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III. Il mio occhio s'è fatto pittore

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Academic year: 2021

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Introduzione

Mi sembrava che la vita mi stesse appena attaccata alle labbra; chiudevo gli occhi per aiutarla, mi sembrava a uscir fuori, e provavo piacere nel sentirmi languire e lasciarmi andare. Era un'idea che galleggiava soltanto alla superficie della mia anima, tenue e debole come tutto il resto, ma in verità non solo scevra di dolore, anzi mista a quella dolcezza che sentono coloro che si lasciano scivolare nel mondo.1

Intorno al 1570, epoca di guerra civile, Montaigne cade vittima di un incidente che lo riduce in fin di vita. Nel saggio Dell'esercizio narra in modo vivido le percezioni di quello stato tra morte, sonno e vita, che lo coinvolge in tutte le parti del suo essere. È uno dei luoghi che, a partire dal livello esperienziale, permettono a Montaigne di strutturare un'antropologia fondata sulla combinazione della dimensione mentale – risolta in ultima analisi nell'insieme delle percezioni, delle impressioni e dell'aderenza della mente stessa al reale – con quella corporea – la quale si relaziona al sé soprattutto in termini di piacere e dolore, e della quale scopre un movimento autonomo rispetto alla mente, nell'involontarietà di alcuni impulsi. Il corpo rende l'umano essere presente a sé e al mondo proprio in virtù dei nessi che può stabilire con il reale attraverso la sensorialità, porta e finestra della vita sensibile nella tradizione agostiniana. È un rapporto, questo, da cui si dipanano numerose questioni:

innanzitutto il problema della facoltà attraverso la quale le cose si proiettano nella mente e nel corpo dell'essere umano che lo sperimenta. Tradizionalmente da Aristotele in poi la phantasia o imaginatio è il luogo della relazione sensibile tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.

È interessante così notare in che modo Montaigne utilizzi i termini fantasie, image, imagination: l'analisi deve tuttavia svolgersi sia sul piano della tradizione filosofica che tratta la phantasia nelle restituzioni umanista neoplatonica e scientifico-aristotelica, sia su quello del senso attribuito al termine nel contesto letterario in cui crescono gli Essais. Perciò cercare di circoscrivere il ricorso ai termini della fantasia da parte di Montaigne significa tentare di ricostruire il modo attraverso il quale il filosofo combina questi due versanti, l'uno legato alla trattazione tradizionale filosofica e medica, l'altro al senso comune che impregna la scrittura degli Essais e che è utile ritrovare nell'attività letteraria della Pléiade.

Montaigne si trova in continua ambivalenza tra due mondi: quello che vive in quanto borghese intellettuale del suo tempo, e quello degli antichi, che mira a far rivivere attraverso le loro parole rese di nuovo sostanziali nel processo di assimilazione a cui le sottopone.

Qualsiasi studio su questo autore ha perciò necessità di tenere insieme questi due versanti

1II, 6, p. 481

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della sua filosofia. Ed un buon esempio si trova appunto nella connotazione che assume la facoltà fantastica negli Essais nella misura in cui risulta da questo continuo combinare.

Facendo i conti con un'antropologia complessa e composita la fantasia, o immaginazione, è, insieme alla ragione, o discours, la facoltà più citata negli Essais. Entrambe sono destinatarie di una possibile fiducia, ma allo stesso tempo possono essere oggetto di un costante recriminare relativo alla loro inaffidabilità. La fantasia tuttavia appare come il momento di contatto e di vero processo conoscitivo. È qui che Montaigne si innesta su una tradizione che fa dell'uomo un Proteo/Camaleonte, tipico della pichiana dignitas hominis che ritorna poi nella famosa citazione ficiniana per cui anche l'immaginazione è detta Proteo o camaleonte nella sua capacità di plasmarsi come cera. Si struttura così un'immagine che, di nuovo, rende in termini corporei e di mutamento costante il rapporto dell'umano con la percezione del mondo esterno. Ciò che è interessante notare è che il camaleonte rappresenta in Montaigne il totale e naturale abbandono dell'uomo ai suoi umori e al contesto che vive laddove invece, un'altra figura tradizionale, il polpo, è capace di mimesis a causa della metis. Ora, il travestimento, l'ornamento e la capacità di inganno derivanti dal non apparire come veramente si è investono in Montaigne tutto il sistema morale che fonda sulla semplicità e la sincerità l'unica possibile alternativa al formalismo (famosa e tradizionale la critica al maquillage femminile).

Oltre che morale, la riflessione si pone teoretica in quanto tenta di definire i contorni delle facoltà umane di conoscenza: muovendosi nel territorio che gli antichi hanno stabilito essere quello della fantasia, Montaigne fa dell'immagine il vero punto di contatto tra le cose e il mondo, contatto che vale nel momento in cui si crea e la cui memoria appare come un'astrazione fallace, impossibilità di costituire una pietra d'angolo valevole in modo indipendente dal momento della sua produzione.

La cifra della conoscenza del mondo è quindi la verosimiglianza e non la verità astratta: non la possibilità stoica di stringere nel pugno la conoscenza, ma il continuo richiamo tra le cose che stabiliscono un livello di analogia tra di loro. Lo scetticismo di Montaigne, lungi da essere un rifiuto, è in realtà una presa di posizione che tenta di analizzare se stesso nel momento fugace del rapporto col reale, circoscrivendo strategie umane e individuali di fiducia nelle proprie convinzioni. La discriminante pare trovarsi esattamente nel contatto plurale, rappresentato dall'immagine fantastica, tra il conoscente, la cosa conosciuta e il contesto in cui entrambi si muovono, modificandolo ed essendone modificati. La bilancia accompagnata dal motto pirroniano “Epekho” che Montaigne stesso sostituisce con “Que scays- ie?” nella devise annunciata nell'Apologia di Raimond Sebond è l'emblema di questo itinerario che

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muovendo dal proprio conoscere metaforizza tutta la conoscenza umana. I piatti della bilancia non sono che il luogo in cui la mente umana raccoglie gli argomenti, i fatti, le percezioni e le sensazioni, tutto ciò che ritiene reale. E dalla bilancia, da uno strumento di misura, che come sostiene Montaigne, per essere valevole dovrebbe essere esaminato attraverso un altro strumento di misura scaturisce un jugement: percepire, conoscere, e sapere, non è così altro che un deliberare a partire da condizioni incerte, elementi labili e contestuali e percezioni la cui importanza e chiarezza dipende dal nostro assetto corporeo momentaneo. Tutto questo si articola nella metafora giudiziaria (di cui la bilancia è già un indizio) e nell'esempio della medicina. Il caso Martin Guerre si struttura come il luogo esemplare della fallacia conoscitiva e della presunzione umana che ha conseguenze terribili e sull'importanza dell'esperienza individuale come garanzia della veridicità della conoscenza (il giudice e il testimone).

Accanto alle discipline che Montaigne critica, tra cui appunto medicina e giustizia, esalta invece storia e poesia. La storia è definita “anatomia della filosofia”: questa espressione raccoglie un insieme di significati che si ispirano alla nascente scienza anatomica. Oltre all'atto del mostrare e del rappresentare che l'apertura dei corpi pone, si fa strada il tema dello svelamento della realtà nascosta. La medicina è condannata in quanto disciplina che utilizza un metodo semiotico. La relazione tra causa, effetto e sintomi, non può essere astratta semplicemente da un numero di casi in cui si sono trovati presenti i tre elementi. Prova ne è il continuo disaccordo tra medici. L'anatomia rappresenta piuttosto il contatto diretto tra il conoscente e la cosa, lo stesso contatto che rende il chirurgo più affidabile del medico.

L'anatomia ristabilisce così un elemento di percezione che va al di là del sintomo e della semiotica della conoscenza: la storia come anatomia della filosofia si costituisce quindi come il luogo in cui il racconto delle gesta umane e dei protagonisti che le hanno praticate possano rappresentare la materia tattile della natura umana. È da questa importanza che scaturisce la discussione sui migliori storici e sul giusto modo di scrivere di storia. Frutto probabilmente di un riferimento di Bodin a Polibio, l'anatomia rappresenta così non solo la materia da cui ricostruire la natura umana, ma anche il metodo analitico necessario a qualsiasi processo conoscitivo. “DISTINGO è il membro più importante della mia logica”, perché, afferma Montaigne, in lui si trovano tutti i contrari. Smembrare e ricomporre, senza perdersi nel frammento, è la strategia del “Conosci te stesso”.

Lo stesso tipo di fallacia semiotica e di necessità di contatto tra le cose si sfoga nella critica del linguaggio. Dalla critica della ragione distanziata nel processo astrattivo da ogni contesto creatore di conoscenza (dal momento che il rapporto con le cose ne è la fonte), il linguaggio, espressione di questa scienza discorsiva, si svuota e si fa mera logica. Il nominalismo, di cui

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ovviamente Montaigne è un sostenitore, non è tuttavia arbitrio totale. C'è un livello, che ha a che fare con il corpo, in cui i significati si liberano e si manifestano senza bisogno di sovrastrutture logiche e razionali. È il livello del contadino, del cannibale e dell'animale, e in parte della donna e del bambino; il livello del linguaggio gestuale e degli Essais stessi, improntati alla sincerità.

È anche il livello a cui dovrebbe tendere il linguaggio poetico: versus digitos habet. Non mero ornamento della verità, per cui il poeta umano si sforza, come secondo Ronsard, nello svelare il poema enigmatico della natura, facendone solo una poesia sofistica. La poesia si fa strumento della verità filosofica per cui Platone, Omero dei filosofi, recupera nella forma del dialogo le metafore viventi dello stesso Omero, facendo del linguaggio uno specchio, un produttore di immagini capace di riflettere in modo verosimile il movimento delle cose.

E gli Essais stessi, al cui stile Montaigne dedica numerose riflessioni, non sono che uno specchio: sono lo specchio in cui si produce l'immagine mostruosa di ciò che Montaigne è per se stesso, e agli occhi e alla fantasia del lettore. Una grottesca, un ammasso di pezzi diversi che la vita ha incorporato in lui, non accumulando mnemonicamente, ma trasformando. Una grottesca attorno a Etienne de La Boétie, la cui morte, uno scherzo della vicissitudine, spinge lo stesso Montaigne nel fiume eracliteo.

Da qui la riflessione si sposta sul tempo e sulla fine del proprio tempo: sul caso e sull'hazard di cui gli Essais, ormai immagine pittorica di Montaigne, sono il prodotto. La sua opera, suo figlio, non è a questo punto che un fanciullo mostruoso, da situare, anch'esso nel fiume. Ma, come nel saggio su Democrito ed Eraclito, è dentro al fiume che Montaigne comprende la necessità di trovare dei puntelli, dei guadi, che possano permettergli di starvi immerso e allo stesso tempo di sopportare l'umana condizione in un filosofico giubilo costante.

Da una parte quindi, si tenta di ricollocare Montaigne nel contesto culturale, letterario e filosofico del suo tempo, per cui come ha sostenuto Cave, il dialogo degli Essais con i temi della Pléiade, ma anche del romanzo rabelesiano è continuo2. Cambia la prospettiva: il narratore si sovrappone al protagonista, e la narrazione del mondo diviene la narrazione del sé nell'atto di raccontare il mondo.

Dall'altra parte, invece, l'elemento di singolarità imprescindibile e irriducibile è anche il luogo della critica ai saperi e di fondazione di una possibile nuova teoretica, tema che spinge verso nuovi orizzonti di ricerca sulla filosofia di Montaigne. Si fa spazio, a fronte della diffusa incertezza delle conclusioni umane, un livello di evidenza sensibile, che non per questo si dà

2 T. Cave, Cornucopia. Figures de l'abondance au XVIe siecle: Érasme, Rabelais, Ronsard, Montaigne, Paris, Macula, 1997, p. 280

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come certo, ma che permette di puntellare il giudizio nella consapevolezza della mutevolezza.

E questo livello dell'evidenza è anche quello che, più che dare certezza sulle cose, informa sugli strumenti da cui l'umano ottiene le notizie del sensibile: la neve è qualcosa che ha determinate qualità – consistenza, freddezza, biancore – non nella misura in cui è tale, ma in quanto i nostri sensi la costruiscono e la offrono alla nostra mente attraverso quelle qualità che possono percepire. Non potremo mai sapere, in assenza di altri sensi che non potremo mai conoscere, se la neve sia portatrice di altre qualità, perciò le cose che l'umano conosce e conosce in un modo contestualmente singolare per la sua individualità, non sono tali indipendentemente dall'umano che le percepisce.

Tutti questi temi teoretici sono ovviamente espressi negli Essais sotto forma frammentaria e melangé, ma si pongono all'inizio di un percorso da cui nella modernità si dipaneranno molteplici strade di sviluppo. Nozioni come “legno storto” per indicare la condizione fallace dell'essere umano come soggetto conoscente, “tribunale della ragione” insieme alla metafora del processo deliberativo come processo giudiziario, o ancora esempi classici e tradizionali di inganno dei sensi – come la palla di archibugio toccata da due dita accavallate – sono estremamente feconde per la filosofia che si domanderà da quale condizione l'essere umano comincia a conoscere. E inoltre, si tratta di una condizione che ha a che fare con l'essere umano appartenente ad una specie animale, quindi con una struttura fisica e fisiologica da cui deriva un determinato modo del percepire, ma che è allo stesso tempo singolare per ciascun individuo. Questi i temi su cui si articolerà la teoretica successiva, da cui scaturiscono ovviamente relative antropologia e filosofia morale. Nuovi studi3 si pongono nella ricerca genealogica tra la filosofia di Montaigne e quella di Bacon prima, Cartesio e Spinoza poi, finendo per culminare nel Saggio sull'intelletto umano di Locke e nel “tribunale della ragione” di Kant.

3 Si veda il numero di «Montaigne Studies» dedicato proprio al rapporto tra Montaigne e Descartes, De Montaigne à Descartes: une généalogie philosophique, a cura di N. Panichi et M. Spallanzani, «Montaigne Studies», University of Chicago, n. 25, 2013. Per Spinoza, si veda la pubblicazione degli atti del convegno Humanisme et Anti-humanisme: de Montaigne à Spinoza. Journée d'études le 5 mai 2010, Paris Ouest in

«Nouveau Bulletin de la Société International des Amis de Montaigne», VIII, n. 52, 2010-2.

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I. La vita è breve, l'arte vasta

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I.I Tutto vi è umano5

Noi senza paura6

Il 18 Agosto del 1563, intorno alle 3 del mattino, a fianco dell'amato amico che tirava l'ultimo grande sospiro, Montaigne fu avvolto dalla tristezza. Gli spiriti vitali e il calore naturale si ritirarono verso il suo cuore, dove si ammassarono come per consolarlo e rassicurarlo, o piuttosto, per fuggire l'occasione dell'angoscia. Il viso si fece pallido, il naso sembrò allungarsi, le labbra si abbassarono e si gonfiarono d'aria per la mancanza di materia nei muscoli che svolgono l'officio di tenerle al loro posto. Gli occhi, ormai abbattuti e tenebrosi persero la loro gaia vivacità, arrestati da una grande pesantezza che scacciò via ciò che li rendeva lucenti7. Il corpo dimorava come smagrito e atrofizzato, incapace di produrre nuovi spiriti vitali, pronto ad attendere esso stesso la morte che infatti, dicono i medici, spesso segue la tristezza8.

Cominciò così la solitudine di Montaigne.

Si vuole qui partire, nella presa in considerazione della scrittura degli Essais, dalla prospettiva che Montaigne stesso assume nel giustificarla: prospettiva che colloca l'azione creatrice in un mutevole assetto corporeo e la pone conseguente ad uno stato che sconvolge Montaigne in modo organico. Egli infatti, fa risalire l'inizio della sua attività all'invasione dell'umore melanconico causata dalla solitudine.

È un umore melanconico e un umore quindi molto contrario alla mia indole naturale, prodotto dalla tristezza della solitudine nella quale qualche anno fa mi ero immerso, che mi ha dapprima messo in mente questa fantasia di mettermi a scrivere.9

scrive nella prima stesura degli Essais alludendo, come fa notare Villey, al suo ritiro nel 1571.

Ma se tentiamo di delineare in modo definitivo l'indole naturale a cui si riferisce, la sua

4 Ippocrate di Cos, Aforismi, I, 1, in M. Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, Torino, UTET, 1963, p. 401 5 “O tutto vi è buono, o almeno tutto vi è umano”. M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi Edizioni, 2007, II, 17, p. 864. Da ora in poi indicherò l'edizione Garavini degli Essais solo con i numeri del libro, del capitolo e della pagina. Ogni riferimento all'edizione Villey-Saulnier sarà invece specificato.

6 F. Nietzsche, La gaia scienza, V, a cura di G. Colli, F. Masini, Milano, Adelphi Edizioni, p. 251

7 È questa la descrizione degli effetti della tristezza sul corpo in L. Joubert, Traité du ris contenant son essence, ses causes, et mervelheus effais, curieusement recerchés, raisonés & observés, Paris, Nicholas Chesneau, 1579, p. 82

8 A. Paré, Introduction à la chirurgie, in Oeuvres de M. Ambroise Paré, avec les figures & portraicts tant de l'anatomie que des instruments de Chirurgie, & des plusieurs monstres, Paris, Gabriel Buon, 1575, p. 31

9 II, 8, p. 495; “C'est une humeur melancolique, et une humeur par consequent tres ennemie de ma complexion naturelle, produite par la chagrin de la solitude en laquelle il y a quelques années que je m'estoy jetté, qui m'a mis premierement en teste cette resverie de me mesler d'escrire.”. M. de Montaigne, Essais, Édition Villey- Saulnier, Paris, PUF, 2004, II, 8, p. 385.

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complexion naturelle, troviamo immediatamente delle difficoltà.

Come Screech ha già illustrato10 Montaigne si definisce “entre le jovial et le melancholique, moiennement sanguine et chaude”11, uno dei tanti tipi di temperamento melanconico, sottoposto a Giove e a Saturno, che causano molteplici effetti differenti. In altri luoghi mostra come se non l'umore melanconico, quello collerico lo tiene12, affermando nuovamente la tendenza dei suoi stati psico-fisici alla mobilità. La difficoltà consiste infatti nell'identificare i caratteri della sua complessione in modo astratto dalle occasioni. Le parole complexion o humeur sono spesso utilizzate nell'affermare o negare una tendenza di gusti o di comportamenti, come accade rispetto al rapporto con il vino13, il vizio della nonchalance14, del derubare15, solo per fare alcuni esempi. È quindi nel collocarsi nella vita quotidiana che Montaigne può definirsi, a partire da una generale complessione mista in cui possono coesistere alcuni contrari, fondando così un'antropologia che necessita della non astrazione di corpo ed anima da ciò che l'umano è nel rapporto con il contesto.

Ambroise Paré, situandosi nella tradizione che distingue melanconia come elemento umorale e melanconia patologica16, dopo aver definito i segni di riconoscimento dell'uomo melanconico continua elencando gli elementi che possono mutare il temperamento verso lo stato melanconico:

Aussi toute personne de quelle temperature qu'il soit, peut venir melancholique, usant des viandes qui engendrent un gros sang, comme chair de boeuf, cerf, viels lievres, porcs, fromage, et autres viandes trop sallees. D'avantage la vie triste, beaucoup d'affaires, soings, cogitations, contemplations, solicitudes, proces ou études en lettres, & etre trop sedentaire: car par faute d'exercice la chaleur naturelle rassopit, & les humeurs deviennent gros & terrestre.17

Ovviamente il cibo, ma anche lo stile di vita e le emozioni; dalla tristezza alla solitudine e dalla solitudine alla melanconia: dal ritiro nella torre-libreria, alla scrittura degli Essais, sostituto di un compagno in cui Montaigne poteva scorgere il suo riflesso.

L'eccezionalità di questa condizione per se stesso e lo sforzo strenuo di non precipitare in balia di una melanconia che niente ha del genie, sono più volte sottolineati da Montaigne.

Nell'aggiunta b posta al principio del saggio Della tristezza (I, 2) afferma: “Je suis le plus

10 M. Screech, Montaigne et la mélancolie. La sagesse des Essais, Paris, PUF, 1992, p. 48 11 II, 17, p. 641, ed. Villey- Saulnier

12Ou l'humeur melancholique me tient, ou la cholerique; et de son authorité privée, à cet'heure le chagrin predomine en moy, à cet'heure l'alegresse.” II, 12, p. 566, ed. Villey- Saulnier

13 II, 2, p. 342 ed. Villey- Saulnier 14 II, 4, p. 364 ed. Villey- Saulnier 15 II, 8, p. 388 ed. Villey- Saulnier

16 Per la trattazione della distinzione tra melanconia come umore e melanconia patologica cfr. R. Klibanski, E.

Panowsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, Torino, Einaudi, 1983, pp. 71-76

17 A. Paré, Introdution à la chirurgie, cit., p. 15

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exempts de cette passion”, per continuare poi nell'aggiunta c definendo la tristezza “sot et monstreux ornement” attraverso la quale i più sono abituati ad ornare la saggezza. Allo stesso modo nel saggio dedicato a Democrito ed Eraclito (I, 50) non solo afferma la sua preferenza per l'umore democriteo, ma pone le basi per una possibilità di sopravvivenza all'interno della mutevole coesistenza di vita e morte.

Il saggio Su Democrito ed Eraclito comincia con una metafora attraverso la quale Montaigne illustra il proprio metodo nell'esercizio del giudizio:

Il giudizio è un utensile buono a tutto, che si impiccia di tutto. Per questo, nei saggi che ne faccio qui, mi servo di qualsiasi occasione. Se c'è un argomento di cui non mi intendo affatto, proprio per questo lo saggio, sondando il guado molto da lontano; e poi se lo trovo troppo profondo per la mia statura, mi tengo vicino alla riva; e questo riconoscere di non poter andare oltre è una manifestazione della sua essenza, anzi una di quelle di cui più ci si vanta (…). Infatti non vedo il tutto di nulla.18

“Non vedo il tutto di nulla”, “mi tengo a riva”, “sondando il guado molto da lontano”: si tratta di un fiume, un fiume che non è mai lo stesso in cui Montaigne si immerge ogni volta che scrive un saggio. Un fiume eracliteo che potrebbe aver letto in Seneca

I nostri corpi sono trascinati da un movimento simile al corso dei fiumi. Tutto ciò che vedi, corre con il tempo; nulla di tutto ciò che vediamo rimane; io stesso, mentre parlo di codeste cose che mutano sono già mutato. Appunto questo vuol dire Eraclito: «Nel medesimo fiume discendiamo e non discendiamo due volte».19

Metafora di cui Montaigne riconosce la forza evocativa e rappresentativa del movimento del reale che si sviluppa in “cento membra e cento facce” di ogni cosa. Ma non è ancora tutto. Di fronte al mutevole esiste un altro mutevole, quello dell'umano che conosce:

Le cose hanno forse di per sé i loro pesi e misure e condizioni; ma internamente, in noi, l'anima li squadra come vuole. La morte è terribile per Cicerone, desiderabile per Catone, indifferente per Socrate. La salute, la coscienza, l'autorità, la scienza, la ricchezza, la bellezza e i loro contrari si spogliano entrando e ricevono dall'anima una veste nuova e del colore che a lei piace: marrone, verde, chiaro, scuro, acceso, dolce, profondo, tenue e come piace a ciascuna di esse; poiché esse non hanno mai uniformato i loro modi di essere, regole e forme: ognuna è regina nel suo Stato.20

Questo tema è abbastanza comune in tutto il primo libro degli Essais: in effetti buona parte dei capitoli si occupano di come l'essere umano possa giudicare delle cose e degli elementi che costituiscono la condizione stessa da cui parte il processo conoscitivo.

Nel saggio Della Tristezza nondimeno Montaigne si interroga su come le passioni improvvise e intense, tanto la tristezza quanto la gioia, possano fuorviare il giudizio e abbattere i corpi che le accolgono. Il paragone tra tristezza e gioia, quali estremi che generano mutamenti

18 I, 50, pp. 390- 391

19 Seneca, Lettere morali a Lucilio, VI, 58, a cura di F. Solinas, Milano, Oscar Mondadori, 1995, p. 293 20 I, 50, p. 392

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corporei accomunati dall'eccessività degli effetti, è espresso da Montaigne attraverso citazioni letterarie e poetiche di Petrarca e Catullo, e di Virgilio in un'aggiunta b che racconta come il calore abbandoni il corpo al sopravvenire di un piacere insperato. Si tratta di un paragone che si ritrova anche nella tradizione medica proprio in virtù della contrarietà degli effetti corporei, uniti però dalla possibilità della morte. Ancora nel Traité du ris Joubert riporta esempi famosi di morte per gioia21, alcuni dei quali – la donna romana che vide suo figlio tornare dalla battaglia di Cannes, Sofocle, e Diogene il tiranno – sono rammentati anche da Montaigne22. Le cause sono individuate nella complessione corporea di chi viene colpito da passione eccessiva. Seguendo Aristotele, per cui gli animali paurosi hanno il cuore grande, Joubert sostiene che si può supporre che coloro che muoiono per passione eccessiva hanno essi stessi un cuore grande per cui non hanno abbastanza calore naturale. Dal momento poi, che la gioia comporta l'abbandono del cuore da parte degli spiriti che si concentrano nel viso, questo svanire è detta una demy- mort23.

In virtù delle modificazioni del corpo e del suo raffreddamento o riscaldamento si differenzia anche il tipo di melanconia contro natura, maladie o manie che:

depand communement de la breuleure des humeurs, produit aus espris des hommes divers effais. Daiquels nous ne toucherons icy, que ceus qui servent à notre affaire se sont le Ris et le pleur. Des melancholiqs (dit Paul Aeginete) les uns riet toujours, les autre toujours pleuret. (…) Le fait et telle: La maladie qu'on appelle melancholie (c'et une alienacion d'esprit, sans fievre) et faite de l'abondance de l'humeur melancholique lequel le lie et limon du sang. (…) Ce sont maus divers, et qui ont differantes fassons selon que l'humeur et froid ou chaud. Car le froid cause plusieurs facheries & angoisses d'esprit: le chaud donne asseurance & liesse.24

Joubert, descrivendo il movimento dell'umore melanconico, si riferisce ovviamente ad Aristotele e al paragone con gli effetti del vino riportato nel Problema XXX, 1 e afferma che

“donques le vin change les meurs, selon le sujet qu'il rencontre”, cioè secondo la complessione con cui ha a che fare.

Si possono quindi delineare tre eccessi – tristezza, piacere, vino – di fronte ai quali Montaigne si sforza di definire la sua posizione e un metodo per “guadare” il fiume del reale a partire dalla sua condizione umana e personale, da cui la sua complessione naturale e i suoi mutamenti non possono essere esclusi.

L'aggiunta b di Della Tristezza conclude il saggio con una nuova notazione riguardo alla natura di Montaigne che, questa volta, si accompagna a un'indicazione su come egli stesso agisce su di sé:

21 L. Joubert, op. cit., p. 78 22 I, 2, p. 16

23 L. Joubert, op. cit., p. 78 24 Ivi, p. 274-275

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Tali violenti passioni [tristezza e gioia che portano alla morte] hanno poca presa su di me.

Io ho sensibilità tarda per natura; e la corazzo e l'ispessisco ogni giorno con il ragionamento.25

Si tratta di un'annotazione che introduce la questione della saggezza e del recupero della tradizione ellenistica che nel Rinascimento ha così tanta fortuna.

Montaigne ispessisce la sua natura con i ragionamenti: non l'anima, non il corpo, entrambi. Il livello problematico della saggezza e della capacità di sopportare i movimenti inaspettati, dolorosi o piacevoli del reale, illuminano una dimensione antropologica “intellettualmente sensibile, sensibilmente intellettuale”26.

Ed è essenzialmente questa dimensione che Montaigne intende mostrare nella sua dipintura dell'io. La metafora della nudità che si ritrova nell'Al lettore degli Essais è il tentativo di proporre un'immagine che sia più vicina possibile al suo intento di sincerità: volontà di fedeltà a se stesso al limite del pudore, limite a volte superato. Le conditions e gli humeurs propongono una conoscenza che non esclude la succosità delle tendenze e delle alterazioni corporee, né effetti né cause dei pensieri di Montaigne, ma elementi concomitanti ai pensieri stessi. Montaigne trova forse l'idea della sincerità nuda in Seneca:

quando vorrai procedere alla stima autentica di un uomo e sapere qual è la sua natura, osservalo nudo: deponga il suo patrimonio, deponga le cariche onorifiche e gli altri mendaci orpelli della Fortuna, si spogli persino del suo corpo.27

Ma forse non può “spogliarsi del suo corpo”. Certo, in altri luoghi come in I, 42, Montaigne invita a considerare gli uomini in un senso più ravvicinato a quello di Seneca, facendo probabilmente alcune citazioni implicite ma dirette28; eppure si chiede lo stesso: “Ha un corpo adatto alle sue funzioni, sano e gagliardo?”29. Montaigne non esclude i difetti, anche e sopratutto le tendenze corporali imbarazzanti dal suo dipingersi, quali elementi di scoperta e conoscenza di se stesso:

Io mi mostro intero: è uno SKELETOS dove d'un colpo, appaiono le vene, i muscoli, i tendini e ogni pezzo al suo posto. L'atto di tossire ne rivela una parte, l'atto di impallidire o di aver palpitazioni di cuore, un'altra e in modo incerto.30

Come Socrate, Montaigne era un uomo, e non voleva essere né sembrare altro, ed è nella critica della medicina, la quale necessita di una buona conoscenza dell'umano per intervenire,

25 I, 2, p. 16 26 III, 13, p. 1484

27 Seneca, Lettere morali a Lucilio, IX, 76, cit., p. 455

28 “Perché quando valutate un uomo, lo valutate tutto avvolto e infagottato? Ci mostra soltanto le parti che non sono in alcun modo sue, e ci nasconde quelle attraverso le quali soltanto si può davvero giudicare quanto vale. È il valore della spada che vi interessa non quella del fodero (…). Misuratelo senza i suoi trampoli: che metta da parte ricchezze ed onori, che si presenti in camicia.”, I, 42, pp. 337-338

29 Ibidem 30 II, 6, p. 489

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che Montaigne delinea la pluralità, non è azzardato dire infinita, delle influenze che contribuiscono a formare ogni individuo: complessione, temperamento, umori, tendenze, azioni, pensieri, idee, circostanze esterne, natura del luogo, condizioni di aria e tempo, posizione dei pianeti e delle loro influenze; delle malattie, le loro cause, sintomi e manifestazioni; dei farmaci, peso, forza, paese, forma, età e dosaggio.

È su questo tentativo di ricongiungimento di due parti dell'umano, e dell'umano col suo contesto che Montaigne fonda la sua riflessione sulla saggezza, mutevole nel corso delle varie fasi della scrittura degli Essais. “Non è un'anima, non è un corpo che si educa: è un uomo;

non bisogna dividerlo in due.”31. In questa citazione famosa del testo a, cioè risalente al 1580, e nel seguito in cui Montaigne riferisce le raccomandazioni di Platone, Villey ha identificato la lettura di Plutarco, quindi un'eredità ellenistica che, accanto a Seneca, rappresenta le principali fonti della questione della saggezza, necessariamente connessa a quella dell'unità umana. Nei Precetti di salute Plutarco riporta infatti che Platone invitava a esercitare insieme corpo ed anima, affinché l'una non si sviluppasse senza l'altro e stabilendo così un parallelo tra salute e virtù32. Parallelo che com'è noto, si ritrova in molteplici passi di Seneca testimonianti la necessaria correlazione tra corpo e anima che precede la raffigurazione del saggio stoico. La distinzione tra anima e corpo in Seneca avvalora sempre la superiorità della prima sul secondo:

Dobbiamo comportarci non come se dovessimo vivere in funzione del corpo, ma nell'idea che non possiamo vivere senza il corpo: l'eccessivo amore per questa parte di noi stessi ci riempie di timori e di inquietudini, ci carica di preoccupazioni, ci espone a subire affronti.

(…) Lo si circondi pure delle cure più solerti, tuttavia quando lo esigeranno la ragione o l'onore o la parola data, lo si dia, come il dovere richiede, in mezzo alle fiamme.33

Tra Plutarco e Seneca, Montaigne si sforza di delineare una morale che possa ancorare il modo di vivere del saggio all'ordine vicissitudinale delle cose, chiedendo alla filosofia i mezzi per far fronte alla Fortuna. Come ha fatto notare Friedrich34 buona parte della posizione di Seneca si può definire nei termini di uno “stoicismo volontario”, che si accompagna di qualche sfumatura.

Il saggio di Seneca è colui che attraverso la filosofia deve tentare di “modellarsi come un dio”35: è una morale che, spingendo l'umano ad “ergersi al di sopra della Fortuna”36, implica

31 I, 26, p. 218

32 Plutarco, Regles et precepts de santé in I. Amyot, Les oeuvres morales meslees de Plutarque translatees du grec en françois par M. Iacques Amyot, Paris, Michel de Vascosan, 1572, f. 302r

33 Seneca, Lettere morali a Lucilio, II, 14, cit., p. 63

34 H. Friedrich, Montaigne, Berna, A. Francke Verlag, 1949, tr. fr. a cura di R. Rovini, Paris, Gallimard, 1968, p.

74

35 Seneca, Lettere morali a Lucilio, IV, 31, cit., p. 169 36 Ivi, V, 43, cit., p. 209

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necessariamente l'esclusione del corpo e delle sue necessità dall'orizzonte della saggezza.

Sono troppo grande e generato per una realtà ben superiore per essere schiavo del mio corpo, che per la verità considero come una sorta di catena gettata attorno alla mia libertà.

Orbene, io oppongo questo mio corpo alla Fortuna, perché ivi essa si arresti, e non consento che alcuno dei suoi colpi giunga fino a me per il tramite del corpo. Questo rappresenta tutto ciò che in me può subire offesa: in tale dimora asservita abita un animo libero. Mai codesta carne mi indurrà alla paura, mai alla simulazione, indegna di un uomo dabbene, mai mentirò per rendere omaggio a questo povero corpo. Quando mi sembrerà opportuno, troncherò ogni rapporto con lui e persino ora, mentre siamo attaccati l'uno all'altro, non saremo più soci in parti uguali: l'animo si arrogherà ogni diritto. Il disprezzo del proprio corpo è libertà sicura.37

Si stabilisce una relazione somigliante a quella dell'uomo microcosmo specchio del macrocosmo, per cui la natura mista, corporea e spirituale del saggio, riprodurrebbe al meglio la relazione tra mondo sublunare e sfere celesti, sovralunari. Nella lettera 66 a Lucilio, Seneca sviluppa questo paragone considerando in modo epicureo il benessere del corpo come assenza di dolore:

Come la serenità del cielo, una volta purificata sino a raggiungere lo splendore incontaminato, non ammette un grado ancora più alto di chiarità, altrettanto perfetta è la condizione dell'uomo che ha cura del corpo e dell'animo e ricava da entrambi il proprio bene e trova compimento supremo dei propri desideri, se l'animo non è preso dall'angoscia, né il corpo da dolore.38

In questo senso la verità e la virtù si situano al di fuori della conoscenza sensibile: escludendo la mutevolezza dei sensi, da una parte la ragione si proietta in un mondo di verità eterne39 e di solidità del giudizio, da cui la virtù può scaturire in modo certo dando vita a una filosofia morale epistemologicamente fondata sulla ragione.

La sola ragione è immutabile e ben salda nel suo giudizio: non è asservita ai sensi, li domina. La ragione è uguale alla ragione, come la rettitudine alla rettitudine; dunque anche la virtù è uguale alla virtù, dato che la virtù altro non è se non retta ragione.40

Il dominio dell'autenticità dell'umano è perciò posto fuori dal mutevole. Verità e virtù sono nel mondo dell'eternità, che non soffre la corruzione e l'annientamento. Il saggio si colloca alla maniera stoica in un luogo superiore agli altri viventi, e inferiore solo alla divinità, i cui caratteri però ha il compito di assumere nella realizzazione della virtù. Essendo la ragione soffio vitale, l'animo occupa nell'uomo il posto che la divinità occupa nell'universo: davanti

37 Ivi, VII, 65, p. 335 38 Ivi, VII, 66, p. 355

39 “Tutto ciò che la vera ragione approva è solido e perenne, ritempra l'animo e lo innalza a regioni eccelse, dove soggiornerà per sempre. Quelle cose, invece che vengono sconsideratamente apprezzate e che nell'opinione del volgo sono autentici beni, fanno ringalluzzire quanti provano intima soddisfazione per la vanità. Viceversa, ciò che è temuto come un male incute paura nelle menti e le agita, non diversamente dagli animali spaventati da una parvenza di pericolo. Dunque senza un motivo, l'una e l'altra condizione scompaginano l'animo e lo crucciano, ma né la prima merita di essere vissuta come gioia né la seconda come paura.” Ivi, VII, 66, p. 349 40 Ibidem

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alla tirannia degli elementi governati dalla Fortuna il saggio subordinerà i meno nobili a quelli che lo sono di più

è la Fortuna che mi fa la guerra; non intendo seguire i suoi ordini, non accetto il suo gioco, anzi – e per questo ci vuole maggiore coraggio – la scuoto lontano da me. Non bisogna rammollire l'animo. Una volta che mi sia arreso al piacere, dovrò cedere al dolore, cedere alla fatica, cedere alla povertà: vorranno avere eguali diritti su di me sia l'ambizione, sia l'ira. Fra tante passioni sono disorientato, anzi lacerato. Mi si è prospettata la libertà, a questo premio tende ogni mio sforzo. Mi chiedi in che cosa consiste la libertà? Non essere schiavo di nulla, di nessuna necessità, di nessun caso della vita, anche spiacevole, costringere la Fortuna a confrontarsi con armi pari. Il giorno in cui avrò capito che lei è più forte, ebbene, non potrà fare più nulla: e allora, dovrò sopportarla pur avendo la morte a mia disposizione?41

Compito della filosofia è dunque quello di rendere il saggio pari a un dio e collocandolo così nella sfera sovralunare libera da ogni perturbazione, in cui “regna sempre il sereno”42.

L'ondeggiare, invece, dà la nausea. Se il mondo è, come direbbe Montaigne, una continua altalena in cui tutte le cose oscillano senza sosta43, Sereno, nel dialogo di Seneca sulla tranquillità dell'anima, ha un bel sentirsi sballottato non dalla tempesta, ma in balia delle mutazioni di se stesso, incapace di risolversi44. Egli non è che un uomo e, come tale, ondoyant et divers. Come trovare, allora, un momento di sosta, di fermezza, un guado su cui far presa e vivere quietamente? Il saggio sarà così colui che è imperturbabile: “la felicità esiste soltanto se si identifica con l'imperturbabilità”45, ma ciò non significa che non possa essere colpito dalla Fortuna. In Della costanza del saggio Seneca definisce il significato che dà a questa caratteristica della saggezza: è saggio non colui che rifiuta di mettersi alla prova a fronte della mutevolezza delle cose, ma colui che, sebbene colpito e ferito, non viene danneggiato46. Ciò che Friedrich aveva individuato come sfumature del pensiero di Seneca sulla saggezza è tanto più comprensibile all'interno della narrazione di Montaigne del suo più grande dolore, la morte di La Boétie. Più avanti infatti, Seneca si attarda a elencare gli eventi che atterriscono il saggio, ma non lo distruggono: tra di essi figura la morte degli amici. E come nel consolare Lucilio della morte di Flacco nella lettera 63, ancora nel Della costanza del saggio Seneca afferma che non essendoci virtù che non percepisca il patire, il saggio “certi colpi li riceve, ma ricevutili, riesce a vincerli, e li cura e li comprime”47.

Gli fa eco Montaigne: anche gli stoici consentono al loro saggio di turbarsi fino ad impallidire

41 Ivi, V, 51, p. 249

42 Ivi, VI, 59, p. 307. Espressione ripresa quasi con le stesse parole da Montaigne in I, 26, p. 213 43 III, 2, p. 1067

44 Seneca, Della tranquillità dell'anima, I, 17, in Id., I dialoghi, a cura di G. Viansino, Milano, Arnoldo Mondadori, 1992, p. 428

45 Id, Lettere morali a Lucilio, VIII, 74, cit., p. 419

46 Id, Della costanza del saggio 3, 3, in Id., I dialoghi, cit. p. 157 47 Ivi, 10, 4, p. 166

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e contrarsi, dal momento che

la saggezza non modifica le nostre condizioni naturali (…) [il saggio] deve chiudere gli occhi davanti al colpo che lo minaccia; se si trova sull'orlo del precipizio deve fremere come un fanciullo; la natura infatti ha voluto riservarsi questi leggeri segni della sua autorità, invincibili dalla nostra ragione e dalla virtù stoica, per insegnargli la sua mortalità e la nostra fragilità. Impallidisce per la paura, arrossisce per la vergogna; si lamenta delle fitte di una colica, se non con grida disperate e acute almeno con voce rotta e fioca.48

Il saggio infatti, “humani a se nihil alienum putet”49. Non è né può aspirare ad essere simile a un dio. Se Montaigne riprende Seneca nell'affermare che lo stato della saggezza è quello delle cose sopra la luna, “sempre serena”, il monito finale degli Essais fa i conti con la mortalità dell'umano, di un Montaigne di fronte alla vecchiaia. La citazione che ridimensiona l'umana divinità è di Plutarco, dalla Vita di Pompeo, tratta dalla traduzione di Amyot: “D'autant es tu Dieu comme tu te recognois homme”50.

Riconoscersi uomo significa per Montaigne conoscere se stesso, conoscersi non solo in modo introspettivo, ma anche corporeo. Il paragone è ancora con la medicina: nei Precetti di Salute Plutarco riporta l'affermazione di Tiberio per cui un uomo che abbia superato i sessanta anni merita di essere preso in giro nel momento in cui tende la mano al medico per farsi tastare il polso. Colui che non conosce la complessione del suo corpo, ignora gli alimenti e gli stili di vita che gli nuocciono o gli sono favorevoli, dimora in se stesso come cieco e sordo, come avendo un corpo in prestito, per cui deve chiedere ad altri – al medico – cosa è meglio per lui.

Non può essere saggio colui che ricerca in altri la sapienza di se stesso51.

L'ultimo capitolo degli Essais, il cui argomento centrale è l'esperienza, si concentra sull'ambivalenza del riconoscersi umani e conoscere se stessi, partendo proprio dall'inutilità della medicina per chi ha “esercitato” se stesso a lungo e con metodo. Affiancando la posizione di Tiberio a quella di Socrate, Montaigne arriva a sostenere la possibilità, per l'uomo intelligente, di regolarsi senza medicina52. Il sapere medico è il luogo della considerazione completa dell'umano e della sua congiunzione psicofisica. Ma proprio in virtù della necessaria complessità e individualità dell'oggetto di studio, non è una scienza che possa tendere all'universale. L'essere umano che il medico considera è sempre necessariamente esperienziale e non può dar vita a una conoscenza che si astragga dal contesto spazio- temporale in cui viene studiato. La cifra del sapere medico è il suo continuo scacco di fronte all'infinita differenza che la natura gli propone, il suo luogo è l'esempio di cui il medico può

48 II, 2, p. 446

49 Ibidem, cit. anche in Erasmo, Elogio della follia, 30, Torino, Einaudi, 2005, p. 89 50 III, 13, p. 1496

51 Plutarco, Regles et precepts de santé, in I. Amyot, op. cit., f. 301v 52 III, 13, p. 1443

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comunque avere solo una conoscenza basata sulla somiglianza, nella misura in cui non ha esperito lo stato in cui versa il paziente

Tanto si è che la medicina dichiara espressamente di aver sempre l'esperienza a riprova del proprio operare. Così Platone aveva ragione di dire che per essere un vero medico sarebbe necessario che colui che volesse esserlo fosse passato per tutte le malattie che vuole guarire e per tutti gli accidenti e le circostanze di cui deve giudicare.53

La malattia, invece, è il luogo in cui l'essere umano può fare esperienza di sé in modo più completo: è il luogo della comprensione del proprio regolarsi che ogni individuo impara facendo esperienza di sé costantemente. Non si può imparare se stessi senza il sentimento di se stessi: “mi giudico solo per quello che sento veramente, non per ragionamento”54.

È infatti un “lettore negligente” quello che prima di leggere se stesso volge lo sguardo a ciò che non può comprendere, incapace di collocarsi prima di tutto nella parzialità umana:

Noi ingombriamo il nostro spirito con pensieri su ciò che è generale e sulle cause e le leggi universali, che procedono benissimo senza di noi, e lasciamo indietro i nostri affari e Michel, che ci riguarda ancora più da vicino dell'uomo.55

Quest'idea e usanza comune di guardare altrove più che a noi ha giovato molto alle nostre faccende. Questo è un oggetto pieno d'insoddisfazione; non vi vediamo che miseria e vanità. Per non sconfortarci, la natura ha opportunamente orientato i nostri sguardi verso l'esterno. (…) Era un comandamento paradossale quello che ci dava anticamente quel dio a Delfi «Guardate in voi, conoscetevi, attenetevi a voi stessi; il vostro spirito e la vostra volontà, che si sperperano altrove, riportateli in se stessi; voi vi spandete, vi disperdete;

chiudetevi in voi, puntellatevi; vi si tradisce, vi si dissipa, vi si sottrae a voi stessi. Non vedi che questo mondo tiene tutti i suoi sguardi fissi nell'intimo e gli occhi aperti a contemplare se stesso? È sempre vanità per te, dentro e fuori, ma è minor vanità quanto meno è estesa. Eccetto te, o uomo,» diceva quel dio «ogni cosa studia prima di tutto se stessa e, secondo il suo bisogno, ha limiti ai suoi travagli e ai suoi desideri.»56

Ecco qui dunque le due valenze del “Conosci te stesso” delfico: da una parte, infatti, Montaigne recepisce l'invito al ripiegarsi in se stessi ed esperirsi ogni giorno al fine di arrivare a una saggezza capace, attraverso la filosofia, di moderare le passioni che potrebbero annientarlo; dall'altra afferma, come farà poi alla chiusura degli Essais, l'imprescindibile necessità dell'umano di comprendere la limitatezza intrinseca alla sua natura, scardinando così la vanità di un sapere che si vuole onnicomprensivo. La citazione di Plutarco dalla Vita di Pompeo, è appunto da leggere in questo senso57, ripreso alla chiusura del dialogo pitico Cosa significa la E di Delfi58.

53 Ibidem 54 Ivi, p. 1467 55 III, 9, p. 1266 56 Ivi, p. 1336-1337

57 Questa l'interpretazione di Vernant: “La pietà, come la saggezza, ordina infatti di non pretendere di farsi uguale a un dio. I precetti di Delfi: «Sappi chi sei » e «Conosci te stesso» non hanno altro senso. L'uomo deve accettare i suoi limiti.” J. P. Vernant, Mito e religione in Grecia Antica, Roma, Donzelli Editore, 2003, p. 28 58 Plutarco, Que significoit ce mot E'i in I. Amyot, op. cit., f. 358r

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È ancora nelle opere morali di Plutarco che si ritrova, come già fa notare Friedrich59, il principio dell'eupathia, contrapposta alla stoica apathia. La questione del saggio di Plutarco infatti, si centra non tanto sull'idea di evitare le passioni, o sul rifiutarle, quanto nel preparare se stessi a riceverle nel migliore dei modi. Tutti concetti, questi, che ritornano in Montaigne nell'anelito a vivere con armonia e moderazione. In Plutarco, nota Friedrich, le passioni fanno parte necessariamente dell'umano in quanto discendono dalla sua natura mista.

Così, mentre Erasmo si prende gioco del nuovo dio creato da Seneca, un “simulacro marmoreo dell'uomo”60, Montaigne fonda per se stesso una morale in cui, essendo “in casa sua” può “trovarcisi meglio che altrove”61, ma dove vige la regola della sincerità. Qui, la sincerità è possibile perché bene e male non vi si trovano come categorie astratte che tengono in ostaggio vizi e virtù.

È una tendenza codarda e servile andarsi a contraffare e nascondere sotto una maschera, e non osare farsi vedere quali si è. In tal modo i nostri uomini si educano alla perfidia:

essendo assuefatti a spacciare parole false, non si fanno scrupolo di mancarvi. Un cuore generoso non deve nascondere i suoi pensieri; deve farsi vedere fin nell'intimo. O tutto vi è buono o, almeno, tutto vi è umano.62

Ed è partendo da questo punto antropologico, in cui Montaigne afferma di non poter descrivere, studiare ed esperire che se stesso, che la filosofia morale non si può pensare universale.

La morale di Montaigne è un'arte di vivere che si fa teoretica nel momento in cui stabilisce la definizione di sé e le condizioni della conoscenza del mondo a partire da sé. La natura mista dell'uomo rompe la gerarchia che aveva investito tutto il discorso63 sull'umano. Montaigne, traduttore di Sebond, ha a che fare con questa costituzione dell'umano che è ormai il ricettacolo di differenti tradizioni. Se da una parte, nella Theologia Naturalis sebondiana si sentono gli echi, ormai convinzioni comuni, provenienti dalle più svariate fonti tra cui il Timeo platonico, la filosofia naturale aristotelica e la sua rilettura araba ed ebraica, dall'altra parte Sebond si situa nel filone agostiniano che, sulla base del cammino di conversione – in termini patristici cammino di conoscenza del vero – fonda l'arte del pensiero come avventura individuale64. Nel momento in cui scrive Montaigne, un'altra tradizione si fa strada nella conoscenza dell'umano e del mondo: dal materialismo aristotelico di stampo pomponazziano,

59 H. Friedrich, op. cit., p. 183

60 Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 30, cit., p. 87 61 III, 9, p. 1267

62 II, 17, p. 864

63 Intendiamo questo termine nel senso coniato da Foucault considerando quindi il dualismo corpo/anima ereditato dalla filosofia antica e scandito per tutti i secoli della scolastica e della filosofia medica come un rapporto di potere tra gli elementi spirituali e corporei.

64 A. Comparot, Amour et verité. Sebon, Vives et Michel de Montaigne, Paris, Klincksieck,1983, p. 201

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e dal recupero degli scritti galenici, il processo teoretico si innesta su di un altro tipo di rapporto con il reale, che ben si sposa con la lotta al pedantismo: è il rapporto dell'arte con le cose che Sebond, teologo, ma anche medico dell'università di Tolosa, aveva imparato a miscelare con la conoscenza rivelata. È nell'ambivalenza del “Conosci te stesso” che Montaigne legge e traduce Sebond: l'invito all'essere umano a tornare a se stesso65 riguarda l'umano in quanto specie vivente e in quanto singolo. Come specie, la conoscenza di sé avviene attraverso la comparazione con gli altri esseri, nelle somiglianze comuni e nelle differenze, in modo da costruire una scala per tornare a sé66. Al contrario delle nature inferiori che sono numerose non solo in individui ma anche in specie, la natura umana è una in specie, ma riceve moltitudine e diversità in individui. Se quindi, essendo l'unità superiore alla diversità – che è tale in virtù della sua mescolanza con il non-essere – è naturale che le cose diverse e dunque peggiori, siano sottomesse al migliore, l'umano tra le creature. La molteplicità che tuttavia sussiste nell'umano lo costringe non solo a conoscersi per natura, ma a costruire una conoscenza che è certa a partire dalla propria esperienza, in quanto non vi è

“rien plus familer, plus interieur & plus propre à chacun, que soy- mesme à soy”67.

La comparazione che Sebond stabilisce tra l'umano e le creature nel delineare l'echelle naturelle che permette all'uomo di ritornare a sé, è una forma molto articolata dell'idea dell'uomo come specchio del mondo.

Al primo grado, l'ordine degli elementi – fuoco, aria, acqua, terra – è rispecchiato in quello del corpo umano – testa, cuore, piedi – mentre nelle cose di secondo grado, le piante, la comunanza con l'essere umano si fonda sulla base delle attività fisiologiche – la generazione per cui il seme deve essere seminato nella terra, allo stesso modo in cui deve essere riposto nella donna – e della comparazione anatomica, similitudine di membri esterni ed interni68. Il terzo grado delle creature, quello degli animali, svela in modo più dirompente la comunanza dell'umano con gli altri viventi: essa si situa al livello delle altre attività corporee più complesse come il nutrirsi e il vedere. La questione degli elementi comuni però si chiude per Sebond con l'affermazione dell'identità di materia che compone le creature, compreso l'umano.

Comme leur corps retourne en terre, aussi fait le sien: Et puis qu'il retourne en mesme matiere que les leurs, nous pouvons seurement conclurre qu'il est aussi faict & basti de mesme matiere, asçavoir de terre.69

65 R. Sebond, La Theologie Naturelle de Raymond Sebon traduicte nouvellement en français par M. Michel de Montaigne, Paris, Michel Sonnius, 1581, f. 5r

66 Ivi, f. 6r 67 Ivi, f. 5r 68 Ivi, f. 57r-v 69 Ibidem

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È da qui che Montaigne può giungere a ciò che Friedrich chiama la “naturalizzazione” della morte: il critico fa notare che se nel primo saggio sulla morte, Filosofare è imparare a morire (I, 20), in cui Montaigne applica gli argomenti tradizionali stoici, scettici ed epicurei per combattere la paura della morte, nello stadio successivo del pensiero degli Essais, verificabile attraverso le aggiunte c, si raggiunge quello sguardo del saggio che con un colpo d'occhio riesce a situarsi nel grande dipinto della natura70, così come voleva Lucrezio

Si deve essere di grandi e profonde vedute,

e scrutare lontano con lo sguardo in tutte le direzioni, per ricordare la nozione che la somma delle cose è infinita, e intendere quale mai piccola, quale infinitesima parte dell'infinito costituisca quest'unico cielo, neanche tutta la parte che un solo uomo è nei confronti di tutta la terra.71

Se, come intendeva Foucault, il sistema delle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo stabiliva legami indefiniti e nascosti72, lo scetticismo di Montaigne preferisce incrinarlo, dando al termine microcosmo riferito all'uomo un “suono ironico”73. La gerarchia dell'umano – di corpo e di anima – e delle sue facoltà che muovendosi da ciò che di più misto (l'immaginazione) conduce a ciò che è più spirituale (la ragione) si spezza, e così la gerarchia degli esseri viventi. L'umano, non più al vertice della scala naturale, cade anche dall'ultimo gradino della scala delle intelligenze, riposizionandosi in un mondo naturale con il quale condivide il destino vicissitudinale, proprio in virtù della sua natura mista.

In particolare, le aggiunte c al discorso della natura in I, 20 risentono dello sguardo nuovo attraverso il quale Montaigne si rapporta alla morte situando se stesso nel movimento del reale, in cui vita e morte sono unite in un processo omogeneo. Dice la Natura:

La continua opera della vostra vita è costruire la morte. Siete nella morte mentre siete in vita. Perché siete dopo la morte quando non siete più in vita. O, se vi piace di più così, siete morto dopo la vita; ma durante la vita siete morente, e a morte colpisce ben più duramente il morente del morto, e in modo più vivo ed essenziale.74

L'acqua, la terra, il fuoco e le altre parti di questa mia costruzione non sono strumenti della tua vita più di quanto siano strumenti della tua morte.75

E in un saggio precedente, I, 3, un'aggiunta c conclude il capitolo:

70 “Colui che si rappresenta come in un quadro, la grande immagine di nostra madre natura nella pienezza della sua maestà; che le legge sul volto una varietà tanto generale e costante; e là dentro vede, non se stesso solamente, ma tutto un regno, come il segno di una punta leggerissima: quegli soltanto giudica le cose secondo la loro giusta grandezza.”, I, 26, p. 208.

71 Lucrezio, La natura delle cose, VI, vv. 647-652, intr. di G. B. Conte, tr. it. di L. Canali, testo e commento a cura di I. Dionigi, Milano, BUR, 1994

72 Si veda M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, BUR, 2006, pp. 23-59 73 H. Friedrich, op. cit., p. 166

74 I, 20, p. 119 75 Ivi, p. 123

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la natura ci fa vedere che diverse cose morte hanno ancora occulte relazioni con la vita. Il vino si altera nelle cantine, secondo certi mutamenti delle stagioni della sua vigna. E la carne della selvaggina cambia consistenza e sapore nei salatoi, secondo le leggi della carne viva, a quanto si dice.76

La meditazione della morte si fa meditazione della vita nella misura in cui, in senso lucreziano il saggio sa situarsi nella continuità delle cose. Due sono le immagini che possono vivificare questo vivere il mutamento del sé: l'antropofagia e il paperocentrismo.

Il primo colloca l'umano mortale nella sua storia attraverso la filiazione, stabilendo passato, presente e futuro a partire dal suo essere generato e dal suo stesso generare. “Vi ritroverete il sapore della vostra stessa carne”77: se la morte colloca l'umano al di fuori del presente, nella dimensione del passato lo fa solo a partire dalla forma in cui l'umano stesso è riconosciuto come tale. La morte, che non è che il processo di trasformazione metaforizzato attraverso la digestione è così un eterno presente, limite della forma umana nella configurazione riconoscibile, ma vita nuova di altre forme:

Come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose. (…) La morte è origine di un'altra vita.78

La morte di tutte le cose che avviene con la nostra morte testimonia l'unico modo possibile dell'evento, la sua unicità: ognuno non può che considerare la propria morte, allo stesso modo in cui non può che considerare unicamente la propria conoscenza del mondo. Le cose che conosciamo muoiono con noi, perché con noi muore il modo peculiare e irriducibile ad altri con cui sono conosciute. La morte è l'evento più individuale della vita.

Con il cosiddetto paperocentrismo, invece, la questione della continuità nel tempo si mescola con quella della critica all'antropocentrismo. Attraverso la messa in discussione della centralità dell'uomo, si pone la questione della concezione del tempo provvidenziale, come sostiene Panichi79. Non è più possibile considerare la totalità delle creature come una scala naturale che l'uomo può risalire per giungere a sé. La materialità del corpo umano rende ogni essere umano in qualche modo cannibale, indipendentemente dal numero di mediazioni che la sua mutazione subisce: il cannibale cannibalizzato riporta la carne degli avi ai suoi nemici, ma i vermi che mangiano l'umano, mangiati dal papero, rendono ogni umano, ogni papero, e ogni verme cannibale di se stesso. La metafora digestiva è lucreziana:

E riaffermo concetti già espressi: nulla può ricadere nel nulla, e nulla a vicenda sorgere dal nulla.

Inoltre poiché il cibo accresce il corpo e lo nutre, 76 I, 3, p. 25

77 I, 31, p. 282 78 I, 20, p. 118

79 N. Panichi, I vincoli del disinganno, Firenze, Leo S. Olschki, 2004, p. 78

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possiamo dedurne che le vene e il sangue e le ossa

…...

e se diranno che i cibi sono di sostanza composita e contengono in sé tenuissime parti di nervi

e di ossa e certamente di vene e minime quantità di sangue, accadrà che ogni cibo, sia esso solido o liquido,

si dovrà ritenere composto di sostanze estranee alla sua natura, un miscuglio di ossa, nervi, sangue, umori corrotti.

Inoltre se tutte le cose che crescono dalla terra sono già nella terra, la terra stessa deve consistere

di sostanze estranee alla sua natura che sorgono da essa.80

È un nuovo paradigma quello di Montaigne, che Panichi definisce vicissitudinale81 e che scompiglia non solo la questione antropologica, ma anche quella epistemologica, riconducendo il vero non all'immutabile, ma all'unica dimensione in cui l'umano può riconoscersi e fare di nuovo esperienza di sé in un eterno ritorno, quello del mutevole che si riconosce nell'unità:

Noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo, dice il saggio, è sottoposto a una stessa legge e una stessa sorte,

Indupedita suis fatalibus omnia vinclis

C'è qualche differenza, ci sono ordini e gradi; ma sotto la forma di una stessa natura.82

Unità che non è aristotelicamente identità, ma piuttosto riproduzione continua di individualità irriproducibile, di modo che per il saggio tutto sarà dunque mostruoso.

I.II Chi troppo s'assottiglia, si scavezza83

Nel Des monstres et des prodiges Paré definisce il significato di mostro, identificandolo come qualcosa che accade “outre le cours de la nature”, e differenziandolo dal prodigio che è del tutto contro Natura84. Subito dopo, nel primo capitolo, si tenta una classificazione eziologica della produzione dei mostri, in cui si possono individuare motivi teologici – gloria ed ira di Dio – motivi di carattere medico-fisiologico – abbondanza, scarsità, corruzione o mescolanza del seme, malattie ereditarie – e motivi relativi agli accidenti avvenuti durante la gravidanza – comportamento della madre o contusioni sul ventre. Nelle edizioni del 1573 e del 1575 Paré aggiunge che esistono altri tipi di cause le quali, poste al di sopra di tutta la ragione umana,

80 Lucrezio, op. cit., I, vv, 857-869

81 N. Panichi, I vincoli del disinganno, cit., p. 78 82 II, 12, p. 594

83 Petrarca, Rime, 105 cit. in Ivi, p. 739

84 A. Paré, Des monstres et des prodiges, a cura di J. Céard, Paris, Droz, 1971, p. 3

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possono essere date solo come sufficienti o probabili85.

Questa teoria della comparsa del mostro è piuttosto comune nel XVI secolo, così come anche la nota relativa all'impossibilità umana di abbracciare tutta la sfera causale che produce l'essere mostruoso.

Durante la storia della sua trattazione, il mostro è stato utilizzato con molteplici e differenti fini, ma la categoria della rarità, a fronte di un presunto ordine naturale, è stata un elemento mai abbandonato. È su questi due binari che si muove così la riflessione sui mostri: da una parte un tentativo, da Aristotele in poi, di salvaguardare l'idea di una costante relazione tra cause ed effetti dominati da un finalismo – divino o naturale – che attraverso l'analogia fonda la possibilità di previsione del futuro, facendo così apparire gli effetti come segni della presenza della causa; dall'altra il mostro, pericolosamente vicino a scardinare il sistema della logica causale, è ricondotto all'interno di questo stesso sistema, trasformato in una delle possibilità. Perciò Aristotele può dire in che senso i mostri appaiono contro natura: non lo sono in rapporto alla natura eterna e sottomessa alla necessità, perché in questo senso niente è contro natura, ma lo sono in rapporto alla natura considerata nel suo corso ordinario86, cioè in relazione agli eventi che l'essere umano può osservare come usuali. Se è vero, ad esempio, che il simile genera il simile, un figlio dissimile al padre, sarà già un essere mostruoso87. Il prodursi dei mostri quindi non può essere separato da una teoria dell'idea della natura, che a sua volta necessita di una strategia di lettura del reale. L'ordinare il mondo attraverso la ragione proietta la logica umana sulle cose e le combina attraverso di essa: divinazione e filosofia naturale si basano sullo stesso principio analogico che suppone in un effetto il suo essere segno di una causa naturale o della volontà divina – tema questo, che sarà più avanti approfondito.

La frequenza e la rarità, dicevamo, e come la rarità si possa ricondurre alla frequenza. Come ha fatto notare Céard88 la tradizione ciceroniana, che invitava l'umano a non stupirsi di ciò che è raro – raro per noi, ma non per natura – sembra essere ripresa da Agostino il quale invita a riconoscere nel miracolo, mostro o prodigio, la potenza di Dio che può sviare le cose dal loro corso naturale. Allo stesso modo, quindi, è l'ignoranza dell'uomo che definisce errori di natura

85 Ivi, p. 4

86 J. Céard, La nature et les prodiges, Paris, Droz, 1996, p. 4

87 Cfr. Aristotele, La riproduzione degli animali, IV, 3, 767b6 in M. Vegetti, D. Lanza (acura di), Opere Biologiche di Aristotele, Torino, UTET, 1999, p. 982. Come si vedrà più avanti nel capitolo sulla somiglianza dei padri ai figli (II, 37), Montaigne tratta la critica della medicina e della fallibilità del metodo semeiotico per la conoscenza umana. La conclusione del capitolo è un appello a comprendere la varietà naturale e la varietà delle opinioni: dal momento che l'effetto non è segno certo della causa, perché “la regola più generale della natura è la varietà” si determinano opinioni e giudizi diversi, di modo che “non vi furono mai al mondo due opinioni uguali, non più che due peli o due granelli”.

88 J. Céard, La nature et les prodiges, cit., p. 25

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