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preposto, ossia non può contare su una struttura gerarchica che si occupi della tutela della sua salute sul luogo di lavoro. 2

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LA NUOVA LEGGE SULLA SICUREZZA (L. 123/07) Giovanni Lageard – Mario Gebbia

Il 10 agosto scorso (G.U. serie generale n. 185) è stata pubblicata la legge 3 agosto 2007 n. 123,

"Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia".1

Il testo evidenzia l’intento di rendere maggiormente severe le regole e le sanzioni, anche se la disorganicità del provvedimento e l’assenza di una riflessione globale, sia con riferimento ai principi generali del diritto della prevenzione, sia per quanto concerne alcuni dei principi fondamentali del diritto penale, hanno comportato un risultato che, per molti aspetti, non può dirsi soddisfacente.

Occorre anzitutto ricordare che, il provvedimento in esame, per una parte (art. 1) è legge di delega ai sensi dell’art. 76 Cost., e quindi offre soltanto dei principi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrà attenersi nel formulare (entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge delega) il decreto legislativo che darà concreta attuazione alla volontà del Parlamento; per un’altra parte (artt.

2-12) è legge “vera e propria”, ossia norma giuridica, cogente sotto ogni profilo dal momento della sua entrata in vigore.

Nell’economia del presente scritto, considereremo talune delle modifiche di maggior rilievo.

1. La delega al Governo (art. 1).

Criteri b) e c). Ambito di applicazione. Tutela del lavoratore autonomo.

Il campo di applicazione, sulla scia di quanto già previsto dal d.lgs. 626/1994, è molto ampio, venendo ad interessare “tutti i settori di attività e tutte le tipologie di rischio”, salva la necessità che vengano previste norme specifiche in ragione della particolarità di alcuni ambiti lavorativi (art. 1 lett. b).

Di indubbio rilievo è la previsione di un sistema di tutela del lavoratore autonomo simile (per quanto possibile) a quello previsto per il lavoratore subordinato.

L’art. 1 lett. c) prevede infatti:

“Applicazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro a tutti i lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati prevedendo: 1) misure di particolare tutela per determinate categorie di lavoratori e lavoratrici e per specifiche tipologie di lavoro o settori di attività; 2) adeguate e specifiche misure di tutela per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003”.

E’ evidente che l’intenzione del legislatore non è quella di intervenire attraverso l’art. 7 d.lgs.

626/1994 o mediante modifiche al d.lgs. 494/1996 in tema di cantieri mobili, e cioè rafforzando la tutela del lavoratore autonomo nell’ambito delle regole proprie della prevenzione nel contratto d’opera, ma è quello di uscire da questo schema per giungere ad un livello di tutela del lavoratore autonomo non dissimile da quello previsto per il lavoratore subordinato.

Le ragioni di una scelta siffatta (comprensibili in linea teorica ma di difficile traduzione pratica) si spiegano alla luce del fatto che il lavoratore autonomo è “privo di datore di lavoro, dirigente e

1 - Il provvedimento era stato licenziato dal Senato con il titolo “Delega al Governo per l'emanazione di un testo unico per il riassetto e la riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”, poi modificato dalla Camera con l’approvazione definitiva. La rubrica con cui il disegno di legge è giunto al Senato faceva ancora riferimento all’idea, la cui origine si perde ormai nella notte dei tempi, del testo unico sulla sicurezza. La nuova rubrica è senza dubbio più realistica: si tratta anzitutto di “misure” (dettate evidentemente dalla stessa tipologia di spinte emotive che hanno condotto al decreto legge estivo sulla sicurezza stradale), e poi c’è una parte di legge che prevede una “delega” finalizzata alla revisione di alcuni aspetti della materia.

preposto”, ossia non può contare su una struttura gerarchica che si occupi della tutela della sua salute sul luogo di lavoro.

La raccomandazione CE 2003/134 citata dalla norma esprime compiutamente questa esigenza:

“I lavoratori che esercitano la loro attività professionale al di fuori di un rapporto di lavoro con un datore di lavoro, o, più in generale, al di fuori di qualsiasi subordinazione a una terza persona, non sono, in regola generale, coperti dalle direttive comunitarie che riguardano la salute e la sicurezza sul lavoro, in particolare dalla direttiva quadro 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. D’altra parte, in alcuni Stati membri, tali lavoratori non sono coperti dalla legislazione applicabile in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.(considerando n. 5);

2

“I lavoratori autonomi, sia che lavorino da soli o con altri dipendenti, possono essere esposti a rischi per la salute e la sicurezza analoghi a quelli che corrono i lavoratori dipendenti”.(considerando n.

6).

Sul piano delle soluzioni la stessa raccomandazione CE è peraltro molto vaga, limitandosi ad offrire alcune indicazioni di carattere generale e programmatico, per cui l’ambito di discrezionalità concesso al Governo per attuare il nuovo sistema di tutela del lavoratore autonomo è molto ampio.

Si tratta di questione tutt’altro che semplice, in ragione del fatto che appare assai arduo estendere al lavoratore autonomo regole di prevenzione che richiedono necessariamente un rapporto di tipo gerarchico.

La raccomandazione evidenzia in particolare l’opportunità di provvedere affinché anche il lavoratore autonomo riceva adeguata formazione ed informazione (punti 4 e 5) e sia sottoposto al controllo sanitario (punto 6).

Non è certo questa la sede per affrontare tali questioni, molto complesse e la cui risoluzione non potrà non comportare il completo rovesciamento di alcuni assunti considerati ormai assodati nel diritto della prevenzione, quali il principio di autonomia del prestatore d’opera o quello di “non

identemente incompatibili colla nuova disciplina..

ingerenza” del committente,ev 1.1. Criterio f). Le sanzioni.

Il profilo sanzionatorio ha destato grande interesse nel legislatore delegante, che sembra evidentemente ritenere che il delicatissimo problema della sicurezza sul lavoro possa trovare compiuta soluzione solo attraverso la gravità delle sanzioni irrogate. La natura delle indicazioni in materia di pene conferma purtroppo l’impressione di trovarsi di fronte ad una “legge manifesto”, realizzata sulla base di una pur comprensibile spinta emotiva piuttosto che ad un tentativo serio e meditato di incrementare il livello di tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro.

Si tenga conto del fatto che i criteri in tema di sanzioni penali, soprattutto laddove esprimono i massimi edittali di pena per le violazioni costituenti reato, rappresentano per il Governo indicazioni tassative e non superabili, posto che diversamente si avrebbe un decreto legislativo viziato da eccesso di delega, e come tale incostituzionale ai sensi dell’art. 76 Cost.

Vediamo le prescrizioni parlamentari nel dettaglio.

Il criterio f) esordisce impartendo due indirizzi di fondo che dovrebbero ispirare il Governo nella

“riformulazione e razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio amministrativo e penale”:

1) tenere conto delle responsabilità e delle funzioni svolte da ciascun soggetto obbligato, “con riguardo in particolare alla responsabilità del preposto”;

2) tenere conto della natura sostanziale o formale della violazione.

Opportuno appare il riferimento specifico alla figura del preposto (aggiunto a seguito di proposta della XI Commissione). Si tratta infatti di soggetto fondamentale nella gestione aziendale della sicurezza ed in relazione al quale il legislatore non ha mai dettato disposizioni specifiche, se non la laconica (per quanto preziosa) indicazione contenuta nell’art. 4 D.P.R. 547/1955 e nell’art. 4 D.P.R.

303/56.

2 - La Raccomandazione del Consiglio del 18 febbraio 2003 (2003/134/CE), “relativa al miglioramento della salute e della sicurezza sul lavoro dei lavoratori autonomi”, è pubblicata su G.U. Unione Europea, 20 febbraio 2003, L 53/45.

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Il miglioramento del livello di sicurezza strutturale ha fatto si che sono sempre meno ricorrenti gli infortuni derivanti in maniera preponderante da inadeguatezze di macchine e impianti, mentre nessuna flessione significativa si è registrata per quanto concerne l’infortunio dovuto, esclusivamente o parzialmente, a cause comportamentali.

Ecco quindi che assume rilievo primario il ruolo del preposto che, essendo costantemente a contatto con le problematiche delle singole lavorazioni, riveste un ruolo chiave per garantire la concreta applicazione delle regole di prevenzione..

Si auspica quindi che il Governo voglia cogliere l’occasione per provare a definire i compiti di questa figura, anziché limitarsi ad un intervento sul piano esclusivamente sanzionatorio.

Il secondo criterio generale in tema di sanzioni riguarda la distinzione tra violazioni formali e violazioni sostanziali.

A parte la difficoltà di introdurre una distinzione siffatta nella materia della sicurezza (posto che diventa fin troppo facile osservare, sulla scia della giurisprudenza maggioritaria, che in tema di prevenzione tutto è “sostanziale”)3, riteniamo che il problema sia stato dal legislatore ulteriormente

ttro livelli di sanzione.

complicato attraverso la formulazione di qua I punti 2 e 3 del criterio f) prevedono infatti:

- sanzione amministrativa (con un massimo di 100.000 €) “per le infrazioni non punite con sanzione penale”;

- sanzione penale dell’ammenda (con un massimo di 20.000 €) “per le infrazioni formali”;

- sanzione penale dell’arresto (con un massimo di tre anni) “per le infrazioni di particolare gravità”;

- sanzione penale alternativa dell’arresto o dell’ammenda (con un massimo di tre anni di arresto o 100.000 € di ammenda), “negli altri casi”.

Il primo rilievo che deve essere mosso riguarda le difficoltà di individuare un ambito di applicazione della sanzione amministrativa.

Infatti, per le infrazioni formali è già prevista la sanzione penale meno grave (la sola ammenda), ed appare assai arduo individuare una violazione in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro che abbia una valenza ancora minore che formale.

Il legislatore indica, quale criterio elettivo di ricorso alla sanzione penale rispetto a quella amministrativa, la “lesione di interessi generali dell’ordinamento individuati in base ai criteri ispiratori degli artt. 34 e 35 l. 689/1981”.

Le norme citate riguardano le tipologie di reati esclusi dal noto provvedimento di depenalizzazione, e tra questi troviamo i reati in materia di armi, munizioni ed esplosivi, di alimenti, di inquinamento atmosferico, idrico, in materia edilizia, ed altri.

Nell’elenco di cui all’art. 34 l. 689/1981 sono però anche comprese le “leggi relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed all’igiene del lavoro”.

Quindi, se il Governo dovesse seguire le indicazioni del Parlamento dovrebbe comminare la sanzione amministrativa per le violazioni previste dalla normativa di prevenzione in ossequio ai criteri ispiratori di cu agli artt. 34 e 35 l. 689/1981. Peccato che tra questi criteri ispiratori c’è proprio il divieto di depenalizzazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Si noti che, allo stato attuale, praticamente tutti gli adempimenti previsti dalla normativa in tema di sicurezza ed igiene sul lavoro sono penalmente sanzionati. La irrogazione di sanzioni amministrative non potrebbe quindi trovare collocazione nei vuoti lasciati dalla previsione

3 - E’ obiettivamente difficile individuare, in ambito di prevenzione, adempimenti di rilievo meramente formale. Si può pensare alla mancata comunicazione all’ente di vigilanza del nominativo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione oppure alla indicazione, nella valutazione del rischio rumore, del tipo di fonometro utilizzato e dell’ultima taratura (nell’ipotesi in cui sia stato effettivamente utilizzato un fonometro a norma e regolarmente tarato). Di certo non pare consentito ritenere automaticamente la natura “formale” delle violazioni di obblighi “documentali”, per ragioni che non hanno necessità di essere evidenziate (basti pensare al ruolo e all’importanza del documento di valutazione dei rischi).

sanzionatoria penale (che sono pressoché inesistenti) ma dovrebbe realizzare una vera e propria depenalizzazione.

I criteri direttivi indicati dal Parlamento sono quindi, sotto questo profilo, palesemente contraddittori, nonché di assai ardua trasposizione normativa in ragione della difficoltà di individuare un livello di gravità inferiore alla violazione meramente formale, per la quale è già prevista la sanzione penale dell’ammenda.

Non si comprende peraltro quale utilità possa avere la previsione di sanzioni amministrative laddove si consideri che, attraverso il procedimento di estinzione di cui al d.lgs. 758/1994, la repressione delle violazioni antinfortunistiche si esaurisce già totalmente in sede amministrativa, realizzando quello che dovrebbe essere lo scopo primario della normativa e cioè la eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

In questo modo, a fianco della procedura ai sensi del d.lgs. 758/1994 e del procedimento penale (per le violazioni punite con la sola pena dell’arresto e per le altre contravvenzioni in caso di fallimento della procedura ex d.lgs. 758/1994), si verrebbe a creare un terzo iter procedimentale per l’applicazione della sanzione amministrativa (verosimilmente mediante l’applicazione delle norme generali di cui alla l. 689/1981).

Spostando il ragionamento all’interno della previsione penale, osserviamo come il Parlamento prescriva la introduzione di sanzioni esclusivamente pecuniarie e di sanzioni esclusivamente detentive.

Delle prime abbiamo già detto. Per quanto concerne invece le violazioni cui riferire la sola pena dell’arresto, il Parlamento indica un parametro di “particolare gravità”. Spetta al Governo il delicato compito di individuare tale categoria di violazioni.

L’esame complessivo del nuovo sistema sanzionatorio mette in luce una evidente contraddizione tra quanto previsto al punto 1) del criterio f), e cioè “l’utilizzazione di strumenti che favoriscano la regolarizzazione e l’eliminazione del pericolo da parte dei soggetti destinatari dei ,provvedimenti amministrativi, confermando e valorizzando il sistema del d.lgs. 758/1994”, e l’introduzione di tipologie di sanzioni alle quali la procedura in questione, almeno così come è concepita, non è applicabile (così, le violazioni punite con la sola pena dell’arresto e le sanzioni meramente amministrative).

Anche per le contravvenzioni punite con la sola ammenda o con sanzione alternativa, i massimi edittali previsti dal legislatore (vincolanti per il Governo) sono di entità tale da non incoraggiare di certo la definizione in via amministrativa.4 Questo dato non potrà che comportare l’incremento del contenzioso, e, in non pochi casi, la ricerca di modalità di definizione nell’ambito del procedimento penale.

Il nuovo assetto sanzionatorio, come desumibile dai criteri della delega, evidenzia dunque contraddizioni e criticità difficilmente superabili e che rischiano di rendere del tutto irrazionale il sistema delle pene, e ciò a causa di un atteggiamento di rigore purtroppo non accompagnato da una meditazione e da una conoscenza approfondita delle problematiche del settore.

Criterio g). Revisione di requisiti attribuzioni e funzioni dei soggetti della prevenzione aziendali.

Il legislatore con questa direttiva vuole che si proceda alla “revisione dei requisiti, delle tutele, delle attribuzioni e delle funzioni dei soggetti del sistema di prevenzione aziendale, compreso il medico competente, anche attraverso idonei percorsi formativi”.

Esclusi i soggetti della line aziendale (datore di lavoro, dirigenti, preposti), con riferimento ai quali non è ipotizzabile un discorso di requisiti, l’indicazione in esame riguarda essenzialmente il rappresentante dei lavoratori, il rappresentante e i membri del servizio di prevenzione, il medico competente.

4 - E’ appena il caso di ricordare che i più importanti meccanismi estintivi delle contravvenzioni antinfortunistiche sono calibrati sul massimo edittale: la procedura ai sensi del d.lgs. 758/1994 nella misura del quarto del massimo della pena pecuniaria stabilita per ogni singola violazione; l’oblazione penale ai sensi dell’art. 162 bis c.p. nella misura della metà del massimo.

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Per quanto concerne le prime due figure, è certamente possibile (in astratto) ipotizzare una maggiore selettività dei requisiti.5 Ci si chiede invece cosa si possa chiedere di più al medico competente se non, come attualmente avviene, di essere laureato in medicina e specializzato in medicina del lavoro … Spetta al Governo il delicato compito.

La norma lascia peraltro la non gradevole impressione, comune purtroppo ad altre disposizioni sparse nella nuova legge , che si voglia dare una (ulteriore) stura a corsi vari, più o meno finanziati.

Criterio p). Promozione della cultura della prevenzione.

Apprezzabile appare il punto 3) che prevede “la promozione e la divulgazione della cultura della salute e della sicurezza sul lavoro all’interno dell’attività scolastica ed universitaria”.

Il problema della prevenzione rappresenta indubbiamente uno degli aspetti di maggiore rilievo della

“cultura del lavoro”. In generale si può osservare che un maggiore interesse della scuola nei confronti della salute, intesa - e non sembri banale - come coscienza del fatto che il corpo umano è esposto nell’ambiente di vita e di lavoro ad aggressioni continue (dall’inquinamento al tabagismo;

dall’uso delle droghe e degli alcolici alle condotte imprudenti sulla strada; dall’esposizione a sostanze dannose e a pericoli per l’incolumità nei luoghi di lavoro), e quindi alla necessità che i ragazzi acquistino un maggiore livello di consapevolezza e responsabilizzazione rispetto alla propria salute e a quella delle altre persone, non può che costituire un punto di partenza fondamentale del percorso formativo dei giovani che stanno per avvicinarsi (anche) al mondo del lavoro.

Attualmente le regole della prevenzione formano oggetto di attenzione di taluni insegnamenti professionali o di corsi monografici (peraltro quasi sempre facoltativi) nelle università tecniche, e sono quindi ben lungi dal rappresentare un insegnamento, se non proprio di base, quantomeno di patrimonio comune.

Criterio r). Esclusione oneri a carico dei lavoratori.

“esclusione di qualsiasi onere finanziario per il lavoratore e la lavoratrice subordinati e per i soggetti ad essi equiparati in relazione all’adozione delle misure relative alla sicurezza e alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici”.

Non dovremmo in realtà dedicare neanche un cenno a questa previsione, del tutto scontata e la cui sola utilità consiste nel mettere in luce l’atteggiamento, tanto fazioso quando disinformato, del legislatore.

Criterio s). Revisione della normativa sugli appalti.

L’appalto costituisce indubbiamente uno dei momenti più delicati nella pratica industriale.

L’esperienza, ormai pluriennale, di applicazione dell’art. 7 d.lgs. 626/1994 e della normativa sui cantieri mobili di cui al d.lgs. 494/1996, non ha evidenziato il miglioramento sperato nelle statistiche degli infortuni, anche se l’introduzione di fattori nuovi (quali la manodopera extracomunitaria) e l’incremento, soprattutto negli ultimi anni, delle grandi opere sono elementi che hanno indubbiamente inciso sui numeri.

Le dir ttive fondamentali del legislatore riguardano: e

- il miglioramento dell’efficacia della responsabilità solidale tra l’appaltante e l’appaltatore (ma su ciò, si vedano già le recenti modifiche all’art. 7 d.lgs. 626/1994, ad opera della legge finanziaria per il 2007);

- il coordinamento degli interventi di prevenzione dei rischi, con particolare riferimento ai subappalti, anche attraverso l’adozione di meccanismi che consentano di valutare l’idoneità tecnico-professionale delle imprese pubbliche e private, considerando il rispetto delle norme relative alla salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro quale elemento vincolante per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica;

5 - Anche se, a ben vedere, non si vede quali requisiti professionali si possano chiedere al responsabile dei lavoratori, salva ovviamente la necessità di una congrua formazione. Per quanto concerne invece il responsabile e gli addetti del servizio di prevenzione, è appena il caso di ricordare come i requisiti professionali di queste figure siano stati definiti di recente con il d.lgs. 195/2003 e dal provvedimento della Conferenza Stato-Regioni 26 gennaio 2006 n. 2407.

- la modifica degli appalti pubblici al massimo ribasso al fine di garantire che l’assegnazione non determini la diminuzione del livello di prevenzione;

- la modifica del codice degli appalti pubblici (d.lgs. 163/2006), prevedendo che i costi della sicurezza siano specificamente indicati nei bandi e risultare congrui rispetto all’entità e caratteristiche dei lavori.

E’ questo un compito di non poco conto per il Governo posto che, una revisione razionale della normativa sugli appalti sotto il profilo della sicurezza, non potrà non tenere conto quantomeno dell’art. 7 d.lgs. 626/1994 (modificato a sua volta dalla legge in esame – vds. oltre), del d.lgs.

494/1996, del d.lgs. 163/2006, e ciò anche considerando il nuovo e diverso livello di tutela che si vuole assegnare al lavoratore autonomo.

Criterio t). La sorveglianza sanitaria.

Apprezzabile la volontà del legislatore volta alla “rivisitazione delle modalità di attuazione della sorveglianza sanitaria, adeguandola alle differenti modalità organizzative del lavoro, ai particolari tipi di lavorazioni ed esposizioni, nonché ai criteri ed alle linee guida scientifici più avanzati, anche con riferimento al prevedibile momento di insorgenza della malattia”.

Appare evidente come l’approccio, senza dubbio positivo ed ispirato a modernità, debba trovare attuazione non in modo meramente formale ma in maniera che si riesca a tenere effettivamente conto delle situazioni concrete delle realtà produttive.

Criterio v). Il procedimento di interpello per la normativa di prevenzione.

Interessante l’idea del legislatore di estendere il procedimento di interpello, disciplinato dall’art. 9 d.lgs. 124/2004, alla normativa in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro.

La norma, come modificata ad opera del d.lgs. 262/2006, prevede quanto segue:

“1. Gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali e gli enti pubblici regionali, nonché, di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti, le organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale e i consigli nazionali degli ordini professionali, possono inoltrare alla Direzione generale, esclusivamente tramite posta elettronica, quesiti di ordine generale sull’applicazione delle normativa di competenza del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. La direzione generale fornisce i relativi chiarimenti d’intesa con le competenti Direzioni generali del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e, qualora interessati dal quesito, sentiti gli enti previdenziali.

2. L’adeguamento alle indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 esclude l’applicazione delle relative sanzione penali, amministrative e civili”.

Ad avviso di chi scrive non può che essere salutato positivamente ogni tentativo di creare strumenti finalizzati a ridurre i margini di incertezza interpretativa, e quindi la sfera di applicazione discrezionale.

2. Le norme già operanti (artt. 2 – 12).

Art. 2. Comunicazione all’INAIL dei procedimenti per infortuni sul lavoro.

“In caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesione personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero né da immediata notizia all’INAIL ai fin dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso”.

La norma consacra l’INAIL, sulla scorta peraltro delle indicazioni della più moderna giurisprudenza, quale “ente danneggiato” dai reati di omicidio e lesioni colpose per causa di lavoro.

Non si comprende peraltro per quale motivo il legislatore abbia omesso di considerare il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro di cui all’art. 437 c.p.

Il codice di procedura penale prevede l’obbligatorietà della citazione della persona offesa (pena la nullità dell’atto introduttivo del giudizio), ma non anche l’obbligatorietà della citazione della persona danneggiata dal reato.

Sotto questo profilo la norma costituisce una novità, che indubbiamente influenzerà in maniera importante lo svolgimento dei processi penali per infortuni sul lavoro e malattie professionali.

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Si consideri che oggi l’intervento dell’INAIL mediante costituzione di parte civile è frutto per lo più di fattori causali, collegati alla eventuale conoscenza del processo penale in tempo utile per l’esercizio dei diritti riconosciuti appunto all’ente danneggiato.

Art. 3 comma 1 lett. a) e b) - Modifiche all’art. 7 d.lgs. 626/1994.

Due o s no gli interventi sull’art. 7:

- sostituzione del comma 3 con il seguente: “Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare le interferenze. Tale documento è allegato al contratto di appalto o d’opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”;

- aggiunta di un comma 3-ter così formulato: “Ferme restando le disposizioni in materia di sicurezza e salute del lavoro previste dalla disciplina vigente degli appalti pubblici, nei contratti di somministrazione, di appalto e di subappalto, di cui agli articoli 1559, 1655 e 1656 del codice civile, devono essere specificamente indicati i costi relativi alla sicurezza del lavoro. A tali dati possono accedere, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori di cui all’articolo 18 e le organizzazioni sindacali dei lavoratori”.

La modifica al comma 3 non fa altro che recepire un dato emerso dalla prassi applicativa.

Infatti, in sede di coordinamento, viene usualmente consegnata all’impresa la parte di valutazione dei rischi aziendali inerente i locali dove deve essere eseguito l’appalto, con l’aggiunta di una serie di indicazioni ulteriori, inserite nel c.d. “verbale di coordinamento”, relative ai rischi interferenziali.

Il legislatore chiede oggi l’elaborazione di un unico documento di valutazione dei rischi che dovrà comprendere entrambi gli aspetti.

Di portata innovativa è invece l’obbligo previsto dal nuovo comma 3-ter, e cioè di indicare, in sede di contratto, i costi della sicurezza negli appalti privati.

Art. 3 comma 1 lett. c), d), e), f),- Modifiche alle norme sul rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Rinviamo alla lettura di queste norme, unitamente al criterio g) dell’art. 1 (legge delega) che prevede “il rafforzamento del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale;

l’introduzione della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo”..

Segnaliamo soltanto la modifica dell’art. 19 comma 5 d.lgs. 626/1994: “Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4 commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4 comma 5 lettera o)”.

La questione relativa all’obbligo del datore di lavoro di consegnare al rappresentante dei lavoratori copia della valutazione dei rischi aveva fatto discutere, con soluzioni tutt’altro che uniformi, fino alla emanazione della Circolare del Ministero del Lavoro 16 giugno 2000 n. 40, che aveva risolto la questione in termini positivi.

Il legislatore avalla questo orientamento, omettendo peraltro di precisare, probabilmente perché ritenuto scontato, quanto invece avvertito dalla circolare citata: “Non appare superfluo, infine, ricordare che, nel caso di consegna di copia del documento, il RLS è comunque tenuto al segreto in ordine ai processi lavorativi dell’azienda, secondo quanto previsto dall’art. 9 comma 3, del decreto legislativo in oggetto”.

Art. 5 – Il potere di sospensione dell’attività imprenditoriale in caso di gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Sulla scia di quanto già previsto dal d.l. 223/2006 (convertito in l. 248/2006), relativo al lavoro nero ed alle violazioni previdenziali, il legislatore prevede che “il personale ispettivo del Ministero del lavoro, anche su segnalazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, può adottare provvedimenti di sospensione di un’attività imprenditoriale … in caso di gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

L’adozione del provvedimento di sospensione è comunicata alle competenti amministrazioni, al fine dell’emanazione da parte di queste ultime di un provvedimento interdittivo alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni ed alla partecipazione a gare pubbliche di durata pari alla citata sospensione nonché per un eventuale periodo di tempo non inferiore al doppio della durata della sospensione e comunque non superiore a due anni.”

Il secondo comma prevede le condizioni per la revoca della misura. La legge non indica rimedi specifici avverso il provvedimento in questione, per cui occorrerà ragionare sull’applicabilità del ricorso previsto dall’art. 36 bis d.l. 223/2006 (ricorso al Dirigente della Direzione Regionale del Lavoro).

Giova invece soffermarsi sulle condizioni di applicabilità di tale rigorosa misura.

La legge parla di violazioni gravi. In proposito, il Ministero del Lavoro, con Circolare 22 agosto 2007 indirizzata alle Direzioni regionali e provinciali del Lavoro, ha osservato che “si ritiene opportuno fare riferimento ad un elemento di carattere oggettivo, rappresentato dalla sanzione che l’ordinamento ricollega alla violazione riscontrata a carico dei soli datori di lavoro e dei dirigenti.

Le sole disposizioni sanzionatorie a carico dei responsabili aziendali punite con le pene più gravi (sia di carattere detentivo che pecuniario) costituiscono dunque le <gravi violazioni> cui fa riferimento il Legislatore”.

Il Ministero sembra dunque affermare, seppure in termini non chiarissimi, che tutte le violazioni sanzionate a carico di datore di lavoro e dirigenti possono dare luogo alla sospensione.

Appare francamente difficile condividere tale interpretazione, posto che non indica alcun criterio selettivo ma la automatica applicazione del potere di sospensione a tutte le violazioni in materia di sicurezza e igiene sul lavoro poste a carico di datore di lavoro e dirigenti.

Ad avviso di chi scrive appare invece opportuno fare riferimento a quanto previsto nella legge delega in merito alla riforma del sistema sanzionatorio, e quindi considerare gravi, ai fini del potere di sospensione in esame, le violazioni per le quali verrà comminata la pena dell’arresto.

Occorre però considerare che tale individuazione non è ancora stata effettuata, trattandosi di materia delegata al Governo (il decreto dovrebbe essere emesso entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge di delega).

Ad avviso di chi scrive non è accettabile che provvedimenti di tale gravità possano essere assunti da organi amministrativi nell’esercizio di un potere discrezionale del tutto svincolato da parametri tecnici, giacché il mero riferimento alla “gravità”, in una materia dove qualsivoglia violazione potrebbe essere considerata grave, non è certamente idoneo a fornire una indicazione applicativa sufficientemente precisa.

Per queste ragioni appare plausibile ritenere che il potere di sospensione dell’attività imprenditoriale a causa di violazioni della normativa di prevenzione debba ritenersi applicabile a far data da quando

gge, le infrazioni da considerarsi gravi.

verranno stabilite, con atto avente forza di le Art. 9. Modifiche al d.lgs. 231/1991.

Il legislatore ha previsto l’introduzione di un articolo 25-septies al d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231:

“1.In relazione ai delitti di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela del lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote.

2. Nel caso di condanna per uno dei delitti di cui al comma 1, si applicano le sanzioni interdittive di on superiore ad un anno”.

cui all’articolo 9 comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e n Si tratta di un articolo che suscita in chi scrive numerose perplessità.

Una prima domanda che sorge spontanea riguarda il motivo della mancata previsione nella norma di cui si tratta dell’art. 437 del c.p. (rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro).

Siamo in presenza di un reato di particolare gravità, connotato da una spiccata e diffusa pericolosità sociale, la cui struttura dolosa sarebbe stata inoltre ben più compatibile con l’impianto normativo di cui al D.Lvo 8 Giugno 2001 n. 231, di quanto non lo siano le fattispecie previste dagli artt. 589 e 590 .cp., la cui natura esclusivamente colposa è ovviamente fuori discussione.

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Va rilevato oltretutto come questa omissione davvero non si giustifichi sotto il profilo logico a fronte del quadro di particolare rigore cui è ispirata la normativa recentemente approvata dai due rami del Parlamento.

Non è questa la sede per poter trattare con un minimo di approfondimento i numerosi problemi che nascono dall’introduzione nel corpo legislativo del decreto 231 di reati colposi. Occorre tuttavia segnalare fin d’ora tra questi la compatibilità con il criterio dell’interesse/vantaggio che deve caratterizzare la condotta criminosa, avvertendo altresì che lo stesso requisito dell’elusione fraudolenta del Modello mal si concilia con la natura colposa del reato.

Si pongono dunque delicati problemi interpretativi, non potendosi certo prescindere da quanto esplicitamente afferma la relazione al decreto 231 “la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la migliore dottrina concordano nel ritenere che le imprescindibili garanzie del diritto penale debbano essere estese anche ad altre forme del diritto sanzionatorio a contenuto punitivo, a prescindere dalle astratte “etichette” giuridiche che il legislatore vi apponga.

Da ciò l’esigenza fortemente avvertita, di creare un sistema che, per la sua evidente affinità con il diritto penale, di cui condivide la stessa caratterizzazione afflittiva, si dimostri rispettoso dei principi che informano il secondo: primo fra tutti la colpevolezza”.

Sarà necessaria dunque una particolare cautela onde evitare che si arrivi nella sostanza ad una forma di responsabilità oggettiva, incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento.

Tornando alla formulazione dell’ art. 9 occorre segnalare sul piano letterale una dizione della norma quantomeno infelice laddove si legge “si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote”.

Il legislatore sembra qui dimenticare il disposto dell’art 10 comma 2 del D.Lvo 231 secondo il quale la sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento ne superiore a mille. Pacifico dunque che in realtà la sanzione prevista per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. è rappresentata da una quota fissa.

Si nota qui una prima e francamente inspiegabile differenza rispetto a tutti gli altri reati di cui al decreto 231 in cui l’applicazione della pena pecuniaria va da un minimo ad un massimo. Da ciò discende, come prima inevitabile conseguenza, l’impossibilità di applicazione della fattispecie dell’art. 11 comma 1 che prevede che il giudice determini il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriore illeciti.

Nulla di tutto ciò potrà avvenire nell’ipotesi di cui si discute, rimanendo al giudice solo la possibilità, prevista dal 2 comma dell’art. 11, di fissare l’importo delle quote sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione.

Ne deriva sul piano concreto che in caso di accertata responsabilità dell’ente la sanzione irrogata andrà da un minimo di € 258.000 ad un massimo di € 1.549.000, avuto riguardo alle condizioni patrimoniali dell’ente. Di fronte ad una situazione di questo genere occorre ovviamente chiedersi se la formulazione di questo articolo non ponga serissimi problemi di compatibilità con la nostra Carta Costituzionale.

Ad avviso di chi scrive la risposta non può che essere positiva. Va ricordato a questo proposito, pur nell’estrema sintesi dovuta alle caratteristiche di questo scritto, l’orientamento tanto costante quanto risalente, della Corte Costituzionale al riguardo.

Il Giudice delle Leggi ha più volte osservato che il principio di uguaglianza di cui al 1 comma art.

3 Costituzione esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuali; ed ha aggiunto che le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere sanzionato sotto il

profilo della legittimità costituzionale soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza.6

Si impone dunque una valutazione della norma di cui all’art. 9 alla luce del principio sopra ricordato.

Appare innanzitutto opportuno un raffronto con le sanzioni stabilite per gli altri reati oggetto della previsione di cui al decreto 231.

Al di là del fatto, già ricordato, che per tutti è previsto correttamente un minimo e un massimo delle sanzioni, va rilevato come il massimo di mille quote sia riservato a reati di enorme gravità e particolare odiosità sociale, quali i delitti con finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico allorché siano puniti con la pena della reclusione non inferiore a dieci anni o con l’ergastolo, la riduzione in schiavitù, la prostituzione minorile, la tratta di persone, l’acquisto o l’alienazione di schiavi ed infine l’abuso di mercato.

In tutti questi casi è peraltro previsto un minimo di quattrocento quote.

E’ appena il caso di segnalare inoltre che per reati non certo di poco conto, quali la concussione o la falsificazione di monete, il massimo previsto è di ottocento quote.

Sembra a chi scrive che di fronte a un quadro di questo tipo sia assai difficile sostenere che sia stato rispettato quel limite di ragionevolezza che non consente alla Corte Costituzionale, secondo il suo

ento, di intervenire nelle scelte discrezionali del legislatore.

costante orientam Ma non basta.

Ci sembra infatti che ancor meno il limite della ragionevolezza sia stato rispettato anche all’interno delle fattispecie introdotte.

Basti pensare infatti che nell’ambito del 589 e 590 c.p. si può trovare una lesione in cui la malattia è durata giorni 41 senza reliquari di nessun tipo così come plurimi omicidi colposi relativi ad esempio a malattie professionali di particolare gravità e allarme sociale, tristemente attuali.

Una sanzione inevitabilmente identica per queste due situazioni è inaccettabile sotto una pluralità di profili che non possono non apparire a tutti immediatamente evidenti.

Infine, per concludere, ci sembra davvero difficile negare l’esistenza di un innegabile contrasto con ogni limite di ragionevolezza nel fatto che la pena minima per la lesione colposa di cui sopra corrisponda alla pena massima prevista per la riduzione in schiavitù.

Difficile pensare che di fronte a un quadro di questo genere non si pongano insuperabili problemi di legittimità costituzionale.

Un’osservazione conclusiva.

Gli scriventi hanno sempre cercato di sottrarsi alla logica di chi deve sempre e comunque criticare ogni accento di novità, anche se, in materia legislativa, tale esercizio risulta certamente più agevole che quello di trovare un approccio costruttivo.

Come ogni legge dettata dalla emotività, anche la presente paga il prezzo di alcune soluzioni frettolose e non meditate.

E’ vero che una valutazione ragionata potrà essere svolta soltanto alla prova delle nuove norme e, soprattutto, in presenza del decreto legislativo che darà attuazione all’art. 1 della legge, cioè la delega al Governo.

Tuttavia alcune soluzioni appaiono palesemente irragionevoli, e pur a prescindere da ulteriori approfondimenti. Per cui è parso doveroso evidenzialo. Non senza segnalare, nel contempo, quegli aspetti del provvedimento suscettibili di valutazione positiva.

Agosto, 2007.

6 - Si vedano fra le numerose sentenze al riguardo,che accolgono questo principio ormai pacifico ,la n.109 del 1968, la n.22 del 1971,la n. 5 del 1977, la n.313 del 1990, la n.341 del 1994.

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