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Una riforma lunga settant’anni

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Academic year: 2021

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C ONCLUSIONI

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Una riforma lunga settant’anni

Alla luce di quanto finora esposto nel presente lavoro, che non ha pretese di esaustività, data la mole di proposte riformatrici, che nel tempo sono state presentate, ritengo si possa affermare a buon diritto che le difficoltà a che una riforma seria ed efficace si compia sono più che tangibili: d’altro canto se ne ragiona in maniera più o meno fattiva da circa quaranta anni e il fatto che in un lasso di tempo così ampio non si sia trovato alcun accordo tra i diversi interlocutori è probabilmente sintomatico tanto di una scarsa volontà di portare a compimento un progetto che viene da lontano, quanto delle reali difficoltà a procedere, in una situazione che di anno in anno si è fatta statica e sempre più stagnante.

Ma dunque, perché non si riesce a riformare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU? Perché non si riesce a trovare una strategia che metta d’accordo tutti i Paesi coinvolti? «Analizzando le diverse proposte di riforma oggi sul tappeto, non si può non constatare come esse siano tutte, con differenze legate al differente contesto storico, simili a proposte avanzate cinquant’anni fa, se non perfino nell’immediato post San Francisco. Ciò che è cambiato rispetto ad allora è l’ambiente esterno dell’ONU e le sfide ad esso rivolte, che rendono una proposta più praticabile rispetto ad un’altra»

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.

Osserviamo per esempio il gruppo dei 4: Germania e Giappone, ma anche India e Brasile, hanno rivendicato con tempi e modi diversi, un seggio permanente. Ciò in virtù del crescente ruolo che tali Stati hanno occupato sulla scena internazionale, man mano che andava invece diminuendo quello di membri storici, quali Francia, Gran Bretagna e

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G. Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU: un inventario critico delle proposte

di riforma, Torino, Centro Studi sul Federalismo, agosto 2008, p. 28.

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Russia. Come a dire, cioè, che in corrispondenza di un relativo declino dei membri permanenti, è naturale se ne facciano avanti altri. Dato questo assunto, sembra impensabile che una riforma si compia senza passare attraverso la sua espansione.

Ma se davvero così fosse, se davvero, cioè, venissero assecondate tali spinte, «il Consiglio si ridurrebbe ad un mero strumento di politica di potenza, utilizzato dai Paesi più potenti per tentare di imporre al mondo (e reciprocamente, a loro stessi) il proprio volere: precisamente questo, secondo i neo-realisti, è il gioco della politica internazionale. Ma è precisamente questo approccio che ha da sempre impedito una riforma di una qualche rilevanza: se un’organizzazione internazionale è creata per essere funzionale all’interesse di una potenza o di un blocco egemonico, è improbabile che essa muti nella sua struttura e nei suoi assetti al mutare dei rapporti di potenza tra i suoi azionisti, giacché è del tutto logico che le potenze in declino si oppongano; piuttosto, è più probabile che l’Organizzazione stessa declini e venga sostituita, non senza una guerra che sancisca la leadership»

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.

Senza arrivare a figurarsi un futuro a tinte così fosche, tale da immaginare addirittura un conflitto, ritengo che non si possa essere tacciati di pessimismo se si afferma che tale riforma non avrà luogo mai. «Fino ad oggi una sola e non risolutiva riforma di una certa rilevanza (cioè che abbia richiesto un emendamento alla carta delle Nazioni Unite) è stata ottenuta (e non senza enormi difficoltà) e risale al lontano 1965: anche se l’operazione riuscisse a ripetersi, manterrebbe irrisolti i principali problemi che affliggono il Consiglio e sarebbe necessario forse attendere un altro mezzo secolo prima di una nuova riforma»

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Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., p. 31.

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Ibid.

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A ben vedere, però, c’è anche un altro motivo per cui tutte le ipotesi fino ad ora presentate si sono rivelate inefficaci ed infattibili. E si tratta di un motivo che è piuttosto banale: esse peccano di ingenuità. Sono costruite, cioè, senza che rispecchino realmente la fattibilità della loro messa in opera. Esse, insomma, per dirla ancora una volta con Finizio, non tengono conto del potere e, perciò, delle eventuali probabilità di riuscita delle stesse.

«Generalmente ogni progetto di riforma, sia che provenga dagli Stati sia che provenga da gruppi di studi indipendenti, direttamente da ambienti interni all’ONU o anche da ambienti accademici, affronta il tema individuando alcuni parametri cari al proponente (ad esempio l’interesse nazionale nel caso degli Stati, ma anche la funzionalità dell’organo, oppure la sua democraticità, la sua trasparenza, e così via) senza porsi la questione di quante probabilità abbia la riforma di trovare applicazione, né di quali siano le condizioni politiche necessarie, affinché essa possa trovare successo. Ma se questo approccio può essere accettabile dal punto di vista di un filosofo del diritto o della politica, non lo è né per lo scienziato né per il leader politico. […] È necessario, cioè, che [la proposta] si componga non solo di una parte prescrittiva per il futuro assetto del Consiglio, ma anche di una strategia che ne indichi il processo di implementazione»

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.

Il futuro dell’ONU: status quo o maggiore rappresentatività?

Quale futuro bisogna immaginare allora per l’ONU? È difficile dirlo, ma probabilmente la cosa più importante è che l’Organizzazione torni ad un ruolo di primo piano nell’ambito di una politica autonoma, che salvaguardi l’interesse di tutti i Paesi e non solo di alcuni. Bisogna, perciò, che i suoi organismi si rinnovino alla luce di una mutata consapevolezza, che tenga conto delle istanze giunte da parte di quei Paesi che rivendicano

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Ivi, pp. 32-33.

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maggiore prestigio e visibilità. Lo stesso concetto di veto, quindi, privilegio inopportuno ed inadeguato alla nuova realtà geopolitica, risulta superato in uno scenario internazionale che non è più quello dell’immediato dopoguerra. A tal fine, sarebbe anche auspicabile la creazione di una forza militare autonoma, allestita con truppe fornite dai Paesi neutrali, che si faccia realmente garante di un nuovo ordine mondiale.

Effettiva parità, dunque, deve esserci tra gli Stati membri e non la preminenza di pochi (molto spesso uno) a schiacciare gli altri, in una condizione di squilibrio evidente, che non giova, ovviamente, alla pace.

Perché, a ben vedere, l’intero processo decisionale, seppur corretto, è poco trasparente, dal momento che la maggior parte del lavoro avviene a porte chiuse, senza che i Paesi non membri del Consiglio possano sorvegliare, senza che l’opinione pubblica conosca per tempo quello che accade all’interno. Guardato in questa ottica, il Consiglio di Sicurezza è l’antitesi di un organo democratico: non rispetta, infatti, il principio di parità tra Paesi né tanto meno ammette la partecipazione popolare. Forse non è del tutto errato prendere in prestito dal Romanticismo una delle immagini di castelli arroccati e chiusi rispetto all’esterno da spesse mura, per descrivere questo Organismo, che, con il passare degli anni, ha fatto registrare sempre di più uno scollamento rispetto alle richieste della società civile.

Gli ostacoli alla riforma del Consiglio di Sicurezza

In generale, comunque, il primo, più spinoso e difficile problema

perché una riforma si compia, in un senso o in un altro, è il superamento

dell’articolo 108 della Carta e, perciò, l’ottenimento da parte dei P5 del

loro benestare. Di un ripensamento circa i meccanismi decisionali che

riguardano il Consiglio di Sicurezza c’è realmente bisogno, innanzi tutto

perché, rispetto al passato, l’ONU oggi conta molti più Stati, che, come

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precedentemente detto, da cinquantuno sono diventati centonovantuno. Il Consiglio di Sicurezza, organo decisionale supremo, ha mantenuto, invece, sostanzialmente intatta la sua composizione. Gli equilibri mondiali, poi, risultano mutati per non dire stravolti dall’avanzata del Sud del mondo, reso competitivo tanto dal peso demografico quanto da quello economico- tecnologico: il riferimento, naturalmente, è all’India e al Brasile in primis, che corrono insieme a Germania e Giappone verso il traguardo di un seggio permanente, ma anche alla Nigeria, che, pur facendo parte di un continente oggettivamente sottorappresentato, sta emergendo sempre di più quale partner delle potenze occidentali. Equilibri stravolti, dicevamo, perché di contro Francia e Gran Bretagna, affiancate, per non dire superate da tali Paesi, sono rimaste “indietro” e, tuttavia, conservano saldamente il proprio posto all’interno del Consiglio di Sicurezza, la cui composizione, perciò, anacronisticamente rispecchia ancora i rapporti di forza emersi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

A ciò bisogna aggiungere che gli effetti delle decisioni del Consiglio

di Sicurezza, sono avvertiti dagli Stati, ma anche dai gruppi sociali e

naturalmente, dagli individui. La decisione di imporre delle sanzioni

economiche ad uno Stato, ad esempio, può mutare radicalmente le sue

prospettive di sviluppo ed influire pesantemente sulle condizioni di vita dei

suoi cittadini. È comprensibile, pertanto, che siano cresciuti l’interesse dei

Paesi a partecipare alle decisioni del Consiglio di Sicurezza e la richiesta di

strumenti più efficaci per controllarne la legittimità. Insomma, quanto più

aumentano i poteri del Consiglio, tanto più è avvertita la necessità di una

sua riforma. Anche perché, rispetto al passato, proprio il Consiglio, organo

preposto ad intervenire ogni qual volta si verifichi una minaccia alla pace e

alla sicurezza nazionale, ha affrontato questioni su cui in passato si

asteneva dall’intervenire: conflitti interni agli Stati, violazioni dei diritti

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umani di un gruppo minoritario all’interno di uno Stato, rifiuto di uno Stato di consegnare suoi cittadini accusati di terrorismo, mancato rispetto dei risultati di elezioni svoltesi democraticamente. Ebbene: talvolta la legittimità di questi interventi è stata posta in discussione, poiché in essa non si è ravvisata sempre la necessità immediata di sventare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Se ne deduce, perciò, un’urgente ridefinizione delle regole, che siano maggiormente precise, per giustificare le decisioni del Consiglio, specialmente quelle che hanno un valore vincolante. Come fa notare Ettore Greco: «In generale, l’aumento dei margini di discrezionalità del Consiglio lo ha inevitabilmente esposto all’accusa – spesso tutt’altro che ingiustificata – di adottare criteri di valutazione e di decisione non uniformi nei confronti dei diversi Stati e delle diverse situazioni. Il rischio costante è che, nell’adottare decisioni anche di importanza fondamentale, il Consiglio si lasci guidare più dalle convenienze politiche dei suoi membri, e, in particolare, di quelli permanenti con diritto di veto, che da principi oggettivi e universalmente validi. Ma questo aumenta di riflesso l’interesse per una composizione del Consiglio di Sicurezza più ampia e rappresentativa dell’attuale»

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. Cambiare l’odierna composizione del Consiglio di Sicurezza, dunque, è fondamentale per garantire maggiore stabilità a tutta l’Organizzazione. Modificare l’articolo 23 della Carta, però, non è cosa semplice: essa è, infatti, una

“Costituzione rigida”, come è stata definita dai giuristi e la procedura per una sua modifica è complessa, poiché richiede una maggioranza più consistente che per altri tipi di deliberazioni.

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E. Greco, Ruolo e riforma dell’ONU: posizioni in America e in Europa, in

Quaderni Internazionali dell’Istituto affari internazionali, Senato della Repubblica

Italiana, Servizio per gli Affari internazionali, Osservatorio Transatlantico, Osservatorio

Mediterraneo e Medio Oriente, 2004, p. 7, consultabile alla pagina web

http://www.iai.it/pdf/Oss_Transatlantico/04.pdf.

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Come questo studio ha cercato di illustrare, è da anni che si lavora ad una modifica in tal senso, che sia volta, cioè, in particolare ad un ampliamento del Consiglio. I gruppi e le commissioni creati ad hoc sono stati numerosissimi, i round negoziali avviati altrettanto impegnativi, ma, in definitiva, nulla di concreto è sul tavolo.

Permangono, infatti, ancora fondamentali divergenze su una serie di questioni, che in conclusione ricapitolo: sul numero dei nuovi membri, per esempio, sui criteri in base ai quali devono essere scelti e, in particolare, sui criteri per garantire un’equa rappresentanza regionale, sullo status da assegnare ai nuovi membri, se, cioè, si debbano prevedere nuovi membri permanenti e, in tal caso, se a questi ultimi, come agli attuali, debba essere riconosciuto il diritto di veto. Questioni che la presente tesi di laurea ha tentato di indagare, partendo semplicemente dalla consapevolezza, come già precedentemente affermato, che senza la volontà reale da parte dei P5 di modificare uno status quo di cui evidentemente beneficiano, nulla potrà essere cambiato e che non serviranno altre proposte, più o meno macchinose, a sbloccare una situazione che rimane saldamente ancorata nelle mani di cinque membri privilegiati. Forse, ottimisticamente, si potrebbe immaginare in futuro una maggiore pressione da parte della società civile e delle popolazioni a che una svolta venga finalmente impressa: a quel punto, probabilmente, sarà impossibile non procedere con una riforma, di compromesso magari, come ribadito ultimamente anche dal Rappresentante permanente d’Italia, Sebastiano Cardi.

Dubito, tuttavia, che gli attuali membri permanenti, pur acconsentendo

a un cambiamento, possano rinunciare al veto. In quest’ottica, potrebbero

avere maggior successo quelle ipotesi di riforma che, senza intaccare il

potere di veto dei P5, puntino a una revisione o una espansione della

categoria dei membri non permanenti.

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