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Quale agenda per la giustizia penale?

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Academic year: 2021

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Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | Telefono: 0289283000 | Fax: 0292879187 | redazione@penalecontemporaneo.it Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò 2010-2012 Diritto Penale Contemporaneo

QUALE AGENDA PER LA GIUSTIZIA PENALE?

di Domenico Pulitanò

SOMMARIO:1. La relazione dei saggi: un possibile punto di partenza? – 2. L’obiettivo prioritario: deflazione penalistica. – 3. Questioni relative all’azione penale. – 4. Questioni relative alla garanzia di sfere di riservatezza. – 5. I tempi della giustizia. – 6. Questioni relative alla prescrizione. – 7. I nodi critici. Giustizia penale, etica, politica.

1. La relazione dei saggi: un possibile punto di partenza?

Problemi e proposte concernenti il diritto e la giustizia penale sono fra gli argomenti toccati nella Relazione finale del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, istituito dal Presidente della Repubblica il 30 marzo 2013. La relazione, che reca la data del 12 aprile, sembra lontana. Il nuovo Ministro della giustizia, nella sua audizione in Commissione giustizia Senato del 20 maggio, ha ripreso alcuni temi particolarmente significativi.

Può avere senso cercare un punto di partenza nel lavoro dei quattro c.d. saggi (Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante)? Quanto meno sul piano metodologico, ciò sarebbe coerente con il senso nobile del percorso indicato dal più saggio dei nostri politici, il Presidente della Repubblica: un impegno comune per soluzioni condivise di alcuni problemi, lasciando fra parentesi (momentaneamente) le differenze. In questo difficile percorso è nato l’attuale governo, la strana maggioranza che vede alleate forze politiche profondamente diverse e avverse, e che appare messa in sofferenza anche da questioni contingenti di giustizia penale. Il Ministro Cancellieri ha parlato di strada obbligata, quella dell’assunzione di una comune responsabilità per il pianeta giustizia, e di confronto aperto e attento con tutte le componenti del mondo giudiziario. Attento alla cultura giuridica, mi piace intendere: l’approccio prospettato «richiede una tensione verso un cambiamento di passo sul piano organizzativo ma soprattutto culturale».

Con un misurato ottimismo della volontà, sarebbe bello immaginare che, paradossalmente, la convergenza obbligata di avversari/alleati possa essere – anche sul terreno minato del penale – un’occasione (certo difficile) per rimodulare le forme del confronto, uscendo dallo schema agonistico (Guelfi contro Ghibellini, buoni contro cattivi) e rivalutando il senso politico del compromesso1.

Compromesso è un concetto ambivalente, aperto a valutazioni opposte. C’è chi, nel gergo nostrano, lo riduce a inciucio. Ma può avere connotazioni positive, di apertura alla cooperazione sulla base di una realistica valutazione delle alternative

1 Sulla linea additata da MARGALIT, On Compromises and rotten Compromises, Princeton University Press, 2010; traduzione italiana col titolo Sporchi compromessi, Il Mulino, 2010.

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2 possibili, di capacità di puntare su un second best. Può essere la scelta suggerita dall’etica della responsabilità: «gli ideali possono rivelare qualcosa di importante rispetto a ciò che vorremmo essere, ma i compromessi ci rivelano chi effettivamente siamo»2.

Questioni di giustizia oppongono resistenza a logiche di compromesso. Ci sono questioni di principio, non negoziabili. Un cambiamento di passo e di indirizzo culturale richiede scelte politiche e tecniche ben profilate. Ma anche la ricerca di ragionevoli compromessi può essere l’avvio di un percorso, quanto meno la via d’uscita da strumentalizzazioni, ricatti, pretese fondamentaliste. La necessità di cooperare con l’avversario è per ciascuno una messa alla prova delle capacità di ascolto e di proposta, di razionalità, di accordo ragionevole.

Su questa strada, riallacciarsi al lavoro dei c.d. saggi (o facilitatori), primo tentativo di verifica e costruzione di consensi, può essere una saggia alternativa allo sbandierare e contrapporre agende di parte. In relazione ai problemi del penale, significherebbe imboccare la strada (per quanto possibile) della rinuncia a strumentalizzazioni di argomenti di forte valenza politica, quali sono i temi del contrasto alla criminalità (o a particolari forme di criminalità, variamente selezionate dai diversi attori del teatro politico) e dell’amministrazione della giustizia penale.

Non scommetterei su questo scenario, e forse l’evocarlo può suonare provocatorio. Può essere una provocazione a riflettere (tutti quanti, noi giuristi compresi) sulle condizioni e possibilità di politiche penali non strumentali alla politique politicienne, non subalterne a paure diffuse o a interessi forti; e capaci invece di costruire soluzioni idonee di almeno alcuni problemi.

2. L’obiettivo prioritario: deflazione penalistica

Nella relazione dei saggi i temi del penale occupano il primo e più ampio spazio nel capitolo dedicato alla amministrazione della giustizia (§. 22 – 25). Accanto ad indicazioni molto generiche (retoricamente appaganti, poco stringenti) troviamo indicazioni abbastanza specifiche, relative sia al diritto penale sostanziale, sia al processo penale, a una forte attenzione al sovraffollamento carcerario, giustamente definito insostenibile.

La riduzione dell’ipertrofia del contenzioso, additata fra gli obiettivi generali da perseguire nel campo della amministrazione della giustizia, nell’orizzonte penalistico può significare riduzione dell’ipertrofia di che cosa? Del penale sostanziale? Dei carichi processuali? Del numero dei carcerati? Tutti questi piani meritano considerazione; il penale sostanziale è, logicamente, il primo e più basilare.

Riguardano il penale sostanziale le seguenti proposte: possibilità di riconoscere l’irrilevanza del fatto ai fini della non configurabilità del reato; possibilità di considerare le eventuali condotte riparatorie come cause estintive del reato in casi lievi; maggiore spazio per

2 MARGALIT, op. cit., p. 11, 126.

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3 pene alternative alla detenzione, anche come pene principali; un ampio processo di depenalizzazione (cioè di opzione per sanzioni non penali). Questa linea è stata ripresa dal Ministro: nella prospettiva della razionalizzazione del sistema sanzionatorio: «andrebbe affrontato, in termini condivisi, sia un percorso di decriminalizzazione astratta (ossia di abrogazione di fattispecie di reato o trasformazione di reati in illeciti amministrativi), che di depenalizzazione in concreto, attraverso l’introduzione dell’istituto dell’irrilevanza del fatto e di meccanismi di giustizia riparativa». È la strada già imboccata dal disegno di legge approvato a larga maggioranza dal Senato il 4 dicembre 2012, decaduto per fine legislatura.

Il Ministro ha additato come idea guida il «principio del minor sacrificio possibile della libertà personale», e ha ricordato che la Corte costituzionale vi ha

«ripetutamente fatto richiamo». Lo ha fatto con riguardo alle misure cautelari personali (a partire dalla sentenza n. 265/2010) ed alle misure di sicurezza (a partire da n.

253/2003); il riferimento al sistema sanzionatorio è una ulteriore estensione, in linea con l’orientamento prevalente della dottrina.

Nell’attuale contesto politico, la retorica del diritto penale minimo si lega bene alla priorità ed urgenza del problema carcere: ridurre la popolazione carceraria, eliminare le condizioni invivibili per le quali l’Italia è stata condannata dalla Corte EDU. Si tratta di una linea largamente condivisa a parole, largamente disattesa nei fatti.

Gli atteggiamenti prevalenti di fronte al penale – nella politica, nei media, fra la gente – presentano una interna scissione, secondo che si guardi al delinquente, autore di reato, o all’uomo in carcere. Verso i criminali (le categorie stigmatizzate come tali) si chiede pugno duro. Di fronte a problemi concreti di disciplina appare più facile – e politicamente appagante – ricorrere ai classici strumenti penali. Il trend prevalente negli interventi legislativi sulla parte speciale (quelli in cui viene presentata la linea politica di fronte al problema “criminalità e sicurezza”) è di espansione del penale e di crescente severità punitiva. Securitarismo di destra e giustizialismo di sinistra vanno spesso nella medesima direzione, differenziandosi nella individuazione dei campi in cui si invoca più penale.

Rispetto agli scenari del recente passato, le proposte dei saggi e del Ministro sul penale sostanziale sono un primo abbozzo di una agenda filtrata da differenti punti di vista politici, e segnano un possibile cambio d’indirizzo culturale: una cornice che taglia fuori i tentativi (fin qui frequenti) di agitazione propagandistica di questo o quel tema, e di proposte che si sanno divisive.

Il problema del sovraffollamento carcerario interpella direttamente il diritto penale, nelle sue strutture di fondo. Ha a che fare con i limiti del penale: sia dei precetti rafforzati dalla minaccia di pena detentiva, sia delle sanzioni edittali e delle commisurazioni giudiziali (e dell’uso della custodia cautelare). Le proposte sul tappeto riguardano i piani inferiori dell’edificio penalistico: fatti bagatellari o di lieve entità che possano essere portati fuori dal penale o quanto meno dal circuito carcerario. Il campo considerato è abbastanza ampio (reati attualmente puniti con pena detentiva fino a quattro anni). Le soluzioni (detenzione domiciliare come pena principale; sospensione

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4 del processo con messa alla prova) possono essere meglio profilate, e integrate (o sostituite) da indicazioni migliori. L’indicazione di fondo va nella direzione giusta.

Il problema carcere riguarda anche (e soprattutto) il nucleo duro del penale: i piani alti della scala di gravità dei delitti, per i quali il carcere è risposta adeguata.

Nelle aule di giustizia, condanne a molti anni di reclusione sono esiti enfatizzati (spesso acclamati) nel teatro mediatico. Spesso sono scelte il cui rapporto col principio di legalità è piuttosto labile: i criteri di commisurazione dettati dall’ordinamento, nella loro genericità e onnicomprensività, nelle mani di un giudice esperto si prestano a motivare soluzioni diverse, il cui fondamento va ricercato altrove, forse soprattutto in soggettive concezioni di giustizia o di esemplarità punitiva. In risposta a fatti valutati come molto gravi, nella severità punitiva in sede di commisurazione sembra leggibile un sincero e bene intenzionato moralismo giudiziario, probabilmente coerente con un sentire diffuso, forse dominante nell’opinione pubblica, che di fatto fa propria un’ottica retributiva: il rigorismo punitivo come espressione della severità di un giudizio anche morale.

Ma il significato morale della severità punitiva è tutt’altro che scontato. La pena, ha scritto un autorevole sostenitore della concezione retributiva3, è un male «se viene interpretata in termini di natura, sotto il profilo del dolore o della sofferenza»;

ma «occorre distinguere tra un male che è tale solo sul piano naturalistico [...] e un male di natura morale». La pena retributiva è «una nozione il cui contenuto non può esaurirsi nel mondo naturalistico ma deve estollersi in quello dei valori»; ciò significa che «la pena è un valore, vale a dire un’esigenza giuridico-morale, e quindi un bene».

Le formule suonano bene, e additano il problema: la pena deve estollersi nel mondo dei valori, altrimenti è quello che è naturalisticamente: dolore e sofferenza. Il

“bene” della pena è problematico, sta sul piano di un dover essere. Il dover essere della pena giusta, per definizione, potrebbe non realizzarsi nella realtà di leggi punitive e di pratiche punitive, la cui qualità di giustizia è sempre discutibile, spesso discussa, talora categoricamente da negare.

In uno scritto di alta divulgazione recentemente tradotto in italiano, un autorevole penalista tedesco addita questa giustificazione del punire: poter far valere che, senza la comminazione ed esecuzione della pena, il mondo si troverebbe in una condizione peggiore4. È un punto di vista ragionevole, che può servire da controllo critico di tutte le scelte in materia di pena.

La misura delle pene in concreto irrogate sta ai margini della riflessione dottrinale, pur essendo la sostanza del penale applicato in concreto. Al di là delle personali valutazioni, ritengo che via sia una forte esigenza (morale e politica) di un confronto dispiegato con le ragioni sottese al rigore (o al lassismo) punitivo, vuoi del legislatore, vuoi dei giudici.

3 BETTIOL, Punti fermi in tema retributiva: uno scritto del 1960, ripubblicato nella raccolta di Scritti giuridici, Padova, 1966, 937s.

4 HASSEMER, Perché punire è necessario, Bologna, 2012, 68 s.

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5 Per quanto concerne il law enforcement penalistico, la relazione dei saggi addita (nel §. 22) l’obiettivo generale di «maggiore efficacia dell’azione preventiva e repressiva, oltre che dei fenomeni della criminalità organizzata, dei fenomeni di corruzione nella vita politica, amministrativa ed economica».

Pur nella sua genericità, questa indicazione pone in primo piano un’esigenza di efficacia rispetto a finalità di politica del diritto, che costituiscono uno dei termini ineludibili del problema penale: il polo della tutela di diritti e interessi importanti con gli strumenti del diritto penale. L’accento cade sull’efficienza dell’agire concreto. Per quanto concerne le norme penali, viene additata (§. 23) l’esigenza di colmare le lacune più evidenti, come la mancata previsione dei reati di tortura e di trattamento inumano e degradante. È questa l’unica (e opportuna) indicazione contenutistica specifica relativa al diritto penale sostanziale, che vada nella direzione di un più penale: un penale che sta tutto dal lato della tutela dei diritti della persona nei confronti di abusi d’autorità.

Nel senso del rafforzamento di strumenti penali vanno altre proposte sul tappeto, come quella del sen. Grasso ed altri in materia di corruzione, false comunicazioni sociali, autoriciclaggio. Meritano attenta considerazione (che significa anche controllo tecnico) le proposte che intendono colmare lacune dell’ordinamento.

Quanto alle pene, possono esservi esigenze di riequilibrio fra i vari pezzi di un mondo di pene edittali che è stato oggetto di tanti interventi settoriali ed ha perso coerenza assiologica. Riequilibrio dei pezzi, non inasprimento complessivo: un riequilibrio che può richiedere qualche aggiustamento verso l’alto, e più aggiustamenti verso il basso.

Un esempio che merita riflessione, anche per taluni aspetti ambigui: la richiesta di eliminare la pena detentiva in materia di diffamazione. L’agenda delle riforme dovrebbe mantenere il cambio di passo verso un meno penale, e soprattutto verso meno carcere, non a beneficio selettivo di categorie privilegiate, ma cercando di ricostruire una scala coerente di gravità (in termini sia comparativi che assoluti).

3. Questioni relative all’azione penale

Con riguardo al processo penale, le proposte dei saggi sono in prevalenza orientate al polo delle garanzie; le più significative implicano delicati bilanciamenti fra esigenze investigative e limiti garantisti. Quella di maggiore impatto sistematico riguarda l’esercizio dell’azione penale: l’esigenza di «contenere, sul piano penale e della giustizia contabile, il fenomeno di iniziative che tendono ad intervenire anche in sostanziale assenza di vere, oggettive e già acquisite notizie di reato o di danno erariale, in funzione di controllo generalizzato su determinati soggetti o procedimenti».

Si tratta di uno snodo cruciale del sistema di giustizia penale e dei rapporti fra istituzioni, cui ha dedicato particolare attenzione uno dei quattro saggi, Luciano Violante.

Analizzando gli usi della formula “controllo di legalità”, Violante ha rilevato uno «slittamento apparentemente solo semantico, ma in realtà di grande rilievo per gli equilibri costituzionali»: dal controllo di legalità classicamente inteso come ricostruzione

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6 della legalità violata, ad una versione preventiva del controllo, attraverso indagini volte a verificare se la legalità non sia stata per caso violata5.

Sul piano semantico, la formula “controllo di legalità” si presta ad entrambe le interpretazioni: giudizio imparziale in ciascun processo, controllo generale sull’osservanza della legge. Il significato ristretto chiama in causa la funzione giurisdizionale. Il significato allargato chiama in causa altre istituzioni, responsabili della politica della legalità e del law enforcement, non solo penalistico. Al crocevia, l’organo (il PM) titolare dell’esercizio dell’azione penale, obbligatoria ex art. 112 Cost.;

appunto i presupposti dell’attivarsi del PM sono il tema in discussione. Un tema politicamente caldo, all’attenzione della dottrina giuridica6.

La posizione di Violante è netta: «Non è compito del magistrato cercare il reato:

egli deve avere sul tavolo una “notizia di reato”, una notizia attendibile che un reato è stato commesso: Soltanto dopo aver acquisito questa notizia può agire. L’ampiezza dei poteri concessi al magistrato ha come contrappeso la chiara determinazione delle condizioni che giustificano l’esercizio di quei poteri». Il potere di prendere notizia di reati, espressamente attribuito al PM dal codice di procedura penale del 1989 (art. 330), non è un potere di ricerca della notizia, ma di prendere la notizia là dove c’è (per es. in un documentato servizio giornalistico)7. «Solo un presupposto ben definito come la notizia di reato può rendere legittimo l’esercizio di poteri fortemente restrittivi di libertà fondamentali»8.

La discussione dottrinale presenta significativi punti di convergenza, ma anche di divergenza. Non v’è accordo unanime sul limite della notizia di reato già acquisita, quale presupposto inderogabile dell’attivarsi del PM; secondo alcuni il presupposto minimo (anche in una prospettiva de jure condendo) potrebbe essere un sospetto di reato, uno specifico spunto informativo acquisito dal PM nell’esercizio delle sue funzioni, idoneo a giustificare l’impiego di risorse investigative in una direzione che si presenti plausibile.

Dalla riflessione dottrinale emerge la difficoltà di tracciare un confine preciso.

Le Sezioni Unite hanno escluso che possano essere sindacate le determinazioni del PM in ordine all’iscrizione della notizia di reato9. La prassi dei PM mostra investigazioni (anche con strumenti invasivi come perquisizioni o sequestri) che precedono l’acquisizione di una specifica notizia di reato. La giurisprudenza rileva (realisticamente) la fluidità di questa nozione, che in via di principio dovrebbe definire il presupposto non solo dell’azione penale del PM, ma anche di doveri di denuncia dei pubblici ufficiali, e segnatamente di coloro che svolgono funzioni di polizia. Elemento, dunque, di fattispecie penali, che come tale dovrebbe avere carattere di tassatività, non di fluidità.

5 VIOLANTE, Magistrati, Torino, 2009, 161s.

6 Un quadro aggiornato ed informato si trova nel confronto a più voci in Criminalia, 2011, 437 s., La ricerca della notizia di reato da parte dell’accusatore, nota introduttiva di ORLANDI, interventi di CAPRIOLI e INSOLERA.

7 VIOLANTE, op. cit., 163, 166.

8 VIOLANTE, Controllo di legalità, in Cass. pen., 2010, 880.

9 Cass. Pen., Sez.Un., 24 settembre 2009, n. 40538.

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7 La proposta dei saggi è di «migliore definizione sul piano legale dei presupposti sulla base dei quali gli organi delle Procure avviano e concludono le loro attività d’indagine» (§. 24, lett. a). È più la posizione che non la soluzione dei problemi:

quali presupposti per quali iniziative del PM?

Vi è (mi pare) un ampio consenso sulla illegittimità dell’utilizzare, in assenza di una già acquisita notitia criminis, gli strumenti tipici dell’indagine penale, quanto meno quelli che comportano un diretto coinvolgimento del potenziale indagato o la restrizione di diritti fondamentali dell’individuo: un sospetto non basta a giustificare interventi che incidono su diritti10. Illegittimo, si sostiene, l’utilizzo dei poteri coercitivi propri del PM – a cominciare da quelli di perquisizione e sequestro – in funzione di ricerca di notizie di reato11. Per es., il PM può sequestrare gli atti di un assessorato se ha notizia non palesemente infondata che un reato è stato commesso, ma non può sequestrarli per accertare se un reato sia stato commesso12.

L’indicazione dei saggi invita a riflettere su questo insieme di problemi, collocati (come tutti i principali problemi del penale) sul crinale fra esigenze di funzionalità del law enforcement ed esigenze di garanzia liberale. C’è bisogno di una coerente definizione dei doveri del PM, e di un ragionevole self restraint di inquirenti magistrati, soprattutto nell’uso di strumenti invasivi. C’è anche bisogno di un insieme di idonei controlli di legalità a monte della acquisizione di specifiche notizie di reato, di poteri/doveri (di altre istituzioni) dal cui esercizio possano nascere le notizie di reato che il PM ha il dovere di prendere e verificare.

Nella proposta dei saggi si accenna anche ai presupposti sulla base dei quali gli organi delle Procure concludono le loro attività d’indagine. L’esigenza sostanziale sottesa è quella di un filtro più accurato delle accuse da portare a giudizio: tenere in piedi ipotesi d’accusa deboli, o di riconoscibile infondatezza, intacca la qualità di giustizia del funzionamento del sistema (a detrimento di diritti delle persone) e ne diminuisce l’efficienza, producendo sovraccarichi evitabili. Non è un tema nuovo: lo ricordo trattato, anni addietro, nei migliori discorsi di Procuratori generali. Più che i criteri posti dal codice per il giudizio conclusivo dei magistrati inquirenti (o del giudice dell’udienza preliminare) è la prassi applicativa che viene messa in discussione.

4. Questioni relative alla garanzia di sfere di riservatezza

L’esigenza di migliore definizione legale dei presupposti riguarda in particolare «gli strumenti investigativi più invasivi nei confronti dei diritti fondamentali». Per esempio, le intercettazioni di conversazioni. L’avere toccato questo tema – che è oggetto di discussioni aspre, talora strumentali – ha richiamato sul lavoro dei saggi un’attenzione critica. Ma l’invito a ridiscutere appare opportuno, alla luce di una precisa indicazione:

10 CAPRIOLI, op. cit., 447.

11 INSOLERA, op. cit., 453.

12 VIOLANTE, Magistrati, cit., 164

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8 rendere cogente la qualità di mezzo di ricerca della prova, e non di strumento di ricerca del reato.

Questa indicazione vale per tutti gli strumenti invasivi, nell’ottica delle riserve di legge e di giurisdizione che ne fondano e delimitano la legittimità. Vi è uno spazio legittimo per un uso ben calibrato di strumenti investigativi invasivi ma utili; ed è bene consolidarlo anche con una accorta definizione dei suoi presupposti e dei suoi confini, a garanzia di sfere di riservatezza nelle quali in via di principio non sarebbe consentito entrare. Tracciare i confini significa bilanciare esigenze importanti, processuali ed extraprocessuali.

L’esperienza mostra che problemi di tutela della riservatezza possono porsi anche in relazione a taluni possibili effetti di provvedimenti invasivi legittimi. Propongo esempi che riguardano materie diverse dalle intercettazioni: il sequestro di documenti privati

“riservati”: agende professionali, un computer con tutti i files in esso recuperabili.

L’ingresso fra le carte del processo, per quanto giustificato possa essere, fino a che punto può giustificare l’accesso di terzi, rispetto a ciò che non riguarda quel procedimento? O dare spunto a indagini su fatti diversi da quelli che hanno giustificato l’intrusione nella sfera riservata?

Di alcuni problemi di questo tipo si è fatta carico, alquanto maldestramente13, la normativa (art. 240 cpp come novellato nel 2006) sulla segretazione e distruzione di atti e documenti illecitamente formati o acquisiti: situazioni peculiari che vedono l’incondizionata prevalenza del diritto alla riservatezza. Ma molto più ampie e varie sono le ipotesi in cui la sottrazione radicale al contraddittorio14 non può essere imposta, e si pone il problema di come conciliare le esigenze investigative e del contraddittorio, con le esigenze di una ragionevole garanzia di sfere di riservatezza, sia di conversazioni che di documenti.

Sono questi i problemi evocati nella relazione dei saggi, come problemi di

«limiti alla divulgazione perché il diritto dei cittadini ad essere informati non costituisca il pretesto per la lesione di diritti fondamentali della persona». Vi sono sfere d’inviolabilità o comunque di riservatezza, a tutela delle quali deve essere precluso un accesso indiscriminato. Anche su notizie che potrebbero essere d’interesse pubblico, e quindi un possibile oggetto di legittima cronaca, può essere giustificato porre limiti alla divulgazione in capo a chi ne sia venuto a conoscenza, sia pure legittimamente in un contesto processuale15.

13 Una qualche razionalizzazione procedurale è stata introdotta da Corte Cost. n. 173 del 2009.

14 A differenza che nel caso delle conversazioni telefoniche col Presidente della Repubblica: Corte Cost. n. 1 del 2013.

15 Come spunto di riflessione propongo il seguente caso (non inventato, ma visto in concreto): da una intercettazione legittimamente disposta su persona non indagata, titolare di una funzione d’interesse pubblico, emerge casualmente una vicenda che può interessare la valutazione di moralità della persona intercettata, e solo indirettamente l’indagine in corso, come elemento ritenuto rilevante dal PM ai fini della valutazione di soggettiva affidabilità del futuro teste. La pubblicazione dell’intercettazione scottante, consegnata alla stampa da una parte processuale, è astrattamente in regola con le condizioni (interesse pubblico) richieste per il diritto di cronaca. Sarebbe giustificato, in un caso del genere, un divieto di divulgazione in capo alla parte che ha avuto legittimamente in mano quell’intercettazione?

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9 5. I tempi della giustizia

Notevole rilievo, nel documento dei saggi, ha il tema del «rispetto effettivo di tempi ragionevoli di durata del processo». A questo obiettivo (§. 22 lett. a) si ricollegano varie indicazioni: riguardo alla giustizia penale (§. 24), contenere la durata delle indagini preliminari e introdurre vincoli temporali all’esercizio dell’azione penale (o alla richiesta di archiviazione) dopo la conclusione delle indagini; inappellabilità delle sentenze di assoluzione per reati molto lievi; disincentivazione di iniziative palesemente dilatorie.

L’obiettivo è scontato, spesso è indicato come quello fondamentale per una riforma della giustizia sia civile (su ciò si è concentrato il discorso del Ministro) sia penale. La via (evocata dai saggi) della fissazione di termini endoprocessuali di durata ha già mostrato i suoi limiti nell’esperienza applicativa del vigente codice. Le patologie (le durate irragionevoli) sono prodotte da tempi vuoti, o da attività inutili. Le ragioni possono essere le più diverse: sovraccarico di lavoro, carenze nella allocazione di risorse, inefficienze della macchina, manovre dilatorie di avvocati, scarsa diligenza di magistrati o ausiliari.

Sovraccarichi inutili, che incidono sui tempi della giustizia, sono prodotti da fonti diverse. Anche dalla legge sostanziale, con la produzione di norme ridondanti (di significato solo simbolico) che complicano il lavoro giudiziario. Anche da un insufficiente filtro da parte dei magistrati inquirenti o nell’udienza preliminare. Anche da difetti della legge processuale.

È su tutti questi fattori che occorre incidere, per assicurare (come esige l’art. 111 Cost.) la ragionevole durata di un processo capace di raggiungere il suo scopo: per il processo penale, la verifica delle ipotesi d’accusa e le conseguenti statuizioni.

Una esigenza elementare è quella di evitare che il processo possa collassare, dopo dispendio di tempo e di attività, per effetto (per così dire) di bachi puramente procedurali: un esempio vistoso, la questione della competenza per territorio, che può attraversare e tenere a rischio i processi fino all’ultimo (ne ho fatto sofferta esperienza nel processo Antonveneta). Parrebbe ragionevole prevedere meccanismi processuali che portino ad una definizione sollecita: per es. il ricorso in Cassazione contro la prima decisione sulla competenza, con esclusione di altre possibilità di impugnazione, e senza effetto sospensivo del giudizio di merito.

Sarebbe interessante raccogliere dall’esperienza quali e quanti siano i bachi che in concreto fanno girare a vuoto la macchina giudiziaria, e quali rimedi processuali siano pensabili. Per avvicinare l’obiettivo della ragionevole durata, è in questa direzione che possono essere studiate eventuali modifiche (e semplificazioni) processuali.

6. Questioni relative alla prescrizione

Nelle discussioni correnti, la questione della ragionevole durata viene spesso

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10 intrecciata con la questione della prescrizione16. Questo tema, che nel recente passato è stato divisivo, non è stato messo nell’agenda, né dai saggi né dal Ministro.

Vi è un aspetto che sarebbe opportuno riconsiderare al più presto, perché interferisce pericolosamente con i problemi di riforma di norme penali: la novella del 2005, sostituendo il modello delle fasce gravità con il riferimento puntuale ai massimi edittali al di sopra dei sei anni di reclusione, ha per conseguenza che ogni modifica di massimi edittali – sia in aumento che in diminuzione, al di sopra dei sei anni – incide sui termini di prescrizione.

Su questo linkage troppo stringente ho richiamato l’attenzione fin da quando la riforma della prescrizione era in itinere17. I tempi di prescrizione dei delitti non sono più predeterminati da scelte “di parte generale”, ma sono fatti dipendere pedissequamente dalla contingente molteplicità e varietà dei massimi edittali, stabiliti da legislatori della parte speciale, in tempi diversi, secondo criteri di politica sanzionatoria. L’identificazione rigida fra massimo edittale e tempo di prescrizione, oltre a frammentare il sistema dei termini di prescrizione, è un fattore di instabilità. Un vincolo distorcente sulle riforme di parte speciale, come hanno evidenziato le discussioni sulla recente riforma in materia di concussione e corruzione: un vincolo pesante su riforme che vorrebbero andare in direzione di un abbassamento di massimi edittali elevati. Sarebbe bene (ed urgente) spezzare questo vincolo, ritornando a un sistema che leghi i tempi di prescrizione a scelte di parte generale.

Un altro punto critico riguarda la disciplina degli atti interruttivi: il prolungamento massimo dei tempi di prescrizione differenziato secondo che l’imputato sia persona incensurata o senza precedenti penali che portino nella fascia dei recidivi, oppure un recidivo, o un recidivo qualificato. Differenze soggettive di questo tipo non hanno alcuna connessione con le ragioni giustificative del tempo necessario a prescrivere, men che meno con le ragioni giustificative del prolungamento dei termini di prescrizione connesso a vicende processuali. La rilevanza ai fini della prescrizione, attribuita a differenziazioni soggettive dalla novella del 2005, è del tutto ingiustificabile a fronte del principio di uguaglianza – ragionevolezza18; ma non è arrivata ed è difficile che possa arrivare al vaglio di legittimità costituzionale19. Un intervento del legislatore sarebbe auspicabile, anzi doveroso.

16 Cerco da tempo di contrastare l’idea corrente che la prescrizione per decorso del tempo – un istituto che ha come effetto la punibilità – possa essere costruita come presidio della ragionevole durata del processo.

Ho trattato questo argomento in Tempi del processo e diritto penale sostanziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, e in Sulla tutela penale della giustizia penale, in Studi in onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 1283 s.

17 PULITANÒ, Tempi del processo, cit., p. 528.

18 La scelta legislativa fatta in sede di riforma della prescrizione è stata contraddetta dal legislatore del 2008 (con la medesima maggioranza politica) a proposito di circostanze attenuanti generiche: un comma aggiunto all’art. 62-bis dal c.d. pacchetto sicurezza statuisce che la situazione di incensuratezza non può essere motivo di per sé sufficiente per la concessione delle attenuanti generiche, cioè per un effetto assai meno radicale dell’estinzione del reato.

19 Chi mai potrebbe avere interesse a sollevare la questione di legittimità costituzionale? Certamente non la difesa dell’incensurato. Potrebbe avere interesse la difesa dell’imputato recidivo il quale si trovi esposto ad un maggiore prolungamento termine di prescrizione. Formulata come questione in bonam partem, sarebbe

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11 Lascio aperti i problemi che, in ultima analisi, sono decisivi: quali tempi di prescrizione possano essere ritenuti congrui dal punto di vista delle ragioni del punire o non punire. Si tratta di ridefinire le condizioni di moralità e ragionevolezza di un istituto altamente problematico, ma che concorre ad arginare un’indefinita estensione del penale. Su molti aspetti c’è bisogno di nuove riflessioni.

7. I nodi critici. Giustizia penale, etica, politica

Sullo sfondo di qualsiasi agenda per la giustizia penale resta il nodo delicato e critico dei rapporti tra politica e giustizia, evocato dal Ministro Cancellieri. Il taglio delle proposte della relazione dei saggi (e del primo discorso del nuovo Ministro) va apprezzato sia per ciò che è detto sia per ciò che non è detto. Rispetto alle polemiche più spinte è un invito alla razionalità ed al confronto di idee, e (con le parole del Ministro) a «mettere da parte pregiudizi ideologici e visioni monocolari». Ciò che è stato proposto sul penale può essere un buon punto di partenza, sulla via di un cambio di passo sostenibile, nella direzione giusta.

Sia il detto che il non detto additano l’esigenza di recuperare la autonomia reciproca della giustizia e della politica. Autonomia di piani e di criteri di giudizio. Il significato di giustizia, che interessa la polis, è agganciato a qualcosa di non disponibile da parte della politica, cioè l’accertamento di fatti.

In un’acuta riflessione su verità e politica, Hannah Arendt ha scritto:

«Considerata dal punto di vista della politica, la verità ha un carattere dispotico. Essa è per questo odiata dai tiranni [...] i fatti sgraditi possiedono un’esasperante ostinatezza che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne [...] i fatti non hanno alcuna ragione decisiva per essere ciò che sono; essi avrebbero sempre potuto essere altrimenti, e questa fastidiosa contingenza è letteralmente illimitata»20.

Fra gli «importanti modi esistenziali di dire la verità», viene menzionata (accanto all’attività del filosofo, dello scienziato, dell’artista, di chi indaga sui fatti) l’imparzialità del giudice (e dello storico)21. D’altro canto, anche la giurisdizione è esercizio di potere. In particolare, la giurisdizione penale dispone degli strumenti più autoritari che lo Stato di diritto possa prevedere. In relazione al potere giurisdizionale la contrapposizione fra verità e potere si fa problematica22: per il giudice la ricerca e la pronuncia della verità e del diritto applicabile è anche esercizio di potere.

una questione alquanto curiosa: non vi è nessuna ragione per ridurre per tutti il prolungamento dei tempi di prescrizione, conseguente ad atti interruttivi, al livello minore oggi riservato ai non recidivi. È la differenziazione di trattamento, e non la misura del prolungamento del tempo di prescrizione, a porre il problema di legittimità costituzionale.

20 ARENDT, Verità e politica, Torino, 2003. Citazioni da p. 47 e 50.

21 ARENDT, op. cit., 72.

22 RESTA, La verità e il processo, in Pol. dir., 2004, 372 s.

(12)

12 I problemi di fondo della giurisdizione (della sua conformazione, del suo funzionamento, del rapporto con la politica) hanno a che fare con il suo carattere, ad un tempo, di istituzione di garanzia ed istituzione di potere.

Osserva la Arendt che «considerare la politica dalla prospettiva della verità significa collocarsi al di fuori dell’ambito politico»23. Come istituzione volta (e vincolata) alla ricerca di verità fattuali, la giustizia penale è (e deve restare) fuori del circuito politico (del governo della polis). Ma le verità che riesce a produrre (e i modi in cui opera) possono essere politicamente rilevanti; così come possono essere politicamente rilevanti le defaillances e gli errori (quali che ne siano le cause).

Nella nostra storia recente, la giustizia penale è divenuta il terreno privilegiato, e talora l’unico, su cui si gioca la tenuta del principio di responsabilità. Ciò ne ha enfatizzato il ruolo di supplenza rispetto a carenze di altri luoghi istituzionali e sociali.

Emblematica la vicenda di Mani pulite, risposta giudiziaria (con le sue luci ed ombre) alle pratiche della Città del malaffare. Tangentopoli esisteva, non è stata un’invenzione di magistrati. Dopo decenni ci troviamo dinanzi agli stessi problemi irrisolti. Sono questi (e non i destini processuali di questo o quel personaggio più o meno importante) i problemi che interessano la politica.

Separare i piani e i criteri di giudizio, uscendo da polemiche e strumentalizzazioni di singole vicende, significa anche recuperare lo spazio (e la necessaria serenità) per riflessioni critiche sia sulla giustizia che sulla politica. Al giurista interessa la riflessione sul diritto, ed anche sulla giustizia, nei diversi significati del termine: giustizia come valore (il diritto come dovrebbe essere) e come pratica istituzionale (l’applicazione del diritto come è). La riflessione sui rapporti fra diritto e giustizia è fra le premesse necessarie di qualsiasi agenda per istituzioni che si suole definire di giustizia, ed oggi più che mai necessaria per un cambiamento di passo sul piano culturale. Se ci sono sul tappeto problemi relativi alla giustizia penale in azione (ai suoi valori sia di legalità che di giustizia) anche di questo è necessario discutere, in un confronto dispiegato dentro e sulle fabbriche del diritto vivente.

La giustizia penale è problematica per definizione. Fare funzionare l’arma a doppio taglio24 del diritto penale è una missione (“di giustizia”, dovrebbe essere) che procede in condizioni di incertezza; indaga su persone per le quali vale la presunzione di non colpevolezza, coinvolge persone offese (o sedicenti tali) e terzi estranei. Incide su libertà in via di principio “inviolabili”: libertà personale, segretezza delle comunicazioni, sfere private. Comporta costi certi: economici, esistenziali, sociali. I benefici sono incerti. Discutibile per definizione (al di là della correttezza giuridica, al di là delle buone intenzioni soggettive) il valore di giustizia degli esiti.

Alle discussioni in diritto siamo abituati. Siamo anche abituati (forse) a riflessioni d’ordine morale, là dove appaiano rilevanti per l’interpretazione ed applicazione del diritto. Dietro le soluzioni di problemi controversi stanno concezioni

23 ARENDT, op. cit., p. 72.

24 Secondo la nota definizione di VON LISZT, L’idea dello scopo nel diritto penale.

(13)

13 (precomprensioni?) relative alla moralità di precetti e di sanzioni, di fatti e comportamenti. Anche sul piano dell’ermeneutica giuridica e dell’analisi del diritto giurisprudenziale, è importante che lo sfondo assiologico venga assunto ad oggetto di riflessione25. A maggior ragione, questo aspetto è cruciale per le politiche del diritto penale.

Sul piano etico-politico, un riconoscimento di moralità può essere dato a concezioni diverse. Le tendenze espansive e rigoriste della giurisprudenza esprimono la moralità di esigenze di responsabilizzazione, delle quali la giustizia penale tende a farsi portatrice, tanto più quando altri luoghi e modi di responsabilizzazione non funzionano o funzionano male. Il punto di vista morale prevalente (forse) nella giurisprudenza si lega alla riprovazione morale dei fatti portati a giudizio. Un moralismo che rischia di irrigidirsi (sul piano dei precetti) in pretese di enforcement of morals mediante il diritto, e (sul piano sanzionatorio) in rigorismo retributivo, sostenuto anche dall’assuefazione al massiccio ricorso del legislatore a comminatorie di pene detentive.

Il punto di vista etico-politico, dal quale parte un approccio critico, pone in primo piano il problema della sostenibilità (anche morale) dei precetti e delle sanzioni penali, anche con riguardo a fatti e comportamenti moralmente discutibili. Questioni specifiche di moralità (di limiti morali) del vietare, del comandare, del punire, del come e quanto punire; in una parola, è in discussione la moralità dell’uso della spada, della coercizione giuridica nella forma più intensa.

La specifica moralità del diritto penale liberale (quella che lo caratterizza come liberale) è la moralità di un ordinamento conformato da principi di garanzia (principi di legalità, di offensività, di colpevolezza) e dal principio d’uguaglianza, anche nella forma allargata di principio di ragionevolezza e proporzione. È anche etica della responsabilità, orientata alla funzione di chiamare a rendere conto in forme e modi “di giustizia”, capaci di assicurare la tenuta delle condizioni della civile convivenza, con risposte equilibratamente severe (quando ciò sia necessario) e capaci di differenziare secondo criteri razionali (fino ad accettare la non punizione, pur astrattamente consentita, di fatti moralmente non leciti e non incolpevoli, per ragioni ritenute prevalenti, e riconosciute come tali dal legislatore).

Moralità, moralismo, autoritarismo ben intenzionato26, rischi di rotture negli equilibri del sistema: sono questi gli slittamenti (o i possibili slittamenti) della giustizia penale, di cui ritengo importante discutere, non contro, bensì in difesa della funzionalità e moralità del law enforcement penalistico. Anche se questa discussione non fa parte delle agende politiche, dovrebbe essere sempre nella nostra agenda, ed ha una valenza (anche) etica e politica.

25 Un esempio concreto come intendo e cerco di praticare questo lavoro: PULITANÒ, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 22 s.

26 Ho introdotto questa formula, attribuendole un significato descrittivo, in PULITANÒ, Supplenza giudiziaria e poteri dello Stato, in Quaderni costituzionali, 1983.

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