro, dall’esponenziale crescita del lavoro autonomo e para autonomo; un’ attualità prodiga di garanzie sociali per i lavoratori a tempo indeterminato, al contempo avara di tutele per i precari ed i lavo- ratori in nero. Gli ultimi dati pubbli- cati da Eurostat, descrivono il nostro come un Paese in grande sofferenza:

crescono povertà assoluta e relativa, il livello d’occupazione s’attesta al 62,3% (peggio di noi solo la Gre- cia), mentre le regioni del sud Italia, rimangono fanalini di coda per Pil pro capite e tasso d’occupazione. In particolare la Calabria, col 55,6%, è al primo posto in Italia ed al quinto posto in Europa, nella classifica delle regioni col più alto tasso di disoccu- pazione giovanile. Se a ciò aggiungia-

mo che il nostro territorio è a rischio isolamento a causa d’infrastrutture inadeguate, collegamenti ferroviari insufficienti, una SS 106 jonica che conta più vittime che chilometri e con la quotidiana incognita di ritro- varsi senza collegamenti aerei, appa- re più che mai evidente che ci trovia- mo di fronte a scenari che non lascia- no spazio all’ottimismo, anzi eviden- ziano come tra i giovani sia ormai dominante il sentimento di rassegna- zione e sfiducia rispetto a un presen- te e ad un avvenire che appaiono to- talmente indefiniti. Numeri che contribuiscono ad alimentare, anno dopo anno, l’aumento dei flussi mi- gratori di giovani da Sud a Nord.

Basti pensare che, alla fine del perio- do 2010-2015, la popolazione resi- dente nell’attuale area metropolitana di Reggio Calabria, si è ridotta di oltre 11.000 unità, 3.500 delle qua- li nella sola città di Reggio Calabria.

Una vera e propria “emigrazione in- tellettuale”, che vede la stragrande maggioranza di laureandi e laureati, trasferirsi nelle regioni del Nord (o peggio oltre confine!), generando un impoverimento culturale del nostro

(Continua a pagina 3)

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PAGINA 2 APRILE 2018 „U MANDAGGHIU NON HO MOLLATO

,

ERACOSTATO TROPPOPARTIRE PER FERMARSI

Qui in Germania sono un'infermiera.

Un'infermiera pediatrica per l'esat- tezza. Dico qui in Germania perché in Italia non ho avuto mai la possibili- tà di diventarlo concretamente. Mi sono laureata a Messina grazie a tanti sacrifici miei e della mia famiglia e notti insonni sui libri. Durante il cor- so di laurea ci veniva detto dai nostri professori o dal coordinatore del cor- so che la richiesta di lavoro superava il numero degli iscritti. Io ero felice di sentirlo dire. Mi immaginavo qual- che mese dopo il conseguimento del- la laurea a scegliere in quale ospedale di quale città avrei lavorato. Avrei scelto indubbiamente ancora il sud. Il sud si preferisce sempre nonostante tutto. Così il grande giorno è arriva- to. Mi sono laureata ed il giorno do- po mi aspettavo che il fatidico " mon- do del lavoro" mi spalancasse le sue porte offrendomi infinite possibilità.

Quella porta rimase sempre chiusa.

Per un pò la forzai io accettando qualsiasi lavoretto fossi capace di svolgere. Baby-sitter, commessa, assistente alla poltrona, doposcuola, insomma non mi diedi per vinta, ma infermiera pediatrica rimasi solo sulla carta. Per un po’ pensai anche di la- sciarla nel cassetto la mia pergamena di laurea, non ero io ciò che a carat- teri ufficiali e antichi era stato stam- pato su quel grande foglio di carta.

Dottoressa in infermieristica pediatri- ca. Puoi ripeterlo mille volte in Italia ti risponderanno sempre :" ah nfer- mera!". Poi iniziai a pensare che me- ritavo almeno una volta di sperimen- tare sul serio quel lavoro di cui tra tante peripezie avevo un titolo. Così

partii per la Germania col solo inten- to di provare cosa significasse davve- ro essere un'infermiera pediatrica.

Arrivai a Böblingen, un paesino pic- colo distante mezz'ora da Stoccarda.

Fui assegnata al reparto di pediatria generale e per i primi sei mesi avrei lavorato affiancata ad una ragazza che sarebbe stata la mia tutor. Durante questo periodo avrei dovuto impara- re il tedesco, almeno per lavorare, e il lavoro di cui non conoscevo la quo- tidianità. Adesso sorrido pensando a quel periodo. Io non conoscevo una parola né d'inglese né di tedesco e la mia tutor non parlava l'italiano. Ri- cordo benissimo il nostro parlare mi- mando gli oggetti o i verbi. Le parole che non conoscevo li scrivevo su un piccolo quaderno che poi a casa avrei riletto e memorizzato. Spesso rideva- mo sentendoci ridicole, altrettante piangevo chiusa nel bagno del reparto perché mi sentivo una bambina stupi- da. Ma non ho mollato, era costato troppo partire per fermarsi già ades- so. Così i mesi sono trascorsi e con essi anche le difficoltà iniziali. Rimasi in quel reparto due anni durante i quali imparai le basi di questo sfac- cettato mestiere e le regole della sa- nità tedesca. In Germania come si sa è tutto organizzato. Niente è lasciato al caso. Le infermiere lavorano in tre o quattro per turno dividendosi le stanze di degenza. Questo viene fatto per garantire la massima attenzione nella cura del paziente. È prevista ad ogni turno una pausa di trenta minuti in cui il personale può mangiare qual- cosa o andare a fumare una sigaretta.

In questo non sono molto diversi da noi italiani. C'è una cosa che però ci differenzia molto. Ed è il rapporto tra medici ed infermieri. Qui in Ger- mania siamo tutti colleghi facenti parte di un team che ha un obiettivo comune. I medici indossano scarpe da ginnastica e la divisa completa.

Noi infermieri anche. Ci chiamiamo per nome. Non esiste qui il " dott.

ecc" " egregio signor ". Ci si dà del tu. Io non sono ancora molto abituata in questo perché provengo da una scuola in cui il dottore mantiene sempre le distanze. Sembra una per- sona irraggiungibile. Ed attenzione a farlo arrabbiare, si potrebbe compro- mettere un'intera giornata di lavoro.

Non voglio dire che qui in Germania è tutto perfetto, però è assolutamen- te vero che si ha più attenzione verso i propri collaboratori. Io sono venu- ta qui con un titolo e senza esperien- za. Parlo il tedesco ma, gli errori non mancano, eppure quando faccio le visite insieme al primario del reparto vengo ringraziata per il lavoro che faccio e gli sforzi per migliorare nella loro lingua. Vengo ringraziata quan- do in reparto traduco per i pazienti italiani che non parlano ancora il te- desco. Quando non capisco qualcosa mi viene ripetuta più volte, quando non conosco mi viene spiegato. Parlo con alcuni miei amici che lavorano in Italia e li sento frustrati, stanchi, in continua competizione con il vicino sempre in gara a chi arriva primo.

Bisogna sempre dimostrare di essere migliori di altri, come se la vita fosse solo una lotta continua. L'obiettivo è la vetta più alta. Poi ci arrivi e ti ac- corgi di essere solo e magari ti rendi conto che sarebbe stato molto meglio arrivare tutti insieme per godersi il paesaggio. E di paesaggi mozza fiato il nostro Paese è ricco. Con questo voglio dire che abbiamo tutte le carte in regola per non invidiare niente a nessuno. Basterebbe solo che ce ne rendessimo conto tutti e capissimo che insegnare qualcosa a qualcuno non vuol dire dare la possibilità all'al- tro di superarti ma solo garantire che il futuro del tuo mestiere e del tuo Paese sia affidato a mani competenti.

di Maria Stillittano

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territorio senza precedenti, un dre- naggio di intelligenze, competenze e talenti destinato a influenzare nega- tivamente la vita civile, amministra- tiva e politica del prossimo futuro.

Alla luce di questa inquietante e di- sastrata realtà, la domanda sorge spontanea: «Che senso ha parlare oggi di Festa del Lavoro?» . La rispo- sta è più semplice di quanto si possa credere, anche perché ci è stata rive- lata 70 anni fa. Dal 1948 l’Art.1 del- la nostra Costituzione, recita

«L‟Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», parole che susci- tano un amaro sorriso, invece sono la chiave fondamentale della questio- ne. Ad essere oggetto di memoria

non sono solo le lotte operaie per i diritti dei lavoratori, ma qualcosa di più grande: la scelta di associare il lavoro all’identità repubblicana e democratica dello Stato, intendere il lavoro quale mezzo per la realizza- zione della dignità del cittadino, concepire il lavoro quale forza pro- pulsiva di una società fondata su di- ritti di libertà e uguaglianza. Pertan- to il 1°Maggio non può e non deve essere solo la festa di chi il lavoro ce l’ha. Il Primo Maggio deve saper rappresentare giovani e anziani, ope- rai e specialisti, tutelati e non, disoc- cupati e precari. Per dare il via al necessario cambio di rotta i Partiti, le Associazioni, la Società Civile ed i Sindacati, dovranno impegnarsi per la realizzazione di politiche atte a

valorizzare le potenzialità dei nostri territori, pianificare strategie effica- ci, in grado di favorire lo sviluppo, promuovere la cultura d’impresa, affrontare le sfide legate all’innova- zione. Sarà fondamentale investire in settori nevralgici come infrastruttu- re, trasporti, turismo, sanità, uni- versità ed operare in un sistema di- sciplinato da regole fiscali semplici e trasparenti. Soprattutto i giovani dovranno armarsi di coraggio, dedi- zione, passione, volontà e partecipa- zione per essere protagonisti di que- sto cambiamento, nella consapevo- lezza che, come sosteneva Denis Waitley, «Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle».

(Continua da pagina 1)

„U MANDAGGHIU APRILE 2018 PAGINA 3

FESTA I° MAGGIO TRA DISOCCUPAZIONE E PRECARIETÀ’

Era dalle sette che gli operai butta- vano sangue nella vigna e il sole bru- ciava loro ora la fronte ora la schiena seguendo il ritmo del loro zappare.

Un sole carogna peggio che ad ago- sto. Ma se si fermavano a bere un goccio d’acqua don Cosimuzzo li guardava male, nemmeno fosse il vino delle sue botti. Non tollerava pause lui. ’Mpari Mico guardava il figliolo e malediceva il bisogno che costringeva quell’innocente a rom- persi la schiena come un grande. E intanto si portava un po’ più avanti cercando, col suo corpo massiccio, di fargli un po’ d’ombra come fa la pecora con l’agnello. Sudava il ra- gazzo e il sudore che gli scendeva lungo le gote sostituiva le lacrime di fatica che per vergogna si teneva dentro. Che bella giornata che è uscita!

– disse Don Cosimuzzo sdraiato all’ombra della quercia. ’Mpari Mi- co, tra i denti, maledisse Francesco Baracca e quelli come lui che si era- no messi a volare nel cielo con quel- le diavolerie e avevano fatto impaz-

zire i mesi e le stagioni. Lui aveva fatto la guerra e li aveva visti coi suoi occhi. Kàglio i mànasu na se claz- zi para o ìglio tu martìu na se vazzi–

disse ’Mpari Leu. Megghju to‟ mamma mi ti ciangi ca lu suli di marzu mi ti tingi – tradusse ’Mpari Mico per Don Cosimuzzu. Kàglio i mànasu na se clazzi para sto marti na pai na scazzi – aggiunse ’Mpari ’Ndria. Megghju to‟ mamma mi ti ciangi ca a marzu mi vai mi zappi – ritradusse ’Mpari Mi- co. Ma Don Cosimuzzo non era tipo da lasciarsi intenerire dai proverbi:

da sotto la quercia continuava a im- partire ordini agli uomini sudati. Lui non sudava: chi comanda non suda.

Tutt’al più gli sudava la lingua, ma nemmeno tanto ché il parlare è arte leggera. È più probabile, invece, che fosse l’acquolina a bagnargli la lingua ché già aveva steso la tovaglia e tra pochi minuti ci sarebbe stata la pausa per il pranzo. Sulla tovaglia c’era:

pane bianco, capicollo, formaggio, uova sode, olive e cipolle. Il ragazzo aspettava che si servisse per primo il

padrone e intanto inghiottiva saliva davanti a quel ben di Dio. Ma quel ben di Dio, Don Cosimuzzo, l’aveva portato soltanto per ben figurare e far vedere che li sapeva fare i doveri.

In realtà gli doleva il cuore a spartir- lo a quei quattro tamarri. E così pre- se pane e cipolla e cominciò a man- giare esclamando: “Ah, che è buona questa cipolla!” “Quanto mi piace pane e cipolla!” “E quanto fa bene alla salute!

Dicano quel che vogliono, ma non c‟è niente meglio della cipolla!”. Pensava quell’avaraccio, che se mangiava pane e cipolla lui, lu Gnuri, nessuno si sarebbe azzardato a toccare qual- cos’altro. E infatti, deluso sino alle lacrime, il ragazzino, per educazio- ne, allungò la mano per prendere una cipolla pure lui. Il padre gli ap- pioppò un ceffone che gli fece cade- re la berrettella: Tordone, lo so che esci pazzo per le cipolle, ma non hai sentito quanto piacciono allo Gnuri?! E allora lasciagliele a lui, scostumato, e tu arran- giati come puoi con formaggio e capicol- lo, santudià!

di Francesco Borrello

FRUGALITÀ

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PAGINA 4 APRILE 2018 „U MANDAGGHIU

Dopo aver avuto il piacere di cono- scere il professore Nucara durante il mio ultimo viaggio a Reggio Ca- labria, mi e` stato chiesto di scrivere qualcosa della vita dei mosorrofani in Australia. Non siamo in tanti e le dis- tanze ci separano, comunque ci sen- tiamo spesso per via di Facebook.

Una volta ci si vedeva di più. Posso dire che i mosorrofani che si sono stabiliti nello stato del Victoria op- pure nella sua capitale Melbourne, sono riusciti a sistemarsi bene nonos- tante gli ostacoli che hanno dovuto affrontare nei primi anni. Cosa sig- nifica essere figlia di mosorrofani all’estero? Significa doversi integrare in un paese straniero con consuetudi- ni differenti e allo stesso tempo cres- cere rispettando i valori e le usanze di genitori cresciuti dai anni 30 ai 60 in Italia. Vuole dire iniziare le scuole senza conoscere una parola d’inglese e studiare l’inglese come lingua sec- onda e non sapere fino ai diciassette anni che la parola inglese per colapas- ta è colander, una rivelazione divert- ente perchè a casa si parlava sia il di- aletto sia l’italiano e non tanto l’inglese. C’è chi direbbe che siamo svantaggiati, ma penso che cio` non sia corretto. Chi vive tra due culture gode di tanti vantaggi, dal punto di vista culturale e linguistico. Adoro l’Italia, sogno la Calabria e penso con affetto ai miei amici e ai miei parenti, il profumo intossicante del caffé ital- iano e il dialetto calabrese di cui sono fiera, ma Melbourne e` la mia citta`:

verde, moderna, multietnica, a volte caotica ma efficente, pulitissima e per

lo piu` una metropoli che offre tante opportunita` per realizzarsi. Vivere fra culture arricchisce le persone, spesso dando loro una prospettiva diversa della vita e degli esseri uma- ni. Parlare piu` di una lingua e vivere accanto a persone d’origini diverse ci rende piu` compassionevoli e com- prensivi ,per quanto riguarda le per- sone provenienti da altri paesi. Di solito, tendiamo ad essere piu` tol- leranti e piu` disposti a provare cose nuove. L’inserimento a Melbourne non e` stato facile per i miei genitori, inanzitutto perche` erano stati abitu- ati a vivere in un paese dove c’era un forte senso di comunità. Non era co- si` a Melbourne. I miei genitori han- no lasciato i loro parenti e familiari, una lingua che sapevano bene e i sapori e i profumi italiani. I primi anni sono stati duri perchè a Mel- bourne non c’erano delle belle piazze dove ci si radunava, si faceva la spesa e s’incontrava con gli amici. La pas- seggiata come esiste in Italia non c’era, quindi tante donne italiane passavano giornate intere a casa senza vedere persone e parlare con qualcu- no. Ci sono ancora donne italiane che non parlano bene l’inglese o che non lo parlano affatto. Quelle piu` intra- prendenti, come mia madre, hanno frequentato lezioni d’inglese per po- ter leggere documenti scritti in in- glese e per poter sbrigare le loro facende indipendentemente. A volte venivamo incaricati noi bambini a fare da traduttori o da intepreti, dovendo leggere e capire dei docu- menti legali incomprensibili. D’altro

canto, quelle donne che lavoravano, uscivano di casa e avevano occasioni per parlare con altre persone. I mari- ti di solito lavoravano e quindi po- tevano avere più opportunità per socializzare e per integrarsi bene.

Cosa hanno fatto gli immigrati italiani per creare un senso di comunità?

Hanno fondato dei club/circoli re- gionali come il Reggio Calabria Club oppure Il Veneto Club. In questi pos- ti gli italiani si sentivono a loro agio.

Si poteva parlare in dialetto, con- sumare piatti tipici regionali e casal- inghi e stare insieme a persone con tanto in comune. Ricordo bene le cene danzanti e le gite, sempre in compagnia di persone con cui potevo identificarmi. Oggigiorno esistono ancora questi circoli, ma i figli di questi immigrati si sono integrati bene nella società e quindi non ne hanno più bisogno. Chi e` immigrato o figlio d’immigrati a volte si sente un pò fuori posto e che non è ne ital- iano ne australiano, ma ciò fa parte della condizione dell’immigrato. Non ci sentiamo completamente a nostro agio sia nei nostri paesi nativi sia nei nostri pasei adottivi. Quando vengo in Italia dico che sono australiana, ma quando sono in Australia dico che sono italiana perchè, in effetti, non mi sento ne completamente italiana ne completamente australiana, sono italo-australiana o se voglio precisare mosorrofana-australiana. A la prossi- ma.

*Antonella Pellicanò (figghia di Peppe u Negus e Peppina a ncinata)

Un saluto da Melbourne…

di Antonella Pellicanò*

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„U MANDAGGHIU APRILE 2018 PAGINA 5

LE MONETE ITALIANE E LA GRANDE GUERRA

di Carmelo R. Crupi Monete coniate nel quinquennio 1914-1918

Non si può affrontare un discorso, sep- pur breve, sulla monetazione italiana negli anni della Grande Guerra, senza parlare di Vittorio Emanuele III, il “Re numismatico”. Vittorio Emanuele III di Savoia è da molti conosciuto e ricordato come il sovrano italiano che affrontò due guerre mondiali, di piccola statura, con spalle e gambette mingherline, quasi rachitico, dal carattere schivo e inade- guato a reggere, con la dovuta fermezza, i destini della Nazione nei travagliati anni del suo regno, dal 1900 fino al 1946. Non ebbe il coraggio di proclama- re, nell’ottobre 1922, lo stato di assedio al fine di porre termine, con l’ausilio delle forze armate, alla marcia su Roma delle camicie nere e fu egli che, all’indo- mani della diffusione della notizia dell’armistizio con gli Alleati, il 09.09.1943 non esitò ad abbandonare di sottecchi e poco prima dell’alba la Capi- tale, stretta nella morsa dei tedeschi da nord e degli Alleati da sud, riparando a Pescara e poi a Brindisi con i vertici mi- litari, lasciando i sodati italiani privi di direttive. A parziale riabilitazione della figura di questo sovrano bisogna sottoli- nearne la grande competenza storica e numismatica: fu un esimio studioso e conoscitore della monetazione antica greca e romana, ebbe il merito di rinno- vare profondamente il dato artistico e quello iconografico della monetazione nazionale, migliorandola nettamente rispetto a quella fredda e monotona che contraddistinse le emissioni di Vittorio Emanuele II e Umberto I. Ebbe anche il merito di compilare e pubblicare, in modo volutamente anonimo, il primo tentativo di catalogo generale di tutte le monete medievali e moderne coniate in Italia, o da italiani in altri Paesi, ponde- rosa opera che tutti i numismatici cono- scono bene, il Corpus Nummorum Itali- corum, pubblicata in venti volumi tra il 1910 e il 1943, rimasta incompleta a causa del precipitare degli eventi duran- te il secondo conflitto mondiale. Il titolo di “Re numismatico” gli venne attribuito per la prima volta a Parigi, durante una sua visita a La Monnaie (la zecca di stato), e il suo amor proprio ne rimase lusinga- to: egli non nascose che questo titolo gli era certamente preferito a quello di “Re e Imperatore” attribuitogli da Mussolini

il 09.05.1936 al compimento della con- quista dell’Impero Etiopico. Altro suo merito, di inestimabile valore culturale per il nostro Paese, fu la donazione al popolo italiano della sua personale e vastissima collezione numismatica, mes- sa insieme durante un’intera vita e con larghezza di mezzi, donazione avvenuta dopo la sua abdicazione in favore del figlio Umberto, collezione che, oggi, è parzialmente custodita presso il Museo Nazionale Romano. Parzialmente poiché alcune tra le monete più preziose di questa collezione sono state delittuosa- mente trafugate da ignoti, quando già l'Italia era repubblicana! Il fatto che Vit- torio Emanuele III fosse un profondo conoscitore della numismatica greca e romana traspare chiaramente da nume- rosi tipi adottati per il dritto e il rove- scio di molte monete coniate durante il suo regno, direttamente ispirati, appun- to, alla bellezza ed eleganza della mone- tazione classica; il miglioramento quali- tativo ed artistico di tutta la produzione monetaria negli anni in argomento si deve anche al fatto che, per espressa volontà del re, venne istituita (R.D.

n.27 del 19.01.1905) una Commissione permanente tecnico-artistico-monetaria col compito di assistere l’amministrazio- ne del Tesoro nella scelta dei tipi delle monete e furono, in quegli anni, chia- mati a modellare e a incidere i tipi mo- netali i più rinomati artisti italiani di al- lora, come il palermitano Domenico Trentacoste, Leonardo Bistolfi, i torinesi Davide Calandra e Pietro Canonica, Egi- dio Boninsegna, Aurelio Mistruzzi, Luigi Evaristo Giorgi, Attilio Silvio Motti e Giuseppe Romagnoli. Inoltre, per adde- strare artisti nella modellazione dei tipi monetali e nell'arte di incidere i conii, con la legge n.486 del 14.07.1907 la Regia Zecca di Roma venne dotata di una Scuola dell'arte della medaglia, an- cora oggi attiva presso l’Istituto Poligra- fico e Zecca dello Stato. Il 24.05.1915 l'Italia entrò in guerra contro l'Austria- Ungheria e la Prussia, al fianco di Fran- cia e Inghilterra, e sul Monte Verena fu esploso il primo colpo di cannone italia- no verso le linee asburgiche, ma il primo conflitto mondiale era già scoppiato in Europa l'anno prima. Durante gli anni della Prima Guerra Mondiale nel nostro Paese non vennero coniate monete d'o- ro, ma si produssero alcune belle mone-

te d'argento, di nichel e di rame. Era quella l’epoca in cui le monete valevano in relazione al proprio contenuto di me- tallo prezioso, a differenza di oggi, in cui le monete che abbiamo utilizzato e che utilizziamo (le lirette fino al 2002, poi gli Euro) sono di metallo vile ed hanno valore solo in relazione alla fiducia che il cittadino ripone nello Stato. E pensare che noi italiani, per atavica abitudine, di fiducia nello Stato ne nutriamo pochi- na… La bella produzione monetale di quegli anni, però, non deve indurre a pensare che l'economia italiana fosse florida e in espansione, in quanto negli ultimi anni del conflitto e, soprattutto, in quelli immediatamente successivi, l'Italia dovette fare i conti con l'inflazio- ne, causata dalla notevole immissione nel circolante di troppe banconote per effetto della tesaurizzazione cui erano soggette non soltanto le monete d'argen- to, ma persino quelle di nichel e di ra- me, nonché con una grave crisi econo- mica e monetaria. Erano i frutti di una guerra lunga e costosa, che ci si illuse di aver vinto ma che in realtà era come se fosse stata persa. La Grande Guerra ave- va, infatti, innescato tutta una serie di conseguenze negative nei settori finan- ziario e, in special modo, sociale, che si sarebbe ripercossa duramente sulle fra- gili strutture dello Stato unitario, ancora troppo giovane e tutt'altro che unificato, per arrivare all'ultimo regalo: il fasci- smo. Nel 1914 si dette avvio alla conia- zione di rinnovate monete d'argento nei tagli da lire 5 (scudo) e da lire 2, mentre per la lira si dovette aspettare il 1915. I tipi del dritto e del rovescio di queste monete furono per tutte identici, mo- dellati magistralmente da Davide Calan- dra e incisi da Attilio Silvio Motti, inci- sore capo della Regia Zecca, ed approva- ti dalla commissione tecnico-artistico- monetaria il 12.02.1912. Di seguito la foto ingrandita dello scudo del 1914 in condizioni qFDC/FDC esitato all’asta Nomisma s.p.a. n.51, lotto 2478 (fonte:

www.coinarchives.com):

Continua nel prossimo numero

(6)

PAGINA 6 APRILE 2018 „U MANDAGGHIU

Lo scorso settembre, è stato inaugura- to a Taranto il nuovo anno scolastico

“Tutti a Scuola 2017” presso il cortile della scuola primaria “Giovanni Falco- ne“, dell’istituto comprensivo “Luigi Pirandello“ nel quartiere Paolo VI.

Alla cerimonia, svolta “all‟insegna dell‟educazione ambientale e del contrasto alle forme di bullismo e cyberbullismo e delle buone pratiche educative nelle perife- rie urbane e nelle aree di maggiore disagio sociale”, erano presenti il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mat- tarella e l’ex Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli, oltre ad altre autorità. Ma so- prattutto, erano presenti tantissimi ragazzi provenienti da tutta Italia. Era presente anche una delegazione di Reggio Calabria, l’istituto comprensi- vo “De Amicis-Bolani”. L’invito era stato rivolto alle scuole che si sono distinte nel lavoro svolto nella loro sfida formativa, educativa e sociale. A

loro volta, i dirigenti scolastici reggi- ni, seguendo il criterio del merito, hanno selezionato i migliori studenti del complesso. Tra questi, anche un piccolo mosorrofano, Filippo, figlio di Angelica e nipote di Demetrio Crucit- ti „U Segretariu (per una descrizione accurata). A fine cerimonia, il Presi- dente si è lasciato navigare tra la ma- rea di bambini, alcuni dei quali hanno posto delle domande al presidente. O meglio, come piccoli giornalisti, han- no intervistato il presidente! E tra questi chi se non il piccolo Filippo? In foto, si può vedere il Presidente, at- tento alle domande del piccolo gior- nalista mosorrofano. Caro Filippo, ti auguriamo che questo sia il primo di numerosi incontri e la prima delle numerose interviste a figure altrettan- to importanti come quella del Presi- dente Mattarella. Alla tua tenera età, il tuo curriculum non è niente male.

Ti aspettiamo!

UN PICCOLO MOSORROFANO INTERVISTA IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il piccolo Filippo con Sergio Mattarella Presidente della Repubblica

Il Presidente Sergio Mattarella Parla agli studenti

Chi distrugge le scuole, chi compie atti di vandalismo nelle aule, chi sottrae stru- menti didattici, provoca una grave ferita:

non soltanto, e stupidamente, a se stesso ma a tutti voi studenti. Quando si dan-

neggia una scuola, viene ferita, in realtà, l‟intera comunità nazionale”. Cosi parlò a circa 800 bambini provenienti da diverse scuole italiane il Presidente Sergio Mattarella durante la cerimo- nia di apertura dell’anno scolastico 2017 tenuta alla scuola Luigi Piran- dello di Taranto e vittima di diversi atti vandalici. Chi non interviene per sanare una situazione di degrado e di pericolo per i bambini della scuola

elementare e media di Mosorrofa, come si evince chiaramente dalla fo- to, provoca un danno ancora più gra- ve perché un vetro rotto, e a maggior ragione un vetro rotto in un edificio scolastico, trasmette l’idea di disinte- resse e noncuranza che crea un senti- mento di mancanza di leggi, di norme e di regole. Il vetro rotto porta a pen- sare che tutto sia ammesso e questo non è da paese civile.

TELEGRAFANDO

di G. Nicolò di Demetrio Giordano

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