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THE COURT OF CASSATION AS A PRIVILEGED INTERPRETER OF THE LAW IN THE GLOBAL ECONOMY
LA CASSAZIONE COME INTERPRETE PRIVILEGIATO DEL DIRITTO NELL’ECONOMIA GLOBALIZZATA
Massimo Franzoni *
*Ordinario di Diritto Civile, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna ABSTRACT
The author analyzes the relationship between the interpreter and the law as it comes out from several examples like the reports from the inauguration of the juridical year, the judgment of the juridical case and others.
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310 SOMMARIO: 1. L’interprete e la legge nelle relazioni di apertura dell’anno giudiziario. – 2. L’interprete, la legge nella decisione del caso giudiziario. – 3. La ragionevolezza quale tecnica di decisione con funzione creativa del diritto. – 4. Un diritto rilevato dall’interprete come fonte della regola vigente, che non ha una diretta fonte statuale.
– 5. Le regole create dagli interpreti per modificare il diritto positivo al di fuori del sistema delle fonti di produzione. – 6. Segue: la creazione di una regola per le liti future al di fuori del sistema delle fonti di produzione. – 7. Negli spazi vuoti lasciati dalle norme l’interprete crea nuove regole, per ridurre il numero di liti: a) la inesistenza della procura alle liti. – 8. Segue: b) il frazionamento della domanda giudiziale. – 9. Segue: c) la necessità dell’autosufficienza del ricorso per cassazione e la creazione di un filtro. – 10. Il ricorso per cassazione nell’interesse della legge ed il ruolo dell’interprete.
1. L’INTERPRETE E LA LEGGE NELLE RELAZIONI DI APERTURA DELL’ANNO GIUDIZIARIO
Il rapporto fra interprete e diritto scritto è un tema classico per lo studioso del diritto; nelle diverse epoche storiche vede prevalere talvolta l’uno talvolta l’altro. In certi momenti l’interprete altro non è che l’esecutore di un rapporto sillogistico con il quale riconduce il fatto alla fattispecie normativa e così risolve il conflitto; sicuramente appartiene a questa stagione il periodo nel quale era in auge la Scuola dell’esegesi. In altri il suo ruolo è talmente ampio da rendere la fonte oggettiva quasi un pretesto nella creazione della norma, sono questi i tempi in cui la fonte oggettiva è debole, vuoi per una perdita di autorità di chi crea la norma, vuoi per un possibile contrasto che può derivare dal concorso tra più fonti da coordinare fra loro.
La lettura di qualche decisione della Corte costituzionale è una buona base di partenza per incominciare la riflessione. C’è un’ordinanza che, mutando un precedente
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311 orientamento (1), ha disposto che la Corte costituzionale «costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il disposto dell’art.
137, comma 3º, cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE» (2). Se anche la Consulta rimanda la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE, il rapporto tra la fonte interna e quella esterna risulta inequivocabilmente orientata verso la prevalenza della fonte esterna.
C’è un’altra importante pronuncia che ridisegnata l’architettura del sistema delle fonti del diritto, dopo la modifica dell’art. 117, comma 1º, cost., in diversi passi della motivazione, sottolinea con insistenza il fatto che le norme della Cedu sono quelle «così come interpretate dal giudice di Strasburgo» (3). La particolare precisazione della Corte, motivata sul fatto che quel trattato a differenza di altri prevede anche il giudice per la esecuzione delle norme che introduce, mi ha comunque fatto riflettere. Del resto seppure un fondamento di verità ci sia, a nessuno verrebbe da dire che le norme del codice civile, o una qualsiasi altra legge dello Stato italiano, sono quelle che la Cassazione italiana ritiene che siano.
Mi è sembrato un buon punto di inizio per verificare in quale rapporto stia l’interprete rispetto alla fonte formale del diritto. Lo sguardo successivo mi è sembrato doveroso rivolgerlo al pensiero dei protagonisti del diritto chiamati ad applicarlo. Ho trovato estremamente istruttiva la lettura delle Relazioni presentate in occasione
(1) Cfr. Corte cost. [ord.], 29 dicembre 1995, n. 536, in Foro it., 1996, I, c. 783, secondo la quale è il giudice a quo competente a proporre la questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia CE.
(2) Corte cost. [ord.], 15 aprile 2008, n. 103, in Riv. dir. internaz., 2008, p. 867.
(3) Per la verità le sentenze sono due Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, in Foro it., 2008, I, c. 39.
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312 dell’Assemblea Generale della Corte di Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008 (4), tanto quella del suo primo presidente, quanto l’Intervento del Procuratore generale (5).
Al riguardo nella relazione del primo presidente della Suprema corte si legge che
«La Cassazione si va evolvendo, in questi anni, rispetto alla funzione tradizionale di organo di “suprema” istanza per la singola controversia (c.d. ius litigatoris) e di organo del riparto della giurisdizione». […] «Oggi, la Cassazione si va configurando soprattutto come titolare della funzione di “indirizzo” interpretativo, costituzionalmente orientato (c.d. ius constitutionis), che risponde a nuove finalità al passo con i tempi» (6).
Questo nuovo ruolo si impone poiché il contesto in cui il diritto si trova ad operare è all’insegna «del pluralismo dei sistemi giuridici domina ormai la scena». In questo contesto,
«il judicial dialogue che ha caratterizzato la formazione del diritto europeo si riproduce oggi nella dimensione globale: la globalizzazione giuridica trova nella
“comunità dei Giudici” un importante fattore di sviluppo, consolidamento e adattamento, proprio perché i Giudici possono, allo stesso tempo, condividere e applicare alcuni principi universali e comuni e trovare le soluzioni più adeguate ed idonee per i singoli casi. […] «Le Corti sempre più spesso, a fronte di tale fenomeno, tendono ad assumere un ruolo fondamentale come attori che garantiscono l’unità giuridica dell’ordinamento nazionale e che controllano la circolazione di norme, regole
(4) Cfr. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, in
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%20anno%20giudiziario%202008.pdf.
(5) Cfr. Intervento del Procuratore generale nell’anno 2008, in
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Intervento%20Procuratore%20Generale.doc.
(6) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, cit., p. 3.
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313 ed istituti provenienti “dall’esterno”» (7).
Con queste premesse, secondo il Presidente, si deve porre il
«problema culturale del “primato della giurisdizione” ex artt. 24 e 111, comma 1º, Cost.». […] La norma, infatti, assegna sia al Giudice che alle parti la responsabilità della giurisdizione, e suppone quindi che la coscienza di questa funzione (ius constitutionis) non sia oscurata dalla urgenza della preoccupazione per la lite e per la sua definizione (ius litigatoris).
Occorre allora prendere atto del nuovo assetto del “giusto processo” e riconquistare il ruolo dello ius constitutionis rispetto allo ius litigatoris, rivedendo il rapporto tra efficacia del servizio (specie con riferimento alla “ragionevole durata”) e diritti dei singoli» (8).
A questo riguardo la Relazione per l’anno 2009 puntualizza che
«consapevole di questo nuovo contesto, il Giudice italiano acquista un respiro europeo: il nostro diritto è parte di un sistema sovranazionale (sia UE che CEDU), “a rete” e non più “piramidale”, con riscontri nuovi nell’assetto costituzionale (sia nella riforma dell’art. 111, comma 2º, Cost. che in quella dell’art. 117, comma 1º, cost.)» (9).
Proprio a questo riguardo una osservazione particolare merita il dialogo che tra le diverse corti è incominciato:
«La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha instaurato un dialogo costruttivo con il Consiglio di Stato e la Corte dei conti per incrementare la tutela del cittadino.
[…] A questo fine tutti insieme, magistratura civile e amministrativa, abbiamo
(7) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, cit., p. 11 s.
(8) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, cit., p. 52.
(9) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, in
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%20anno%20giudiziario%202009.pdf, p. 16. In questa relazione è più marcato il legame fra la giurisdizione che ha perso gli stretti legami territoriali, il Trattato di Lisbona e la globalizzazione dei diritti.
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314 sperimentato sul campo come fosse datata e antistorica la situazione di stallo che il sistema conosceva a causa della sorda radicalità di due posizioni rigidamente contrapposte. L’una inutilmente volta ad annullare differenze e distinzioni di funzioni e di competenze che ormai costituiscono un bagaglio e un opportunità per il sistema; l’altra, speculare, quasi atterrita dal fantasma dell’omologazione per assorbimento, irremovibile nel rifiutare persino qualsivoglia forma di dialogo e di comunicazione.
Tutti crediamo in una funzione giurisdizionale unitaria, che valorizza le distinzioni e le differenti competenze di giudici diversi, ma evita che queste si trasformino in ostacolo alla richiesta di Giustizia. Tale corale edificazione è iniziata per via giurisprudenziale, con la translatio iudicii» (10).
È palpabile l’intento di realizzare una migliore efficienza del sistema ai margini della legge e del diritto positivo derivante dall’osservanza delle fonti di produzione in senso stretto. Per altri versi è ancora più esplicito l’Intervento del Procuratore Generale della Repubblica quando afferma:
«La verità è che il magistrato si muove oggi in un sistema normativo multilivello, a carattere circolare, che supera la tradizionale gerarchia delle fonti. Le finestre sull’Europa, sia pure con difficoltà, si vanno definitivamente dischiudendo».
E prosegue:
«Tramontato l’ideale illuministico di una legge perfetta, espressione gelosa della sovranità nazionale, è oggi la dimensione europea ad indicarci una nozione nuova di legalità – attenta ad aspetti sostanziali più che formali – connotata dalla trasformazione del ruolo partecipativo della giurisprudenza alla formazione della norma o, come si legge in numerose sentenze della Corte costituzionale, del diritto vivente ed ancorata al
(10) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, cit. p. 91 s.
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315 rispetto dei diritti fondamentali della persona umana».
Per poi concludere provvisoriamente:
«Occorre, altresì, riconoscere che la funzione legislativa è entrata in crisi anche sotto altro aspetto: la legge – in Italia come in altri Paesi – non riesce a regolare la complessità del reale; non riesce a tener dietro alla vertiginosa accelerazione dei processi sociali. Essa, inoltre, assume spesso carattere valutativo e non meramente descrittivo; ha bisogno del giudice per essere integrata nei suoi contenuti» (11).
Si tratta di affermazioni molto forti che denotano la consapevolezza di un mutato ruolo del giudice nel contesto di un diritto che è cambiato. Fra l’altro ciò che colpisce di queste relazioni è che descrivono il ruolo dell’interprete così come è, non già così come dovrebbe essere per il futuro (12). I passi che ho riportato, infatti, descrivono lo stato della giustizia così com’è, non già il lavoro che occorre fare per ottenerla.
Orbene sul fatto che il giudice, quindi l’interprete, non sia più la bouche de la loi come predicava Montesquieu, ovvero che il giudice abbia il solo potere di applicare ciò che ha deliberato l’unico potere riconosciuto, quello legislativo, pare non cui siano dubbi, quantomeno nelle loro riflessioni. Così come non ci sono dubbi sul fatto che la statualità del diritto debba essere completamente ripensata sulla scorta dell’art. 117, comma 1º, cost., anche alla luce delle pronunce della Corte costituzionale secondo le
(11) Prosegue ancora il Procuratore generale osservando che «muovendosi su questo terreno impervio vi è il rischio che il magistrato possa divenire mediatore di conflitti, che cerchi il consenso dei cittadini, se non addirittura quello del popolo, con conseguente sua politicizzazione e susseguente radicalizzazione dello scontro con le parti politiche».
(12) Nelle relazioni degli anni precedenti l’accento è rivolto soprattutto alla tecnica della legislazione che non è più soddisfacente. In un passo si legge: «la situazione – che, va detto, non è dissimile da quella della legislatura precedente – non è molto cambiata neppure con la finanziaria per il 2008 (l. 24 dicembre 2007 n. 244) dotata di ben 1193 norme, ripartite, questa volta non sotto un unico articolo, ma in tre articoli separati per materia e per votazione: 387 commi ancorati all’articolo 1, 642 commi collegati all’articolo 2 ed, infine, 164 commi raggruppati sotto l’articolo 3»: nello stesso sito http://www.cortedicassazione.it/Documenti/.
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316 quali la normativa interna deve essere prima di tutto interpretata secondo le disposizioni delle CEDU e soltanto quando da questa interpretazione emerga un contrasto palese con la normativa interna il giudice deve sollevare la questione di legittimità con riferimento all’art. 117, comma 1º, cost. (13).
Con queste premesse, può essere utile verificare come i risultati di questa analisi trovino applicazione nelle decisioni prese su singoli casi.
(13) Cfr. Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239; Corte cost., 26 novembre 2009, n. 311, entrambe in http://www.cortecostituzionale.it/index.asp: «solo nel caso ritenga che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della Cedu (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante e tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli ritenga in contrasto con la suddetta convenzione e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, con riferimento al parametro ex art. 117, comma 1º, cost., ovvero anche ex art. 10, comma 1º, cost., qualora si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di un norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. Infatti, la clausola del rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, di cui all’art. 117 comma 1 cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone il controllo di costituzionalità qualora lo strumento dell’interpretazione sia ritenuto dal giudice comune insufficiente a eliminare il contrasto».
Ancora, secondo la Corte cost., 4 dicembre 2009, n. 317, ibidem, non si può consentire «che si determini, per il tramite dell’art. 117, comma 1º, cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno», ma, analogamente, non si può «ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale». Secondo la Corte, il «risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali».
Quest’ultima affermazione dà una preziosa chiave di lettura al rapporto tra gli ordinamenti: l’apertura del diritto interno alla sua dimensione sovranazionale non rappresenta, in negativo, un arretramento, ma, in positivo, una crescita globale che va nel senso dell’ampliamento della tutela dei diritti fondamentali.
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317 2. L’INTERPRETE, LA LEGGE NELLA DECISIONE DEL CASO GIUDIZIARIO
Vi sono precedenti in cui gli assunti riportate nel paragrafo prec. costituiscono una parte importante della motivazione che regge il dictum, anche se, in ipotesi, questo si sarebbe potuto sostenere altrimenti. Un buon banco di prova è dato dall’esame della Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741 (14), nella quale è stato riconosciuto il risarcimento del danno ad un minore nato con gravissime malformazioni dipese dalla somministrazione di medicinali prescritti dai medici curanti i quali non le avevano rilevate nel periodo di gravidanza e di sviluppo del feto. Orbene, senza rivoluzionare il collegamento tra la persona fisica e la capacità giuridica, stabilito dall’art. 1 c.c., da tempo i giudici avevano ritenuto che l’errore medico può essere rilevante anche quando sia compiuto prima della nascita, ad esempio durante il concepimento. Ciò che conta è che nasca un soggetto vivo, poiché in quel momento si perfeziona il fatto illecito fonte dell’obbligazione risarcitoria, secondo l’art. 1173 c.c.
Nel caso in decisione, si sarebbe potuto ripetere il cennato ragionamento per ottenere come risultato finale il risarcimento del danno subito in proprio dal minore, per le lesioni causa delle riduzione della invalidità permanente; oltre a quello subito dai genitori, per la violazione del diritto ad una genitorialità consapevole, causato dal fatto di fare nascere un figlio irrimediabilmente handicappato.
Ma l’obbiettivo del giudicante è diverso, mira a raggiungere quel risultato, ed è per questo che aggiunge un passaggio intermedio: attribuisce al concepito una soggettività giuridica che lo rende destinatario di doveri di protezione, pur in assenza della capacità giuridica. Infatti deve
(14) Cass., 11 maggio 2009, n. 10741, in Mass. Foro it., 2009; sulla quale sono molto pertinenti le osservazioni critiche di GALGANO, Danno da procreazione e danno al feto, ovvero quando la montagna partorisce il topolino, in Contratto e impr., 2009, p. 537 ss.
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«intendersi per soggettività giuridica una nozione senz’altro più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1, comma 1º, c.p.c.), con conseguente non assoluta coincidenza, da un punto di vista giuridico, tra soggetto e persona, e di quella di personalità giuridica (con riferimento agli enti riconosciuti, dotati conseguentemente di autonomia “perfetta” sul piano patrimoniale):
sono soggetti giuridici, infatti, i titolari di interessi protetti, a vario titolo, anche sul piano personale, nonché gli enti non riconosciuti (che pur dotati di autonomia patrimoniale
“imperfetta” sono idonei a essere titolari di diritti ed a esercitarli a mezzo dei propri organi rappresentativi […])» (15).
Ai nostri fini non interessa tanto valutare la bontà del dictum sul punto della soggettività del concepito, quanto il ragionamento seguito per giungervi. La premessa è che
«è indubbio che il vigente codice civile, contrariamente alle sue origini stanche sulla scia delle codificazioni europee ottocentesche che videro nel code napoleon la più evidente manifestazione, non rappresenta oggi più l’unica fonte di riferimento per l’interprete in un ordinamento caratterizzato da più fonti, tra cui una posizione preminente spetta alla Costituzione repubblicana del 1948 (che ha determinato il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, caratterizzato da un punto di vista giuridico dalla c.d. centralità della persona), oltre alla legislazione ordinaria (finalizzata anche all’adeguamento del testo codicistico ai principi costituzionali), alla normativa comunitaria, ed alla stessa giurisprudenza normativa»;
A ciò si deve aggiungere che
«tale pluralità di fonti (civilistiche) ha determinato i due suddetti fenomeni, tra loro
(15) Cass., 11 maggio 2009, n. 10741, cit.,
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319 connessi, della decodificazione e della depatrimonializzazione. […] In tale assetto ordinamentale rapporto della giurisprudenza, in specie di legittimità nell’espletamento della funzione di “nomofilachia” (vale a dire di indirizzo ai finii di un’uniforme interpretazione delle norme) della Corte di Cassazione, assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti in linea con la maggiore consapevolezza dei giudici di operare in un sistema ordinamentale che, pur essendo di civil law e, quindi, non basato su soli principi generati come avviene nei paesi di common law (Inghilterra, Stati Uniti ed altri), caratterizzati dal vincolo che una determinata pronuncia giurisprudenziale assume per le decisioni successive, si configura come semi-aperto perché fondata non solo su disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline ma anche su cd.
clausole generati, e cioè su indicazioni di “valori” ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, funzione sociale della proprietà, utile sociale dell’impresa, centralità della persona) che scientemente il legislatore trasmette all’interprete per consentirgli, nell’ambito di una più ampia discrezionalità, di
“attualizzare” il diritto, anche mediante l’individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi».
Queste le conclusioni:
«pertanto, proprio in virtù di una interpretazione basata sulla pluralità delle fonti e, nel caso in esame, sulla clausola generale della centralità della persona, si addiviene a ritenere il nascituro soggetto giuridico. Tale tesi trova conforto in numerose disposizioni di legge, oltre che in precedenti giurisprudenziali di questa Corte e della Corte Costituzionale».
La questione su cui riflettere è che il giudice, consapevole del ruolo assunto nel XXI secolo, ha avvertito la necessità di esplicitarlo prima di pronunciare il dictum che avrebbe potuto risultare da una diversa ratio decidendi (alternativa).
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320 3. LA RAGIONEVOLEZZA QUALE TECNICA DI DECISIONE CON FUNZIONE
CREATIVA DEL DIRITTO
Muovendo inizialmente dall’art. 3 cost., la Corte costituzionale ha creato il principio di ragionevolezza, con il quale giudica della costituzionalità delle leggi. Sulla base di questo principio, la Corte valuta la coerenza interna, la corrispondenza delle norme allo scopo impiegando, tra le altre, la regola della non contraddizione. In applicazione del cennato principio, la motivazione del dictum: a) esprime una comparazione fra le diverse posizioni utilizzando il principio di uguaglianza; b) valuta l’adeguatezza della disciplina sottoposta al giudizio rispetto al fine previsto dalla norma costituzionale; c) giudica della congruità e della razionalità della disciplina rispetto alla ratio legis (cosiddetta contraddittorietà interna) o alla disciplina di settore (cosiddetta contraddittorietà esterna) (16).
Certo il giudizio di ragionevolezza implica un «apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere» (17), tuttavia questo giudizio deve essere condotto entro limiti che impediscano al giudice di sconfinare nel merito delle opzioni legislative (18). È indubbio che la sua applicazione comporti un controllo della legge, quindi sul modo di esercizio del potere sovrano, da parte di chi non tecnicamente non è chiamato ad esercitare quel potere. In buona sostanza è l’interprete che, nell’esprimere il giudizio di costituzionalità, di fatto crea o cancella una norma giuridica.
Nel vigente sistema delle fonti articolato e gerarchico, il ruolo della Consulta è
(16) Cfr. MORRONE, Il custode della ragionevolezza , Milano 2001, p. 542; MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, p. 66.
(17) Corte cost., 28 marzo 1996, n. 89, in Giust. pen., 1996, I, p. 206.
(18) Già ESPOSITO, L’art. 3 della Costituzione e il controllo di ingiustizia delle leggi, in Giur. cost., 1958, p. 605 e PALADIN L.,voce aggiornata Ragionevolezza (principio di), in Enc. del dir., Milano, 1997, vol. I, p. 908.
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321 quello di chi concorre in misura rilevante nella creazione del diritto, di concerto con il legislatore (19). E questa situazione non è tipica dell’Italia, anche in altri paesi, come la Francia, quella situazione si ripete: con altro linguaggio c’è chi ha rilevato il punto di svolta «dal “dogma dell’infallibilità della legge” all’istituzione del controllo di costituzionalità» (20). Ed anche in quell’ordinamento il ruolo di protagonista della transizione l’ha assunto un giudice affatto simile alla nostra Corte costituzionale.
4. UN DIRITTO RILEVATO DALL’INTERPRETE COME FONTE DELLA REGOLA VIGENTE, CHE NON HA UNA DIRETTA FONTE STATUALE.
Ci sono casi in cui l’interprete, in ragione dell’articolazione del sistema delle fonti, desume l’esistenza di regole vigenti, che addirittura costituiscono limiti al diritto positivo, e che tuttavia non sono create secondo il principio della sovranità popolare legata al principio della rappresentanza politica. Il caso più noto è quello del rilievo che sta assumendo la nuova lex mercatoria, che spesso si manifesta nel fenomeno andato sotto il nome di shopping del diritto, patentemente in contrasto con la logica del diritto di fonte statuale (21). Fuori di questa vicenda, sulla quale da tempo c’è un cospicuo dibattito fra gli autori, nell’ambito dei diritti fondamentali dell’uomo si assiste ad un
(19) Cfr. VIOLANTE, Magistrati, Torino, 2009, p. 182, che affronta la questione esaminando l’indipendenza della magistratura, nel conflitto con il potere politico.
(20) PATRONI GRIFFI, Il conseil constitutionnel e il controllo della «ragionevolezza»: peculiarità e tecniche di intervento del giudice costituzionale francese, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1998, p. 39.
(21) Riesce difficile ormai riportare compiutamente di questo dibattito compiutamente, per dar conto di scuole differenti e di angoli prospettici diversi, cfr. GALGANO, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005;
ALAGNA, Mercato globale e diritto dell’impresa, Padova, 2009; IUDICA, Globalizzazione e diritto, in Contratto e impr., 2008, p. 867; FERRARESE M. R., Diritto sconfinato, Roma-Bari, 2006; ALPA, Il diritto commerciale tra lex mercatoria e modelli di armonizzazione, in Contratto e impr., 2006, p. 86; qualche cenno in FRANZONI, Vecchi e nuovi diritti nella società che cambia, ivi, 2003, p. 565.
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322 processo analogo, seppure palesatosi per motivi diversi da quelli che hanno fatto nascere la nuova lex mercatoria.
Quando i giudici sono chiamati a decidere su questioni che investono i diritti fondamentali della persona, ossia quei diritti che, per comune insegnamento, la repubblica riconosce e garantisce, poiché “trova” lungo il suo cammino (art. 2 cost.), il diritto positivo sembra dover segnare il passo. Un accenno a questo profilo lo si trova nell’art. 32, comma 2º, cost.: dopo aver affermato che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»; il costituente conclude: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Con ciò sembra quasi che i limiti ai diritti fondamentali non dipendano dalla legge; in effetti, gli interpreti individuano limiti alla normazione, non derivanti direttamente dal contrasto tra la legge ordinaria e la costituzione, bensì dal carattere ontologico di questi stessi diritti.
Così è stato deciso che i diritti fondamentali non possono essere abrogati, ma neppure radicalmente modificati da una legge ordinaria, poiché essendo “trovati” non sono soggetti al potere sovrano che deve cedere il passo alla superiorità dei valori desunta da un diritto naturale, che rimanda all’idea di un
«Giudice “naturale” dei diritti, cioè [a] quel Giudice ordinario che sarà sempre più impegnato nel proprio ruolo di “organo giudiziario di base” dello “spazio giudiziario europeo”, in quanto tale chiamato a esercitare Giustizia alla luce di principi garantistici comuni ai cittadini europei» (22).
(22) Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, cit., p. 29.
L’art. 6 Trattato UE, che, nella versione del Trattato di Lisbona, prevede (al terzo comma): «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».
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323 Coerentemente la Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 45, ha negato il referendum sull’intera l. 19 febbraio 2004, n. 40 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita). In applicazione di propri precedenti i giudici hanno riaffermato il principio secondo il quale
«le “leggi costituzionalmente necessarie”, “in quanto dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento» (23).
A questa regola non si sottrae neppure l’esercizio del potere sovrano nelle forme del referendum abrogativo, poiché la relativa disponibilità di certi diritti riguarda anche questo istituto, fondato su di un potere sovrano, sebbene esercitato con una tecnica diversa da quella della rappresentatività. Dall’articolazione del sistema delle fonti del diritto, deriva che il potere sovrano dello Stato è diventato “molto meno sovrano”;
proprio questo consente il rispetto di diritti fondamentali, che appaiono privi di una precisa dimensione territoriale, e la cui fonte, mediata dalla norma costituzionale, neppure rinvia al diritto positivo.
In un altro caso, la Cassazione ha dichiarato la giurisdizione italiana per una domanda di risarcimento del danno e per indennizzo ex art. 2041 c.c., promossa da un cittadino italiano, nei confronti, rispettivamente, della Repubblica Federale di Germania e della Daimlerchrysler. La vittima lamentava che il danno era stato conseguente alla sua cattura avvenuta durante l’occupazione nazista in Italia, nella seconda guerra
(23) Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 45, in Foro it., 2005, I, c. 629.
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324 mondiale, nel corso della quale era stata deportata in Germania, per essere utilizzato quale mano d’opera non volontaria al servizio di imprese tedesche. La doglianza è fondata sul fatto che tanto la deportazione, quanto l’assoggettamento ai lavori forzati, devono essere annoverati tra i crimini di guerra e, quindi, tra i crimini di diritto internazionale (24).
Il punto è se sussista il potere di un giudice di uno Stato di condannare un altro Stato per gli atti iure imperii da questo compiuti e subiti dal cittadino del primo Stato: tali sono indiscutibilmente gli atti posti in essere nel corso di operazioni belliche. In astratto, sarebbe di ostacolo a questa soluzione il principio della c.d. immunità ristretta, fondato sul diritto internazionale consuetudinario. Senonché ci sono numerosi precedenti nazionali ed esteri, secondo i quali, in forza del principio di adattamento sancito dall’art.
10, comma 1º, cost., le norme di diritto internazionale “generalmente riconosciuti” che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali, sono
“automaticamente” parte integrante del nostro ordinamento. Poiché i “crimini internazionali” in danno dei propri cittadini consistono in comportamenti che gravemente attentano all’integrità di tali valori, qualunque responsabile deve essere giudicato dal giudice nazionale (25). Di qui a dire che il rispetto dei diritti inviolabili della
(24) Cfr. Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, in Foro it., 2009, I, c. 1568, con nota di GANDINI. Diverso è il caso deciso da Cass. [ord.], sez. un., 27 maggio 2005, n. 11225, in Foro it., 2005, I, c. 3046, con nota di GIORGIANTONIO; e in Resp. civ., 2005, p. 1022, con nota di VITERBO, Sull’immunità dalla giurisdizione della repubblica Argentina nel caso dei c.d. Tangobond: «non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla controversia instaurata da un cittadino contro la repubblica Argentina relativamente alla vendita di bonds, posto che il mancato pagamento delle cedole in scadenza e delle somme scadute in conto capitale ha avuto diretta origine da provvedimenti legislativi ed atti normativi ad efficacia generale adottati dallo stato medesimo nell’ambito delle proprie sovrane prerogative, per motivi di emergenza pubblica, al fine di garantire la sopravvivenza economica della nazione».
(25) Cfr. Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5044, in Giust. civ., 2004, I, p. 1191, con nota di BARATTA, L’esercizio della giurisdizione civile sullo stato straniero autore di un crimine di guerra; in Resp. civ., 2004, p. 1030 (m), con nota di VITERBO, I diritti fondamentali come limite all’immunità dello stato; su questo precedente si sofferma anche
la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, in
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325 persona umana ha invero assunto, ormai, il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, il passo è breve. Se così è, si deve concludere che di fronte a queste esigenze devono cedere il passo anche norme di carattere consuetudinario che prevedano il rispetto della sovranità.
«Il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il valore di principio fondamentale, riducendo la portata e l’ambito di altri principi ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello del rispetto delle reciproche sovranità, cui si collega il riconoscimento dell’immunità statale dalla giurisdizione civile straniera» (26).
Con questa premessa, ecco è la ratio decidendi:
«la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta – che impone agli stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli stati stranieri per gli atti iure imperii – non ha carattere incondizionato, ma, quando venga in contrapposizione con il parallelo principio, formatosi nell’ordinamento internazionale, del primato assoluto dei valori fondamentali della libertà e dignità della persona umana, ne rimane conformata, con la conseguenza che allo stato straniero non è accordata un’immunità totale dalla giurisdizione civile dello stato territoriale, in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità che, in quanto lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità» (27).
La questione sulla quale vale la pena di soffermarsi è che i diritti fondamentali che
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%20anno%20giudiziario%202009.pdf, p. 19.
(26) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit.
(27) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit.
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326 tutelano la libertà e la dignità della persona umana non possono ricevere alcuna limitazione territoriale, esistono al di fuori del diritto positivo ed assumono
«il ruolo di principi fondamentali, per il loro contenuto assiologico di metavalore»
(28).
La loro esistenza, dunque, non dipende dal diritto positivo e dalla sua territorialità, bensì dall’attività dell’interprete che li scopre e così facendo li riconosce, evitando gli ostacoli, come quelli derivanti dagli usi internazionali. In una passo della motivazione è affermato:
«- che, nel ribadire ora le conclusioni cui sono già pervenute con il ricordato proprio precedente, queste Sezioni unite sono consapevoli di contribuire così alla emersione di una regola conformativa della immunità dello Stato estero, che si ritiene comunque già insita nel sistema dell’ordinamento internazionale;
- che, del resto, come anche sottolineato dalla dottrina internazionalistica più attenta al tema che ne interessa, sarebbe a dir poco “incongruo” che la giurisdizione civile, che l’ordinamento internazionale già consente di esercitare nei confronti dello Stato straniero in caso di violazioni, ad esso addebitabili, di obbligazioni negoziali, resti, invece, esclusa a fronte di ben più gravi violazioni, quali quelle costituenti crimini addirittura contro l’umanità, e che segnano anche il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità;
- che tutto ciò conferma che la Repubblica Federale di Germania non ha il diritto di essere riconosciuta, nella presente controversia, immune dalla giurisdizione civile del Giudice italiano – che va pertanto dichiarata – anche in ragione del fatto che la
(28) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit., in motivazione; FERRARESE M.R., Diritto sconfinato, cit., il titolo è di per sé esplicito.
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327 condotta illecita si è verificata anche in Italia» (29).
Nel processo di affermazione dei diritti inviolabili è frequente trovare nella motivazione delle decisioni il supporto di precedenti di corti straniere, i quali, a ben vedere, non assumo il valore del precedente in senso tecnico. La forza di convincimento di quelle decisioni non dipende dallo stare decisis adattato al principio di nomofilachia, ma dal contenuto assiologico di metavalore dei diritti fondamentali dell’uomo (30).
Siamo molto prossimi ad una idea attualizzata di diritto naturale.
5. LE REGOLE CREATE DAGLI INTERPRETI PER MODIFICARE IL DIRITTO POSITIVO AL DI FUORI DEL SISTEMA DELLE FONTI DI PRODUZIONE
Quando l’interprete debba applicare una clausola generale, come la correttezza o la buona fede contrattuali, va da sé che il precetto normativo possa cambiare nel corso del tempo. In questo si ravvisa il patto fra il legislatore e l’interprete in forza del quale il primo ha scelto di delegare al secondo il compito di redigere la norma. Al riguardo può solo darsi atto che clausole generali o principi generali incominciano ad essere introdotti dal diritto comunitario, come risultato dell’attività interpretativa della Corte giustizia Comunità europee. Penso al caso in cui il collegamento contrattuale venga inteso come operazione funzionale a scorporare da una prestazione unitaria (il canone di leasing per un autoveicolo) tante prestazioni alcune soltanto soggette all’imposizione IVA. La nostra cassazione, sulla base di una decisione comunitaria (31),
(29) Cass. [ord.], sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, cit., in motivazione.
(30) La stessa constatazione è fatto da VIOLANTE, Magistrati, cit., p. 9, a proposito della tecnica di motivazione impiegata nelle diverse sentenze sulla vicenda Englaro; sulle diverse sentenze mi sono soffermato in FRANZONI, Testamento biologico, autodeterminazione e responsabilità, in La responsabilità civile, 2008, p. 581 ss., spec. § 4.
(31) Cfr. Corte giustizia Comunità europee, 21 febbraio 2006, n. 255/02, in Riv. dir. trib., 2006, III, p. 107, con
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328 ha deciso che
«si deve considerare abusiva del diritto tributario comunitario quella pratica contrattuale nella quale il frazionamento delle prestazioni contrattuali in una pluralità di distinti contratti abbia come effetto quello di limitare il prelievo a quella tra le prestazioni che abbia meno rilevanza, nonostante sia presente una finalità complessivamente unitarie delle stesse e non sussistano finalità economiche non marginali e non teoriche ulteriori rispetto al risparmio fiscale» (32).
Qui la particolarità della vicenda è che la fonte del diritto appare in modo importante mediata dall’intervento di un giudice (comunitario prima e statale dopo) per indicare l’esistenza di un principio vigente nell’ordinamento giuridico. Ciò denota un certo allentamento nella produzione del diritto positivo tradizionale al cospetto di un diritto vivente che si crea con il concorso dei tecnici, i giudici in primo luogo, espressione soltanto in senso molto lato del potere sovrano del popolo.
Diverso è quando l’interprete debba applicare una norma a fattispecie determinata, come suol dirsi, rispetto alla quale il suo ruolo debba essere più propriamente quello di portavoce del legislatore. Un esempio che vale la pena di essere riportato per l’importanza ed il clamore che ha avuto è la vicenda che ha riguardato l’art. 2059 c.c., secondo il quale «il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge». Per più di sessant’anni i casi previsti dalla legge sono stati soltanto quelli in cui la legge di rinvio conteneva espressamente la menzione dei danni non patrimoniali. La norma emblematica era l’art. 185, comma 2º, c.p.: «Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al
nota di POGGIOLI, La corte di giustizia elabora il concetto di «comportamento abusivo» in materia d’iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, ha deciso che l’abuso di diritto sia un principio generale dell’ordinamento comunitario.
(32) Cass., sez. trib., 17 ottobre 2008, n. 25374, in Bollettino trib., 2008, p. 1766.
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329 risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui». Nella norma riportata non c’è soltanto una generica previsione di risarcimento del danno, come in tante altre norme, ad es. l’art. 7, comma 1º, c.c., a proposito della tutela del diritto al nome, c’è un espresso riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale.
Nelle sentenze Cass., 31 maggio 2003, n. 8828; e Cass., 31 maggio 2003, n.
8827 (33) è affermato che quando l’interesse leso alla persona sia di rilievo costituzionale, poiché lede una posizione di rilievo ai sensi dell’art. 2 cost., allora la riserva di legge posta dall’art. 2059 c.c. è soddisfatta, anche in mancanza di uno schema riconducibile all’art. 185, comma 2º, c.p. Come si può notare l’operazione svolta dall’interprete consiste nel desumere da una norma di rango costituzionale la legittimazione a modificare il consolidato orientamento di una norma ordinaria. In passato si riteneva che una tale operazione fosse possibile soltanto attraverso una legge di riforma oppure attraverso una sentenza della Consulta che legittimasse in qualche modo la nuova interpretazione di quella norma di diritto oggettivo.
In concreto accade che il diritto vivente pone una norma nuova pur con una procedura diversa da quella seguita dal sistema delle fonti di produzione del diritto positivo. In altri termini, grazie all’attività dell’interprete, nell’ordinamento giuridico si determinano le condizioni per una sua autopoiesi, poiché a certe condizioni non è più necessario l’intervento esterno: quello del legislatore (34).
(33) Sono pubblicate su tutte le principali riviste, fra le quali in Corriere giur., 2003, p. 1017, con nota adesiva di FRANZONI, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta nel danno alla persona, sulle quali si avrà modo di ritornare più volte in seguito. Queste decisioni vanno lette di concerto con la Corte cost., 11 luglio 2003, n.
233, ibidem.
(34) Cfr. IRTI, Crisi mondiale e diritto europeo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 1243 ss., richiama l’autopoiesi giuridica, che vede la creatura farsi creatore, e negare o dimenticare il rapporto di derivazione da altrui volontà.
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330 6.
SEGUE
: LA CREAZIONE DI UNA REGOLA PER LE LITI FUTURE AL DI FUORIDEL SISTEMA DELLE FONTI DI PRODUZIONE
Sulla scia di questi ragionamenti vi sono almeno un paio di vicende nelle quali la Cassazione ha assunto un chiaro atteggiamento autopoietico. Un primo riguarda il tema del risarcimento del danno da lesione degli interessi legittimi: (a) per lungo tempo ci si è chiesti se anche il giudice ordinario fosse competente a pronunciarsi sulla domanda di danni; (b) ci si è chiesti ancora se il giudice amministrativo potesse pronunciarsi soltanto qualora la domanda fosse stata preceduta dalla richiesta di annullamento dell’atto, conseguentemente se la domanda risarcitoria dovesse essere presentata nel termine di 60 giorni come richiede l’art. 21, comma 1º, l. 6 dicembre 1971, n. 1034.
Dopo un’ampia ed articolata motivazione, con due precedenti resi a sezioni unite, la cassazione ha deciso che il giudice competente a pronunciare il risarcimento del danno sia soltanto il giudice amministrativo, ma che lo possa fare anche in mancanza di una domanda diretta ad ottenere l’annullamento dell’atto. Quindi che la domanda risarcitoria può essere esperita senza l’osservanza di alcune termine di decadenza, purché non sia prescritto il diritto al risarcimento:
«18. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili, oltre che ad una pubblica amministrazione, a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l’atto sia capace di esplicare i propri effetti perché il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo. Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover
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331 osservare allora il termine di decadenza pertinente all’azione di annullamento» (35).
Fin qua nulla di eccezionale, la Cassazione ha risolto un conflitto di giurisdizione, con una motivazione coerente e congruente. Senonché lo stesso giudice ha ritenuto di dover prefigurare uno scenario futuro in un obiter dictum, di fatto dettando una regola procedurale volta a disciplinare il corretto funzionamento della giurisdizione. Sulla base di questa premessa:
«tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l’illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento, né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità».
Questa è la conclusione:
«se l’esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti […], il giudice amministrativo avrà […] rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene, [quindi] la sua decisione, a norma dell’art. 362, comma 1º, c.p.c., si presta a cassazione da parte delle sezioni unite quale giudice del riparto della giurisdizione» (36).
(35) Cass. [ord.], sez. un., 13 giugno 2006, n. 13659 (e n. 13660), in Foro it., 2007, I, c. 3187, con nota di LAMORGESE, Esercizio del potere e risarcimento del danno: le sezioni unite «creano» una nuova giurisdizione esclusiva; in La responsabilità civile, 2006, p. 988, con nota di FERRI, Le pretese al risarcimento del danno nei confronti della pubblica amministrazione: le sezioni unite riconoscono la giurisdizione del giudice amministrativo.
(36) Cass. [ord.], sez. un., 13 giugno 2006, n. 13659 (e n. 13660), cit.
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332 Un modello analogo a quello appena descritto lo troviamo anche in un’altra importante decisione presa a sezioni unite sulla vicenda del danno esistenziale. Il capo della decisione possiamo definirlo marginale, poiché non riguarda in senso tecnico le questioni poste dal danno esistenziale, ma soltanto quelle dei c.d. “danni bagatellari”, normalmente oggetto di giudizio dal giudice di pace. Dopo aver ampiamente ed esaustivamente posto i limiti all’interpretazione dell’art. 2059 c.c., sulla base della norma costituzionale, così prosegue:
«3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.
La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost., n. 206/2004)» (37).
Tecnicamente anche questo è un obiter dictum che, nel contesto della motivazione, si giustifica per il fatto che la Cassazione ha voluto mandare un messaggio diretto a disciplinare le regole della formazione del decisum. È una tecnica autopoietica come quelle delle quali ho dato conto.
(37) Cass., sez un., 11 novembre 2008, n. 26972, in tutte le principali riviste, fra cui Corriere giur., 2009, p. 5, con nota di FRANZONI, Il danno non patrimoniale del diritto vivente; e in La responsabilità civile, 2009, numero speciale. La Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206, in Foro it., 2007, I, c. 1365, con nota di RUGGIERI, Il giudizio di equità necessario, i principî informatori della materia e l’appello avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace a norma dell’art. 113, comma 2º, c.p.c., ha deciso che «è incostituzionale l’art. 113, comma 2º, c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, nel decidere secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 c.c., debba osservare i principî informatori della materia».
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333 7. NEGLI SPAZI VUOTI LASCIATI DALLE NORME L’INTERPRETE CREA NUOVE
REGOLE, PER RIDURRE IL NUMERO DI LITI:
A
) LA INESISTENZA DELLA PROCURA ALLE LITINormalmente chi vuol fare valere un suo diritto deve rivolgersi ad un giudice ed essere patrocinato da un difensore. Il patrocinio presuppone un mandato con rappresentanza, poiché la parte sta in giudizio nella persona del suo procuratore legale.
Da ciò discende che l’avvocato non è mai personalmente parte del processo, essendo rappresentante, appunto. Con questa premessa dai toni molto istituzionali, ci possiamo avvicinare al tema affrontato in alcune decisioni in punto di condanna alle spese legali, nell’ipotesi di inesistenza o falsità e nullità del mandato. Per lungo tempo è stato deciso che, in applicazione della premessa riportata, soltanto la parte potesse essere destinataria della condanna:
«4.1. – In particolare, con le sentenze 3510/69 (id., Rep. 1973, voce Spese giudiziali civili, n. 33 a); 11689/00 (id., Rep. 2000, voce Procedimento civile, n. 106) e 13898/03 (id., Rep. 2003, voce Spese giudiziali civili, n. 22), si è, rispettivamente, affermato che:
a) ritenuta l’invalidità della procura ad litem nel rapporto tra parte e procuratore, il giudice deve ritenere non costituita la parte con gli effetti della contumacia o dell’improcedibilità dell’appello ex art. 171, 291, 347 e 348 c.p.c., ma “non può derivare l’inverosimile finto effetto di dover considerare parte il procuratore munito del mandato invalido” né tanto meno giustificare la condanna dello stesso in proprio alle spese del giudizio, non potendo in alcun modo riferirsi a lui il concetto di soccombenza»
(38).
(38) Cass., sez. un., 10 maggio 2006, n. 10706, in Foro it., 2006, I, c. 3099, con nota di CIPRIANI.
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334 Da qualche tempo, invece,
«4.2. – Con argomentazione a contrario, rispetto a quelle svolte nelle su riferite pronunzie, le sentenze 1780/94 (id., Rep. 1994, voce Procedimento civile, n. 80);
4462/95 (id., 1995, I, 3431); 5955/96 (id., 1997, I, 2644) e 9561/97 (id., Rep.
1998, voce Cassazione civile, n. 131) pervengono, invece, all’opposta conclusione che, nell’ipotesi considerata, di difetto di valida procura alle liti, parte del giudizio non possa essere altri che il difensore che l’ha instaurato, poiché in ragione appunto di una siffatta carenza del mandato difensivo, «l’attività processuale del difensore non può spiegare effetti nella sfera giuridica, della parte, essendo l’atto di conferimento della c.d.
rappresentanza tecnica – o di designazione del difensore ... – elemento indispensabile della fattispecie legale in forza della quale l’esercizio dello ius postulandi da parte del legale diviene attività della parte» (così, testualmente, sent. 1780/94)» (39).
Questa è la decisione finale:
«nel caso di azione o impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla base dunque di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quelle cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio;
diversamente, invece, nel caso di invalidità o sopravvenuta inefficacia della procura ad litem, non è ammissibile la condanna del difensore alle spese del giudizio, in
(39) Cass., sez. un., 10 maggio 2006, n. 10706, cit.
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335 quanto l’attività processuale è provvisoriamente efficace e la procura, benché sia nulla o invalida, è tuttavia idonea a determinare l’instaurazione di un rapporto processuale con la parte rappresentata, che assume la veste di potenziale destinataria delle situazioni derivanti dal processo» (40).
L’impressione che si riceve dalla lettura di queste sentenze è che l’interprete, nelle pieghe delle norme vigenti, sia alla ricerca di una soluzione che consenta una economia nell’impiego del rimedio giudiziario. Del resto non è facilmente spiegabile la ragione per la quale il processo nei confronti dell’avvocato possa terminare anche soltanto dopo un grado di giudizio, come accade quando sia inesistente la procura per il giudizio in cassazione. Il senso della decisione, seppure limitato alla inesistenza e non anche alla nullità della procura, è che in questo modo si limita il ricorso alla giustizia, sullo sfondo c’è l’idea che, come per la lite temeraria (art. 96 c.p.c.) (41), il giudice del giudizio possa essere quello meglio in grado di valutare anche le questioni collaterali.
Qui abbiamo la creazione di una regola, tra le norme del diritto oggettivo, con la modalità che abbiamo esaminato, anche qui al di fuori delle tradizionali fonti di produzione. Tutto ciò con l’avallo sostanziale della Corte costituzionale che, essendo stata chiamata a decidere sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 82 e 91 c.p.c. ha concluso per la manifesta infondatezza, in riferimento agli artt. 3 e 24 cost.
(42).
(40) Cass., sez. un., 10 maggio 2006, n. 10706, cit., § 6.
(41) Cfr. fra le ultime, Cass., 26 gennaio 2004, n. 1322, in Giur. it., 2004, p. 2041.
(42) Cfr. Corte cost. [ord.], 30 novembre 2007, n. 405, in Giust. civ., 2008, I, p. 42.
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336 8.
SEGUE
:B
) IL FRAZIONAMENTO DELLA DOMANDA GIUDIZIALEChe cosa accade se un creditore di 100, anziché chiedere il pagamento in un’unica causa, scelga di promuovere 10 o addirittura 100 giudizi verso il medesimo debitore? La vicenda ha avuto una rapida soluzione con due pronunce a breve distanza di tempo l’una dall’altra. In una prima la suprema corte ha ritenuto ammissibile il ricorso avverso la sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità in una controversia in cui la domanda principale, ove non sommata a quella di risarcimento danni per il comportamento processuale della controparte, si manteneva nei limiti fissati dall’art.
113 c.p.c.:
«non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buonafede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale» (43).
Una prima risposta, dunque, è stata quella di ricondurre la vicenda nell’ambito dell’art. 96 c.p.c., valutando alla stregua di una lite temeraria il comportamento
(43) Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Mass. Foro it., 2007, è il principio di diritto contenuto nella sentenza.
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337 processuale della parte. Dopo qualche tempo sulla medesime vicenda i giudici hanno proceduto oltre, ed in questo consiste proprio la creazione di una norma nuova: occorre assicurare la effettività ai
«principi della buona fede e correttezza anche in campo processuale, tra l’altro non alterando il giusto equilibrio degli opposti interessi delle parti contrapposte ed evitando il rischio di peggiorare la posizione del debitore “… sia per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo come propriamente nel caso esaminato dalla citata Sez. un. n. 108/00 cit., in cui la richiesta di pagamento per frazione era finalizzata ad adire un giudice inferiore rispetto a quello che sarebbe stato competente a conoscere dell’intero credito, sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie ... ”; ed inoltre nella necessità di evitare ai principi del giusto processo un “...Ulteriore vulnus...? che ...” deriverebbe, all’evidenza, dalla formazione di giudicati (praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate alto stesso rapporto. Mentre l’effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta (ove consentita) moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora altro aspetto di non adeguatezza rispetto all’obiettivo, costituzionalizzato nello stesso art.
111 cost., della “ragionevole durata del processo”, per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata» (44).
(44) Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, in Mass. Foro it., 2008.
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338 Con tali premesse questo è il principio di diritto che corrisponde alla ratio decidenti della controversia:
«Non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo; tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di detto credito vanno dunque dichiarate improponibili» (45).
Il dictum è molto forte, poiché dalla violazione della correttezza e della buona fede i giudici fanno dipendere la improponibilità della domanda, oltre che la responsabilità. Alla responsabilità per violazione della buona fede ci si era abituati oltre che dalla tradizione giuridica anche dalla recente vicenda in tema di obblighi di informazione dell’intermediario finanziario: la violazione del dovere di informazione riconducibile alla buona fede è causa di responsabilità e non di nullità del contratto concluso in violazione di quell’obbligo (46). Non era immediatamente prospettabile che,
(45) Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, cit.
(46) Cfr. Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it., 2006, I, c. 1105, con nota di SCODITTI, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale; in Danno e resp., 2006, p. 25, con nota di ROPPO e AFFERNI, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale; in Contratti, 2006, p. 446, con nota di POLIANI, La responsabilità precontrattuale della banca per violazione del dovere di informazione; in Mondo bancario, 2006, fasc. 1, p. 53 (m), con nota di LEMMA, Violazioni delle regole di condotta nello svolgimento dei servizi di intermediazione finanziaria e tutela giurisdizionale; in Corriere giur., 2006, p. 669, con nota di GENOVESI, Limiti della “nullità virtuale” e contratti su strumenti finanziari; in Nuova giur. civ., 2006, I, p. 897, con nota di PASSARO, Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi informativi: validità dei contratti e natura della responsabilità risarcitoria; in Resp. civ., 2006, p. 1080, con nota di GRECO, Difetto di accordo e nullità dell’intermediazione finanziaria; in Giur. it., 2006, p. 1599, con nota di SICCHIERO, Un buon ripensamento del supremo collegio sulla asserita nullità del contratto per inadempimento; in Impresa, 2006, p. 1140, con nota di FACCHIN, Comportamento scorretto dell’intermediario e tutela dell’investitore; e in Giur. comm., 2006, II, p. 626, con nota di SALODINI, Obblighi informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del danno – La cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in motivazione, § 6.2; quella sentenza che dal numero degli annotatori palesa l’interesse che aveva riscosso fra gli interpreti, è stata successivamente confermata nel dictum dalla Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., 2008, c. 784, con nota di SCODITTI, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite; seguita dalla Cass., sez.