• Non ci sono risultati.

376/2017 Fantasmi neoliberali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "376/2017 Fantasmi neoliberali"

Copied!
32
0
0

Testo completo

(1)

376

dicembre 2017

Fantasmi neoliberali

Premessa 3

William Davies Lo stato neoliberale 8 S.M. Amadae Neoliberalismo e governamentalità 35 Lapo Berti Ripartire da Foucault. Economia

e governamentalità 49

Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri “It’s still day one.” Dall’imprenditore di sé alla start-up

esistenziale 79

Mauro Bertani Individui molecolari e trasformazioni

della soggettività 109

CONTRIBUTI

Rita Fulco Lotta disarmata. Politica e religione

in Simone Weil 133

Elettra Stimilli Jacob Taubes: genealogia

di un percorso antinomico 149

Emiliano De Vito Appunti di storia naturale.

Warburg, Benjamin e Pauli 173

François Jullien, Elena Nardelli Dialogo

su una nuova etica della traduzione 193

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com

ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com

abbonamento 2018: Italia € 64,00, estero € 80,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213

e-mail: abbonamentiautaut@ilsaggiatore.com

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Galli Thierry, Milano

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel novembre 2017

(3)

3

Premessa

A bbiamo smesso ormai da molto tempo di credere, con Hegel, che la filosofia sia il proprio tempo “appreso nell’elemento del pensiero”, o addirittura la rivelazione della sua verità segreta (magari con la inconfessata speranza di arrivare a orientarne il cor- so). E però con il nostro presente non cessiamo di misurarci, di fa- re i conti con tutta una serie di eventi che in esso insistono e che nella nostra attualità si ripetono, talvolta determinandoci a nostra insaputa. Quel che allora, assai più modestamente, la filosofia può fare, dinanzi a una attualità complessa ed enigmatica, che rischia- mo di ripetere e confermare anche quando crediamo di opporci a essa, è di interrogarla nella sua singolarità e specificità, di interpel- larla criticamente e, così, di problematizzarla, introducendo una

“differenza”, qualche domanda e un po’ di inquietudine, laddove regnava la quasi-identità e omogeneità della ripetizione.

È quel che abbiamo provato a fare in questo fascicolo: circo-

scrivere una realtà, che sembra per molti versi definire la nostra

attualità, vale a dire il neoliberalismo, delineandone alcuni tratti,

alcune dimensioni, alcune componenti, ma per mostrarne il ca-

rattere provvisorio e contingente, laddove esso vorrebbe impor-

si come l’orizzonte intrascendibile di quella attualità. Lasciando

così intravedere la possibilità che qualche evento nuovo possa

introdursi, qualche trasformazione possa essere effettuata. Certo,

non possiamo negare che le difficoltà sono enormi, a comincia-

re dalla definizione stessa dell’oggetto indagato. Tanto vale, dun-

(4)

4

que, ammetterlo subito: non sappiamo molto bene cosa il neoli- beralismo sia, e potrebbe valere per esso quel che è stato detto dell’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia (e soprattut- to, aggiungiamo, cosa sia), nessun lo sa.

La letteratura ormai accumulatasi sull’argomento è immensa, e le definizioni dell’oggetto numerose, disparate ed eterogenee, al punto che si potrebbe avere l’impressione di trovarsi nel cele- bre auberge espagnol, dove ciascuno porta (e trova) quel che ha.

Oppure di essere di fronte a veri e propri abusi (o crampi) lin- guistici, tali per cui “neoliberalismo” è diventata la categoria on- nicomprensiva sotto la quale ciascuno intende riferirsi, di volta in volta (e talvolta simultaneamente), alla globalizzazione, al pri- mato incondizionato del libero mercato, e in particolare del mer- cato e delle istituzioni finanziarie, al capitalismo finanziario, al- la deregulation, alla riduzione del ruolo degli stati rispetto alle politiche keynesiane, e al conseguente contenimento della spe- sa pubblica, alla riduzione della fiscalità per le imprese, all’in- flessibilità (chiamata rigore) delle politiche monetarie da parte dell’ FMI , ai processi sfrenati di privatizzazione dei cosiddetti beni comuni e delle imprese pubbliche, alle politiche di abbattimen- to del costo del lavoro (dalla delocalizzazione alla delegittima- zione delle organizzazioni sindacali), alla sua metamorfosi in la- voro flessibile, precario, addirittura volatile, alla radicalizzazione del laissez-faire del liberalismo classico che ha consentito l’espan- sione di nuove forme di monopolio, oligopolio, corporativismo.

Così come non possiamo dimenticare che la categoria in que-

stione risulta associata a tutta una serie di processi e avvenimen-

ti storici, come gli interventi nelle vicende politiche interne di

interi stati, come nei casi del Cile o dell’Argentina, e addirittu-

ra continenti, in vista dell’instaurazione di forme di potere auto-

ritarie, antidemocratiche, quando non dittatoriali. E neppure si

può omettere il fatto che nel neoliberalismo risulta implicata tut-

ta una morale, e persino un’etica, mirate a fare dell’incertezza e

della concorrenza competitiva le regole (e le condizioni) dell’agi-

re, e dell’impresa e della responsabilità i principi regolatori del-

la condotta. Così come non si può evitare di rammentare che il

(5)

8

aut aut, 376, 2017, 8-34

Lo stato neoliberale

WILLIAM DAVIES

N ella sua monumentale critica all’ideolo- gia vittoriana del laissez-faire e alle sue conseguenze, La grande trasformazione, Karl Polanyi sosteneva che “la fiducia nel progresso spontaneo ci impedisce di vedere il ruolo del governo nella vita economica”.

1

Questa condizione di cecità può essere sopportata, argomentava Polanyi, solo grazie alla “separazione istituzionale della società in una sfera economica e una politica”.

2

L’idea di mercato e sta- to come ambiti separati, che operano secondo logiche differenti, è alla base della concezione liberale della libertà. Il punto è se es- sa rappresenti una qualche realtà ontologica di fondo, ossia che mercato e stato sono indipendenti l’uno dall’altro, oppure se, co- me affermava Polanyi, essa celi un’agenda politica, per cui lo sta- to immagina e costruisce il libero mercato dal quale afferma di volersi assentare.

Probabilmente la differenza fondamentale fra liberalismo e neoliberalismo è che il secondo abbandona l’idea di mercato e

William Davies è Senior Lecturer presso la Goldsmiths, University of London, dove ricopre il ruolo di Co-Director del Political Economy Research Centre. È autore di The Limits of Neoliberalism: Authority, Sovereignty and the Logic of Competition (Sage, Lon- don 2014) e di L’industria della felicità. Come la politica e le grandi imprese ci vendono il be- nessere (Einaudi, Torino 2016).

1. K. Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944), Beacon Press, Boston 1957, p. 37; trad. di R. Vigevani, La grande trasfor- mazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2010, p. 50.

2. Ivi, p. 71.

(6)

9

stato come entità indipendenti e ontologicamente distinte. In tal senso, l’analisi di Polanyi viene condivisa dai pensatori neoli- berali, ma con conseguenze molto diverse. Laddove Polanyi so- steneva che il mito del mercato autoregolato era indifendibile ed era indispensabile abbandonarlo completamente, gli intellet- tuali neoliberali si sono sempre battuti per un’agenda del mer- cato più realistica e dirigista, che è in sintonia con la dipenden- za del liberalismo economico dal diritto della concorrenza, dal diritto alla proprietà, dalla cultura imprenditoriale, da un’effi- ciente forza di polizia, da rigorose politiche monetarie e così via. I pensatori neoliberali sono tutto tranne che “incapaci di percepire il ruolo dello stato nella vita economica”. Al riguar- do, il punto di partenza della ragione e della riforma neolibera- le è implicitamente sia politico che sociologico:

3

esso riconosce che i mercati e la libertà economica individuale non prospere- ranno mai [solo] in virtù della propria iniziativa, ma necessita- no di istituirla e di difenderla attivamente. Come ha sottolinea- to Phillip Mirowski, il neoliberalismo è un progetto politico co- struttivista.

Lo stato è lo strumento essenziale per l’avanzamento di un’a- genda neoliberale. L’impegno a favore di uno stato forte, in gra- do di respingere le sfide politiche e ideologiche alla concorren- za capitalista, è un elemento caratteristico del neoliberalismo, sia come sistema di pensiero che come strategia politica applicata.

Sussistono prove esigue in merito al fatto che le riforme neoli- berali conducano a uno stato “più limitato” o “più debole”, an- che se alcune funzioni vengono tolte allo stato attraverso politi- che di privatizzazione ed esternalizzazione. Comunque, nel neo- liberalismo lo stato è anche oggetto di un significativo esame cri- tico e di risentimento. Come ha affermato Jamie Peck, “la male- dizione del neoliberalismo è che non può vivere né con lo stato, né senza”.

4

Il sospetto che lo stato e i suoi rappresentanti siano inefficienti, egocentrici, irrazionali, ciechi nei confronti dei meri-

3. N. Gane, Sociology and Neoliberalism: A Missing History, “Sociology”, 6, 2014.

4. J. Peck, Remaking Laissez-Faire, “Progress in Human Geography”, 32, 2008, p. 39.

(7)

10

ti della concorrenza, eccessivamente “intellettuali” e contrari al cambiamento è un aspetto persistente della critica neoliberale.

La condizione paradossale dello stato soggetto al neoliberalismo, ossia l’essere contemporaneamente l’artefice chiave della riforma e il principale ostacolo a essa, comporta che tale preoccupazione non potrà mai essere completamente alleviata.

Di fronte a questa ambivalenza, la critica neoliberale si con- centra sul cercare di razionalizzare lo stato impiegando le tec- niche tratte dal mondo degli affari o di coinvolgere attivamente gli affari nella gestione dei settori pubblici. Le riforme conosciu- te come new public management sono decollate dagli anni ottan- ta del Novecento in avanti, cercando di rimodellare le burocrazie dello stato sul modello del settore dell’impresa privata, usando i processi di definizione degli obiettivi e di ispezione per fermare presumibilmente le ottuse e inefficienti amministrazioni del set- tore pubblico.

5

L’esternalizzazione e la collaborazione pubblico- privato hanno prodotto una nuova sfera istituzionale fra il mer- cato e lo stato intesi in modo convenzionale, che può essere ana- lizzata in termini di reti di “governance” o di “governamentali- tà” e che ridistribuisce le funzioni dello stato verso nuove e di- verse unità amministrative.

6

Il neoliberalismo spesso implica un ostinato perseguimento dell’agenda degli stati, ma secondo mo- dalità che aggirano gli strumenti di governo scomodi, “politici” o apparentemente inefficienti.

Questo testo esamina lo stato neoliberale secondo tre percor- si. In primo luogo, discute dell’idea dello stato neoliberale, così come essa è presente nel pensiero neoliberale fra gli anni venti e gli anni settanta del Novecento. Mostrerò in che modo i neolibe- rali come Friedrich Hayek si sono consapevolmente allontanati dalla visione vittoriana del laissez-faire, e si sono impegnati a fa- vore di un ruolo attivo dello stato. È un aspetto che Michel Fou-

5. C. Hood, The “New Public Management” in the 1980s: Variations on a Theme, “Ac- counting, Organizations and Society”, 20, 1995, pp. 93-109.

6. R.A.W. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, “Political

Studies”, 4, 1996, pp. 652-667; N. Rose, P. Miller, Governing the Present: Administering

Economic, Social and Personal Life, John Wiley & Sons, Oxford 2013.

(8)

35

aut aut, 376, 2017, 35-48

Neoliberalismo e governamentalità

S.M. AMADAE

D a Shock economy di Naomi Klein e Un- doing the Demos di Wendy Brown, a Breve storia del neoliberismo di David Harvey e Democracy in Chains di Nancy MacLean, abbonda la letteratura critica che esamina approfonditamente il capitalismo neoliberale del XX secolo. Tuttavia, nonostante la crisi finanziaria del 2007, che ha messo in ginocchio l’economia politica globale e che ha trasformato i “governati” in “uomini indebitati” che de- vono espiare la propria colpa – il debito – pagando sempre nuo- ve tasse,

1

l’attività del capitalismo neoliberale rimane saldamen- te intatta in realtà come Uber, Facebook, Google e Airbnb. Que- ste compagnie competono con i governi nazionali nello stabili- re e nel trarre profitto da piattaforme volte a strutturare le inte- razioni umane. E quando lo stesso “Economist” suggerisce che i leader di oggi dovrebbero rispolverare alcune lezioni apprese da Marx, allude al fatto che oggi i CEO guadagnano centotrenta vol- te in più dell’impiegato medio, numero che dal 1980 è quintupli- cato. L’“Economist” osserva che la crescita dell’economia di Uber

S.M. Amadae si è formata e ha lavorato a Berkeley, Cambridge, Harvard, New York e Lon- dra e attualmente è ricercatrice all’Università di Helsinki e presso il

MIT

. Si occupa di teoria normativa, filosofia delle scienze sociali e di storia del pensiero politico ed economico. È au- trice di Rationalizing Capitalist Democracy: The Cold War Origins of Rational Choice Libe- ralism (University of Chicago Press, Chicago-London 2003) e di Prisoners of Reason: Game Theory and Neoliberal Political Economy (Cambridge University Press, Cambridge 2015).

1. M. Lazzarato, Neoliberalism, the Financial Crisis and the End of the Liberal State,

“Theory, Culture & Society”, 7-8, 2015, p. 67.

(9)

36

minaccia di trasformare milioni di persone in lavoratori occasio- nali che “mangiano solo quello che cacciano”.

2

Gli autori ammet- tono cioè che, in un regime neoliberale, i salari che i lavoratori domandano non garantiscono nemmeno la sussistenza. Giocano sull’immaginario della Uber-economy suggerendo che gli autisti di Uber sarebbero ridotti agli stenti perché il loro reddito non co- pre nemmeno le spese alimentari.

Eppure, nonostante l’attacco populista nazionale contro la fi- nanza globale e la precaria situazione dell’occupazione, e l’atten- ta analisi condotta dai critici del neoliberalismo, un’opposizio- ne efficace non ha ancora preso piede. La resistenza è importan- te per mantenere diverse prospettive di vita e di pensiero. Inol- tre, poiché il neoliberalismo è solitamente presentato come un si- stema economico senza alternative, e le sue modalità di sviluppo colonizzano sistematicamente le soggettività alternative, è ancora più importante avere un’idea precisa di come esso si infiltri nella coscienza umana, fino a divenire il paradigma d’azione dominan- te. Cerchiamo qui di comprendere come, nella nostra esperien- za contemporanea, “o siamo tutti lavoratori, o siamo tutti capita- listi: entrambe le visioni dipingono la società come un’estensio- ne del lavoro attraverso tutte le altre sfere sociali, dalla fabbrica, alla scuola, alla casa, percorrendo tutti gli aspetti dell’esistenza umana, dal lavoro manuale a quello intellettuale; oppure la di- pingono come un sistema basato sulla logica della competizio- ne e dell’investimento che governano tutte le relazioni umane”.

3

Soddisfare questa “economizzazione della società”

4

richiede una particolare modalità di governo, o per dirla più chiaramente, una specifica forma di governamentalità, che consiste in “una parti- colare mentalità, una singolare maniera di governare attualizza- ta in abitudini, percezioni e soggettività”.

5

Pertanto cerchiamo

2. “The Economist”, 13 maggio 2017, p. 28.

3. J. Read, A Genealogy of Homo-Economicus: Neoliberalism and the Production of Subjectivity, “Foucault studies”, 6, 2009, p. 34.

4. M. Lazzarato, Neoliberalism, the Financial Crisis and the End of the Liberal State, cit., p. 72.

5. J. Read, A Genealogy of Homo Economicus, cit., p. 34.

(10)

37

qui di capire la formazione di una peculiare soggettività neoli- berale intesa come quella specifica razionalità che ispira le prati- che dell’economia politica della tarda modernità. Considerando che gli analisti del capitalismo hanno a lungo esaminato la rela- zione tra razionalità e scambi economici, un metodo efficace po- trebbe essere quello di seguire l’approccio genealogico di Michel Foucault, che ci aiuta a comprendere come la razionalità stessa trasformi le relazioni e la governance da essa ispirata in modo in- scindibile dalla sua stessa manifestazione sul mercato.

6

Si è creato un certo consenso nell’avvalorare la tesi secon- do cui Foucault fu accurato nel leggere uno spostamento tra il moderno liberalismo, soggetto principale di Sorvegliare e puni- re (1975), e il neoliberalismo del tardo Novecento affrontato in Nascita della biopolitica (1979). Siano essi influenzati dagli studi di Foucault o ispirati da prospettive alternative, gli studiosi con- cordano che si sia verificato un cambiamento nel modo in cui il capitalismo mosse i primi passi negli anni settanta e quando si espresse pienamente negli anni ottanta. Secondo gli economisti e gli storici dell’economia,

7

gli storici del pensiero economico,

8

i teorici del pensiero critico

9

e i teorici culturali,

10

nell’ultimo ven- tennio del Novecento l’economia politica ha mostrato nuove ten- denze. Le caratteristiche principali sono state la svolta verso la privatizzazione, la monetizzazione e gli incentivi, in opposizione alla sfera pubblica e alle azioni collettive, le diverse fonti di va-

6. N. Gane, Thinking Historically about Neoliberalism: A Response to William Davies,

“Theory, Culture & Society”, 7-8, 2014, pp. 304-306.

7. D. Sornette, 1980-2008: The Illusion of the Perpetual Money Machine and What It Bodes for the Future, “Risks”, 2, 2014, pp. 103-131; D.M. Kotz, The Rise and Fall of Neoli- beral Capitalism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015.

8. Y.M. Madra, F. Adaman, Public Economics After Neoliberalism: A Theoretical-his- torical Perspective, “The European Journal of the History of Economic Thought”, 4, 2010, pp. 1079-1106.

9. W. Brown, American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-democra- tization, “Political Theory”, 6, 2006, pp. 690-714; Id., Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution,

MIT

Press, Cambridge (Mass.) 2015.

10. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo (2007), trad. di P. Meneghelli, il Saggiato-

re, Milano 2007; B. Moreton, To Serve God and Wal-Mart, Harvard University Press, Cam-

bridge (Mass.) 2009; W. Davies, The Limits of Neoliberalism: Authority, Sovereignty and

the Logic of Competition, Sage, London 2014.

(11)

49

aut aut, 376, 2017, 49-78

Ripartire da Foucault.

Economia e governamentalità

LAPO BERTI

Il potere, per me, è ciò che deve essere spiegato.

M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?

Il problema del potere economico

“Le nostre società sono ormai governate dall’economia e, più spe- cificamente, dalla finanza?” Questo interrogativo, nella sua gene- ralità e genericità, risuona ampiamente nel dibattito pubblico e si insinua minacciosamente nel lavoro di analisi della realtà politica ed economica attuale. A esso se ne accompagna, inevitabilmente, un altro: “In presenza di poteri abnormi e incontrollati, si possono ancora definire democratici i regimi cui formalmente affidiamo il governo della società?”.

La questione che si pone è quella, eterna, del potere e delle modalità attraverso cui esso sorge e agisce nelle nostre società.

Non è necessario produrre tabelle e serie storiche per rendersi conto che c’è un genere di potere, quello inestricabilmente con- nesso all’esercizio delle attività economiche, che ha accresciuto a dismisura la sua capacità di condizionamento, senza trovare li- miti e contrappesi, in sistemi sociali che affondano le loro radici nella prima modernità e che avevano la preoccupazione opposta:

quella di dare spazio all’affermazione del potere economico sot- to la bandiera della libertà. Nell’arena globale, il potere econo- mico, connesso alla quantità e alla natura delle risorse gestite, si è accresciuto e concentrato enormemente, specialmente attraver- so l’utilizzo della leva finanziaria. Questa è la sua manifestazione più appariscente. È sotto gli occhi di tutti e costituisce la preoc- cupazione di molti.

Uno studio pubblicato nel 2000 metteva in luce che, già allora,

51 delle più grandi organizzazioni economiche del mondo erano

(12)

50

imprese e solo 49 erano paesi e che le loro vendite crescevano più rapidamente dell’attività economica globale.

1

È abbastanza pro- babile che da allora il rapporto si sia ulteriormente spostato a fa- vore delle imprese. Una chiara indicazione del fatto che è in atto un processo, presumibilmente irreversibile, di concentrazione del potere economico in mani private, che è ormai in grado di sovra- stare anche gli stati nazionali, intaccandone la sovranità.

La concentrazione del potere economico in mani private è, non da oggi, un problema. Già nel 1934, un economista ameri- cano, Henry Simons, esponente di spicco dell’orientamento li- berale che avrebbe dato vita alla Scuola di Chicago, parlava di

“usurpazione della sovranità” da parte dei grandi gruppi econo- mici organizzati e ne denunciava l’“enorme potere di sfruttare la comunità in generale e perfino di sabotare il sistema”.

2

Ma og- gi, nel contesto della globalizzazione che le grandi imprese indu- striali e finanziarie hanno concorso a creare, questa usurpazione della sovranità costituisce una minaccia su scala globale, ed è in grado di travolgere il sistema di regole e di valori su cui si regge quello che eufemisticamente possiamo chiamare “l’ordine socia- le” della modernità.

Il potere economico ha fatto problema fin dalle sue prime manifestazioni. In una relazione di antagonismo/collaborazione con lo stato sovrano, con i governi, si è trasformato, a sua volta, in un potere sovrano deterritorializzato, che esercita il suo do- minio in quell’area fisico-virtuale segnata dallo svolgimento del- le attività economiche e da lì muove alla conquista degli altri ter- ritori dell’organizzazione sociale, primo fra tutti quello del go- verno. Questo potere sovrano, dai tratti nuovi e a un tempo an- tichi, un potere sovrano senza sovranità, si incarna nei “signori”

dell’economia, che formano un consesso oligarchico che ricorda i signori feudali. La loro egemonia globale trova supporto in un sapere, in una dottrina, anch’essa globale, costituita dalla scien-

1. S. Anderson, J. Cavanagh, Top 200: The Rise of Corporate Global Power, “Institute for Policy Studies”, 4 dicembre 2000.

2. H.C. Simons, Economic Policy in a Free Society, University of Chicago Press, Chica-

go 1948, p. 43.

(13)

51

za economica mainstream, che domina nelle università di tutto il mondo ed è riprodotta in centinaia di think tank che alimenta- no il lobbying politico. Questo è, credo, il problema politico cru- ciale del nostro tempo. La ricostruzione teorica delle relazioni di potere che governano la società globale non può prescindere dall’analisi di queste nuove forme di “sovranità”.

Accanto a questa metamorfosi del potere economico che fa

leva sull’abnorme concentrazione di ricchezza per condizionare

l’ambiente in cui opera, c’è un’intensa proliferazione di canali e

di modalità attraverso cui il sapere economico dissemina nella so-

cietà dispositivi di controllo e di condizionamento che ampliano

a dismisura la gamma di strumenti a disposizione della governa-

mentalità attuale. L’incidenza del potere economico sul funziona-

mento della società diventa tanto più rilevante quanto più la sua

azione si fa pervasiva. La sharing economy è l’ultima espressione

della inarrestabile colonizzazione del vissuto collettivo da parte

della logica capitalistica. Una dopo l’altra, forme di relazione e di

scambio non mercantili, che facevano parte del nostro mondo re-

lazionale privato, come l’offerta di ospitalità o la condivisione di

un viaggio, vengono marchiate con il codice dell’economia e con-

segnate allo spazio degli scambi di mercato che generano guada-

gni monetari. È la deriva che segna la fase del rapporto fra capita-

lismo e società in cui stiamo vivendo. L’“economizzazione” pro-

gressiva della società, l’invasione di pressoché ogni ambito del-

la vita sociale da parte della “logica” economica, la riduzione ten-

denziale di ogni scelta individuale e di ogni forma di relazione

alla dimensione economica, alla meccanica del calcolo e dell’uti-

le, ha prodotto un certo numero di dispositivi, in costante muta-

zione e in rapida espansione, che hanno ridotto l’individuo a ho-

mo œconomicus, trasformandolo in consumatore e in “imprendi-

tore di se stesso”, come si è preso a dire, assimilandolo a un’a-

zienda e facendo emergere la nozione di “capitale umano”: tutti

questi processi, caratteristici della dinamica economica capitalisti-

ca, costituiscono una sorta di sistema nervoso della società che in

larga misura ne governa i comportamenti. L’economia politica è il

discorso che lo rende possibile e lo legittima.

(14)

79

aut aut, 376, 2017, 79-108

“It’s still day one.”

Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale

MASSIMILIANO NICOLI LUCA PALTRINIERI

1. Se entrate nella sede parigina di Amazon.

com, a Clichy, una volta superati i con- trolli di sicurezza vi troverete in una sala d’attesa molto confortevole, dotata di divano, poltrone, cucina e macchine del caffè. Se poi vi guardate intorno, mentre attendete che vi venga stampato il badge che vi consentirà di passare gli ul- teriori tornelli, noterete, un po’ dappertutto, degli schermi fissa- ti alle pareti sui quali scorrono le ultime notizie riguardanti la vi- ta aziendale. Noterete inoltre che tale flusso di notizie è regolar- mente intervallato da una frase che ricorre senza sosta: “It’s still day one” – letteralmente, “è ancora il giorno 1”.

Qualsiasi dipendente di Amazon, interrogato a proposito, po- trà spiegarvi il significato di questo ritornello: è un invito a lavo- rare come se fosse sempre il primo giorno, come se Amazon fos- se nata ieri – anzi, no, oggi stesso – mantenendo uno spirito start- up pure all’interno di un simile colosso del commercio elettroni- co.

1

Del resto, è lo stesso fondatore e CEO di Amazon, Jeff Bezos, a illustrare il concetto nella lettera agli azionisti pubblicata il 12 aprile 2017:

2

il giorno 2 è la stasi, la lentezza, il declino, la morte;

il giorno 1 è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, di- namismo, vitalità. Ecco perché bisogna riuscire a conservare una

1. Sulle reali condizioni di lavoro nei magazzini di Amazon, esistono diverse inchieste giornalistiche, come quella di Jean-Baptiste Malet, “En Amazonie”. Un infiltrato nel “mi- gliore dei mondi” (2013), trad. di L. Minuto, Kogoi, Roma 2013.

2. Disponibile sul sito di Amazon: <amazon.com/p/feature/z6o9g6sysxur57t>.

(15)

80

mentalità da start-up anche in un’impresa che nel 2015 ha fattu- rato 79,3 miliardi di dollari.

3

Concetti non dissimili da quelli rapidamente enucleati da Be- zos nella sua lettera agli azionisti erano già stati espressi in Italia il 22 novembre 2016 da Diego Piacentini – “commissario straor- dinario per l’attuazione dell’Agenda digitale” per il governo ita- liano – al “Bocconi Start-up Day”, iniziativa annuale dell’Uni- versità Bocconi “finalizzata a promuovere l’imprenditorialità e le start-up e a valorizzare le molteplici attività promosse dall’A- teneo in tali ambiti”.

4

Non a caso, Piacentini è attualmente in aspettativa da Amazon.com, dove ha lavorato per sedici anni, ri- coprendo il ruolo di Senior Vice President International.

5

Titolo del suo speech alla Bocconi: Una start-up a Palazzo Chigi.

6

Era stato l’ex primo ministro italiano Matteo Renzi a convin- cere il supermanager di Amazon a tornare in Italia per “aiutare il Paese a non perdere il treno dell’innovazione e del digitale” e per “costituire una sorta di start-up all’interno di una macchina antica come l’amministrazione statale”.

7

Del resto, la passione di Renzi per l’innovazione digitale e il mondo start-up è nota e ben testimoniata dalla scelta di un incubatore, l’H-Farm in provincia di Treviso, come luogo della sua prima visita ufficiale in qualità di presidente del Consiglio,

8

ma soprattutto dai provvedimenti del suo governo in termini di detassazioni, agevolazioni negli in- vestimenti, disciplina agevolata del lavoro.

9

Come fanno notare Alessandro Gerosa e Adam Arvidsson in

3. E. Scarci, Amazon entra nella top ten dei retailer globali e cresce in Italia, “Il Sole-24 ore”, 19 gennaio 2017.

4. <startupday.unibocconi.it/Home>.

5. <teamdigitale.governo.it/it/people/1-profile.htm>.

6. <unibocconi.it/wps/wcm/connect/ev/Eventi/Eventi+Bocconi/Bocconi+Start- up+Day+2016>.

7. Intervista di Mario Calabresi a Diego Piacentini del 30 settembre 2016, disponibi- le su “Repubblica.it”: <repubblica.it/economia/2016/09/30/news/digitale_diego_piacen- tini-148802419/>.

8. Il senso di Renzi per le start-up: <ilfattoquotidiano.it/2014/02/27/il-senso-di-renzi- per-le-start-up/896231/>.

9. Per una sintesi di tali provvedimenti, si veda EconomyUp, Innovazione e start-up, le

15 eredità del governo Renzi: <economyup.it/startup/innovazione-e-startup-le-15-eredita-

del-governo-renzi/>.

(16)

81

un articolo pubblicato sul sito “cheFare”, attento alle start-up in Italia, la stagione di investimenti pubblici era già iniziata con il go- verno Monti e il suo ministro per lo Sviluppo economico Corra- do Passera, il quale aveva prima di tutto costituito una task force incaricata di redigere un rapporto sulle start-up come volano del- la crescita.

10

Al rapporto, pubblicato nel 2012 e intitolato Restart, Italia!,

11

ha fatto seguito una serie di misure, proseguite dai gover- ni successivi, aventi lo scopo di “rafforzare la molto fragile econo- mia della conoscenza nazionale che, in assenza di un sistema di ri- cerca e innovazione funzionante, in Italia stenta a emergere e par- rebbe frenare quel naturale spirito di auto-imprenditorialità e di auto-realizzazione con cui vengono contraddistinte le nuove gene- razioni di nativi digitali”.

12

Sempre Gerosa e Arvidsson sottolineano come diverse misu- re di sostegno alla creazione di imprese e di start-up siano state intraprese da tutti i paesi dell’Unione europea per far fronte alla disoccupazione seguita alla crisi del 2008, come testimoniato an- che dal rapporto 2016 di Eurofound (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) intitolato So- stegno alle start-up per i giovani nell’ UE : dall’attuazione alla valu- tazione.

13

In Francia, per esempio, dopo aver creato nel 2008 lo statuto giuridico dell’auto-entrepreneur (l’auto-imprenditore) per rispondere alla crisi promuovendo la creazione di micro-impre- se individuali,

14

uno dei principali fronti di investimento per far ripartire la crescita economica è costituito proprio dall’ecosiste-

10. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, “cheFare”, 17 feb- braio 2017.

11. Il rapporto è disponibile sul sito del ministero: <sviluppoeconomico.gov.it/images/

stories/documenti/rapporto-startup-2012.pdf>.

12. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit.

13. Eurofound, Start-up support for young people in the

EU

: From implementation to evaluation, 13 aprile 2016, <eurofound.europa.eu/publications/report/2016/labour-mar- ket-business/start-up-support-for-young-people-in-the-eu-from-implementation-to-eva- luation>.

14. Sulla storia dell’introduzione del regime dell’auto-entrepreneur, si veda S. Abdel- nour, A. Lambert, “L’entreprise de soi”, un nouveau mode de gestion politique des classes populaires? Analyse croisée de l’accession à la propriété et de l’auto-emploi (1977-2012),

“Genèses”, 95, 2014.

(17)

109

aut aut, 376, 2017, 109-131

Individui molecolari

e trasformazioni della soggettività

MAURO BERTANI

L’homo œconomicus è, insomma, colui che risulta eminentemente governabile.

M. Foucault

Intraprendere e competere

Come è stato possibile che, a partire da un certo momento della nostra storia, abbiamo cominciato a pensare la piena legittimità, se non addirittura la necessità, di trasformare non solo i quadri socio-economici e politico-istituzionali, ma anche quelli intellet- tuali, e persino morali, delle nostre esistenze, ricodificandoli inte- gralmente in base alle cosiddette leggi, ai meccanismi e ai principî, del mercato? Si dirà che la storia è cominciata molto presto, tanto tempo fa, ma non è affatto sicuro che il mercato di cui parlavano Quesnay e i fisiocratici sia lo stesso di cui parleranno Adam Smith o la Scuola di Manchester, e soprattutto che sia ancora, dopo von Hayek, o dopo Becker, il nostro, oggi. Così come non è detto che la riflessione politico-filosofica che ha accompagnato – o che si è sovrapposta, non sempre pacificamente, a – tale trasformazione, sia sempre rimasta, salvo qualche aggiustamento, la stessa. Ma qui non ci occuperemo di tali solenni e complesse questioni. Tenteremo, piuttosto, un’operazione assai più grigia, bassa, modesta, suggerita da quel che Michel Foucault aveva avanzato nel suo corso del 1978- 1979 al Collège de France consacrato alla Nascita della biopolitica,

1

cercando di misurarne, attraverso l’applicazione di alcuni dei prin- cipî di analisi lì messi in atto a un campo limitato e circoscritto, quello della sanità, e in particolare all’ambito di quella che si designa ormai come “salute mentale”, la pertinenza e l’efficacia.

1. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004),

trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.

(18)

110

Annunciato come un corso dedicato alla genealogia di quel regime specifico e peculiare di “governamentalità” a cui Foucault aveva dato il nome di “biopolitica”, il ciclo di lezioni di quell’anno, a una prima lettura, sembra concentrarsi unicamente sulla genealogia di due tecnologie, o “arti”, di governo, quella liberale e quella neoliberale, quest’ultima esaminata poi quasi esclusivamente nelle due varianti dell’“ordoliberalismo” tedesco e dell’“anarco- liberalismo” americano, che nulla sembrerebbero avere a che fare con il problema della biopolitica. Ma Foucault era stato chiaro fin da subito, dichiarando che solo se si fosse compreso “in che con- siste propriamente il regime di governo chiamato liberalismo” – e beninteso quell’aggiornamento dell’“autolimitazione della ragione di governo” che è il neoliberalismo – sarebbe diventato possibile

“comprendere che cos’è la biopolitica”, e che insomma si trattava di studiare il liberalismo come “quadro generale della biopolitica”.

Ma una biopolitica profondamente mutata, le cui strategie e i cui dispositivi non mirano più (solo) a governare quelle grandi unità che sono le popolazioni, le etnie, le razze, in funzione delle politiche imperialiste degli stati nazionali nel tempo della Machtpolitik. E il cui obiettivo, la cui posta in gioco e la cui superficie di iscrizione è diventato piuttosto l’individuo.

È allora come programma di governo, nonché indicazione del telos perseguito e della materia utilizzata dal neoliberalismo, an- che se in una versione particolarmente triviale, che dovrà essere inteso l’ormai celebre enunciato formulato da Margaret Thatcher il 23 settembre 1987: “Come sapete, la società non esiste. Esisto- no gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le per- sone devono guardare per prime a se stesse”. La sostanza da inve- stire, e gli agenti da attivare, la stessa Thatcher li aveva già indica- ti nell’intervista al “Sunday Times” del 1° maggio 1981: “L’econo- mia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”.

Per contro, di quegli stessi individui, nonché di quella strana enti- tà a cui nel 1977 aveva dato il nome di “sottoindividui”, Foucault farà l’elemento – il punto di resistenza – “primo e ultimo”.

Eccoci dunque condotti alla domanda centrale: chi è, e in che

(19)

111

consiste, quell’individuo che inizia a delinearsi, anche solo in controluce, nel punto di giunzione delle quattro cause (finalità, materia, sostanza e agenti) sopra sommariamente evocate e che emerge come puro prodotto del programma di governo neolibe- rale? Da quali dispositivi di assoggettamento, e pertanto anche da quali procedure di oggettivazione, risulta fabbricato? E tutta- via, quali processi di soggettivazione, e quindi quali meccanismi di costituzione di sé, è in grado di attivare, se è in grado di farlo, anche nel cuore della più profonda delle costrizioni, ma soprat- tutto nell’esercizio di quella libertà che risulta, alla lettera, “vita- le”, per quel programma di governo? Il problema, insomma, è quello della formazione della soggettività all’interno di quel par- ticolare “regime di veridizione” che è il neoliberalismo, in cui l’homo œconomicus, il soggetto d’interesse destinato a raddop- piare il soggetto di diritto, verrà a sua volta reduplicato dal sog- getto definito da tutte le psicologie succedutesi a partire dal XVIII

secolo, dalla psychologia rationalis alla psicologia comportamen- tale, dalla psicologia cognitivista alla psiconeuroendocrinologia dell’homo neuronalis ai nostri giorni.

I modi di razionalizzazione dell’esercizio di governo, con la riflessività critica che li accompagna, che sono il liberalismo e il neoliberalismo, si correlano infatti, secondo una necessità imma- nente, a uno dei processi sicuramente più importanti della no- stra attualità, ovvero la crescente “medicalizzazione” della nostra società e delle nostre esistenze, come Foucault aveva comincia- to a sostenere a partire dal 1968. Dopo avere mostrato, nella Na- scita della clinica,

2

come si fosse lentamente formata, nel corso del XVIII secolo, una medicina “nazionale” incaricata di preser- vare la salute e la forza fisica – condizioni della capacità produt- tiva e della potenza militare – delle popolazioni, e conseguente- mente degli stati, nelle lezioni sulla storia della medicina, tenute nel 1974, Foucault interverrà su una mutazione decisiva, fatta ri- salire al 1942, anno dell’approvazione in Gran Bretagna del pia-

2. M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad.

di A. Fontana, Einaudi, Torino 1998.

(20)

Contributi

(21)

133

aut aut, 376, 2017, 133-148

Lotta disarmata.

Politica e religione in Simone Weil

RITA FULCO

1. Lo spirito del potere

Interrogandosi sull’ermeneutica del potere proposta da Simone Weil non si può prescindere dalla sua attenzione al ruolo svolto dall’elemento religioso.

1

Soprattutto nelle opere weiliane degli ulti- mi anni trenta e degli anni quaranta – a partire dalle quali prendono le mosse queste mie riflessioni – è evidente l’influsso di nozioni mutuate da differenti tradizioni religiose e la loro ricaduta, più o meno evidente, non solo su altrettanti concetti politici, ma anche sulle scelte militanti e, in misura maggiore, su quelle im-politiche

2

1. In Italia, già dai primi anni ottanta, l’implicazione ineludibile tra politica e religio- ne è stata messa in luce da M. Cacciari, Note sul discorso filosofico e teologico di Simone Weil, “Il futuro dell’uomo”, 2, 1982; G. Gaeta, “Nota”, in S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983, pp. 148 e 154-155. Sul rapporto tra politica e religione importanti sono le riflessioni di R. Esposi- to, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1988, pp. 199-244, il quale, in pagine chia- re quanto acute, offre un’originale e direi imprescindibile riflessione sull’orizzonte aper- to dal pensiero di Simone Weil a partire dal limite del politico; sul rapporto metafisico tra soggettività e potere; sulla destituzione della centralità dell’io-posso e della sua prospetti- va; sulla questione della forza. Sul linguaggio della politica, in relazione alle riflessioni wei- liane radicate nel vasto ambito del religioso e della mistica si veda anche W. Tommasi, “Re- ligione e politica”, in Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Na- poli 1997. La continuità tra esperienza politica ed esperienza religiosa è condivisa dalla maggior parte degli studiosi, come testimoniano i recenti e documentati saggi di P. Rol- land, “Un texte pour la France libre” e di R. Chenavier, “Les fondements d’un ‘pouvoir spirituel’”, in S. Weil, Œuvres complètes, vol.

V

: Écrits de New York et de Londres, tomo

II

, testi stabiliti, presentati e annotati da R. Chenavier e P. Rolland, con la collaborazione di M.-N. Chenavier Jullien, Gallimard, Paris 2013, pp. 11-45 e 46-86, ma anche D. Canciani, M.A. Vito, “Introduzione”, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cu- ra di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 11-54.

2. Cfr. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit.; Id., L’origine della politica. Hannah

Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 2014

2

, in particolare le pp. 61-121.

(22)

134

di Simone Weil. Il contributo da lei offerto alla comprensione delle possibili interazioni tra questi due ambiti mi sembra degno di nota, sia per originalità di intuizioni sia per abbondanza, direi, di ispirazioni, fondamentali per una, quanto mai necessaria, rile- gittimazione etica dell’agire politico.

Simone Weil, infatti, considera l’orizzonte della religio qua- le sorgente privilegiata di un’etica contronaturale, un vero e pro- prio contrappeso rispetto ai rapporti di forza presenti in natura.

A suo avviso, infatti, lungi dall’identificarsi, natura e soprannatu- rale si contrappongono: non è possibile individuare alcun dise- gno inscritto nella natura e volto al progresso spirituale e socia- le dell’umanità, al contrario di quanto aveva affermato Kant nei suoi scritti sulla filosofia della storia e nel suo progetto di pace perpetua.

3

Non si può, tuttavia, neppure affermare che in Simone Weil vi sia una mera condanna dell’ambito naturale, letto come sede del male, ma piuttosto una separazione innanzitutto logica e ontologica: la natura segue un corso, nel quale, in linea generale, il forte prevale sul debole; gli esseri umani sono parte della na- tura, sono corpi tra altri corpi, esseri viventi tra gli altri; tuttavia, se essi sono nel mondo, non sono, però, del mondo. Hanno del- le facoltà – tra cui la principale è l’attenzione – che permettono loro di compiere uno scarto rispetto alle leggi della natura. Essi, se lo desiderano, possono mettersi in ascolto di una realtà contro- naturale.

Le religioni – purché le divinità adorate siano non violente – vengono considerate da Weil come finestre aperte su questa real- tà altra e, quindi, il contatto autentico con una di esse potrebbe rappresentare l’inizio di un mutamento che, partendo dall’io, dal soggetto singolare, comporterebbe importanti ricadute sugli am- biti di azione nei quali ciascuno esercita il proprio potere: “I car- nefici della città di Melos […] hanno definito in modo completo e perfetto la concezione pagana: […] ‘ciascuno comanda ovun-

3. Cfr. I. Kant, Zum ewigen Frieden (1795); trad. di G. Solari e G. Vidari, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu,

UTET

, Torino 2010, p. 306.

(23)

135

que ha potere’. La fede cristiana altro non è se non il grido che afferma il contrario. È la stessa cosa per le antiche dottrine della Cina, dell’India, dell’Egitto e della Grecia”.

4

Volendo, dunque, definire la questione che lega politica e re- ligione in Simone Weil, ci si troverà necessariamente a confronto con il problema del potere e della sovranità in rapporto alla giu- stizia. Simone Weil tenta, infatti, di dimostrare che la maggior parte delle religioni affermano l’opposto di Tucidide e, dunque, che esse possono costituire uno strumento di decostruzione di una certa idea di potere e di potenza, perché decostruiscono una certa idea di soggetto.

5

2. La via all’elevazione

A partire dall’elaborazione di un’energetica metafisica

6

pensata per analogia alle teorie della fisica naturale – “Tutto è combinazio- ne di energia solare e di gravità (a parte il pane soprannaturale)”

7

–, Simone Weil ha disancorato l’energia spirituale, chiamata sopran- naturale o contronaturale, intrinseca alle singole tradizioni reli- giose, dal loro contenuto strettamente confessionale, rivelandone

4. S. Weil, “Luttons-nous pour la justice?”, in Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, pp. 47-48; trad. di D. Canciani e M.A. Vito, “Stiamo lottando per la giustizia?”, in Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 180. Il riferimen- to è a Tucidide, La guerra del Peloponneso,

V

, 105, 2. Non a caso Gianfranco Miglio pen- sa a Tucidide e alla guerra contro Melo in riferimento a Carl Schmitt: “In fondo vien fat- to di pensare che a nessuno dei suoi grandi predecessori Schmitt assomiglia come a Tucidi- de. Tucididea infatti è l’esperienza postbellica della ‘reversibilità delle parti’; tucididea è la scoperta dell’eterna antitesi ‘amicus-hostis’, che completa e spiega la ‘legge naturale’ del- la potenza rivelata dagli ambasciatori ateniesi ai reggitori di Melos” (G. Miglio, “Presen- tazione”, in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, trad. di G. Miglio e P. Schiera, il Muli- no, Bologna 1972, p. 8).

5. Sulla questione della soggettività in Simone Weil, mi permetto di rinviare a R. Fulco, Les Cahiers de Marseille et l’architecture du Je. L’“égoisme sans je” ou l’“annihilant” imper- sonnel, “Cahiers Simone Weil”, 3, 2012, pp. 337-368.

6. Sulla nozione di energia e sulle sue diverse forme cfr. G. Kahn, Les notions de pe- santeur et d’énergie chez Simone Weil, “Cahiers Simone Weil”, 1, 1986, pp. 22-31; M.-A.

Fourneyron, “La science de l’âme, une énergétique (Avant-propos 3)”, in S. Weil, Œuvres complètes, vol.

VI

: Cahiers, tomo

II

: (septembre 1941 - février 1942), testi stabiliti e presen- tati da A. Degràces, M.-A. Fourneiron, F. de Lussy e M. Narcy, Gallimard, Paris 1997, pp.

35-50.

7. S. Weil, Œuvres complètes, vol.

VI

: Cahiers, tomo

II

, cit., p. 205; trad. di G. Gaeta,

Quaderni, vol.

II

, Adelphi, Milano 1985, p. 50.

(24)

149

aut aut, 376, 2017, 149-172

Jacob Taubes: genealogia di un percorso antinomico

ELETTRA STIMILLI

D a quando, all’inizio degli anni novanta, è stato pubblicato Die politische Theo- logie des Paulus – il testo del seminario sulla Lettera ai Romani che Jacob Taubes ha tenuto a Heidel- berg, nel 1987, poco prima di morire – è iniziata una lenta ma progressiva riscoperta di questo autore tanto geniale quanto sco- modo nel panorama intellettuale della fine del secolo scorso. Il

“secolo breve”, che nei primi cinquant’anni aveva conosciuto ri- volgimenti epocali e catastrofi senza precedenti come la Shoah e che nella sua seconda metà aveva vista quasi realizzata la pos- sibilità di una “fine della storia”. Dopo la “controrivoluzione”

successiva ai grandi movimenti del Sessantotto, la plausibilità di questa “fine” è stata tragicamente messa in dubbio tra le mace- rie delle torri del World Trade Center di New York, all’alba del nuovo secolo, proprio quando il pensiero di Taubes cominciava a essere riscoperto.

Al Sessantotto Taubes ha attivamente partecipato durante il suo insegnamento alla Freie Universität di Berlino, negli stessi anni in cui ha cominciato ad avvicinarsi al giurista teorico del na- zionalsocialismo Carl Schmitt. Il loro rapporto ha fatto scalpore nella cultura europea del dopoguerra e il suo ostinato tentativo di seguire le orme di Walter Benjamin e di leggere “contro pelo”

in senso rivoluzionario la letteratura fascista non è risultato facile da elaborare soprattutto in Germania.

Ci sono voluti alcuni anni prima che il suo dirompente pen-

(25)

150

siero cominciasse a circolare e ad avere i suoi effetti. Non è allora un caso che i suoi scritti siano stati progressivamente ristampati in Germania e tradotti in varie lingue

1

e che ultimamente siano usciti diversi e importanti epistolari,

2

a testimoniare l’importan- za del suo pensiero segnato da un percorso essenzialmente anti- nomico.

3

1. Taubes e la cultura tedesca del dopoguerra

Se il legame tra studio e vita è sempre individuabile, ma non ne- cessariamente va reso esplicito in ogni autore, ci sono alcuni casi in cui questo nesso diventa imprescindibile. Taubes è uno di questi.

Non è possibile ricostruire ora adeguatamente questo rapporto.

Bastino solo pochi cenni biografici per dare almeno un segnale in questa direzione.

Taubes nasce a Vienna nel 1923. Nel 1937 si trasferisce insie- me alla sua famiglia a Zurigo, dove suo padre, Zwi Taubes, è no- minato rabbino capo. Grazie a questo trasferimento viene rispar- miato dalla persecuzione nazista, un fatto che segna la sua vita

1. Cfr. almeno J. Taubes, Die politische Theologie des Paulus, Fink, München 1993, 2010;

trad. di P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997; Id., Abendlän- dische Eschatologie (1947), Matthes & Seit Verlag, München 1991, 2007; trad. di G. Valent, Escatologia occidentale, prefazione di M. Ranchetti, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 1993; cfr. infine la nuova raccolta Id., Apokalypse und Politik Aufsätze, Kritiken und kleinere Schriften, a cura di H. Kopp-Oberstebrink, M. Treml, W. Fink, München 2017.

2. Cfr. M. Voigts (a cura di), Jacob Taubes und Oskar Goldberg: Aufsätze, Briefe, Doku- mente, Königshausen & Neumann, Würzburg 2011; H. Kopp-Oberstebrink, T. Palzhoff, M. Treml (a cura di), Jacob Taubes - Carl Schmitt. Briefwechsel, W. Fink, München 2012;

H. Kopp-Oberstebrink, M. Treml (a cura di), Hans Blumenberg - Jacob Taubes. Briefwech- sel 1961-1981, Suhrkamp, Berlin 2013; S. Taubes, Die Korrispondenz mit Jacob Taubes.

1950-1951, a cura di C. Pareigis, W. Fink, München 2011 e Id., Die Korrispondenz mit Ja- cob Taubes. 1952, a cura di C. Pareigis, W. Fink, München 2014. È nota poi la corrispon- denza con Ingeborg Bachman, con cui Taubes ha avuto un’importante relazione sentimen- tale: cfr. “Trajekte (Zeitschrift des Zentrums für Literaturforschung Berlin)”, 10, 2005. Di recente è anche uscita l’edizione aggiornata e accresciuta di J. Taubes, Il prezzo del messia- nesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem, a cura e con un saggio di E. Sti- milli, Quodlibet, Macerata 2017, che comprende l’epistolario con Scholem, già pubblica- to anche in tedesco: cfr. Id., Der Preis des Messianismus. Briefe von Jacob Taubes an Ger- shom Scholem und anderen Materialen, a cura di E. Stimilli, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006.

3. Per una ricostruzione più ampia del pensiero di Taubes rimando alla monografia: E.

Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004.

(26)

151

per sempre. Dopo essere diventato rabbino egli stesso a vent’an- ni, nel 1947 termina gli studi in filosofia a Zurigo e nello stesso anno pubblica Escatologia occidentale, che resta fino alla fine il suo unico libro vero e proprio. Altrimenti la sua riflessione è le- gata a saggi brevi o alla lingua parlata. Grazie alla fitta corrispon- denza con i maggiori intellettuali dell’epoca (Hans Blumenberg, Leo Strauss, Karl Löwith ecc.) sono note soprattutto le sue lette- re, spesso veri e propri testi teorici di volta in volta animati dalle questioni sollevate dall’interlocutore.

Negli Stati Uniti, dove si trasferisce dopo gli studi, conosce Gershom Scholem. Dopo questo incontro emerge in lui il desi- derio di andare a studiare a Gerusalemme con il più grande stu- dioso di mistica ebraica. Ma la sua relazione con Scholem si ri- vela presto molto complicata: motivi personali e teorici porta- no a una rapida interruzione del rapporto.

4

Dopo il 1953 da Ge- rusalemme torna definitivamente negli Stati Uniti, dove diventa professore di Storia e filosofia della religione presso la Columbia University di New York e dove insegna anche in altre prestigio- se università americane. La fase tedesca della sua vita ha inizio, invece, quando gli viene assegnata la prima cattedra di Giudai- stica inaugurata, nel 1966, presso la Freie Universität di Berlino, che Taubes occupa fino al 1979, quando assume la direzione del nuovo Dipartimento di ermeneutica.

5

Sono questi gli anni in cui subisce due gravi perdite: quella di sua moglie, Susan Anima, che si uccide dopo aver pubblica- to il libro autobiografico Divorsing e la morte suicida del padre.

In seguito a questi eventi drammatici, che segnano il suo equili- brio già piuttosto precario, Taubes è costretto a numerosi ricove- ri psichiatrici. Dopo il suo secondo matrimonio con Margherita von Brentano, negli anni della contestazione, diventa il simbolo

4. Sul rapporto personale e teorico tra Taubes e Scholem cfr. le lettere e i materiali contenuti in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, cit.

5. Sulle vicende berlinesi e su molti altri aspetti legati alla vita di Taubes cfr. l’intervi-

sta a Jean Bollack contenuta nell’edizione aggiornata e accresciuta di Il prezzo del messia-

nesimo, cit., pp. 151-162.

(27)

173

aut aut, 376, 2017, 173-192

Appunti di storia naturale.

Warburg, Benjamin e Pauli

EMILIANO DE VITO

Panser est le même que penser.

É. Littré

Un libro particolare

Il celebre Dürers “Melencolia I ” pone suo malgrado un problema di continuità con il metodo warburghiano che pure lo ispirò.

Da subito i richiami a questo “libro particolare” pubblicato nel 1923 da “due seguaci [di Aby Warburg] ricchi d’ingegno e di dottrina” – così Pasquali nel 1930, a pochi mesi dalla scomparsa del grande amburghese – non si contano. Alcuni casi eminenti: i marginalia apposti da Franz Boll alla copia personale della secon- da edizione del suo Sternglaube und Sterndeutung, poi riportati in quella postuma del 1926; un’ampia sezione di Individuum und Kosmos (1927) di Ernst Cassirer; l’excursus sull’incisione di Dürer in quanto germe dello spirito barocco nell’opus maius di Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928). Un’altra, a noi più prossima, stagione di studi storici e critici, quella italiana del secondo Novecento, non mancò di confrontarsi direttamente con il volume del 1923 (pensiamo all’importante studio del 1960 di Eugenio Garin su Le “elezioni” e il problema dell’astrologia), anche dopo l’uscita, nel 1964, della nuova edizione. È il caso, in particolare, di Stanze, l’esordio warbughiano con cui Giorgio Agamben nel 1977 irruppe nel mondo scientifico con una rigo- rosa “protesta” – così Davide Stimilli in occasione di una recente ristampa del saggio – “contro risultati apparentemente inattacca- bili, canonici o classici che dir si voglia, della critica”, ivi inclusi quelli dello studio che qui interessa.

Lo scritto del 1923, Dürers “Melencolia I ”, di Erwin Panof-

sky e Fritz Saxl, e quello del 1964, Saturn and Melancholy, di

(28)

174

Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, sono in effet- ti due opere distinte, nel senso che, quando gli autori dell’ope- ra del 1923, esaurita la prima tiratura, vi rimisero mano, sentiro- no l’esigenza di riscriverla a capite ad calcem e non di appronta- re una semplice versione rivista e ampliata. Avvenne però che, se lo studio moltiplicava il materiale storico discusso, e con esso la sua mole, mutava sensibilmente anche il suo oggetto, e da mono- grafia sulla celebre incisione düreriana virò, sbilanciandosi, ver- so la trattazione del tema di filosofia naturale che quella incisio- ne, ora, sembrava esprimere quasi come un caso – sia pure il più significativo – tra gli altri.

L’equilibrio espositivo raggiunto nella prima opera risultò peraltro, se non compromesso, almeno in parte occultato, qua- si a riprova del fatto che l’intenzione sistematica del trattatista e quella cumulativa del filologo à la Wilamowitz, i quali sento- no rispettivamente il dovere di esaurire il proprio tema punto per punto e di convocare tutte le fonti conosciute su un certo ar- gomento, non sempre, non necessariamente chiariscono, talvol- ta opacizzano il gesto gnoseologico. In un certo senso, infatti, fu proprio nell’edizione del 1923 che l’impresa rivelò in modo tra- sparente la natura del proprio metodo, quasi si trattasse dell’ori- ginaria versione cameristica di un’opera sinfonica, dove proprio il sinfonismo finisce per opacizzare la trama contrappuntistica che la innerva. E quel metodo pratica senz’altro magistralmen- te il contrappunto di conio warburghiano tra Wort und Bild, tra fonti documentarie e figurative; tuttavia, cogliamo qui l’occasio- ne per formulare l’invito a considerare come mai questo studio di Panofsky e Saxl abbia potuto costituire al contempo il primo anello di una tradizione e un precoce tradimento.

La linea Giehlow-Warburg-Panofsky-Saxl, “vale a dire la

scuola degli occhi più sapienti che abbiano letto, in questo seco-

lo [s’intende il XX ], le immagini del nostro passato” (così Rober-

to Calasso in un breve ma essenziale contributo del 1971), non è

in effetti una linea. Il congedo da quel metodo sarebbe venuto in

piena luce solo nei lavori successivi di Panofsky e Saxl, e avreb-

be trovato il suggello dell’irreversibile nella seconda generazione

(29)

175

di warburghiani, ben rappresentata da una “biografia intellettua- le” dedicata a Warburg, ma “priva – così lo stesso Calasso in una lezione del 1992 al Collège de France – di qualsiasi congenialità con il soggetto”. Quanto agli sviluppi delle produzioni dei due autori si può osservare – come ha fatto Carlo Ginzburg ricordan- do Momigliano – che se “Saxl tende a privilegiare l’analisi icono- grafica, fino a farne uno strumento di ricostruzione storica gene- rale”, in Panofsky si registra una prevalenza delle ricerche icono- grafiche su quelle tese verso lo strato iconologico del significato di un’opera, cioè verso – nel lessico panofskiano – quella “regio- ne del ‘senso essenziale’” (Region des “Wesenssinns”) che pure rappresentò per questo studioso il momento più alto dell’indagi- ne su opere d’arte figurative. E se il primo – seguiamo le osserva- zioni critiche dello stesso Ginzburg relative al saggio del 1948 su Dürer and the Reformation – ripiega sull’analisi stilistica ogni vol- ta che “il dato iconografico risulta indifferente o marginale”, il secondo rischia sovente di ricadere nell’estetica tradizionale, co- sa che ex post dà piena conferma al giudizio espresso da Benja- min già nel 1928, secondo cui Panofsky sarebbe in fondo “uno storico dell’arte ‘di mestiere’” (“Daß er ‘von Fach’ Kunsthistori- ker ist, war mir bekannt”, si legge nella lettera a Hofmannsthal dell’8 febbraio). Dunque non solo l’esigenza di una sapiente va- nificazione dei confini disciplinari, così acutamente sentita e co- stantemente praticata da Warburg, finirà per essere disattesa, ma la sottile facoltà di riconoscimento di cui questi diede prova in- dividuando e definendo Pathosformel quel luogo di equilibrio in cui si neutralizza la distinzione operata dalle categorie estetiche di stile e tema iconografico, di forma e contenuto, non verrà più esercitata con pari forza e coerenza.

Gianni Carchia infatti aveva indicato tra le principali cause

della dissoluzione dell’eredità di Warburg la panofskiana “pre-

minenza della dimensione del significato”, ovvero l’indebolimen-

to del polo immaginale e visivo rispetto al polo testuale e verbale

con cui si compie lo sfaldamento di quello spazio simbolico che

invece Warburg aveva colto e conservato nel suo teso equilibrio

costitutivo tra contenuto e forma, tra parola e immagine. È pos-

(30)

193

aut aut, 376, 2017, 193-205

Dialogo su una nuova etica della traduzione

FRANÇOIS JULLIEN ELENA NARDELLI

S e è vero che François Jullien non è il primo studioso europeo a confrontarsi con i testi della tradizione classica cinese, è anche vero che da questo incontro egli ha tratto uno stile filosofico inedito ed estremamente efficace, per molti aspetti inimitabile, un hapax nel panorama filosofico contemporaneo.

L’ipotesi da cui Jullien prende le mosse potrebbe sembra- re una variante dell’ipotesi di Sapir-Whorf dove la grammatica svolge il ruolo dominante: cuius grammatica, eius philosophia, co- sì potrebbe suonare l’assunto di Jullien, poiché ogni filosofia ri- sulta in un primo momento imprigionata nelle strutture portan- ti della specifica lingua storica nella quale ha luogo. Tuttavia la sua prospettiva non è deterministica, ma trasformativa poiché in- dica e pratica la possibilità di sfruttare a fondo le risorse interne, spesso nascoste, che ciascuna lingua porta con sé. A condizione, però, di cominciare a frequentarne un ’altra le cui strutture diffe- riscano radicalmente da quelle nelle quali siamo abituati a pen- sare. E la scelta di Jullien non ricade sulla lingua araba o persia- na, a suo avviso troppo compromesse dagli scambi con la cultu- ra europea, ma sulla lingua cinese poiché in essa viene custodita una lunga tradizione di pensiero sviluppatasi in maniera più au- tonoma e originale.

Il testo del dialogo è stato stabilito e tradotto da Elena Nardelli sulla base dell ’incontro

con François Jullien avuto luogo a Milano il 4 aprile 2017. Un ringraziamento va a Marcel-

lo Ghilardi per la sua generosa consulenza.

(31)

194

Ne risulta una filosofia dell’écart dall’impianto al contempo semplice e potente. Semplice perché si basa sull’esperienza – am- piamente diffusa e appartenente al senso comune – dello strania- mento provocato dal contatto con una cultura differente, in par- ticolare quella cinese. L’esperienza archetipica diviene quella del viaggiatore che, entrando in contatto con l’alterità, prende co- scienza di ciò che ha dato fino a quel momento per scontato ri- mettendolo in discussione. Davanti al tentativo di comprendere la cultura e la lingua cinesi ci sentiamo disarmati e dunque ci lascia- mo guidare da Jullien in un percorso curioso e affascinante lungo il quale ci specchiamo nell’alterità che egli tratteggia per noi. Po- tente perché proprio facendo leva su queste esperienze condivise permette ai testi filosofici di varcare le soglie dell’accademia verso un pubblico più ampio. Il discorso di Jullien è inoltre difficilmen- te contestabile dall’interno se non da coloro in grado di battaglia- re con lui ad armi pari nel campo della lingua cinese.

Questa filosofia cerca di smarcarsi attraverso il concetto di écart dalle filosofie della differenza che, secondo Jullien, corre- rebbero il rischio di continuare a giocare alle regole dettate da quello di identità. Essa si muove così in termini non dialettici lavorando sui binari delle alternative più che su quelli dell’op- posizione dei contrari, in un duplice gioco di specchi. Il gesto di Jullien si descrive, mostrando il suo debito, come una décon- struction du dehors, mimando quello derridiano nella misura in cui entrambi mirano a riconsiderare gli impliciti della nostra tradizione. Jullien si distacca però dalla déconstruction, perver- tendola, nel momento in cui cerca di guadagnare un punto di vista di per sé esterno, un dehors prospettico che non oscilli più tra Atene e Gerusalemme, i pilastri della tradizione occidenta- le. Questo décalage all’interno del pensiero viene inteso da Jul- lien come uno scarto, una messa in tensione che producendo un disturbo ci sottrae all’agio della nostra abitudine, lasciandoci in un primo momento spiazzati.

Come accade nella saggezza orientale, anche nella filosofia di

Jullien la dimensione storica perde il suo peso e sembra inve-

ce preponderante la dimensione spaziale, dove la Cina non co-

(32)

195

stituisce tanto una forma di alterità, ma appunto un’eterotopia.

Questo passo a lato apre uno spazio di riflessione dove i percor- si filosofici proposti da Jullien attorno ai temi rimasti fino a og- gi marginali nel discorso europeo (come per esempio il paesag- gio, l’insapore o l’efficacia) rimbalzano tra le pareti della cultura cinese e di quella europea che si fronteggiano specchiandosi. Ne deriva che i pensatori – con un occhio di riguardo forse solo per Nietzsche – vengono sostanzialmente ricondotti al loro blocco unitario e di volta in volta colti per l’esemplarità con la quale in- carnano la tradizione, che viene così interpretata come la costan- te ripresa di un’unica idea in un’infinita serie di emendamenti.

Nella filosofia di François Jullien c’è un’invisibile protagonista che silenziosamente muove il pensiero, ma non appena si tenta di coglierla, questa si ritrae e sfugge alla presa: la traduzione. Quella di Jullien non è una vera operazione di risemantizzazione, né uno scavo o una critica del concetto di traduzione. Forse per fare ciò si potrebbe specchiare anche la traduzione nella tradizione cinese al fine di rimodularne i margini e un’opzione potrebbe consiste- re nell’indagare, come ha fatto per esempio Maurizio Bettini per il mondo romano in Vertere, quale è stato il rapporto della cultu- ra cinese con i processi traduttivi, specialmente prima del violen- to impatto con l’Occidente all’inizio del secolo scorso.

La traduzione viene invece ripetutamente praticata da Jullien e presupposta come momento essenziale e delicato del lavoro fi- losofico; talvolta, questo momento viene poi esposto e commen- tato, fornendoci un modello preziosissimo. Qui il filosofo-tra- duttore, dopo aver forzato i limiti della sua lingua madre, prova a cogliere questo processo descrivendolo nei termini volutamen- te contraddittori dell’assimilazione e della dis-assimilazione. Tra- durre diviene momento preliminare, essenziale ed esemplare per la filosofia, un momento che obbliga chi vuole praticare quest’at- tività a scomodarsi, a uscire dall’agio del senso comune e di una lingua che si crede propria, per rimettersi in movimento.

Da una comune esigenza di accerchiare, al meglio, con un’a-

zione combinata a più mani, quest’operazione per sua natura

sfuggente nasce questo colloquio. [E.N.]

Riferimenti

Documenti correlati

In considerazione della visibilità ridotta, per tutti è utile: pulire i vetri, assicurarsi della efficienza dei fari e della loro corretta inclinazione, aumentare la distanza

Il testo del racconto scelto è stato smontato in piccoli capitoli e per ognuno di essi sono state proposte agli alunni attività di comprensione del testo, arricchimento del

« Tutto servì a illustrare lo spirito informatore dell’opera di Don Bosco e a far penetrare profondamente questo spirito nell’animo dei Cooperatori presenti in

L’attività missionaria e apostolica fin dagli inizi fu connessa con l’attività educativa e sociale, come dimostrano l ’istituzione del diaconato nella Chiesa

Il lavoro consiste normalmente nella cura dei ragazzi e dei giovani della località prescelta (normalmente sono le zone più depresse d ’Italia), n ell’animazione

tificata né con quella delle Figlie di M aria A usiliatrice, né con quella degli E xallievi e che si avvicina a quella delle Volontarie di Don Bosco, verrebbe

ceramente alla perfezione, che si impegnano ad osservare, nella misura loro possibile, le regole della Congregazione, che si sforzano di vivere la loro opzione

responsabilità nella missione; la comunione con gli altri gruppi della Fam iglia salesiana lo spirito salesiano.18 Direi che questi valori formano una piattaform a