• Non ci sono risultati.

Capitolo 5 Il caso italiano nella programmazione 2007-2013

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo 5 Il caso italiano nella programmazione 2007-2013"

Copied!
49
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo 5

Il caso italiano nella programmazione 2007-2013

5.1. Premessa

Esaurita la parte dedicata ad un'impostazione teorica ed all'interpretazione dei regolamenti comunitari in tema di fondi strutturali (da qui è emersa l'importanza concettuale del nuovo Quadro strategico nazionale), si passa adesso all'analisi di due casi, quello spagnolo e quello italiano, per vedere il grado e le modalità di utilizzo che questi due Stati membri hanno fatto del principio di partnership verticale.

Si parte con l'Italia che, già nello scorso periodo di programmazione, dimostrò una spiccata tendenza al decentramento, anche in fase decisionale; oggi la partecipazione regionale sembra confermata e dunque istituzionalizzata, nonostante le differenze che restano tra le regioni del Mezzogiorno (per meglio dire, le regioni in obiettivo Convergenza) e quelle del Centro-Nord (rientranti nell'obiettivo Competitività), di cui si tornerà a parlare in seguito; ciò vale a dire che

“Although there are no competence disparities across the Italian regions, the institutional performance of regional government varies dramatically between the group of eight Mezzogiorno regions on the one hand and the twelve northern regions on the other: Italy is divided along a north-south axis”1.

Per la ricostruzione dei fatti connessi alla programmazione 2007-2013, sono state determinanti alcune interviste, fatte direttamente ai funzionari degli uffici regionali di contatto, a Bruxelles2, o per mezzo di questionari inviati ai dipartimenti regionali che si occupano in prima persona della programmazione dei fondi strutturali, in diretto contatto sia con il livello nazionale, rappresentato dal Dps, sia con il livello comunitario (la Dg Regio della Commissione).

Tali interviste si sono rese necessarie per due motivi: in primo luogo l'analisi si è svolta contemporaneamente al divenire delle varie fasi di programmazione e per questo non è stata disponibile una consolidata letteratura in merito; d'altra parte, nonostante nel nostro Paese

1 Pag. 267, Grote in Marks e Hooghe, op. cit. Ovviamente, la divisione in otto e dodici regioni nei due obiettivi riguardava lo scorso periodo di programmazione.

2 Interviste realizzate a Bruxelles (Uffici di contatto): Regione Lombardia, Regione Piemonte, Regione Emilia-Romagna, Regione Toscana, Regione Campania; va aggiunta poi l'intervista a Bonanno Felice (Rappresentanza permanente d'Italia presso l'Unione europea) che ha dato una visione d'insieme, valida per tutte le regioni italiane.

(2)

siano state ufficializzate a priori le diverse fasi di programmazione3, nelle procedure resta un elevato grado di informalità, che può venire alla luce solo attraverso il contatto diretto con chi lavora alla programmazione.

5.2. Le regioni italiane e l'Ue: il contesto nazionale

Nonostante fossero previste dalla Costituzione del '48, le regioni furono concretamente istituite negli anni '704; per molto tempo rimasero centri di gestione e di indirizzo, fortemente

vincolati alle decisioni nazionali: lo Stato centrale interpretava la norma restrittivamente5 e si

dimostrava restio a trasferire le competenze alle regioni6. “Questo – dice Damonte – aveva

trasformato le regioni, con alcune eccezioni, in mere agenzie di esecuzione di linee di gestione del territorio elaborate dal livello nazionale”7. Le amministrazioni regionali, fin dalla

nascita, sono state elette democraticamente, ma spesso la natura del voto regionale si è mostrata altamente politicizzata e più legata alle vicende politiche nazionali che a quelle locali.

Così il dibattito sul regionalismo italiano vede contrapposte due prospettive: quella “dall'alto”, per cui le regioni sono agenzie di implementazione del policy making nazionale e per cui “l'agenda delle politiche viene stabilita a livello nazionale e l'attività dei governi regionali assume caratteristiche di pura reattività”; in questo caso per le regioni non sono necessari apparati burocratici di governo. D'altra parte troviamo la prospettiva “dal basso”, che implica “l'esistenza nella struttura nazionale di un insieme di sistemi politici regionali, ciascuno dotato di proprie risorse, di un proprio sistema amministrativo e di un sistema politico che sia

3 Intesa sulla nota tecnica relativa alla definizione del Quadro strategico nazionale per la politica di coesione 2007-2013 (Economia e finanze), ai sensi dell'art.8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n.131- Repertorio atti n.82 del 3 febbraio 2005, Conferenza Unificata (vedi infra).

4 “Il governo (DC)...dietro le pressioni esercitate da socialisti e cattolici progressisti all'interno, e dai comunisti all'esterno, decise infine di avviare una riforma regionale: con l'avvicinarsi delle elezioni del 1968, i partner della coalizione temevano infatti un avanzamento politico rilevante del PCI che potesse utilizzare le inadempienze del centro-sinistra come base di una campagna efficace contro un governo che si era presentato all'elettorato come un grande esperimento riformatore. La decisione di avviare l'istituzione delle regioni presentava per la coalizione di governo diversi vantaggi: in quanto riforma, dimostrava concretamente una volontà di agire costruttivamente; in quanto opera di decentramento, evocava il tema della partecipazione democratica; infine concretamente si presentava come una riforma limitata, di carattere tecnico, che poteva facilmente essere ridimensionata e dunque sollevava dubbi minori rispetto ad altre soluzioni”, pag. 51, Damonte A., op. cit.

5 “La storia della riforma regionale è una dinamica costruita di concessioni riluttanti da parte dei governi costretti ad intraprendere riforme su cui nutrivano gravi riserve, e di pressioni sui leader, dovute a specifiche condizioni politiche”, pag. 50, Damonte A., op. cit.

6 Negli anni '70, quando nacquero i primi Consigli regionali, lo Stato doveva trasferire loro alcune funzioni e metterle in condizioni di lavorare; proprio in questo si dimostrò la reticenza statale ed il trasferimento si ebbe gradualmente e con decreti legislativi successivi, che dettero una certa disorganicità, aggravata da quella che passò alla storia come “la tecnica del ritaglio”, e cioè un ridimensionamento delle materie che venivano trasferite, a piacimento dello Stato centrale. Questa situazione non permise a lungo alle regioni di funzionare pienamente, poiché non si poteva operare trattando materie di competenza solo parziale; finalmente il DPR 616/77 definì cinque settori organici di competenza regionale.

(3)

sufficientemente autonomo dalle direzioni nazionali, da poter elaborare proprie strategie ed obiettivi”8; in conseguenza di questa visione, la regione dovrebbe, oltre che gestire autonomamente i propri affari interni, essere rappresentata a livello nazionale come un'unità territoriale rilevante9. Il risultato del conflitto tra punti di vista divergenti è stato una “schizofrenia di regioni con ampie competenze ma con risorse finanziarie strettamente controllate dal centro, cosa che rappresenta bene il tipo di mediazione operata dalla legislazione nazionale e dalla regolazione amministrativa tra tendenze al decentramento e quelle alla centralizzazione”10.

Con la riforma costituzionale del 200111 si ha un nuovo Titolo V, in cui si definiscono le

competenze esclusive regionali in via residuale12 rispetto a quelle riservate allo Stato centrale

e quelle concorrenti, determinando così un innalzamento dell'autonomia politica regionale13;

ciò ha prodotto addirittura una “rincorsa” da parte delle regioni speciali, per cui continua a valere il vecchio regime di specialità, nei confronti delle regioni a statuto ordinario14, fortemente valorizzate da questa riforma, che ha dato una svolta decisiva al regionalismo italiano.

In seguito al 2001 l'Italia è stata assimilata, se non proprio agli Stati federali, senz'altro a quei Paesi caratterizzati da un regionalismo avanzato, come ad esempio la Spagna; Merloni15, come molti altri studiosi del diritto, afferma che al di là delle affermazioni di principio sancite

8 Pag. 52, Damonte A., op. cit.

9 Tali conclusioni riportano ad un modello federale, contenente dunque una Camera di rappresentanza regionale detta Senato federale che la legge costituzionale n.269/2005 avrebbe introdotto qualora il referendum costituzionale del giugno 2006 non l'avesse respinta. In realtà molti giuristi sostengono che non si sarebbe trattato di un vero e proprio Senato federale, poiché i senatori sarebbero stati eletti sulla base della popolazione regionale e contestualmente all'elezione del Consiglio Regionale, ma non sarebbe stato uguale alla vera e propria Camera federale, dove ogni Stato elegge un certo numero di propri rappresentanti. Inoltre in questo modello parlamentare la Camera dei deputati si sarebbe occupata solo delle competenze esclusive dello Stato, mentre il Senato federale si sarebbe occupato delle materie concorrenti, così da far diventare la legge statale un atto monocamerale. L'art.55 dice: “Il Senato federale della Repubblica è composto da 252 senatori eletti in ciascuna regione contestualmente all'elezione del rispettivo Consiglio regionale o Assemblea regionale e, per la Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol, dei Consigli delle Provincie autonome;....la ripartizione dei seggi... si effettua in proporzione alla popolazione delle regioni...”.

10 Pag.52, Damonte ., op. cit. 11 Legge costituzionale N.3/2001

12 Art. 117 Cost. co. 4 “Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

13 Sparisce il Commissario del Governo che prima apponeva il visto alle leggi regionali controllandone l'aderenza ai principi legislativi fondamentali stabiliti dalle leggi di Stato.

14 L'art.116 comma 3 introduce il regionalismo differenziato, a cui le regioni finora non hanno fatto ricorso. Si tratta della possibilità che le regioni ordinarie si differenzino per una maggiore autonomia rispetto alle altre: infatti le materie concorrenti potrebbero diventare di competenza esclusiva regionale. In realtà le materie da togliere allo Stato sono davvero ormai poche, rimanendo all'interno di uno Stato unico ed indivisibile. Ad esempio potrebbero essere acquisite dalle regioni una sotto-materia della lettera l) dell'art.117 in tema di norme processuali, ma solo nella giustizia di pace, le lettere n) sull'istruzione e s) sull'ambiente e sui beni culturali. Anche alla luce di questo meccanismo non si capisce in che cosa possano oggi distinguersi le regioni a statuto speciale.

15 Merloni F., “Il paradosso italiano: “federalismo” ostentato e centralismo rafforzato” in Le Regioni, 4/2005, Il Mulino.

(4)

nel nuovo Titolo V, l'accentramento politico ed amministrativo sia ancora la “tendenza di fondo” nel nostro Stato, cosa che emerge dalla legislazione, dagli atti e dai comportamenti delle amministrazioni che, al contrario, sarebbero ispirati al centralismo. Si tratterebbe infatti di un fenomeno giustificato dal timore delle spinte disgregatrici presenti nel Paese, che facilmente prenderebbero forza in un Paese caratterizzato “da un'unità più formale che sostanziale” e dunque da evidenti diversità sociali, economiche e culturali. Altra cosa aspramente criticata è il fatto che invece di attuare le nuove disposizioni della riforma 2001, si sia riaperto nell'immediato il cantiere della revisione costituzionale, che poi si è concluso con la risposta negativa del referendum costituzionale del giugno 2006: tra l'altro anche “la riforma della riforma”, che aveva l'intento di realizzare la c.d. devolution, avrebbe lasciato le stesse aporie di quella del 2001, senza avvicinare ulteriormente il sistema italiano a quello federale; anzi, la reintroduzione esplicita dell'interesse nazionale accanto alla competenza statale di determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, da garantire su tutto il territorio nazionale, avrebbe accentuato una rinnovata presenza dello Stato centrale.

Merloni argomenta la tesi del “paradosso italiano” in tema di decentramento affermando che una serie di indicatori16 dimostrerebbe il mantenersi di un certo grado di accentramento: primo tra tutti gli indicatori è l'autonomia finanziaria, di entrata e di spesa. L'art. 119 Cost. riformato, infatti, attribuisce alle Regioni la potestà impositiva, che permette di stabilire tributi, e la possibilità di scelta dei propri obiettivi di spesa; ma, al di là delle varie questioni interpretative, la prassi finora ha fatto sì che non esistano ancora tributi regionali17 e che, in passato, lo Stato centrale abbia imposto dei tagli alla spesa in bilancio regionale, inficiando così la c.d. autonomia finanziaria. “Che il centralismo fosse duro a morire lo si sapeva – dice Merloni – ma ritrovarlo così vegeto e arzillo lascia interdetti”, ed aggiunge che

“occorre ripensare le ragioni del decentramento e dell'autonomia come condizioni della democrazia, ma anche dello sviluppo economico e civile, ridiscutere (e possibilmente confrontare) tutte, una per una, le ragioni del centralismo così forti presso tutti i principali attori del sistema che lo ritengono ancora il migliore strumento di garanzia dell'uguaglianza nel godimento di tutti i

16 Gli indicatori riportati nel suo articolo sono: le funzioni svolte dalle regioni, gli apparati, le risorse, i raccordi intergovernativi. Il regionalismo fiscale sarebbe un momento importante per il percorso “federalista”; avviato dal Ministro Visco è rimasto fino ad oggi paralizzato, a tutto vantaggio del mantenimento centralizzato delle risorse finanziarie.

17 Va considerato che anche alla luce del divieto della “doppia imposizione” sancito dalla Corte Costituzionale, per cui non è possibile che una imposta regionale percuota un oggetto già coinvolto da un tributo statale, è difficile per le regioni trovare spazi per introdurre proprie tassazioni, nel sistema attuale.

(5)

diritti fondamentali dei cittadini”18.

La riforma del 2001 ha anche introdotto un riferimento alla partecipazione regionale alla politica comunitaria, sia in fase ascendente (corrispondente alla formazione del diritto comunitario) che in quella discendente (di recepimento ed applicazione della norma comunitaria)19.

Ai fini della presente trattazione ciò che più interessa è far riferimento alla partecipazione regionale in fase ascendente, nella generale convinzione che “l'efficienza dell'attività di attuazione20 del diritto comunitario da parte delle Regioni sarebbe, per così dire, direttamente

proporzionale alla misura del loro coinvolgimento nella cosiddetta fase ascendente”21; è

questo un ragionamento perfettamente in linea con la tesi sostenuta, a proposito della programmazione dei fondi strutturali, nell'analisi della partecipazione regionale al decision

making (del resto l'idea è che più le regioni partecipano alla fase decisionale sulle strategie,

tanto più saranno in grado di realizzare gli obiettivi strutturali in modo efficace ed efficiente). Così, per mezzo di vari provvedimenti che si sono susseguiti a partire dal 2001, la partecipazione delle regioni alla fase ascendente si è andata indubbiamente consolidando. Ciò si è verificato grazie al fatto che la Conferenza Stato-Regioni22 ha ampliato la propria rilevanza nella fase di formazione della posizione italiana, servendosi dell’intesa23; infatti, nelle materie di competenza regionale, e qualora una o più regioni ne facciano richiesta, il Governo è tenuto a convocare la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le provincie autonome, ai fini del raggiungimento di un'intesa, ai sensi dell'art.3 del d.lgs. n.281/1997; questa deve essere raggiunta entro il termine di venti giorni, decorsi i quali, se non si è ottenuto un risultato, il Governo può procedere anche in mancanza dell'intesa;

18 Pag.473, Merloni F., op. cit.

19 Art. 117 Cost., comma 5: “Le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge di Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

20 Per quanto riguarda la fase discendente il riferimento va fatto alla Legge La Pergola (art. 9, comma 1 e 2), oggi in gran parte ripresa dalla legge n.11/2005, in tema di attuazione del diritto comunitario, per cui le regioni speciali ed ordinarie, nelle materie di loro competenza esclusiva e concorrente, possono direttamente recepire le direttive comunitarie e, qualora esse non si attivino, lo Stato ha il diritto e dovere di intervenire data che è responsabile e risponde in prima persona nell'arena comunitaria. “A questo riguardo, in un documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni (ora Conferenza delle Regioni e delle Province autonome), successivo all’entrata in vigore del nuovo Titolo V, veniva registrato un esercizio soltanto “frammentato” ed “episodico” della competenza attuativa di cui al quinto comma dell’art. 117 della Costituzione e in dottrina, a distanza di qualche anno dalla novella costituzionale, si è constatato che, rispetto ai compiti relativi alla fase discendente, solo alcune Regioni sono in grado di esprimere una propria organica ed autonoma normativa di attuazione del diritto comunitario. Altre Regioni, è stato osservato, potrebbero addirittura preferire che sia lo Stato a provvedere, anche nelle materie di competenza regionale, in attesa dell’attivazione del legislatore periferico” da “L'attuazione del diritto comunitario nelle materie di competenza regionale dopo la legge n.11 del 2005”, Parodi G. e Puoti M.E., 2005, www.issirfa.org

21 Parodi e Puoti, op. cit.

22 Di questo organo si tornerà a parlare in seguito, per cui vedi infra. 23 L. n.11/2005, art. 5, comma 4.

(6)

l'esecutivo decide autonomamente anche nei casi di una non meglio precisata “urgenza motivata sopravvenuta”24.

Esistono inoltre garanzie della partecipazione regionale ai tavoli di coordinamento nazionale, come ad esempio al CIACE25 (Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei), istituito “al fine di concordare le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana in fase di predisposizione degli atti comunitari”26.

Va poi fatto riferimento alla disciplina concernente le forme di una concreta partecipazione regionale alle delegazioni governative che si recano presso le istituzioni comunitarie; tali meccanismi sono disciplinati dall’art. 5 della legge n. 131 (detta legge La Loggia). A far sì che le istanze di tale legge fossero attuate, ha contribuito la formulazione di un Accordo generale di cooperazione, sancito dalla Conferenza Stato-Regioni, il 16 marzo 200627: infatti

l'art. 5 sopra menzionato dispone che le regioni concorrano direttamente alla formazione degli atti comunitari, a cui sono interessate, attraverso la partecipazione alle delegazioni del governo, alle attività del Consiglio e ai gruppi di lavoro, nonché ai comitati del Consiglio e della Commissione. In realtà le modalità pratiche di tale partecipazione devono essere concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni, con l'obiettivo di garantire l'unitarietà della rappresentanza della posizione italiana da parte del Capo delegazione, designato dal Governo28. Così i punti principali dell'accordo a cui si è pervenuti riguardano la composizione della delegazione di governo relativa all'attività del Consiglio: si include un Presidente regionale (o un suo delegato), designato dalle regioni a statuto ordinario, e uno in rappresentanza delle regioni speciali. Per quanto riguarda la partecipazione ai gruppi di lavoro ed ai comitati, è garantita la presenza di un esperto regionale nominato dalle regioni ordinarie e uno da quelle speciali; inoltre la delegazione è capeggiata da un rappresentante governativo, a meno che si stabilisca diversamente in un'intesa raggiunta in Conferenza Stato-Regioni, su

24 Per un approfondimento si veda “La partecipazione delle Regioni italiane ai lavori della Commissione nel procedimento normativo comunitario”, Diverio D. in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005. 25 E' istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dall'articolo 2 della L. 4 febbraio 2005, n.

11; in esso è prevista, tra gli altri, la presenza del Ministero degli Affari regionali, nonché quella delle regioni e delle province autonome che possono chiedere di partecipare attraverso il presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano o un presidente di regione o di provincia autonoma da lui delegato. Inoltre il D.M. 9-01-2006 stabilisce un Regolamento per il funzionamento del Comitato tecnico permanente istituito presso il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie dall'articolo 2, comma 4, della L. 4 febbraio 2005, n. 11.

26 Legge n.11/2005, art. 5, comma 7.

27 Accordo generale tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la partecipazione delle regioni e delle province autonome alla formazione degli atti comunitari. Accordo ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n.131, Repertorio atti n.2537 del 16 marzo 2006. 28 Si tratta dunque di un rinvio ad un ulteriore atto di attuazione, rendendo impossibile fino a questa una

partecipazione regionale a queste delegazioni. L'adozione dell'accordo è avvenuta nel marzo 2006 ed è inevitabile riflettere sul fatto che le regioni non si siano potute avvalere di questi strumenti per incidere sulla formazione dei regolamenti sui fondi strutturali, che in questo momento erano praticamente definiti, né alle prospettive finanziarie anch'esse ormai decise, poiché agli inizi di aprile si è raggiunto l'accordo inter-istituzionale definitivo.

(7)

istanza regionale29.

Solo l’esperienza dei prossimi anni dimostrerà se i nuovi “diritti di partecipazione” alle fasi europee e nazionali dei processi ascendenti conseguiranno notevoli risultati e se “avranno significativi riflessi sulla fase discendente a livello regionale, considerata sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto il profilo della qualità e della tempestività”30.

Un altro aspetto da considerare, a proposito del rapporto tra le regioni e l'Unione europea, è la definizione di contatti formali diretti, una possibilità che per molto tempo è stata esclusa dallo Stato italiano. E' stato poi grazie al nuovo Statuto della Regione Emilia-Romagna che fu creato un precedente in questo senso, poiché il Parlamento riconobbe il diritto della Regione a stabilire legami con le istituzioni europee, andando al di là della riluttanza dimostrata dal Governo. Su questo percorso si arrivò nel 199631, in grande ritardo rispetto agli altri Paesi

europei, ad autorizzare la creazione degli uffici di collegamento a Bruxelles32, in modo che le regioni intrattenessero relazioni con l'Ue. Si istituzionalizzava così la prassi seguita da molte regioni, sebbene a livello non formalizzato e riconosciuto; non si dava però a tali “antenne europee” la qualifica di rappresentanza presso la Comunità, limitando così la funzione a quella meramente informativa. “Il compito degli uffici a Bruxelles è davvero ambiguo e non si sa quale sarà l'evoluzione di un organo che oggi, al più, svolge la funzione di passacarte tra Bruxelles e le Amministrazioni regionali in Italia”, dice a tal proposito un funzionario

29 Da notare come nelle disposizioni finali dell'Accordo si dica che “Lo Stato, le Regioni e le Provincie autonome, nell'ambito delle rispettive competenze, si impegnano a rimuovere tutti gli ostacoli di carattere amministrativo e burocratico, anche nei rapporti con le strutture comunitarie, per le piena operatività del presente accordo” (art.6).

30 Parodi e Puoti, op. cit.

31 Legge n.52/1996 in GU n.34 del 10 febbraio 1996. L'art.58, comma 4 dice: “Le regioni nonché le province autonome di Trento e Bolzano hanno la facoltà di istituire presso le sedi delle istituzioni dell'Unione europea uffici di collegamento propri o comuni. Gli uffici regionali e provinciali intrattengono rapporti con le istituzioni comunitarie nelle materie di rispettiva competenza. Gli oneri derivanti dall'istituzione degli uffici sono posti a carico dei rispettivi bilanci delle regioni e province autonome”.

32 Si tratta di un fenomeno che nasce nel 1984 con i primi due uffici a Bruxelles del Birmingham City Council e di Saalard (entrambi del Regno Unito); dopo solo tre anni si erano stabiliti ben 18 uffici fino a raggiungere, oggi, il numero di 150. Da un punto di vista quantitativo, si vede che le regioni con una rappresentanza non sono quelle che beneficiano maggiormente dei finanziamenti comunitari o quelle più povere in generale; infatti le maggiori rappresentanze sono proprio quelle delle regioni più ricche e forti politicamente e con una più definita identità culturale, come la Baviera (basti pensare che l'edificio di rappresentanza bavarese si trova tra il CdR e il Parlamento ed in tutto assomiglia ad una vera e propria ambasciata) e il Patronat Català. Queste in effetti svolgono anche una attività detta di regional lobbying. “Ci sono uffici con strutture modeste, con uno o due impiegati, anche part time, ed altri che assomigliano più a delle ambasciate, con uno staff numeroso e funzionari inviati dai vari ministeri”, pag. 53, “Realtà regionali ed Unione europea: il Comitato delle Regioni”, Milano, Giuffré Editore, 2001, collana della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Lecce di Adalberto Wojtek Pankiewcz. Esistono anche gruppi di regioni che costituiscono insieme il proprio ufficio di collegamento come quello Regioni Centro Italia che unisce Toscana, Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo per ridurre i costi derivanti dalle attività, poiché le regioni si dividono il lavoro, facendo poi circolare i risultati ottenuti: si tratta del primo esemplare di uffici di tal genere in tutta Europa. In generale, tutti gli uffici a Bruxelles tendono a fare rete, per entrare in contatto con la Commissione, che apprezza molto la logica del network.

(8)

dell'ufficio di collegamento della Regione Campania33.

Infine un'altra fonte di collegamento diretto tra Regioni e Ue è data dalla nomina regionale di quattro funzionari in seno alla Rappresentanza Italiana Permanente presso l'Unione europea, che la stessa legge del 1996 ha disposto. Tali rappresentanti sono nominati dalla Conferenza Stato-Regioni e ufficializzati dal Ministero degli Affari esteri; questi partecipano direttamente, nelle materie di competenza regionali, alle riunioni del Coreper34, anche se lo

stesso Bonanno Felice, che si occupa di politica regionale e di fondi strutturali per le regioni, dichiara che “in realtà è sempre molto difficile affermare la volontà regionale e resta ancora molto da fare in questo senso”35.

Da questa sintetica ricostruzione emerge con chiarezza che le opportunità di inserimento delle regioni nel policy making europeo si sono certamente ampliate, anche se di fatto sono le regioni dotate di maggiori capacità, risorse e senso di “imprenditorialità” a sfruttare meglio questi spazi.

5.3. Un excursus storico sulla politica regionale

Per ben quattro decenni del dopoguerra, la politica regionale ha avuto un'impronta fortemente Stato-centrica, concretizzandosi nel c.d. Intervento straordinario che interessava le singole regioni, soprattutto quelle meridionali. Tale Intervento veniva finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno, un'agenzia controllata dal governo e che aveva un'autorità esclusiva sulla definizione, sul finanziamento e sull'implementazione delle iniziative: chiara è dunque l'impostazione altamente centralizzata di tale sistema.

Per attenuare tale caratteristica, nel 1957, nacque un consorzio di autorità locali per la promozione di nuovi stabilimenti industriali, detti Aree di sviluppo industriale (ASI), in cui si puntava sul coinvolgimento strategico ed operativo delle amministrazioni locali: si trattava del primo segnale di una volontà decentralizzante in tema di sviluppo territoriale.

Nel 1958 si decise di industrializzare il Sud per mezzo di un'operazione pianificata da parte della Cassa, che realizzò nuclei industriali volti ad attirare investimenti privati, ma soprattutto pubblici, nella realizzazione di quelle che vengono ricordate col nome di “cattedrali nel

33 Intervista del 24/11/2006, Bruxelles.

34 Il Coreper è il Comitato dei rappresentanti permanenti ed è costituito dagli ambasciatori degli Stati membri presso l'Unione europea (rappresentanti permanenti). Ha il compito di assistere il Consiglio trattando i dossier (proposte e progetti di atti presentati dalla Commissione) iscritti all'ordine del giorno di quest'ultimo, in una fase di prenegoziato. Detiene un ruolo centrale nel sistema decisionale comunitario in quanto è, al tempo stesso, organo di dialogo tra i rappresentanti e di ciascuno di essi con la rispettiva capitale, ed organo di controllo politico, per orientare e supervisionare i lavori dei gruppi di esperti. E' articolato in due formazioni al fine di far fronte all'insieme dei compiti ad esso affidati: il Coreper I, composto dai rappresentanti permanenti aggiunti, copre dossier a carattere specificamente tecnico; il Coreper II, composto dagli ambasciatori, tratta questioni di carattere politico, commerciale, economico o istituzionale. La qualità dei lavori del Coreper costituisce la garanzia per il buon funzionamento del Consiglio.

(9)

deserto”36. Solo in seguito ci si rese conto degli effetti perversi che tale regime di aiuti statali produceva, creando inoltre una “cultura di dipendenza” ed indebolendo le capacità imprenditoriali del luogo.

Negli anni '60 si cominciò a sentire l'esigenza di una programmazione pluriennale dell'intervento, e si definì per questo un Programma di sviluppo economico nazionale, in cui si includeva l'intervento della Cassa.

Negli anni '70 poi l'attivazione delle regioni ordinarie trasferì a queste varie competenze, anche in tema di politica di sviluppo, tra cui la gestione delle ASI, dei nuclei industriali e delle iniziative in ambito agricolo; di fatto la Cassa cominciò ad essere un'agenzia tecnica di supporto all'attività di pianificazione regionale. Da qui si decise di introdurre rappresentanti regionali nella Cassa per il Mezzogiorno e di definire il Comitato delle rappresentanze regionali, che includeva dunque i Presidenti delle regioni del Sud, oltre ai funzionari del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe37, con il compito di definire gli assetti di politica industriale).

Nel 1984 si decise di abolire la Cassa38 e così, nel 1986, la legge n.64 dette avvio ad una struttura complessa e policentrica di programmazione, tendente ad un assetto multi-livello;

36 E' un'espressione che richiama anche i risultati che emergono dall'analisi input-output, a proposito di questa struttura economica; infatti si dimostra che questi grandi sforzi finanziari per instaurare il settore industriale, completamente scisso dal debole tessuto produttivo locale, attivarono al contrario le industrie del Nord, da cui provenivano i fattori primari ed i beni intermedi di produzione, registrando così un completo fallimento dal punto di vista della risoluzione dei problemi economici del Mezzogiorno.

37 D.Lgs. n.430/1997 di unificazione dei Ministeri del tesoro e del bilancio e della programmazione economica e di riordino delle competenze del Cipe, a norma dell'articolo 7 della L. 3 aprile 1997, n.94, parla delle attribuzioni del Cipe all'art. 1 e dice: “Nell'ambito degli indirizzi fissati dal Governo, il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), sulla base di proposte delle amministrazioni competenti per materia, svolge funzioni di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale, nonché di coordinamento della politica economica nazionale con le politiche comunitarie, provvedendo, in particolare, a:

a) definire le linee di politica economica da perseguire in ambito nazionale, comunitario ed internazionale, individuando gli specifici indirizzi e gli obiettivi prioritari di sviluppo economico e sociale, delineando le azioni necessarie per il conseguimento degli obiettivi prefissati, tenuto conto anche dell'esigenza di perseguire uno sviluppo sostenibile sotto il profilo ambientale, ed emanando le conseguenti direttive per la loro attuazione e per la verifica dei risultati;

b) definire gli indirizzi generali di politica economica per la valorizzazione dei processi di sviluppo delle diverse aree del Paese, con particolare riguardo alle aree depresse, e verificarne l'attuazione, attraverso una stretta cooperazione con le regioni, le province autonome e gli enti locali interessati, con le modalità previste dal decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. A tale fine approva, fra l'altro, piani e programmi di intervento settoriale e ripartisce, su proposta delle amministrazioni interessate, le risorse finanziarie dello Stato da destinare, anche attraverso le intese istituzionali di programma, allo sviluppo territoriale;

c) svolgere funzioni di coordinamento ed indirizzo generale in materia di intese istituzionali di programma e di altri strumenti di programmazione negoziata, al fine del raggiungimento degli obiettivi generali di sviluppo fissati dal Governo e del pieno utilizzo delle risorse destinate allo sviluppo regionale, territoriale e settoriale; approvare, ai sensi dell'articolo 2, commi 205 e 206, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, le singole intese istituzionali di programma e la disciplina per l'approvazione ed il finanziamento dei contratti di programma, dei patti territoriali e dei contratti di area, nonché definire ulteriori tipologie della contrattazione programmata, disciplinandone le modalità di proposta, di approvazione, di attuazione, di verifica e controllo”.

38 Questa fu rimpiazzata dal Dipartimento per il Mezzogiorno presso la Presidenza del Consiglio e l'Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (AgenSud).

(10)

tali disposizioni non si concretizzarono però fino all'abolizione dell'Intervento straordinario nel 1992, ultimo baluardo di un approccio fortemente centralizzato. Ormai questa rigidità si era spezzata e si faceva largo il lungo percorso di decentramento della politica regionale. E' vero però che c'erano alcuni ostacoli nella realizzazione di una nuova collaborazione verticale, come ad esempio il gap conoscitivo tra il centro e la periferia, oltre che la mancanza di un sistema informativo territoriale che facesse da supporto all'identificazione dei bisogni e delle opportunità. Le discrepanze tra Centro-Nord e Sud si manifestarono soprattutto con l'andamento resiliente degli assetti centralisti che si riproponevano al Mezzogiorno, dove più tortuoso era il percorso di creazione di una amministrazione capace e specializzata. Ciò era dovuto al fatto che, fino a quel momento, le regioni meridionali si erano appoggiate su una politica di sviluppo statale assistenzialista e, per loro, ora risultava più difficoltoso diventare entità di programmazione strategica e di pianificazione.

Addirittura si riscontrò una mancanza di domanda di un'effettiva autonomia da parte delle regioni del Sud, poiché ormai si erano adeguate ad un sistema in cui le decisioni e le azioni provenivano dall'alto.

Secondo Gualini39, tali difficoltà nell'avviare il regionalismo sono date da due motivi principali: il primo consiste nel fatto che storicamente il nostro Paese non possiede una cultura che valorizzi l'identità regionale40, essendo invece fondato sui Comuni; d'altra parte poi questo avvio indeciso del percorso regionale sarebbe dovuto all'ambiguità dei partiti politici41 di fronte al tema del regionalismo.

Se negli anni '70 il modello costituzionale italiano era considerato, in Europa, come uno dei più decentrati tra i Paesi non federali, ben presto ci si rese conto che, in effetti, il regionalismo italiano era assai debole, proprio come quello del Belgio, della Spagna e della Grecia.

Nel frattempo, in Europa, le società locali si rafforzavano come entità portatrici di interesse, radicando la logica anti-statalista ed anti-istituzionalista, che fece assistere anche nel nostro Paese al passaggio dal regionalismo top-down degli anni '70 a quello bottom up degli anni

39 Gualini E., Multilevel governence and Institutional Change, University of Amsterdam, Ashgate, 2004. 40 Ciò viene affermato anche da Grote: “Weak regional identities in Italy, and the absence of regional party

organizations and political constituencies, have certainly played a role in that respect. However it is not only external determinants that account for the lack of the regions' success; a major reason lies with regional administration itself”, pag. 261, Mark e Hooghe, op. cit.

41 Le regioni, fino agli anni '90, continuarono ad esercitare deboli forze centrifughe e ciò si ebbe anche per una mancanza di connessione dei partiti politici al territorio ed alla sua identità, poiché erano essenzialmente partiti nazionali; si sviluppò però il fenomeno della “territorializzazione della politica nazionale” per cui ogni regione si caratterizzò per aderire tradizionalmente ad un certo partito. In seguito agli scandali di corruzione degli anni '90 si ebbe una rottura col vecchio sistema politico, in cui si posero le basi per una nuova “politica dell'identità” che portò alla nascita della Lega Nord, caratterizzata da una forte impronta folcloristica, dal tema del rifiuto dell'assistenzialismo e dalla protesta fiscale. Nasce così, proprio negli anni '90, la cosiddetta “questione settentrionale”, a causa della diffusione di un malessere e della protesta connessa alla crescita del prelievo fiscale che alimentavano i trasferimenti “massicci e senza fine” verso il Sud. Per approfondimenti si veda Viesti G., Abolire il Mezzogiorno, Editore Laterza, 2003.

(11)

'9042; quest'ultimo è dato da una nuova spinta dal basso verso l'affermazione dell'entità regionale, cosa che in passato era mancata. Si avverte la necessità di ridefinire i livelli politici in base alla dimensione territoriale di efficienza e di legittimità politica; a tal proposito Gualini dice che

“In this sense, the tale of the shifting responses given by state actors to the features taken by this chellenge in a “two-table” game: a game defined by a radical change in conditions for policy effectiveness and legitimacy “from below” (that is from the level of regional constituences and local societies) and “from above” (that is from the level of European institutions and policies)”43.

Va detto che molti osservatori parlano, invece che di una spinta nazionale alla modernizzazione, di un adattamento “isomorfico” dell'Italia al percorso di integrazione europeo, in modo reattivo più che attivo, e cioè muovendosi in risposta agli input europei; così che

“it was only in 1995 that, following a clarification of State competencies in Structural Funds programming, and in line with the experience gained in the Delors I period between 1989-1993, a strategic orientation in regional policy began to emerge within the Ministry of Budgeting”44.

Dunque, fu davvero importante per il nostro Paese il fattore “Europeizzazione” che produsse un “shock normativo” nel nostro sistema, attraverso la richiesta dell'uso di principi come la sussidiarietà45, la partnership e l'addizionalità46.

Comunque la riforma della politica strutturale del 1988 non riuscì nell'immediato a instaurare una regional governance, nonostante le sia stato riconosciuto un forte valore decentralizzante

42 Hall chiama questa fase “first order change” in cui cambiarono alcuni strumenti, ma gli obiettivi restarono gli stessi, da distinguersi dal “second order change” che, data la natura bottom up, stravolge gli assetti di

policy.

43 Pag. 112, Gualini E., op. cit. 44 Pag. 123, Gualini, op. cit.

45 “In EU cohesion policy, these key concepts seem to be partnership and subsidiariety, which have in the mean time penetrated debates about institutional and constitutional reform, especially in Italy”, pag. 257, Marks e Hooghe, op. cit.

46 Il principio di sussidiarietà fu accolto in Italia per la prima volta con i Programmi Integrati Mediterranei (PMI), nel 1985, che rappresentarono un punto di svolta, essendo programmi decentrati di medio termine; richiedeva dunque che le varie responsabilità fossero dislocate al livello più appropriato. Inoltre estesero l'eleggibilità oltre le regioni del Sud e dunque a ben 16 regioni italiane, per la prima volta valorizzando interventi di sviluppo regionale anche nelle regioni del Centro-Nord, generalmente ignorate dall'Intervento Straordinario e così dalla Cassa. I PMI rappresentarono un'importante occasione per l'accumulo di expertise e competenze specializzate. Inoltre “What does the above tell us in terms of partnership? The regions have, without a doubt, gained power compared to the pre-IMPs period. Yet, at the same time, central istitutions continue to be the gatekeepers”, pag.266, Marks e Hooghe, op. cit.

(12)

in sede europea. In Italia infatti vari erano gli ostacoli che si frapponevano, come l'incapacità dello Stato di applicare le disposizioni comunitarie, l'inefficienza di questo nell'indirizzare l'azione regionale, l'ambiguità delle relazioni inter-governamentali e l'inconsistenza tra le modalità formali e reali di coinvolgimento delle regioni nel decision making: tutto ciò fece sì che lo Stato ricorresse alla ri-centralizzazione della programmazione dei fondi strutturali, rimpiazzando dunque le competenze regionali.

Nei periodi di programmazione successivi si avvertì in Italia un progressivo decentramento, attraverso la ridefinizione del ruolo statale e regionale; nel 1999 si è così giunti ad osservare una forte presa di posizione da parte delle regioni47. Nel nostro Paese si può dunque rilevare

un “moto” inverso rispetto a quello definito in sede comunitaria: infatti, in Europa, si ha una ri-nazionalizzazione48 dei regolamenti sui fondi strutturali passando dalla riforma 1988 a

quella 2006, come visto in precedenza, mentre in Italia, nello stesso arco di tempo, si va da un assetto centralizzato ad uno ampiamente decentrato, su cui si ritornerà in seguito.

Sostanzialmente questa evoluzione si è avuta grazie all'incremento delle capacità regionali, stratificatesi nel tempo, ma anche alla nuova consapevolezza e volontà sub-nazionale di affermare il proprio ruolo in sede decisionale. Inoltre è rilevante la ristrutturazione interna al Paese, tra cui quella dell'esecutivo, ma è importante riconoscere anche che le istanze comunitarie hanno fatto scattare una molla, senza la possibilità di percorrere a ritroso la strada del decentramento ormai avviata.

Inizialmente si individuò nel Dipartimento delle politiche comunitarie49, sotto la Presidenza del Consiglio, l'organo leader nel mediare le relazioni inter-governamentali e nello sviluppo delle capacità di programmazione; questo servì inoltre da interfaccia per le regioni, che erano le nuove autorità di gestione. Tale Dipartimento forniva soluzioni per la copertura delle quote di cofinanziamento statale, cosa resa difficile dal fatto di dover attingere alle casse di vari ministeri, oltre che a quelle regionali; così si propose di istituire a tal proposito un Fondo di Rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie50.

In realtà, il Dipartimento non riuscì a determinare un coordinamento adeguato tra i vari Ministeri: il Ministero per il Mezzogiorno era l'autorità di gestione del FESR, mentre il Ministero del Lavoro coordinava il FSE e il Ministero dell'Agricoltura il fondo agricolo. Fu per questo che, con il d.lgs. n.96/1993 e con il d.lgs. n.283/1994, si trasferirono tutte le competenze in tema di fondi strutturali al Ministero del Bilancio, internamente al quale si istituì il Servizio centrale per la Coesione (che in seguito, con l'unificazione del Ministero del

47 Vedi infra.

48 Vedi retro (capitolo 4).

49 Più precisamente, all'interno di questo, si trovava l'Ufficio per i programmi comunitari.

50 Legge n.183/1987, era gestito dal Ministero del Bilancio e con esso si dette un'unica risorsa per la copertura delle spese, avendo così una più efficiente procedura di allocazione delle risorse comunitarie e nazionali.

(13)

Bilancio e del Tesoro51 - in base al riordino delle competenze ministeriali del 1997- diventò Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, DPS)52. Ecco che il Ministero del Bilancio diventa un forte gatekeeper nazionale in tema di politica strutturale, data l'ufficializzazione di un ruolo così vasto nella politica regionale; si delinea così un “super-ministro” dell'economia, reso il maggior attore strategico nell'arena delle relazioni inter-governamentali53 e confermato tale dalla conclusione della riforma delle competenze

ministeriali del 1997, che formalizzò significative innovazioni del ruolo del Ministero del Bilancio nella programmazione multi-level54.

Va sottolineata la nascita del Dps che assunse subito la forma fino ad oggi mantenuta: il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione (istituito nel 1998) nasce dunque sotto il Ministero del Bilancio, del Tesoro e della programmazione economica, successivamente rinominato Ministero dell'Economia e delle Finanze, sotto il quale è rimasto fino a maggio 2006, quando è poi passato a far parte del Ministero dello Sviluppo economico.

L'obiettivo di tale organo è realizzare, in attuazione dell’art. 119, comma 555 della Costituzione, gli interventi volti al riequilibrio economico-sociale e allo sviluppo economico delle aree sottoutilizzate del Paese. Il Dipartimento ha coordinato l’attuazione del Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006 per le Regioni italiane dell’Obiettivo 1, attraverso il quale vengono utilizzate le risorse comunitarie dei fondi strutturali, ed ha coordinato la predisposizione del Quadro Strategico Nazionale 2007-2013. Inoltre promuove la programmazione degli investimenti pubblici e degli incentivi, il loro finanziamento per

51 In seguito alla riforma 1997, il Ministero del Bilancio e del Tesoro si compose di quattro dipartimenti, per svolgere le funzioni prima svolte dai due ministeri separatamente: il dipartimento del tesoro, la Ragioneria generale di Stato, il Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione (Dps), il dipartimento del personale, amministrazione e servizi. Il più innovativo era il Dps che segnava un'innovazione della politica, volta ora al coordinamento dei programmi comunitari con le misure nazionali e con le iniziative di politica regionale a livello statale, regionale e locale.

52 Questa decisione, che ebbe grandi riflessi sulla politica regionale italiana, è frutto di un un processo autocratico interno più che essere il risultato di una richiesta della Comunità europea; quindi è vero che la spinta europea è stata rilevante, ma è anche vero che il processo interno percorre una propria strada, di rielaborazione e metabolizzazione dei messaggi comunitari.

53 Un esempio di questo nuovo ruolo è il protocollo del 1995, frutto del negoziato tra il Ministro del Bilancio e la DG Regio, noto come “Masera-Wulf-Mathies agreement”, che dette notevoli concessioni all'Italia, compresa la possibilità di ritardo nell'implementazione del QCS '89-'93; si trattava di concessione a fronte dell'impegno italiano di razionalizzare le strutture amministrative italiane e le procedure coinvolte nella programmazione regionale Ue. Il DPEF '95-'97 andò in tal senso, definendo tra l'altro un corpo di controllo dell'implementazione dei programmi e cioè una Cabina di Regia affiancata da Cabine di regia regionali. A causa di una ridondanza delle competenze, nel 1999, si decise di porre fine alla Cabina di regia nazionale, lasciando il posto alle Cabine regionali, ora le sole competenti in tema di gestione.

54 La riforma ministeriale del 1997 si struttura su tre direttrici: la ristrutturazione organizzativa, la ridefinizione delle competenze, la riorganizzazione delle agenzie di sviluppo settoriale.

55 Art. 119 Cost., comma 5: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Provincie, Città metropolitane e Regioni”.

(14)

mezzo del Fondo per le Aree Sottoutilizzate (FAS)56, nonché la loro attuazione attraverso le Intese Istituzionali di Programma, sottoscritte tra Stato e Regioni, e con gli Accordi di Programma Quadro in cui queste ultime si articolano57.

Bisogna riconoscere che il Ministero del Bilancio ha svolto un ruolo chiave nel recupero della credibilità del Paese presso le istituzioni comunitarie e nell'allineare la performance italiana agli standard richiesti, fino a quel momento invece ampiamente disattesi.

Anche l'esperienza italiana conferma che, di fronte alla necessità d acquisire la lezione di metodo comunitario, la prima risposta data è quella di rafforzare il livello centrale, e solo successivamente puntare alle regioni: lo stesso si sta riscontrando oggi nei paesi dell'Est, il cui percorso di regionalizzazione è lento per più motivi58.

La tendenza al decentramento ha fatto sì che si affermasse l'Intesa istituzionale di programma59 (IIP) che “è lo strumento di programmazione che consente a ogni Regione, o Provincia autonoma, di concordare con il governo centrale gli obiettivi, i settori e le aree dove effettuare gli interventi infrastrutturali di interesse comune, per lo sviluppo del territorio regionale”60.

La gestione dell'intesa è garantita dal Comitato istituzionale di gestione, un organo composto dai rappresentanti del Governo e della Giunta della Regione o della Provincia Autonoma interessata; tale comitato svolge una funzione di verifica del raggiungimento degli obiettivi previsti nei programmi. Tutte le regioni e le due Province autonome hanno ad oggi sottoscritto un'Intesa e la maggior parte di queste ha già provveduto ad integrare il testo con nuovi settori d'intervento, per ciascuno dei quali l'IIP prevede la stipula di un Accordo di Programma Quadro61; questo puntualizza in concreto le opere, i finanziamenti e le procedure

56 Nel Fondo per le Aree Sottoutilizzate (coincidente con l’ambito territoriale delle aree depresse di cui alla legge n.208/1998) si concentra e si dà unità programmatica e finanziaria all’insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale che, in attuazione dell’art.119, comma 5 della Carta Costituzionale, sono rivolti al riequilibrio economico e sociale fra le aree del Paese.

Le risorse vengono ripartite e assegnate annualmente dal Comitato Interministeriale Programmazione Economica (CIPE) alla Regione e alle Amministrazioni Centrali dello Stato.

57 In aggiunta, produce analisi delle tendenze economiche territoriali e dei flussi finanziari per lo sviluppo, contribuendo all’elaborazione dei documenti economici e programmatici del Governo. Svolge valutazioni degli investimenti di Amministrazioni e soggetti che operano con finanziamenti pubblici e ne verifica l’attuazione. Promuove e gestisce gemellaggi istituzionali e progetti di cooperazione bilaterale con Paesi candidati all’adesione all’Unione europea e Paesi Terzi. Disegna e sostiene progetti di modernizzazione e di rafforzamento della capacità istituzionale delle Amministrazioni che gestiscono la spesa in conto capitale (www.dps.mef.gov.it).

58 Vedi retro (capitolo 4).

59 L'IIP è stata istituita con la legge n.663 del 23 dicembre 1996 che detta una nuova disciplina per la programmazione negoziata, per cui vedi infra.

60 www.dps.mef.gov.it

61 Art.203, lettera c) della legge sopra citata dice che: “Accordo di programma quadro, come tale intendendosi l'accordo con enti locali ed altri soggetti pubblici e privati promosso dagli organismi di cui alla lettera b), in attuazione di una intesa istituzionale di programma per la definizione di un programma esecutivo di interventi di interesse comune o funzionalmente collegati. L'accordo di programma quadro indica in particolare: 1) le attività e gli interventi da realizzare, con i relativi tempi e modalità di attuazione e con i

(15)

di monitoraggio.

In generale, si può affermare la definizione di una nuova strumentazione per la concertazione tra i livelli istituzionali, al fine di realizzare interventi che implichino delle decisioni istituzionali e l'uso di risorse finanziarie appartenenti alle amministrazioni statali, regionali ed agli enti locali. Tali azioni possono essere regolate da accordi rientranti nella programmazione negoziata, “come tale intendendosi la regolamentazione concordata tra soggetti pubblici o tra il soggetto pubblico competente e la parte o le parti pubbliche o private per l'attuazione di interventi diversi, riferiti ad un'unica finalità di sviluppo, che richiedono una valutazione complessiva delle attività di competenza”62.

Da una parte la spinta dell'Europeizzazione, dall'atra le riforme interne degli anni '90 prepararono un nuovo sistema basato su un elevato grado di concertazione, che caratterizza senz'altro il regionalismo italiano e che ha prodotto i suoi primi frutti con la programmazione 2000-200663.

termini ridotti per gli adempimenti procedimentali; 2) i soggetti responsabili dell'attuazione delle singole attività ed interventi; 3) gli eventuali accordi di programma ai sensi dell'articolo 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142; 4) le eventuali conferenze di servizi o convenzioni necessarie per l'attuazione dell'accordo; 5) gli impegni di ciascun soggetto, nonché del soggetto cui competono poteri sostitutivi in caso di inerzie, ritardi o inadempienze; 6) i procedimenti di conciliazione o definizione di conflitti tra i soggetti partecipanti all'accordo; 7) le risorse finanziarie occorrenti per le diverse tipologie di intervento, a valere sugli stanziamenti pubblici o anche reperite tramite finanziamenti privati; 8) le procedure ed i soggetti responsabili per il monitoraggio e la verifica dei risultati. L'accordo di programma quadro e' vincolante per tutti i soggetti che vi partecipano. I controlli sugli atti e sulle attività posti in essere in attuazione dell'accordo di programma quadro sono in ogni caso successivi. Limitatamente alle aree di cui alla lettera f), gli atti di esecuzione dell'accordo di programma quadro possono derogare alle norme ordinarie di amministrazione e contabilità, salve restando le esigenze di concorrenzialità e trasparenza e nel rispetto della normativa comunitaria in materia di appalti, di ambiente e di valutazione di impatto ambientale. Limitatamente alle predette aree di cui alla lettera f), determinazioni congiunte adottate dai soggetti pubblici interessati territorialmente e per competenza istituzionale in materia urbanistica possono comportare gli effetti di variazione degli strumenti urbanistici gia' previsti dall'articolo 27, commi 4 e 5, della legge 8 giugno 1990, n. 142”. Oltre all'IIP e all'APQ, nell'articolo ritroviamo il Contratto di area (“come tale intendendosi lo strumento operativo, concordato tra le amministrazioni, anche locali, rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonche' eventuali altri soggetti interessati, per la realizzazione delle azioni finalizzate ad accelerare lo sviluppo e la creazione di una nuova occupazione in territori circoscritti, nell'ambito delle aree di crisi indicate dal Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del bilancio e della programmazione economica e sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, che si pronunciano entro quindici giorni dalla richiesta, e delle aree di sviluppo industriale e dei nuclei di industrializzazione situati nei territori di cui all'obiettivo 1 del Regolamento CEE n. 2052/88, nonche' delle aree industrializzate realizzate a norma dell'articolo 32 della legge 14 maggio 1981, n. 219, che presentino requisiti di piu' rapida attivazione di investimenti di disponibilita' di aree attrezzate e di risorse private o derivanti da interventi normativi. Anche nell'ambito dei contratti d'area dovranno essere garantiti ai lavoratori i trattamenti retributivi previsti dall'articolo 6, comma 9, lettera c), del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389»); il Comitato di programma («come tale intendendosi il contratto stipulato tra l'amministrazione statale competente, grandi imprese, consorzi di medie e piccole imprese e rappresentanze di distretti industriali per la realizzazione di interventi oggetto di programmazione negoziata”) ; il patto territoriale (“come tale intendendosi l'accordo, promosso da enti locali, parti sociali, o da altri soggetti pubblici o privati con i contenuti di cui alla lettera c), relativo all'attuazione di un programma di interventi caratterizzato da specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale”).

62 Art. 203 della legge n.663/96.

63 Si tratta del “third order change” secondo Hall (vedi nota n.39); “First and second order change can be seen as cases of “normal policy making”, namely as a process that adjust policy without hallenging the overall terms of a given policy paradigm, much like “normal science”. Third order change, by contrast, is likely to

(16)

Si aprì infatti nel 1998 la c.d. “Nuova programmazione”, e cioè un nuovo corso dello stile di programmazione, articolato su due direttrici: da una parte la connessione tra la politica regionale nazionale ed europea (per mezzo di accordi istituzionali tra Stato e regioni), accompagnata dall'avvicinamento della dimensione pubblica alla logica di mercato, dall'altra la connessione della politica ai sistemi locali di sviluppo, in cui i fondi strutturali ed altre linee di programma vengono racchiusi in un disegno unitario e sinergico (la politica di sviluppo possiede ora un “territorial-based framework”).

Tale nuovo approccio evidenzia un atteggiamento di maggior competitività64 tra regioni e

Stato, oltre che di cooperazione; a tal proposito c'è anche chi sostiene che “this can be best decribed as a phase of neither explicitly cooperative nor competitive, but rather cahotic intergovernmental relationships”65.

5.4. Programmazione 2000-06 tra collaborazione e conflittualità

Come sopra accennato, la programmazione del '99 segnò in Italia l'emergere con forza del “terzo livello”, che affermò il suo ruolo decisionale in sede nazionale, mettendo in crisi il vecchio sistema dei fondi strutturali; “qualcosa era scattato – dice Mario Badii66 – e non poteva essere fermata l'avanzata delle regioni che ha portato nel 2006 ad un netto e formalizzato innalzamento dello status regionale”.

Le controversie interne cominciarono al vertice di Berlino, sede della definizione delle prospettive finanziarie 2000-06, dove la rappresentanza italiana non mantenne la posizione concertata internamente: ciò metteva in discussione la rilevanza regionale nel policy making europeo.

Di fatto l'unico spazio per la partecipazione delle entità sub-nazionali era rappresentato dalla Conferenza Stato-Regioni67, non essendo possibile un contatto diretto con Bruxelles nelle fasi reflect a very different process, marked by radical changes in the overarching terms of policy discourse associated with a “paradigm shift””, pag. 232, Gualini E., op. cit.

64 In questo contesto di competitività lo Stato ha spesso dimostrato la volontà di by-passare le regioni stringendo contatti diretti direttamente con le autorità locali attraverso i patti territoriali ed i contratti d'area; ciò viene definito da Triglia come il “paradosso delle regioni”; sarebbe questo infatti un modo per risolvere il dilemma del regionalismo italiano, aggirando l'ostacolo.

65 Pag.227, Gualini E., op. cit. Sebbene nel resto del testo “inter-governamentale” si riferisca alle relazioni tra Stati nel contesto sopranazionale (da lì anche il modello teorico inter-governamentale), si deve ricordare come Gualini usi tale aggettivo per definire ogni rapporto tra i diversi livelli istituzionali, per cui anche le relazioni tra le regioni e lo Stato centrale.

66 Intervista 30/11/2006, Bruxelles.

67 “L'art.12 della legge n.400/1988 legittimava il ruolo consultivo della Conferenza – esistente già dal 1983 ma con mansioni meramente amministrative e senza obbligo di consultazione da parte del Governo – attribuendole compiti di informazione, collegamento su linee politiche generali potenzialmente rilevanti per le Regioni e consultazione obbligatoria con il Governo su tutte le materie relative al coordinamento, all'elaborazione e all'implementazione delle politiche e degli atti comunitari. Questo ha reso la Conferenza il forum più importante di dialogo e armonizzazione tra le posizioni del governo nazionale e di quelli regionali

(17)

di formulazione dei regolamenti. Da qui derivò lo scontento delle regioni in obiettivo 2, a proposito dei criteri per la realizzazione della mappatura, a cui era connessa la problematica suddivisione dei plafond di popolazione; così infatti era previsto dai regolamenti, che definivano l'eleggibilità per tale obiettivo non su base regionale (Nuts 2), ma su base provinciale (Nuts 3).

Ciò fece emergere una netta distinzione tra il contesto decisionale delle regioni obiettivo 1, per cui fu più facile una concertazione (non a caso si riuscì a consegnare il QCS senza alcun ritardo), e la situazione del Centro-Nord che, lottando per la valorizzazione della propria posizione, definì un assetto decisionale caotico, rimproverato più volte dalla Commissione. Per le regioni in Obiettivo 168 si introdussero significative innovazioni di metodo, dando un

forte impulso alla concertazione tra le diverse strutture amministrative nazionali e regionali e tra queste ed i principali soggetti sociali. Un esempio è il documento “Cento idee per lo sviluppo”, in cui si individuarono tematiche fondamentali su cui ogni regione produsse delle schede contenenti priorità ed obiettivi, raccolti e presi in considerazione dal Dps69.

Il Piano di sviluppo per il Mezzogiorno rappresentò così la sintesi dei contenuti emersi nel dibattito, mediando le necessità e le istanze regionali; del resto si tratta dello stesso meccanismo oggi riproposto per la formulazione del Qsn che riguarda l'intero ambito nazionale.

Diversamente invece successe per le regioni del Centro-Nord che, in base alle aspettative maturate fino a quel momento, puntarono a massimizzare il proprio peso decisionale nel contesto nazionale; ciò fu favorito da un'apertura dimostrata dalla tecnostruttura del Dps, che adottò “il presupposto europeo della centralità funzionale delle regioni nelle politiche di sviluppo del territorio” e che “offrì loro lo status di insiders, attraverso una loro sostanziale cooptazione entro le sedi rilevanti”70.

L'obiettivo del Dps era avvicinare il più possibile la programmazione nazionale alle logiche del policy making europeo: per questo propose di definire la distribuzione nazionale dei

plafond di popolazione in base a sistemi locali del lavoro (SLL), considerati come unità di

analisi maggiormente coerenti con i presupposti teorici delle politiche strutturali, rispetto al livello Nuts 3 (Province), proposto dal regolamento71. Questo infatti non era effettivamente

consistente con le aree dove il problema di sviluppo emergeva e contrastava dunque con – che per questo ha portato ad interpretare la struttura formale italiana di poteri fra centro e periferia nei termini di 'regionalismo cooperativo'”, pag.54, Damonte A., op. cit.

68 Regioni in obiettivo 1 (2000-2006): Campania, Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna, Basilicata e Molise (phasing-out).

69 Per approfondimenti, vedi retro (capitolo 4). 70 Pag.174, Damonte A., op.cit.

(18)

l'obiettivo della Commissione di concentrare in modo efficiente le risorse strutturali.

Tale proposta di distribuzione era essenzialmente di livello tecnico e non politico, vale a dire che non si basava su negoziazioni politiche, definite cioè da giochi di forza tra regioni e Stato centrale, bensì su parametri scientificamente individuati. Il sistema fu rifiutato dalle regioni obiettivo 2, poiché ripartiva le risorse in modo svantaggioso per alcune di queste, dando così un'allocazione sub-ottimale dal punto di vista politico; anche i tecnici regionali si posero dalla parte del proprio governo, ponendosi in contrasto con l'istanza tecnica ministeriale. Tale situazione di stallo si risolse con la decisione dei Presidenti delle regioni72 di avocare a sé la

gestione dei negoziati per arrivare ad un accordo sul riparto, una procedura implicitamente avallata dal Ministero.

“La progressiva politicizzazione della questione re-distributiva ha così portato le regioni ad allontanarsi da soluzioni basate su analisi tecnico-statistiche e ad avvicinarsi ad un accordo maggiormente informato ai rapporti di forza ed agli scambi orizzontali, accordo basato formalmente sul riferimento ai sistemi locali del lavoro come originariamente richiesto dal Dps, ma rispetto al quale le corroborazioni statistiche, comunque necessarie a legittimare le scelte regionali di programmazione nei confronti del decisore ultimo europeo, si ponevano piuttosto come razionalizzazioni a posteriori”73.

Tale accordo infra-regionale ha sancito una nuova centralità decisionale delle regioni del Centro-Nord rispetto alla struttura nazionale, incaricata di coordinare la programmazione; non si sarebbe più tornati indietro e si pensi all'ufficializzazione che tale processo decisionale ha visto nella programmazione 2007-1374.

Alcuni chiamano questo fenomeno “deriva nazionalistica” e, in effetti, non sollevò entusiasmi presso la Commissione, che per la prima volta rifiutò i Docup regionali, dato che si ritenne eccessivo il divario prodottosi rispetto al contenuto regolamentare; così si dovettero ripartire da capo con i negoziati Stato-Regioni. La Commissione rifiutò anche il concetto di sistemi locali del lavoro, poiché non era stato negoziato in precedenza con la stessa Dg Regio, nonostante in realtà fosse perfettamente in linea con la logica comunitaria75.

72 Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, oggi diventata Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome, per cui vedi infra.

73 pa. 175, Damonte A., op.cit. 74 Per cui vedi infra.

75 “Il loro (dei SLL) mancato riconoscimento in questa fase ha quindi sanzionato e ribadito la necessità di rispettare, prima che le logiche e i principi delle politiche comunitarie, le procedure del policy making europeo: la discrezionalità nazionale risulta quindi legittima solo all'interno dei limiti previsti dagli accordi, come risultato dell'applicazione trasparente di regole decisionali comuni che definiscono il carattere

(19)

Il risultato è stato che le regioni, agendo insieme e dunque spingendo nella stessa direzione, abbiano raggiunto una posizione di autorità decisionale non solo in sede di scelte programmatiche, ma anche in fatto di definizione dei propri plafond e delle proprie aree di intervento76, sottraendo al Dps la funzione di gatekeeping. Si può parlare di vera e propria conquista da parte di queste regioni, che hanno saputo mobilitare la propria azione in modo congiunto e coerente, sia verso il livello nazionale che verso quello sovranazionale.

Per concludere, si fa riferimento allo studio di Grote che evidenziava, già nel 1996, l'atteggiamento maggiormente flessibile ed adattivo delle regioni del Centro-Nord, che avrebbe condotto ai risultati sopra esaminati. Tra le regioni del Centro-Nord,secondo tale studio, spiccava particolarmente la Regione Emilia-Romagna, in cui era evidente l'associazione tra lo sviluppo economico ed una buona performance della pubblica amministrazione: la relazione tra queste due dimensioni, economica ed istituzionale, sarebbe spiegata dall'esistenza di un terzo fattore, chiamato dallo stesso studioso “civicness” e cioè

“...economically advanced regions appear to have more successful regional government merely because they happen to be more civic”77.

Dunque sarebbe proprio l'Emilia- Romagna ad emergere come la regione dal più elevato senso civico, in base ad alcuni indici tra cui l'affluenza alle urne, la lettura dei quotidiani e dunque il livello di informazione della popolazione, la presenza di associazioni culturali di vario genere, tutti fattori che avrebbero permesso un armonioso andamento economico ed istituzionale.

L'autore vuole enfatizzare la presenza di un approccio cooperativo al centro-nord, che aggrega il consenso all'interno delle regioni, mettendole in condizione di rappresentare con forza il proprio interesse, in contrapposizione ad un'assenza di tali meccanismi nelle regioni meridionali:

“consensus versus conflict; programmatic versus clientelist, or unitarian versus parochial, forms of government; high versus low degrees of associationalism; collective bargaining versus particularized contating”78.

Ciò che inoltre caratterizzerebbe ancora oggi il Sud d'Italia, a differenza delle regioni

democratico di questo edificio istituzionale così peculiare”, pag.177, Damonte A., op. cit. Inoltre va riportato come Gualini sostenga la contraddittoria posizione della Commissione che si professava outcome oriented ed invece si manifestò rules oriented, senza essere flessibile nell'interpretazione delle regole.

76 Nel testo si è dato per scontato il fatto che, diversamente da quanto avviene oggi, in base all'obiettivo 2 si aveva una zonizzazione che definiva le micro-aree in una regione che potevano essere ammissibile ai fondi comunitari. Ciò è stato eliminato per il presente periodo, rimuovendo così questa dimensione di conflittualità. 77 Pag. 268, Grote in Marks e Hooghe, op. cit.

Riferimenti

Documenti correlati

L'obiettivo della legislazione linguistica della Rss Ucraina sarà governare le relazioni pubbliche nella sfera del completo sviluppo ed uso dell'ucraino e delle altre lingue

dell' autonomia speciale. La Regione Friuli - Venezia Giulia, riconoscendo che la protezione e la promozione delle varie lingue locali o minoritarie rappresentano un

Although originally intended as a general theory of economic and political integration, however, neofunctionalism and its intergovernmentalist critique were limited in practice to

Risulta chiaro, comunque, che – in linea di principio – il trilemma può essere formulato nell’ambito di ogni conoscenza che si preoccupi della fondatezza delle

European University Institute Badia Fiesolana © The Author(s). European University Institute. Available Open Access on Cadmus, European University Institute Research

each participant the transparency is generated starting from the associated secret image, its original image and the shared key transparency in order to. fulfill the constraint

• viene richiesta la riduzione, da parte delle aziende conformi agli standard ASI, la gestione della biodiversità e in particolar modo rispetto: alla riduzione degli impatti

Nei kibbutzim sono ancora presenti, anche se con un uso diverso, le strutture dei servizi per la prima infanzia per tutti i bambini, figli dei membri del kibbutz, servizio questo