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Nell’età dell’oro che si sta aprendo, preferisce barattare un elettrodomestico con un po’ di diritti, un paio di blue-jeans con la libertà di informazione e di espressione

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Circa due anni fa concludevo la mia tesi di laurea triennale, Politica e letteratura nel Neorealismo, con una nota di nostalgia per l’irreversibile fine di un movimento che, pur tra i suoi innegabili limiti e le sue degenerazioni retoriche, aveva avuto il merito di coniugare l’arte con la società, il racconto con la storia. E per di più con una storia scomoda, quella della Resistenza: un fascicolo che all’indomani della guerra nessuno voleva riaprire e affrontare nei suoi controversi residui, come mostra l’amnistia plenaria concessa ai funzionari compromessi con il fascismo1.

Se il Neorealismo delle origini si configura come risposta non-mediata al bisogno di comunicazione dopo il silenzio imposto dalla guerra (“prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo”2), il 1948 e la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni politiche marcano il passaggio ad un movimento più ideologico, edulcorato, ormai mero strumento propagandistico di un Pci sempre più isolato all’opposizione. Ma è solo con il 1956, l’anno indimenticabile, ovvero l’anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, che la diaspora di intellettuali di sinistra rende palese ciò era nell’aria da tempo: le possibilità storiche del Neorealismo si sono esaurite, non vi è più spazio per la rappresentazione oleografica dell’eroe partigiano coraggioso e antifascista gradita al Pci.

L’italiano medio della seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, sotto l’egida reticente e revisionista della Democrazia Cristiana e grazie alla distrazione fornita dal nuovo benessere, ha gradualmente accettato l’archiviazione (dall’alto) del periodo buio della guerra e quello eroico della Resistenza. Nell’età dell’oro che si sta aprendo, preferisce barattare un elettrodomestico con un po’ di diritti, un paio di blue-jeans con la libertà di informazione e di espressione. Alle porte degli anni Sessanta la società cambia radicalmente: l’Italia, da una condizione di sottosviluppo, raggiunge i livelli di industrializzazione degli altri Paesi europei, abbandonando il mondo dell’autosussistenza per quello del consumismo. Le case si riempiono di frigoriferi, lavatrici, televisori; chi è fortunato può possedere un’automobile. È il tempo dello svago, della musica e del cinema, delle prime vacanze dopo una vita di sacrifici. Questo

1 Per risvegliare negli italiani una piena consapevolezza della Resistenza e del suo valore occorrerà il tentativo del Msi, nel 1960, di tenere il suo Sesto Congresso nazionale a Genova, città decorata con la Medaglia d’oro per il suo

contributo contro il nazi-fascismo. Solo dopo i fatti di protesta del luglio 1960, infatti, la Resistenza occuperà uno spazio, seppur contestato, nei programmi scolastici e televisivi (pochi).

2 CALVINO, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”, in Romanzi e racconti, p. 1185

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è ciò che, agiograficamente, viene definito miracolo economico, un’esplosione di benessere che segna un punto di drastica rottura col passato, attraverso la scomparsa di tradizioni, credenze, riti e costumi del mondo contadino, sostituiti da comportamenti e abitudini del mondo cittadino, industriale, moderno, americano.

Dietro al luccichìo di queste trasformazioni vi è però un’altra faccia, quella dei costi e delle vittime, dei prezzi da pagare e delle libertà da cedere. L’Italia a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta è uno Stato repressivo e violento, in balìa delle richieste più intransigenti della Chiesa e degli Stati Uniti, colluso con le peggiori frange criminali e neofasciste, uniti nell’intento comune di evitare un fantomatico sovvertimento dell’ordine da parte dei comunisti.

Anche lo sviluppo industriale esige una notevole contropartita: il fattore principale che lo rende possibile, aldilà dell’intervento statale, è soprattutto il basso costo del lavoro: masse di operai disposti a farsi sfruttare per un salario minimo e senza i dovuti diritti sindacali lasciano le campagne e le regioni del Meridione per trasferirsi nei poli produttivi ed affollare i quartieri-dormitorio, con forti problemi di integrazione sociale con la popolazione residente.

Lo scopo del mio lavoro è quello di mostrare come la letteratura dei primi anni Sessanta, dopo l’esperienza in un certo senso fallimentare del Neorealismo, torni a parlare della società e dei suoi problemi, entri nelle fabbriche con gli operai come prima era entrata nei boschi con i partigiani, rompa quel muro di indifferenza benpensante che separa l’italiano borghese e democristiano dalle ingiustizie che si perpetuano pochi metri oltre il suo palazzo con portiere.

È soprattutto “Il Menabò di letteratura”, periodico diretto da Italo Calvino ed Elio Vittorini (uno a cui la torre d’avorio è sempre stata troppo stretta), a riflettere sulla nascita di una nuova stagione di impegno e sul valore della nascente letteratura di tematica industriale. Gli interventi raccolti nei numeri del 1961 e 1962 fanno riferimento ad uno stesso fenomeno: la pubblicazione di varie opere che, senza poter essere ricondotte ad un unico paradigma, mettono in luce le disfunzioni create dal miracolo economico, dall’alienazione del lavoro al disorientamento dell’intellettuale, passando per tutte le ingiustizie e le trasformazioni sociali.

Di una certa fama, nonostante la breve vita del genere ( la periodizzazione corrente circoscrive la letteratura industriale tra la pubblicazione di Tempi stretti di Ottieri nel 1957 e quella de Il padrone di Parise nel 1965) e i limiti qualitativi e formali, nonché quelli derivati dalla ripetitività tematica, hanno goduto i romanzi cosiddetti

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“industriali”. Per molti scrittori ( si pensi ad Ottieri, Davì, Volponi) “Il Menabò” ha rappresentato all’inizio un trampolino di lancio, prima di divenire incunabolo quasi esclusivo della Neoavanguardia; per altri, l’odore di anarchia e anticonformismo (mi riferisco a Bianciardi) o il successo acquisito con opere di altro genere (Parise, Arpino) ha sopperito alla non vasta risonanza data a questi testi dall’industria culturale ufficiale prima, dalla programmazione scolastica poi.

Un’attenzione ancora minore è però stata riservata a quelle opere poetiche di tematica industriale che, forse meno probanti dei loro corrispettivi in prosa e sicuramente di più difficile interpretazione, pressoché dimenticate negli anni, sono state inglobate nell’opera omnia del loro demiurgo, confuse tra componimenti di tutt’altro soggetto. Venute alla luce con il “Menabò” n.4 e 5, queste poesie sono poi state scorporate dal loro originario contesto polemico-industriale in virtù di una ricomposizione per autore, fin da subito sopraffatte in notorietà da quei versi che rispecchiavano i temi principali e codificati del poeta in questione, e non una sua fase temporanea, magari giovanile, magari contestatrice, indegna di considerazione.

In particolare di mio interesse saranno Una visita in fabbrica di Vittorio Sereni, lungo poemetto in apertura del quarto fascicolo del “Menabò” (ancor prima del celeberrimo saggio del suo direttore); L’uomo di qualità, titolo di una raccolta di trentuno poesie di Lamberto Pignotti e Se sia opportuno trasferirsi in campagna , diciassette componimenti in versi di Giovanni Giudici, di cui una, la più lunga, eponima.

Alla vigilia del trionfo della Neoavanguardia, questa “poesia industriale”, forse ripetitiva, forse scarna ma sicuramente troppo ignorata, tenta un ultimo appiglio alla realtà e alle sue contraddizioni da smascherare, seguendo la via maestra indicata dai ben più popolari romanzi. Nonostante i limiti formali,contenutistici e soprattutto di prospettiva, nonostante il confino forzato negli anni sulle pagine di quello stesso

“Menabò” che ne vide la nascita, l’esperienza poetica scoordinata e personalizzata di autori dal passato e dal futuro differente rappresenta una voce in più contro le degenerazioni prodotte dall’industrialismo italiano, nonché un’ulteriore espressione del Grande Rifiuto3 come possibilità intrinseca e ancora attuale della letteratura.

3 L’espressione è di Herbert Marcuse in L’uomo ad una dimensione, op. cit.

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