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LUIGI PIRANDELLO IL TURNO EDIZIONE CRITICA A CURA DI ANTONIO DI SILVESTRO

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Academic year: 2022

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L UIGI P IRANDELLO

I L T URNO

EDIZIONE CRITICA A CURA DI

A NTONIO D I S ILVESTRO

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2

I

NDICE

NOTA AL TESTO 3

PERLEGGEREGLIAPPARATI 27

IL TURNO 28

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NOTA AL TESTO

1.LE EDIZIONI E LA GENESI DEL ROMANZO

Il Turno, «romanzetto comico-umoristico d’argomento siciliano»,1 viene pubblicato a Catania nel 1902 presso l’editore Giannotta, all’interno della collana «Semprevivi. Biblioteca popolare contemporanea», accompagnato dalla dedica: «Buona siesta, Nietta mia!», indirizzata alla moglie Maria Antonietta Portulano, dedica che scomparirà nelle successive edizioni.

Il testo Giannotta viene riproposto dalla casa editrice Madella di Sesto San Giovanni nel 1915, che dà alle stampe un testo assai scorretto, senza emendare (se non in rarissimi casi) nemmeno gli errori e i lapsus rimasti dalla prima edizione.2

Un’altra edizione, questa volta avallata da una esplicita intentio auctoris, è quella uscita presso Treves nello stesso 1915, dove Il Turno appare accanto alla novella Lontano, precedentemente apparsa in due puntate sulla «Nuova Antologia» del 1° e 16 gennaio 1902. Nel volume, che porta come sottotitolo Novelle di Luigi Pirandello, la dedica della princeps del Turno viene sostituita da una premessa, in cui l’autore adduce le ragioni umane e letterarie dell’inusuale iniziativa editoriale:

Ripubblico intatti, dopo tanti anni, questi due racconti scritti nella prima giovinezza, così tra loro diversi, l’uno gajo, se non lieto, e triste l’altro, eppur nati quasi a un tempo e anche di luogo vicini, poiché il primo rappresenta uomini e casi della vita di città e il secondo della vita di mare in quel lembo di Sicilia, dove anch’io ero nato (non personaggio di racconto, purtroppo!).

Non ho voluto affatto ritoccare questi racconti per non sciupare quello che m’è sembrato il loro pregio più vivo: la schietta vivacità della rappresentazione, al tutto aliena d’ogni iniziazione letteraria. Certo, rivedendone la stampa, ho provato una lieta meraviglia. E chi sa – ho pensato – se un giorno questi due racconti, segnatamente il secondo Lontano non appariranno, almeno per certi rispetti, assai più degni di considerazione di tanti altri miei lavori più maturi e ambiziosi…

Roma, 2 settembre 1915 L.P.3

1 Così lo definiva Pirandello in una Lettera autobiografica, pubblicata nell’ottobre 1924 su «Le Lettere», che però, secondo la testimonianza del direttore della rivista Filippo Súrico, risale al 1909, ossia a circa quindi anni prima (LUIGI PIRANDELLO, Lettera autobiografica, in Id., Saggi, poesie e scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960, 1247).

2 Uniche correzioni alla princeps sono ubbidere > ubbidire (cap. I) e sogghinò > sogghignò (cap. XXIV). Nelle Note ai testi e varianti dell’edizione di Tutti i romanzi (a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, vol. I, 980-81; d’ora in poi TR I) sono elencati tutti gli errori dell’edizione Madella.

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Non è questo il luogo per discutere sulla qualifica di novella attribuita al Turno, che diviene racconto all’interno della premessa. Potrebbe trattarsi di una semplice omologazione alla novella

‘lunga’ Lontano, frutto di una strategia editoriale legata alla contingenza dell’operazione condotta dal Treves. Ricordiamo tuttavia che Pirandello, nel breve scritto Romanzo, racconto novella, edito sulla rivista «Le Grazie» nel febbraio 1897, forniva una sua personale definizione di racconto, prendendo le distanze dall’opinione vulgata che, basandosi su mere ragioni di estensione del testo, lo considerava una forma intermedia tra romanzo e novella. Racconto è piuttosto un

«componimento d’arte narrativa condotto in una data maniera e con propri caratteri, senza delimitazione alcuna nella lunghezza o nella brevità». Il romanzo diviene racconto «quando la favola in esso racchiusa venga esposta per dir così descrittivamente o riferita dall’autore o da un personaggio che parli in prima persona, più che rappresentata o mossa in azione».4

Nel 1920 Il Turno esce presso Quattrini nella collana «Biblioteca amena», offrendo un testo che, come quello Madella, si presenta sfigurato da numerosi errori. Di nessuna utilità è questa edizione, sia per eventuali emendamenti al testo Giannotta, sia ai fini di una ricognizione del tragitto linguistico del romanziere dalla princeps alla ne varietur. Quest’ultima è rappresentata dall’edizione Bemporad del 1929; rispetto ad essa la mondadoriana del 1932 (a sua volta matrice di altre ristampe) rappresenta un mero descriptus, differenziandosi solo per copertina, frontespizio e pagine di guardia.

Proprio nella Bemporad appaiono per la prima volta quelle che sono tuttora le uniche coordinate cronotopiche note relative alla composizione del romanzo: «Roma, 1895». Potrebbe trattarsi di un mero terminus a quo; è però vero che Pirandello segue una prassi analoga anche nell’edizione Bemporad 1927 dell’Esclusa, dove si legge, in explicit al testo, un «Monte Cave, 1893»

(a cui fanno da pendant gli «or son circa 14 anni» di iniziazione all’arte narrativa di cui egli scrive nella lettera a Capuana posta in esergo della stampa Treves 1908).5

A fronte dell’aleatorietà di queste coordinate temporali sta un fuggevole - ma non irrilevante - indizio, contenuto in una lettera alla famiglia del 20 dicembre 1895, dove, parlando dei propri progetti editoriali per l’anno a venire, Pirandello mette a confronto Il Turno con Marta Ajala- L’esclusa:

3 Il Turno. Lontano. Novelle di Luigi Pirandello, Milano, Treves, 1915, s.i.p.

4 PIRANDELLO, Racconto, romanzo, novella, «Le Grazie», 16 febbraio 1897, 4 (il saggio è ora ripubblicato da FELICE RAPPAZZO, Un articolo di Pirandello sulle forme narrative, «Allegoria», 1991, III, 8, 155-60).

5 Note ai testi…, 881-82.

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Sto quasi per finire Il Turno che è un romanzo, non però delle proporzioni del Marta Ajala, a cui ora ho dato per titolo L’esclusa.6

A fine 1895 il romanzo è in via di completamento, ed è quindi verosimile che non si tratti di un terminus a quo, salvo indugiare (e indagare) su cosa significhi per Pirandello ‘stare per finire’.

Spigolando tra i taccuini, segnatamente tra i fogli di quello di Harvard, la presenza di materiali avantestuali o di spunti funzionali all’elaborazione del racconto è piuttosto esigua, ed è probabile che l’autore se ne avvalesse «in funzione aggiuntiva più che creativa»,7 ossia negli stadi di revisione dell’opera (la stessa dinamica interessa gli appunti riguardanti L’esclusa). Ne è prova il fatto che la maggioranza di queste brevissime note consta di spogli linguistici, mentre le (poche) glosse più

‘organiche’ concernono i personaggi principali e alcune descrizioni paesaggistiche.8

La prima notazione sui protagonisti del Turno è alla c. 43r, e corrisponde all’incipit del cap. VI, dove Filomena, «la moglie di Ciro», appare nella sua rassegnata condizione di lontananza incolmabile dall’abbraccio materno, essendo donna Bettina «già da anni in rottura mortale col genero» (brevissimo flashback che si legge solo in B).9 Ecco l’appunto: «E l’amarezza di tanta remissione le si leggeva negli occhi silenziosi costantemente assorti nella sua pena»,10 che sarà in G, con ulteriore rafforzamento semantico: «L'amarezza d'una totale remissione le si leggeva ormai negli occhi silenziosi, costantemente assorti in una pena ignota, indefinita».

A c. 44r troviamo una battuta di Ciro Coppa, presente nel penultimo capitolo, che funge da prolessi alla «sublime vittoria» ottenuta su se stesso. Anche in questo caso il frammento si approssima alla lezione della princeps: «Con la ragione non son governabili: sentono solo le bastonate, e se fai piano, neanco queste»11 → «Con la ragione questa mia porca natura non è governabile: vuol bastonate [in B ci vuole il bastone] e, se fai piano, non sente neanco queste»

(G). La vicinanza alla princeps si coglie anche dall’arcaizzante e letterario anco, che sarà normalizzato da T e B in anche.

Un altro breve inserto, a c. 54v, riguarda Pepè Alletto che, timoroso di recarsi da solo a casa di Stellina per via della presenza minacciosa del pretendente Mauro Salvo, si dirige «a malincuore»

dal cognato, sperando però che questi non lo trascini a duello: «Si lasciò andar così, senza aver

6 Lettera da Roma del 20 dicembre 1895, in PIRANDELLO, Lettere della formazione 1891-1898. Con appendice di lettere sparse 1899-1919. Introduzione e note di Elio Providenti, Roma, Bulzoni Editore, 1996, 286.

7 OMBRETTA FRAU–CRISTINA GRAGNANI, Introduzione, in PIRANDELLO, Taccuino di Harvard, Milano, Mondadori, 2002, LXXXI.

8 Cfr. ivi, LXXXIV.

9 Indichiamo nel seguito del discorso, come nell’apparato dell’edizione digitale, con B l’edizione Bemporad, con T la Treves e con G la Giannotta.

10 Ivi, 70.

11 Ivi, 73.

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ben fermato l’anima a una deliberazione, verso la casa del Coppa»12 → «E, così pensando, s’avviava a malincuore verso la casa del Coppa» (G, cap. XVI). È stato notato che il brano del taccuino riecheggia un pensiero di Don Abbondio a seguito dell’incontro con i bravi:13 «Fermato così un poco l'animo a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni!» (PS, cap. II). Questo gancio intertestuale scompare nella princeps ma ritorna nel Fu Mattia Pascal, nel capitolo dedicato ad Adriano Meis.14

In alcune carte precedenti del taccuino (cc. 41r e v) appaiono delle brevi battute di saggezza classica messe in bocca a Don Diego Alcozèr, corredate in due casi su tre dalla traduzione a mo’

di didascalia e commento: «intra paucos dies», riferita alla speranza di essere ricevuto quanto prima da Stellina, che ha ricolmato di doni e gioie (G, cap. II); «Quid facias? Sic vivitur – Che vuoi farci?

Così si vive, questa è la moda» → «Sic vivitur, sic vivitur… La compagnia per lui era più necessaria del pane» (G, cap. XI); «Tu vorresti tentarlo. Quo nam pacto? In qual maniera?» → «Quo nam pacto? (G, cap. XXII).15

Quasi tutti i personaggi protagonisti sono pertanto rappresentati nel taccuino, insieme al loro

‘idioletto’ (come per il latinorum di Don Diego); a fronte di essi le descrizioni si riducono a brevissimi lacerti toponomastici e cenni d’ambiente, poi sviluppati in modo più esteso, e in alcuni casi ripresi di peso ad esempio nei Vecchi e i giovani:16

In mezzo al bosco della Civita, una schiera di superbi cipressi (Taccuino, 58) → di qua alla vista del bosco di mandorli e d'ulivi, detto [il tempio della Concordia] in memoria dell'antica città che sorgeva pur lì, bosco della Civita; di là alla vista del piano di San Gregorio, solcato dall’Acragas, e poi del mare sconfinato, in fondo, d'un aspro azzurro. Il bosco stormiva agitato sotto le gravi nubi lente, pregne d'acqua, e vibravano in alto le punte dei colossali cipressi sorgenti in mezzo ai mandorli e agli olivi come un vigile drappello a guardia del Tempio antico. (cap. XII)

Presso la chiesetta di S. Nicola la tomba di Terone e due magnifici pini marittimi (Taccuino, p. 58) >

presso l'antica chiesetta saracinesca [in B normanna] di San Nicola, cinta di pini marittimi e di cipressi, a cavaliere su una svolta dello stradone […] (cap. XII)

12 Ivi, 98.

13 Ivi, Introduzione, CI.

14 «Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io» (TR I, 408).

15 PIRANDELLO, Taccuino di Harvard, 62-3.

16 FRAU-GRAGNANI, Introduzione, ivi, LXXXIV.

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7 2.VARIANTI E CORREZIONI

Ripubblicando il romanzo insieme a Lontano, Pirandello intende preservare il proprio stile da ogni «intenzione letteraria»; e anche quando offrirà la facies ultima del Turno nell’edizione Bemporad, i suoi interventi correttori non saranno mai tali «da distrarlo dalle cose a vantaggio delle parole». Così si esprimeva Sciascia nell’introduzione alla ristampa Sellerio della princeps Giannotta,17 riecheggiando quello che è uno dei passaggi decisivi del discorso su Verga. È un’opinione che ci sentiamo di sottoscrivere, in quanto nel passaggio dalla prima all’ultima edizione Pirandello opera una revisione che non intacca la sostanza diegetica e mimetica del romanzo, la suddivisione dei capitoli, i tratti fisici e comportamentali dei personaggi. Tuttavia, come si può evincere dall’esame dell’iter correttorio, l’interiorità e la psiche egli attori, più marcate nella princeps, verranno sottoposte – osserva acutamente A. Sichera – «ad un sistematico appiattimento, ad una normalizzazione» tali che il lettore si trova di fronte a figure che appaiono «più maschere che personaggi».18

Dal punto di vista del registro stilistico, il tessuto linguistico19 e la trama sintattica soggiacciono a interventi complessivamente circoscritti, che non stravolgono la fisionomia del romanzo, tenendo fede a quella «schietta vivacità della rappresentazione» che l’autore intendeva perseguire ristampando il romanzo presso Treves. Ciò non toglie che nel testo del 1902 permanga

«una quota di fisicità, di matericità del linguaggio, destinata a subire una progressiva neutralizzazione e una sottile spiritualizzazione» nelle edizioni seguenti (A. Sichera, Introduzione).

Peraltro, il fatto che a non passare attraverso una revisione sostanziale non fosse nemmeno un racconto ‘tragico’ come Lontano attesta una profonda coerenza della grana lessicale e semantica della scrittura pirandelliana, trasversale rispetto alle oscillazioni tematiche della sua parabola narrativa.

Guardando al percorso dalla princeps Giannotta all’edizione Bemporad, e passando per la stampa Treves,20 si possono isolare alcune costanti correttorie e tendenze variantistiche, dal livello

17 LEONARDO SCIASCIA, Introduzione, in PIRANDELLO, Il Turno, Torino, Einaudi, 1978, V.

18 Si rimanda all’Introduzione al Turno in L. Pirandello, Romanzi I. L’Esclusa – Il Turno. Edizione Nazionale dell’Opera Omnia di Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, in c.d.s.

19 L’analisi del romanzo condotta da Sgroi rapporta i diversi livelli a una serie di strati corrispondenti ad altrettanti registri linguistici: strato siciliano, strato popolare, strato di italiano medio, strato vernacolare toscano, strato letterario, strato idiolettale, strato allogeno (SALVATORE CLAUDIO SGROI, Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1990, 171-78). Essendo obiettivo di questa nota filologica una disamina delle tendenze correttorie e dell’usus scribendi pirandelliano, si seguirà una ‘scaletta’ per livelli testuali, che consentiranno quindi di incrociare le considerazioni dello studioso sui vari registri, soprattutto quando vengono rilevati i mutamenti intercorsi tra le varie edizioni.

20 Come detto in precedenza, le edizioni Madella e Quattrini, per i numerosi errori materiali e lapsus, non forniscono alcun apporto alla constitutio textus. L’unica affidabile edizione ‘mediana’ tra la Giannotta e la Bemporad è la Treves,

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grafico-interpuntivo e morfologico a quello lessicale e sintattico, non senza significativi episodi di aggiunte e soppressioni che rafforzano o viceversa indeboliscono alcune sfere semantiche del romanzo.

A livello fonetico, in B vengono normalizzati numerosi troncamenti spesso anticipati già in T (indice di un processo di detoscanizzazione):21 sfogar > sfogare (cap. I); ancor > ancora / aprir > aprire (cap. II); borbogliar > borbogliare (cap. III); cader > cadere (cap. IV e XXI); pregar piangendo > pregare (cap. IX); ridevan > ridevano / gridaron > gridarono / uscir > uscire (cap. XII); dir > dire (XVII);

passeggiar > passeggiare (XXIII); accettar > accettare / desinar > desinare (cap. XXV); domator > domatore (cap. XXVII); acquistar > acquistare (cap. XXVIII). Talvolta la forma tronca persiste, con cambiamento della vocale pretonica, come in recuperar (G) > ricuperar (T, B) (cap. XVII). In qualche caso alla parola tronca sottentra un lessema differente: Or vi frusciavan (G, T) > Ora vi crescevano (B) (cap. III); rumor (G) > suono (T, B) (cap. XIII).

A livello grafico, alcune elisioni non presenti in G vengono introdotte, anche per ragioni eufoniche, tra B e T: la avrebbero dovuta (G) > l’avrebbero dovuta (T, B) (cap. VIII); la ho scongiurata (G, T) > l’ho scongiurata (B) (cap. XVIII); io la amo (G, T) > io l’amo (B) (cap. XXIII). Ma non mancano casi inversi (anche questi segni di detoscanizzazione della lingua):22 disapprovazione d’uomini (G) >

disapprovazione di uomini (T, B) / ch’egli (G) > che egli (T, B) (cap. I); l’ordinazione (G, T) > la ordinazione (B) (cap. II); mentr’egli (G, T) > mentre egli (B) (cap. IX).

Alcune forme vengono univerbate, come per tanto (G, T) > pertanto (B), in fatti (G, T) > infatti (B) e l’avverbio interrogativo Quo nam (G) > Quonam (T, B). Anche in questo caso vi sono occorrenze di segno opposto, come la locuzione infondo, propria dell’usus scribendi del solo 6, che viene risolta - quasi sempre già in T - nella forma separata. A ragioni invece di allontanamento da una veste iperletteraria risponde lo scioglimento della forma unita della preposizione articolata pel e pei in per il e per i, come pure l’abbandono di scrizioni scempie quali a gli > agli, ne le > nelle, de la

> della, da la > dalla, su la/e > sulla/e (ma in quest’ultimo caso si crea alternanza con la forma separata).

A livello morfologico, nell’edizione Bemporad Pirandello interviene su alcuni usi preposizionali, per lo più allo scopo di ottenere una maggiore perspicuità semantico-sintattica:

scaraventava per terra (G, T) > scaraventava a terra (B) (cap. II); col naso per aria (G, T) > col naso in aria (B) (cap. III); non era buono neanche da maneggiare (G) > neanche a maneggiare (B) (cap. VII); giovanotti in casa (G) > giovanotti per casa (B) (cap. XXVI).

che si allinea molto spesso alla lezione di G, da un lato rispecchiando la volontà di non apportare ritocchi rilevanti (ritoccare è parola pirandelliana) all’altezza del 1915, dall’altro distanziandosi da B, evidentemente orientata verso un più marcato livellamento linguistico e una maggiore standardizzazione del dettato narrativo.

21 SGROI, Per la lingua…, 52.

22 Ivi, 53.

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In alcuni casi la di preposizione viene soppressa prima dell’infinito retto da verbi come piacere, desiderare, ardire/osare, toccare: Gli sarebbe piaciuto di maritar la figlia (G, T) > Gli sarebbe piaciuto maritar la figlia (B) (cap. I); osava di metterlo (G, T) > osava metterlo (B) (cap. I); desidererei di prendere >

desidererei prendere (cap. VI); vi tocca di fare (G) > vi tocca fare (T, B) (cap. VI); non ardiva di domandargli (G, T) > non ardiva domandargli (B) (cap. XXIII). Più raramente, la variazione introduce un registro più sostenuto: accennando a stropicciarsi (G, T) > accennando di stropicciarsi (B) (cap. II); accennò a piegarsi (G) > accennò di piegarsi (T, B) (cap. XXII).

Riguardo all’uso del dimostrativo è evidente la preferenza nella princeps per la terna letterariamente codificata di questo, codesto, quello, con sporadiche sostituzioni attestate dalle varianti: In cerca di questi signorini (G) > di codesti signorini (T, B) / quei giovanotti (G, T) > codesti giovanotti (B) (cap. III). Sul versante della distribuzione e dell’alternanza dei pronomi personali frequente è l’espunzione di egli ed ella, spesso «per esigenze puramente testuali».23 A sostituzioni estese all’intero romanzo soggiacciono pochi elementi, di cui i più ricorrenti sono la locuzione innanzi a e l’avverbio innanzi, cui subentra già in T davanti, con un caso di transito multiplo: innanzi (G) > dinanzi (T) > davanti (B) (cap. XVIII).

Sul piano dei sostantivi alterati, si registra qualche acquisto suffissale: vecchio (G) > vecchiaccio (T, B); mani (G, T) > manine (B), ma per converso amicone (G, T) > amico (B) (con un’occorrenza di contentone [cap. I] che cade nell’ultima edizione);24 un cambio tra vezzeggiativo e diminutivo:

bassotta e fina fina (G, T) > bassina e fina fina (B) (cap. VII); la sostituzione del dispregiativo cittaduzza (B), frequente nelle opere pirandelliane, al sintagma piccola città (G, T).25

La morfologia verbale presenta alcuni significativi mutamenti nelle zone di discorso indiretto libero, dove l’utilizzo del condizionale segnala l’aspetto ottativo dei discorsi dei personaggi. Il cambiamento del tempo dal passato al presente sembra suggerire una maggiore ‘presenzialità’ del desiderio. È quanto avviene per uno dei primi pensieri di Marcantonio Ravì all’inizio del romanzo, che progetta il futuro della figlia adombrando già la logica (poi smentita) del ‘turno’:

G, T

Stellina sarebbe stata come una figliuola in casa di don Diego: né più né meno. Invece di stare in casa del padre, sarebbe stata in quell'altra casa, con più comodi, da padrona assoluta: casa d’un galantuomo

B

Stellina entrerebbe come una figliuola in casa di don Diego: né più né meno. Invece di stare in casa del padre, starebbe in quell'altra casa, con più comodi, da padrona assoluta: casa d’un galantuomo

23 Ivi, 66.

24 «— Mi spiego? — domandava a questo punto il Ravì, contentone, abbagliato egli stesso dalle sue ragioni» (G, T) >

«— Mi spiego? — domandava a questo punto il Ravì, abbagliato lui stesso dalle sue ragioni» (B) (cap. I).

25 Cfr. SGROI, Per la lingua…, cit., p. 19.

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10 alla fin fine: nessuno osava di metterlo in dubbio, questo. Dunque, che sacrifizio? Aspettare qua o là.

Con questa differenza, che aspettare qua, in casa del padre, sarebbe stato tempo perduto, non potendo egli far nulla per la figlia; […]

alla fin fine: nessuno osava di metterlo in dubbio, questo. Dunque, che sacrifizio? Aspettare qua o là.

Con questa differenza, che aspettare qua, in casa del padre, sarebbe tempo perduto, non potendo egli far nulla per la figlia; […]

Sul versante dell’utilizzo dei tempi verbali nelle parti diegetiche, Pirandello si orienta in genere verso l’uso del presente e del futuro, e talvolta dei tempi semplici al posto di quelli composti: lo fai tu (G, T) > lo farai tu (B) (cap. V); Non vedi che noi scherziamo? (G, T) > Non vedi che noi stiamo scherzando? (B) (cap. VII); gradinata per cui ascendevasi (G) > gradinata per cui si ascende (T, B) (cap. XII); non manca tempo (G, T) > non mancherà tempo (B) (cap. XVI).

Non molto perspicui sono gli interventi sulla sintassi, eccetto qualche coordinazione per asindeto (lo osservò un tratto e poi gli disse (G, T) > lo osservò un tratto; poi gli disse (B) [cap. XI]); Lei con una mano e io con cento (G) > Lei con una mano, io con cento (T, B) [cap. XXI]); qualche scioglimento delle forme implicite del verbo in proposizioni con forma esplicita (quei pochi argentei rimastile (G, T) > quei pochi argentei che le erano rimasti (B) [cap. VII]); passaggi dall’ipotassi alla paratassi (come se già vi piovesse (G, T) > forse già vi pioveva (B) [cap. XII]) e da una tipologia di subordinazione a un’altra (il quale faceva loro correre il rischio (G, T) > non foss’altro perché faceva loro correre il rischio (B) [cap. XIV]).

Più significativi i mutamenti nell’ordine delle parole, anche se localizzati su sintagmi o brevi enunciati: 1) dislocazione del pronome (lui non aveva paura di nessuno (G) > non aveva paura, lui, di nessuno (T) > non aveva paura di nessuno, lui (B) [cap. V]); 2) attenuazione dell’enfasi per anticipazione del possessivo (a gli ordini Suoi (G, T) > ai suoi ordini (B) [cap. XIX]; Gli occhi tuoi (G, T) > I tuoi occhi (B) [cap. XXVII]), con casi inversi (si cambia vita, mio caro (G) > caro mio (T, B) [cap.

XXVIII]); 3) eliminazione del clitico dopo il verbo (che dovevan cagionargli (G, T) > che gli dovevano cagionare (B) [cap. XX]); 4) trasformazione di forme ellittiche più icastiche (In casa mia l’inferno (G, T) > Ho l’inferno in casa (B) [cap. VI]).

Il piano del lessico è quello meglio atto a descrivere il percorso dalla princeps all’ultima edizione vivente l’autore; in esso si riflettono le tendenze linguistico-stilistiche della prosa di Pirandello, che orientano la revisione di altri romanzi. Nel caso del Turno i giudizi sulle varianti del testo, dando forse un eccessivo credito alla pretesa estraneità dell’autore a ogni «intenzione letteraria», non hanno tenuto conto della stratificazione lessicale, la quale finisce coll’investire la sostanza semantica, sia nelle zone diegetiche sia in quelle mimetiche, compreso il discorso

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interiore dei personaggi. È dunque opportuno mettere a fuoco i differenti tragitti sostitutivi, individuando in ognuno di essi, al di là di certi automatismi sottesi a una prassi correttoria codificata in senso modernizzante, una intentio auctoris più o meno caratterizzata.

Una tendenza costante è quella di mutare un vocabolo o un’espressione letterariamente connotata con una più neutra o attinente alla sfera colloquiale e del parlato: di nessuna sorte (G, T)

> di nessuna sorta (B) / per le nari (G, T) > per il naso (B) (cap. I); dal grinzo26 (G, T) > dalle grinze (B) / oriolino27 (G, T) > orologino (B) (2 occorr.) / sottecche (G, T) > sottecchi (B) (cap. II); ricusò (G) > si ritrasse (T, B) (cap. IV); quell’attitudine mesta (B) > quel mesto atteggiamento (T) > quell’atteggiamento (B) (cap. IV); continui palpiti (G, T) > continua apprensione (B) (cap. VI); da un lungo raffrigno (G, T) > da una lunga cicatrice (B) (cap. VI); tosto (G) > subito (T, B) (cap. VII); terga (G, T) > spalle (B) (cap. VII);

globo terraqueo28 (G) > globo (T) > terra (B) (cap. IX); occorsa (G) > toccata (T, B) (cap. XI); d’un subito (G, T) > d’un tratto (B) (cap. XII); chiesetta saracinesca (G, T) > chiesetta normanna (B) (cap. XIII);

torsene (G, T) > prendersene (B) (cap. XIII); togliersela (G, T) > prendersela (B) (cap. XVIII); sogghignetto (G) > sorrisetto (T, B) (cap. XXII); testé (G) > or ora (B) (cap. XXX).29 Interessanti il mero livello segnico, privi quindi di implicazioni semantiche, sono i casi di ragunati (G) > radunati (T, B) (cap.

XI) e sclamò (G, T) > esclamò (B) (cap. XII).

Per le sostituzioni di sorte > sorta, sottecche > sottecchi, oriolino > orologino è evidente un processo di detoscanizzazione,30 nel quale rientrano mutamenti quali menomo (G) > minimo (T, B) (cap.

XIV), menomamente (G, T) > minimamente (T) (cap. XXIII).

Talvolta vengono coinvolti un sintagma, un costrutto, una fraseologia verbale, o addirittura un breve giro di pensiero, quasi sempre ‘sciolti’ in forma più esplicativa, discorsiva o colloquiale:

se tenesse a mostrar (G) > se si compiacesse di mostrar (T, B) / schiavar l’uscio (G, T) > mandar la chiave per aprire l’uscio (B) (cap. II); Amo di far (G) > Soglio far (T, B) (cap. III); argomento d’illudersi (G, T) > di farsi qualche illusione (B) / sperperato il vistoso patrimonio avito (G, T) > dato fondo a tutto il patrimonio (B) (cap. III); Lo supponevo (G, T) > L’ho immaginato subito (B) (cap. VI); di metter su baracca con alcuno (G, T) > di attaccar lite con nessuno (B) (cap. XIV);31 gli pareva più designato alla bisogna (G, T) > gli pareva scorta più sicura (B) (cap. XV); non ammetteva replica (G) > tagliava netto (T, B) (cap. XVII); purché me

26 Da una ricerca condotta mediante la LIZ 4.0 (Letteratura Italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli ed E. Picchi, Roma, Lexis, 2001, da cui sono tratti anche i riferimenti all’intertesto pirandelliano delle note seguenti) risulta che la forma più rara si ritrova anche nella novella L’uomo solo («i vostri abiti, vuote spoglie appese, che hanno preso il grinzo») e nel primo atto di Vestire gli ignudi («grosse gambe di forma feminea su cui i calzoni pigliano subito il grinzo»). Il Grande Dizionario della Lingua Italiana registra la locuzione prendere il grinzo s.v. grinzo agg.

27 Forma non attestata nelle altre opere pirandelliane.

28 Sintagma presente nella novella Pallottoline: «L'uomo, questo verme che c'è e non c'è, l'uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo…».

29 Oscillante rimane il trattamento di neanco, che solo in due casi da G a T passa a neanche in B (cap. XVII e XXIX).

30 Cfr. SGROI, Per la lingua…, 58 e 60.

31 Sgroi segnala che metter su baracca è presente solo nei dizionari di Tommaseo-Bellini e Giorgini-Broglio, ed è espressione toscana familiare (ivi, 60).

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12

n’esca… transeat! (G, T) > pur d’uscirne (B) (cap. XXII); si sentirà forse scottata del mondo… (G, T) > ha tanto patito… (B) (detto di Stellina, cap. XXIII); il suo primo fallo (G, T) > quel che c’era stato (B) (cap.

XXVII); ti parvifico, ti estinguo (G) > ti parvifico, ti attondo, ti estinguo (T) > ti attondo, ti estinguo (B) (cap.

XXIX). A cadere in quest’ultimo caso è il verbo parvificare, attestato nel Convivio (I.11) e nel Corbaccio, e non più presente nella tradizione letteraria italiana (si tratterà di un dantismo intenzionale,32 e non di un mero répechage colto?).

Tra i vocaboli sostituiti, va segnalato per le sue implicazioni semantiche il sostantivo raffrigno, presente anche nella redazione in rivista dell’Esclusa, uscita su «La Tribuna» in 43 puntate dal giugno all’agosto 1901: «notando su la guancia di Rocco il lungo raffrigno rimastogli dalla ferita», che come nel Turno viene sostituito nella successiva edizione da cicatrice: «la lunga cicatrice della ferita riportata nel duello con l’Alvignani» (appendice del 10 agosto).33 La definizione del Tommaseo Bellini, «Dicesi anche del margine di una ferita lacerata», viene ripresa dal Fanfani, che però nella terza edizione offre una spiegazione più vicina alla semantica pirandelliana: «Brutta cicatrice di ferita».34 Un’altra occorrenza, questa volta invariata nelle edizioni, la troviamo nei Vecchi e i giovani (parte I, cap. 3): «E posò gli occhi senza sguardo su la fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in vario senso: ferite riportate in duello».35 Ma nel termine si può anche ravvisare la soggiacenza dialettale del verbo affrignari, ‘graffiare’: ci troveremmo in tal caso di fronte ad una convergenza tosco-siciliana,36 ancor più significativa se almeno nei Vecchi e i giovani Pirandello la conferma fino agli anni Trenta con l’edizione mondadoriana.

Le sostituzioni mirano talora alla soppressione di forestierismi, seppur di ampia dimora nella narrativa otto-novecentesca: canapè (G, T) > divano (B) (cap. XI e XVII). Raramente viene introdotta la forma ricercata al posto di quella più usuale: al colmo della gioia (G, T) > raggiante di gioia (B) (cap. XIX); inceppato (G) > impastojato (T, B) (cap. XXIX); nel sacro silenzio tra le colonne austere (G) > nell’austero silenzio tra le colonne immani (B) (cap. XII). In maniera altrettanto sporadica, l’aggettivazione o alcune espressioni verbali sono interessate da spostamenti semantici tesi a una più spiccata coloritura della fisionomia e dell’agire dei personaggi o a una più espressionistica pittura del paesaggio: faccia infocata (G, T) > faccia paonazza (B) (cap. II); preoccupato di (G) >

costernato di (T, B) (cap. X); sorrisetto curioso (G) > sorrisetto ambiguo (T, B) (cap. XI); sfrontatezza (G, T)

> tracotanza (B) (cap. XV); esplose (G) > proruppe (T, B) (cap. IX); cielo rabbujatosi d’improvviso (G, T)

32 Pirandello cita un passo famoso del Convivio (I, VII 14) nel saggio Illustratori, attori e traduttori: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia».

33 Cfr. Note ai testi…, 975.

34 L’osservazione è in LUCIANA SALIBRA, Costanti e varianti lessicali nell’Esclusa di Pirandello, «Studi di lessicografia italiana», 1982, V, 363-85: 382.

35 PIRANDELLO, Tutti i romanzi, vol. II, 69.

36 SALIBRA, Costanti e varianti…, 382.

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> che d’improvviso s’era incavernato (B)37 (cap. XII); rosso come un gambero (G, T) > rosso come un papavero (B) (cap. XVII); occhi sanguigni (G, T) > occhi feroci (B) (cap. XXIII).38

Si attenuano o cadono del tutto anche certe marche idiomatiche o dialettali: — E non ti vergogni? Giallo, molle, flaccido, laido, gobbo… va’, buttati a mare! (G, T) > — Perché non t’ammazzi? (B) (detto da Ciro Coppa a Pepè; cap. XVI);39 Salutiamo (G, T) > Buona sera (B) (cap. XIV); se lo vedo, parola d'onore, l’ammazzo (G, T) > se lo vedo, finisce male, parola d’onore (B) (cap. XIV); Ma se t’han fiutato per carognaccia, mio caro! (G, T) > Ma se puzzi di carogna, lontano un miglio! (B) (cap. XVI); padronanza a bacchetta, con riformulazione del siciliano cumannari a bbacchetta (G, T) > padronanza assoluta (B) (cap.

XVIII). Alcune ricostruzioni ‘d’ambiente’, con tanto di tecnicismi zootecnici (bardotto), sono anch’esse per così dire de-etnificate:

G

Al ritorno, gli avveniva talvolta come a quel mulattiere a cui non tornava il conto delle bestie affidategli, dimenticando d’anno- verare il bardotto. (cap. XXVII)

T

Al ritorno, gli avveniva talvolta come a quel mulattiere a cui non tornava il conto delle bestie affidategli, cercando quella, a cui stava sopra.

B

Al ritorno, gli avveniva talvolta come a quel tale che cercava la bestia, e c’era sopra.

Valgano questi esempi a dimostrare, di contro a quanto sostenuto da alcuni critici, come il fenomeno di riduzione del colore locale appaia in complesso assai ridotto. A uno sguardo d’insieme del contingente lessicale del romanzo, infatti, le forme «di scoperta regionalità e dialettalità» non risultano affatto disseminate in modo sistematico.40

37 L’immagine ricorre spesso sia nei romanzi che nelle novelle.

38 Il sintagma occhi sanguigni, rispetto a occhi feroci, ha una presenza ridotta nel corpus pirandelliano, con 3 occorrenze nella sola novella L’altro figlio (In silenzio).

39 Osserva Sgroi che dietro l’imperativo va, buttati a mare sta il costrutto siciliano che non prevede alcuna virgola: va jèttiti a-mmari (Per la lingua…, 23).

40 RENATO BERTACCHINI, «Il turno» di Pirandello nella scrittura «grezza» del 1895, «Otto/Novecento», 1980, 5-6, 321-33:

325.

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14 3. AGGIUNTE E INTEGRAZIONI

Pur rimanendo invariata la partitura diegetica e mimetica del romanzo, nel passaggio dalla princeps alla ne varietur Pirandello opera alcune aggiunte e soppressioni. Le prime sono frutto di calcolati interventi sul testo, finalizzati a sciogliere nodi rimasti impliciti, didascalizzare le motivazioni profonde dei personaggi, ‘lubrificare’ le giunture del racconto. Le integrazioni di modesta entità mirano spesso a esplicitare stati d’animo, a precisare e arricchire le descrizioni, e in generale a rafforzare la medietas stilistica:

G

cadde in convulsione. (cap. IV)

lumi e gente a tutte le finestre delle case vicine, abbajar di cani.

(cap. IV)

Non pigliate il fresco… (cap. XI)

Date ascolto al vecchio! (cap.

XII)

mentre già grosse gocce di pioggia cadevano. (cap. XIII)

donna Bettina faceva un sogno assai strano. (cap. XV)

E il giorno dopo, alle otto in punto, fu nello studio di Ciro.

T cadde in convulsione.

lumi e gente a tutte le finestre delle case vicine, abbajar di cani.

Vi pigliate un malanno, così al fresco.

Date ascolto al vecchio!

mentre già grosse gocce di pioggia cadevano.

donna Bettina faceva un sogno assai strano.

E il giorno dopo, alle otto in punto, fu nello studio di Ciro.

B

cadde in una violenta convulsione di nervi.

lumi e gente a tutte le finestre delle case vicine, abbajar di cani, e tutte quelle nuvolette che correvano nel cielo.

Vi pigliate un malanno, così al fresco.

Date ascolto a me, che non son vecchio per nulla!

mentre già grosse gocce di pioggia crepitavano come se grandinasse.

donna Bettina, che non aveva più, proprio, la testa a segno, faceva un sogno assai strano.

E il giorno dopo, alle otto in punto, pallido, con l’animo in subbuglio, fu nello studio di Ciro.

(15)

15 (cap. XXVIII)

Le aggiunte più consistenti orbitano intorno al personaggio di Donna Bettina. All’inizio del capitolo VI, dove si parla della infelice vita coniugale di Filomena con Ciro Coppa, non si trova accenno nella princeps al rapporto di quasi totale estraneità della figlia con la madre, che si rifiuta di entrare in casa del genero. In T e B le ragioni di donna Bettina si intrecciano con la «gelosia feroce» del Coppa, che impedisce alla moglie di avere una qualsiasivoglia relazione sociale, condannandola a una inesorabile consunzione di sé e di ogni sentimento ed esercitando così il suo autoritarismo frutto di un ambiente retrivo e soffocante:

G

Non si lagnava veramente di nulla e non si crucciava più nemmeno in cuore della sorte tristissima che le era toccata, nascendo.

T, B

Non si lagnava veramente di nulla, neanche di non poter vedere la madre, già da anni in rottura mortale col genero. Avrebbe avuto tanta consolazione anche dalla sola vista di lei! Ma donna Bettina aveva giurato di non rimetter piede mai più in casa del Coppa; ed ella, per la gelosia feroce del marito, non che uscire di casa, non poteva neppure sporgere un po’ il naso fuor della finestra. Non glien’importava più; e non si crucciava più nemmeno in cuore della sorte tristissima che le era toccata, nascendo.

Nel capitolo seguente, la preoccupazione di Pepè per la salute della sorella e la sua decisione di andarla a trovare suscitano qualche turbamento nella madre, che rimane però irriducibile del suo proposito di non rivedere più la figlia a meno che essa, lasciando figli e marito, non faccia ritorno nella casa avita:

G

[Pepè] Disse che voleva tornar da Filomena per vedere se stesse meglio, e uscì di casa. (cap. VII)

T, B

Disse che voleva tornar da Filomena per vedere se stesse meglio, e uscì di casa.

Donna Bettina, sentendo nominar la figlia, si turbò.

Non voleva saper più nulla di lei. Quando s’era guastata col genero, appunto per causa di lei, per il

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16

supplizio ch’ella le infliggeva, le aveva ingiunto di lasciare i figli e di venirsene a casa sua.

Naturalmente Filomena s’era rifiutata, e allora ella le aveva detto che, finché stava col marito, sarebbe stata come morta per lei. Scurita in viso, seguì con gli occhi il figlio, senza domandargli nulla.

Il rifiuto materno di vedere il figlio, temporaneamente alloggiato a casa della sorella, emerge anche dalle rassicurazioni fatte a Pepè da Marcantonio Ravì, che manda ogni giorno la moglie a visitare Bettina:

G

Il Ravì tornò infatti, solo, non il domani, ma alcuni giorni dopo, e si trattenne a lungo a conversare con Pepè de la bella casa dell'Alcozèr […] (cap. IX)

T, B

Il Ravì tornò infatti, solo, non il domani, ma alcuni giorni dopo, e si trattenne a lungo a conversare con Pepè; gli disse che ogni giorno mandava la moglie da donna Bettina a darle notizia di lui, a confortarla, a tenerle compagnia, perché la poverina si struggeva dalla rabbia e dal dolore di non poter venire a vedere il figliuolo; gli parlò poi della bella casa dell'Alcozèr […]

Dopo la morte di Filomena, il cordoglio della madre e il suo interminabile travaglio, sottaciuti nella princeps, vengono rimarcati dal narratore nelle edizioni successive:

G

— Pepè, figlio mio, non fare bestialità! — supplicò donna Bettina, pronunziando con tono amorevole questa frase ch’ella soleva spesso rivolgere al figliuolo.

T, B

— Pepè, figlio mio, ancora bestialità? – gemette donna Bettina, pronunziando con tono amorevole questa domanda, che soleva spesso rivolgere al figliuolo. Pareva invecchiata di dieci anni, dopo la morte di Filomena. Non aveva voluto mostrar con lagrime il suo cordoglio, ma era evidente ch’esso ancora, in silenzio, le divorava il cuore.

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17 4. SOPPRESSIONI

Le soppressioni possono riguardare brevi espansioni o semplici sintagmi. Qualche volta rispondono alla volontà di espungere i commenti e le determinazioni interiori dei personaggi di fronte al corso degli eventi: [Don Diego] accolse con la sua solita risatina fredda tutti quei complimenti, nei quali sentiva un sottile sapor d’ironia (G, T) > accolse con la sua solita risatina fredda tutti quei complimenti (B) (cap. IV); Ma Pepè conosceva bene il Salvo e lo sapeva capace d'ogni violenza sotto l’assillo della gelosia (G, T)

> Ma Pepè conosceva bene il Salvo e lo sapeva capace d'ogni violenza (B) (cap. IV); aveva scartato subito il partito di recarsi da lui, che pur gli pareva più designato alla bisogna, che non il Ravì. Studiava ora il modo di presentare al cognato la proposta senza farlo inalberare (G, T [dove più designato alla bisogna diviene scorta più sicura]) > aveva scartato subito il partito di recarsi da lui, che pur gli pareva scorta più sicura, che non il Ravì (B) (cap. XVI). Talvolta il narratore crea una corrispondenza tra le motivazioni interiori e il loro correlativo ‘corporeo’, sostituendo una forma di risarcimento ‘fagico’ alla memoria di un contatto su cui in B sorvolerà:

G, T

Pepè cenò di buon appetito. Col ricordo della suprema gioia concessagli da Stellina cercava di far tacere in sé la vergogna per l’affronto patito e la preoccupazione per la minaccia del Salvo. Ah, Stellina, Stellina era tutta sua ormai, tutta e per sempre! Chi avrebbe potuto strappargliela più dalle braccia? (cap. XV)

B

e si mise a cenare di buon appetito come se il suo corpo volesse compensarsi della vergogna per l’affronto patito.

Ad essere alleggeriti sono anche dettagli fisiognomici ed esteriori, attinenti ad esempio all’abbigliamento: Reggeva questa treccia un pizzo nero, trapunto, ch’ella portava sempre in capo annodato sotto il mento (G, T) > Reggeva questa treccia un pizzo nero, annodato sotto il mento (B) (cap. VII), oppure alcune caratterizzazioni psicosomatiche: Due lagrime […] le rigarono il volto cereo, smunto. Con una mano gli fe’ cenno d’accostarsi al letto (G, T) > Due lagrime […] le rigarono il volto. Gli fe’ cenno d’accostarsi al letto (B) (cap. X). Al capitolo II troviamo un primo ritratto di Stellina, che affronta la disapprovazione del padre per aver disdegnato i lauti doni offerti dall’anziano Don Diego. La posa di giovanile civetteria, con l’ingenua sensualità della «testina bionda, svelta sul collo flessuoso» e la sottolineatura temporale della giovinezza, si attenuano nell’edizione definitiva:

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18 G, T

Ella si guardava nello specchietto a bilico, rialzandosi i capelli dietro la nuca, e sorrideva alla propria immagine, alla testina bionda, svelta sul collo flessuoso, al visetto fresco e leggiadro di diciott’anni, che apriva due occhi azzurri limpidi e gai.

B

Si guardava nello specchietto a bilico, si rialzava i capelli nuca e sorrideva alla propria immagine: il visetto fresco e leggiadro apriva in quello specchio due occhi azzurri limpidi e gaj.

Cadono certe punte che potrebbero apparire di enfasi sentimentaleggiante, esternate attraverso precisi riferimenti letterari:

Pervenuto al penultimo pianerottolo, fu crudelmente ferito dalla voce di Stellina che cantava una romanza, accompagnata a pianoforte da Mauro Salvo: senza dubbio.

— Canta, canta, ingrata!

S'appoggiò al muro e si strinse forte gli occhi con una mano. Le ultime parole della romanza gli giunsero distinte:

Torna, caro ideal, torna. torna. (cap. XI)

In B cade l’ultimo periodo, suggellato dalla citazione di una celebre romanza del compositore Francesco Paolo Tosti (1846-1916), musicata su Ideale del poeta Carmelo Errico (era una delle romanze preferite da D’Annunzio). La citazione è evidentemente antifrastica, in quanto il testo isolato quasi epigraficamente è un’esaltazione dell’amore puro e disinteressato, all’opposto della realtà del matrimonio di interesse tra Stellina e Don Diego.41 A cadere sono talvolta certe ‘glosse’

del narratore-autore che risultavano, nella tessitura essenzialmente mimetica del racconto, fin troppo intrusive, anche se funzionali a descrivere (come si vedrà) la particolare natura dell’esperienza estetica del protagonista:

G, T

quel fruscìo misterioso si fondeva col borbogliar

B

il loro fruscìo misterioso si fondeva col borbogliare

41 Sulla funzione di questa citazione rimando all’Introduzione di A. Sichera, alla nota 93.

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19 continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante, che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù lamentoso, remoto, d'un assiolo: nota, richiamo d’angoscia disperata.

— E allora, giacché vuoi far la pecora, bada a questo soltanto: di non andar più, d'ora in poi, in casa di don Diego Alcozèr.

Ma questa conclusione non poteva convenire a l’Alletto: ora, specialmente (oh Stellina, che gioja!).

— Come! Perché? – domandò al rivale, con finto stupore. – Chi può proibirmelo? (cap. XIV)

continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante, che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù lamentoso, remoto, d'un assiolo.

— E allora, giacché vuoi far la pecora, bada a questo soltanto: di non metter più piede, d'ora in poi, in casa di don Diego Alcozèr.

— Come! Perché? Chi può proibirmelo?

Come nota Sichera, la frase «Ma questa…gioja!)» si ricollega a quella del capitolo seguente, e viene espunta in quanto portatrice di un velato accenno all’amplesso tra Pepè e la sua promessa.

A conferma di questa strategica omissione, alla fine del cap. XXVII, in cui il narratore ricapitola il flusso dei pensieri di Stellina, l’accenno al «suo primo fallo» viene edulcorato in «quel che c’era stato».

Vengono meno anche alcuni inserti discorsivi, talora in indiretto libero, che riguardano quasi sempre sequenze monologanti dei personaggi:

G, T

Sì, ma intanto, ecco: ridendone, scherzando, egli era adesso sul punto di battersi per quella donna. E qualche diritto, ora, sul serio cominciava ad acquistarlo su lei… Perbacco, rischiava la vita!

Pensare che, domani, forse lui… Domattina!

Di nuovo si smarrì. (cap. VII)

Durante la notte non chiuse occhio, pensando a ciò che avrebbe potuto rispondere, lì per lì, al rivale.

Adesso le parole gli abbondavano, e diceva a sé stesso: - Che bestia sono stato! (cap. XV)

B

Sì, ma intanto, ecco: ridendone, scherzando, egli era adesso sul punto di battersi per quella donna. E qualche diritto, ora, sul serio cominciava ad acquistarlo su lei…

Durante la notte non chiuse occhio, pensando a ciò che avrebbe potuto rispondere, lì per lì, al rivale.

(20)

20

Sono almeno quattro le espunzioni più rilevanti nell’economia del romanzo. La prima di esse, al cap. VI, riguarda il racconto della vita eroica di Ciro ad opera della moglie Filomena, dalla quale egli esce consacrato alla stregua di chi ha vissuto «l’epopea del moderno, che nella tipica cronologia pirandelliana coincide […] con l’impresa garibaldina».42 La descrizione della parabola conquistatrice di Ciro (una delle più esplicite figure di ‘imperatori’ nel mondo dello scrittore agrigentino)43 si amplia ancor più dopo la princeps, per sparire definitivamente nella ne varietur:

G

Pepè […] tra sé pensava: - T'ha fatto ricca! e che n'hai goduto? – Era vero però quel che diceva Filomena. Lì, in una parete della stanza, erano appesi e disposti, come una nuova panoplia, uno schioppo, una sciabola, un berretto e una camicia rossa. A tredici anni, Ciro era scappato dalla casa paterna; era giunto a Palermo il giorno dopo l’entrata di Garibaldi; a Milazzo era stato ferito in un braccio…

Ma a questo punto Pepè fu distolto dai ricordi della vita eroica del cognato. La serva entrò ad annunziargli che qualcuno lo attendeva giù nello studio.

T

Pepè […] tra sé pensava: - T'ha fatto ricca! e che n'hai goduto? – Era vero però quel che diceva Filomena. Lì, in una parete della stanza, erano appesi e disposti, come una nuova panoplia, uno schioppo, una sciabola, un berretto e una camicia rossa, forata in una manica. A tredici anni, Ciro era scappato dalla casa paterna, devotissima ai Borboni;

era giunto a Palermo il giorno dopo l’entrata di Garibaldi; aveva combattuto con Lui, e a Milazzo era stato ferito in un braccio… / Ma a questo punto Pepè fu distolto dai ricordi della vita eroica del cognato. La serva entrò ad annunziargli che qualcuno lo attendeva giù nello studio.

B

Pepè […] tra sé diceva: - T'ha fatto ricca! ma che n'hai goduto?

All’inizio del cap. VII il narratore indugia sui timori di Pepè di fronte al rischio del duello.

Questa zona introspettiva, narrata «con un accento insistito sul piano corporeo del vissuto» (A.

42 ANTONIO SICHERA, Un doppio ‘didattico’ dell’Esclusa; Il turno, in Ecce Homo! Nomi, cifre e figure di Pirandello, Firenze, Olschki, 2005, 125.

43 Cfr. ivi, passim.

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Sichera, Introduzione), con una certa enfasi di mascolina ferinità («come una bestia recalcitrante»), viene quasi interamente a cadere in B:

G, T

Pepè rimase a riflettere nello studio, passeggiando.

Era dunque deciso: – domani, il duello! – Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a formarsene un’idea concreta, poiché tutto l’esser suo, come una bestia recalcitrante, si ritraeva quasi, per istintivo aborrimento, innanzi all’immagine che già gli balenava del pericolo imminente.

– Vediamo, vediamo… – s’ostinava pur tuttavia a ripetere a sé stesso, chiamando a raccolta le proprie forze per persuadere i nervi agitati a calmarsi. Ma questi, nella loro ribellione alla volontà, gli accendevano invece nel cervello guizzi di pensieri alieni, per cui egli: – No, che c’entra?... – mormorava, strizzando gli occhi e contraendo tutto il volto.

B

Pepè rimase a riflettere nello studio, passeggiando.

«Vediamo, vediamo…» diceva a se stesso, per chiamare a raccolta le proprie forze e persuadere i nervi agitati a calmarsi. Ma nel cervello, chi sa perché, gli s’accendevano guizzi di pensieri alieni;

contraeva tutto il volto.

Ad apertura del cap. XIX verrà a mancare il brano in cui si descrive il proposito di donna Bettina di non accogliere in casa il genero, «uomo violento», con il connesso rifiuto di recarsi nella dimora della figlia e accontentandosi di vivere da martire in una ostinata autoreclusione. In questo caso l’espunzione è forse dovuta all’essere questa condizione già chiarita nell’incipit del cap.

VII, dove B introduce un’ampia integrazione (vd. supra), anche se in quel contesto a essere chiamata in causa direttamente era Filomena, mentre il genero appariva solo di riflesso:

G, T

Studiava ancora, quando, insolitamente, si vide innanzi [dinanzi T] Ciro in persona: Ciro in casa sua!

Poco dopo le nozze con la povera Filomena, il Coppa s’era guastato con la suocera. Donna Bettina, mitissima d’indole, ma tenace nei propositi, aveva giurato fin d’allora di non rivedere mai più

B

Studiava ancora, quando, insolitamente, si vide davanti Ciro in persona: Ciro in casa sua!

Donna Bettina era rimasta come fulminata, nel vederselo davanti, e non gli aveva saputo dir nulla.

Ciro s’era introdotto senza neppur salutarla.

— Tu qua! — esclamò Pepè, stupito, vedendolo.

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22 quell’uomo violento. Con gli anni, l’odio per lui era man mano cresciuto: l’unico odio che ella covasse in cuore. E si era contentata di soffrire il martirio in casa, pur di non andare in quella del genero, dove Pepè era stato accolto ferito e Filomena era moribonda.

— Tu qua! — esclamò Pepè, stupito, vedendo Ciro.

Un’altra, anche se meno cospicua, soppressione, riguarda il proposito di Pepè di rapire Stellina, espresso in un indiretto libero che si sviluppa attraverso interrogativi, esclamativi e reticenze:

G, T

non si sarebbe rivolta anche contro di lui quella rabbia? Che fare? – Un pensiero gli balenò: - Rapirla! – E immaginò in un attimo la fuga, la liberazione dell’amata… Ma sì! E dopo? – Follie! La libertà… E se Stellina la sognava pensando al Salvo, la libertà? Non le era egli forse caduto dal cuore, col sospetto d’un accordo col padre per sacrificarla?

Gli pareva d'impazzire, tra l'avvilimento e la confusione. (cap. XVIII)

B

non si sarebbe rivolta anche contro di lui quella rabbia? Che fare?

Gli pareva d'impazzire, tra l'avvilimento e la confusione.

5. RISCRITTURE

Non sono molti i casi in cui, rielaborando, l’autore mantiene, con necessari e opportuni mutamenti semantici o aggiustamenti descrittivi, il brano o la sequenza iniziali. Un esempio è al cap. IV il ritratto di Don Diego, intento ad abbigliarsi per il suo quinto matrimonio. Il narratore, nell’edizione definitiva, indugia sulla vetustà dell’abito, alla cui scrupolosa conservazione, segno di una consolidata resistenza al tempo (e alle numerose consorti), fa da pendant l’essere custodito come reliquia in una cassapanca «lunga e stretta come una bara». Le «grosse papere» che strillano vedendo Don Diego, icona zoomorfa delle «tribù delle mogli precedenti», oggetto di un «ghigno

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muto», non più riproposto, divengono «le anime delle defunte mogli», cacciate proprio come una nidiata di papere:

G

Circa due mesi dopo si celebrarono in casa Ravì le nozze tanto combattute. E don Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali. Non per avarizia: ma era ancor nuova nuova, in coscienza. Passando pe

’l cortile di casa, le grosse papere, non riconoscendolo, lo inseguirono fino al portone, coi lunghi colli protesi, strillando con la loro voce cornea, come indemoniate.

- La tribù delle mogli precedenti!

- pensò don Diego arricciando il naso e aprendo la bocca a un ghigno muto.

T

Circa due mesi dopo si celebrarono in casa Ravì le nozze tanto combattute. E don Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali. Non per avarizia: ma era ancor nuova nuova, in coscienza. Giù pe ’l cortile di casa, le grosse papere, non lo riconobbero e lo inseguirono fino al portone, coi lunghi colli protesi, strillando con la lor voce cornea, come indemoniate.

– Eh eh… La tribù delle mogli precedenti! – pensò don Diego arricciando il naso e aprendo la bocca a un ghigno muto.

B

Circa due mesi dopo si celebrarono in casa Ravì le nozze tanto combattute. Don Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali; non per avarizia, ma perché veramente era ancor nuova, sebbene di taglio antico, custodita per tanti anni con la canfora e col pepe nella cassapanca di noce stretta e lunga come una bara. Giù per il cortile le grosse papere non lo riconobbero in quell’insolito arnese, e coi lunghi colli protesi lo inseguirono fino al portone strillando come indemoniate.

«Eh eh, le anime delle defunte mogli!» pensò don Diego, arricciando il naso; e, correndo, se le cacciava dietro con le mani.

Il mutamento di alcuni termini di paragone rende talora più icastica la presentazione e le performances degli attori nel ‘turno’ della scena romanzesca, connotando il personaggio nella forma della maschera:

G, T

E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa –

B

E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa,

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