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in copertina prima edizione marzo NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop., Aprilia ISBN

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prima edizione marzo 2014

© 2014 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop., Aprilia www.novalogos.it

ISBN 978-88-97339-31-1

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COSÌ PARLÒ IL POSTUMANO

a cura di Eleonora Adorni

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9 Solo diventando mutanti è possibile disinnescare le bombe dell’umanità

di Eleonora Adorni

13 Così parlò il postumano

Leonardo Caffo - Roberto Marchesini 139 Bibliografia

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Non c’è teoria, ma racconto di piccole ca- tastrofi, giocate dentro gli spazi interstellari della carne

Valerio Magrelli, Nel Condominio di Carne

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dell’umanità di Eleonora Adorni

Disposal è il titolo dell’opera – libera rivisitazione di Morte di Procri di Piero di Cosimo – dell’artista tedesca Karin An- dersen che fornisce il punto di partenza per questa introdu- zione al dialogo che i filosofi Roberto Marchesini e Leonardo Caffo hanno intrattenuto nel mese di ottobre 2013 attraverso un fitto scambio epistolare.

In quello che si appalesa ai nostri occhi come un landscape di transizione tra mondo umano, fatto di skyline e impianti di perforazione petroliferi, e ambiente postumano, una coppia di mutanti dai tratti zoomorfi sta per disinnescare un ordi- gno. Che bomba è quella che brillerà da lì a pochi secondi?

La bomba si chiama Umanesimo ed è rappresentazione meto- nimica di quel sistema filosofico che ha informato il pensiero occidentale a partire dal XIV secolo, filiando quelle categorie disgiuntive che possono essere stigmatizzate nella dicotomia natura/cultura. Un’epistemologia della cesura che ha separa- to il vivente, non solo in isole non comunicanti, ma in un sistema antropocentrico in cui l’umano è divenuto metro e sussunzione dei propri predicati (un uomo vitruviano), essere autoreferenziale destinato a vaneggianti soliloqui.

Il vivente non-umano è stato così discriminato a minus ha- bens, accessorio o corollario, da non considerare o, nel peggiore dei casi, da sfruttare appropriandosene sia da un punto di vista carnale (l’animale ucciso, torturato, sacrificato, sfruttato), sia da un punto di vista speculativo (l’animale come specchio che

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riflette il nostro lato più oscuro, l’animale come ricettacolo delle nostre fobie).

Nel pensiero postumano – dimora della pagine che segui- ranno – gli eterospecifici hanno un ruolo cardine e imprescin- dibile. Al loro statuto di alterità dialogante aspetta l’onere e l’onore di condurci verso un eccentramento ontologico, pri- mo passo per la messa in mora dell’antropocentrismo e, con esso, delle nostre (presunte) certezze.

Cosa può germogliare allora se Leonardo Caffo, tra i più promettenti filosofi in materia di “animalità”, conversa con Roberto Marchesini, figura ritenuta tra le più influenti voci nel panorama del posthuman? Roland Barthes parlando di interdisciplinarità aspira che questa possa essere un “oggetto nuovo che non appartiene a nessuno”1 e credo che non ci sia descrizione migliore di quello che emerge in fieri da questo dialogo che ha toccato, mai tangenzialmente ma attraverso veri e propri sondaggi, non solo temi inerenti al nostro rap- porto con gli animali nonumani, come le radici della discri- minazione per specie (specismo) e le conseguenze che questa ha avuto sul piano del reale, ma ha investito una poliedricità di tematiche che, in fondo e a ben vedere, sono intimamente correlate al nostro rapporto con la natura.

Non si può essere manicheisti quando si parla di specismo affermano i due autori, né tantomeno, non ci si può esimere da una ricognizione ad ampio raggio nell’episteme se si vo- gliono delineare quelle ragioni profonde che lo hanno posto in essere. In caso contrario, il rischio è quello di cadere in un antispecismo umanistico, un “criptospecismo” lo definisce

1 “Il lavoro interdisciplinare, di cui tanto oggi si parla, non è un confronto tra discipline già costituite (nessuna delle quali in fondo è disposta a la- sciarsi andare). Per fare qualcosa di interdisciplinare non basta scegliere un

‘soggetto’ (un tema) e raccogliervi attorno due o tre scienze. L’interdisci- plinarietà consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartiene a nes- suno.”, R. Bathes, “Giovani ricercatori”, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1984, p. XX.

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Caffo2, che sarebbe il ritorno più bieco – poiché celato sotto ingannevoli benevolenze – agli stessi presupposti che il movi- mento vorrebbe superare, ovvero gli eterospecifici come quasi- umani e proprio per questa prossimità di matrice quantitativa, degni di considerazione da parte dei totalmente-umani.

Urge allora, scrivono i filosofi, partire dal ripensamento generale dell’ontologia come non più incentrata su una vi- sione essenzialistica dell’individualità ma come dialogica-re- lazionale. Nell’incontro con l’altro-da-me (sia questo uomo, nonumano o elemento macchinico) esperisco un decentra- mento prospettico dalla centrifuga antropocentrica. Per dirla più semplicemente, non possiamo pensare noi stessi se non in comunione con l’altro che, mettendo a nudo ciò che siamo, ci obbliga/invita a riformulare parte delle nostre convinzioni, allargando così il nostro campo emergenziale e operativo.

Il posthuman di Marchesini parte da queste coordinate.

Non si tratta di una visione teleologica volta a lanciare l’uo- mo in un nuovo Iperuranio, ma è piuttosto un invito a stare con i piedi “nella fertile merda del quotidiano altro” e, in un coacervo di relazioni, lasciarsi contaminare. Il posthuman così inteso delinea una nuova idea di alterità – ed è proprio qui che diviene dimora per ogni pensiero volto alla liberazione anima- le – non un altro-da-me come postulato dalla tradizione an- tropologica classica, ma un altro-con-me dove, la particella con, esprime uno slittamento centrale nell’ontologia del soggetto, non più isolato ma in co-sentire l’altro, sinfisia la definisce il filosofo Ralph Acampora3, secondo un movimento empati- co ed eteroreferenziale. Gli animali smettono di essere quello

“specchio oscuro”4 in grado solamente di riflettere un umano

2 L. Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale Monferrato, 2013, p. 53.

3 R. Acampora, Fenomenologia della compassione. Etica animale e filosofia del corpo, Sonda, Casale Monferrato, 2008, p. 31.

4 T. Beson, “Lo specchio oscuro. Stereotipi animali e crudeltà umana”, in Dirit- ti Animali, S. Castignone (a cura di), Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 135-148.

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al negativo e, nel mondo dialogico, dove emergono non più isole ma profili peninsulari, lo specchio animale diviene la ma- dre stessa dell’umanità. Nel momento in cui ci specchiamo nell’eterospecifico ne abbiamo già assunto – come si trattasse di un virus pronto a replicarsi nel nostro genoma – i predicati e ciò che vediamo non siamo più “noi”, o meglio, non siamo più “solamente noi”.

Lasciamo ora ai filosofi il compito di dialogare, mentre noi ritorniamo da dove il sentiero è iniziato. È dovere dei postu- mani che siamo sempre stati – e che in fondo dobbiamo solo riscoprire di essere – disinnescare l’ordigno umanista e, come nella famosa scena di Zabriskie Point di Antonioni in cui la vil- la esplode, da ciò che di buono rimane (l’umanismo, come ve- dremo, non è tutto da gettare), iniziare a pensare a un’eutopia, un luogo del qui e dell’ora dove, riconoscendo le nostre fragili- tà e il nostro bisogno dell’altro (umano e nonumano), iniziare a riformulare una nuova idea di comunità transpecifica.

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fosse ieri, della prima volta che vidi i quadri di Francis Bacon sulla macellazione. Non ero ancora vegetariano, e occuparmi di filosofia era solo uno tra i possibili progetti futuri. Ho un ri- cordo netto, dicevo, perché contrasta decisamente con quello che provai anni dopo, riguardandoli, in seguito aver comincia- to a interessarmi di “questione animale”.

La prima volta, osservando quelle carcasse trasfigurate, metafora della condizione umana nell’epoca del postmoder- no, non riuscì a vedere niente di più che un paragone: l’uma- no, dopo la morte di Dio, paragonato a un qualsiasi animale da macello. Del paragone, che è ovviamente una relazione a due posti, ne vidi solo una parte. Quella dell’umano “come”

qualcosa di non umano. Dell’animale, appeso all’ingiù, aper- to come un oggetto qualsiasi su di uno sfondo nero, notai soltanto la metafora speculativa: una dissoluzione totale della soggettività, senza nome, che quelle rappresentazioni pittori- che volevano esprimere. Ero un cieco con gli occhi del cuore.

L’ermeneutica è una brutta faccenda: al di là del fatto che sappiamo, perché lo sappiamo, che il mondo è fatto in un cer- to modo (e ci trascende) sappiamo pure, di contro, che assume prospettive diverse a seconda degli apparati percettivi, cono- scitivi e culturali che vi si approcciano. Realismo ed ermeneu- tica fanno l’amore di continuo, si inseguono nei corridoi della filosofia: spesso litigano ma poi, piaccia o meno, sono costretti a fare la pace.

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La mia capacità di interpretare il mondo, quel mondo rac- contato da Bacon, è cambiata radicalmente dopo aver com- preso che quel paragone di cui si diceva, appunto, comprende un secondo termine relato: “l’animale”. Nel suo singolare, la parola “animale”, comprime l’infinita varietà dei viventi – come ci raccontava bene Jacques Derrida, l’algerino – violan- do ogni genere di possibile relazione con la vita degli animali non umani. Un mondo plurale e infinito, vasto e complesso:

sconosciuto, spesso, intenzionalmente.

Caro Roberto, dunque, vorrei sfruttare questa occasione per dialogare, almeno inizialmente, su come il nostro modo di approcciarsi agli animali, e all’animalità, sia viziato dall’im- magine stereotipata di una vulgata, assai diffusa, che divide il vivente in un “noi/loro” che non lascia spazio ad una reale comprensione dell’altro da sé. Anzi, forse, non lascia nean- che spazio alla possibilità che l’animale possa essere concepito come altro. Nel tuo percorso di ricerca, finalizzato alla rottura dell’antropocentrismo anche attraverso l’ausilio del postuma- no, sei riuscito a infrangere, non solo teoreticamente, questo spazio divisivo tra l’umano e tutto ciò che non lo è. E tuttavia, l’angoscia della posizione eretta, di kafkiana memoria, sembra essere un limite invalicabile da superare: la razionalità, spesso, ci argina al di qua di altri modelli di approccio al reale. Se tutto ciò che è razionale è reale (Hegel), dunque, tutto ciò che non lo è – cos’è?

Roberto Marchesini — Il quesito che poni sta proprio al centro della mia ricerca su una possibile filosofia postumani- stica, laboratorio di un pensiero ancora in fieri, troppo spesso confuso con il caleidoscopio delle proposte iperumaniste, tese a proporre il medesimo topos dell’umano elevativo, funambo- lo questa volta sulla corda della tecnoscienza. Postumanismo non vuol dire questo, ma il cercare di andare oltre – non di rinnegare o di rifiutare in toto, ma semmai di dare compimen- to ad alcune accezioni e di superarne altre – quel magnifico

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edificio che chiamiamo umanismo e che ha avuto un esplici- to inizio con l’umanesimo del XV secolo. Permettimi allora di fare un inciso. Ho iniziato a occuparmi di antropocentri- smo nella seconda metà degli anni ’80, allorché i testi di Peter Singer e Tom Regan cominciavano a diventare argomento di discussione nel nostro paese. Dapprima fui sorpreso, poi coin- volto e tuttavia sentivo che c’era qualcosa che stonava, più che palesi contraddizioni delle ambivalenze assai resilienti a qua- lunque tentativo di disambiguazione, per questo mi proposi di indagare il principio antropocentrico al di là delle perspicuità speciste e persino dell’esplicito rapporto tra l’uomo e le altre specie. Nacque così il saggio Il concetto di soglia1, frutto di con- versazioni sull’epistemologia, sul pensiero della complessità, sul paradigma ecosofico intrattenute tra la fine degli anni ’80 e la prima metà del decennio successivo con molti studiosi e soprattutto con Margherita Hack, che ne farà la prefazione.

Oggi, a posteriori, dopo aver pubblicato Post human2 e Il tramonto dell’uomo3 mi rendo conto che con Il Concetto di so- glia inizia il mio percorso sul postumanismo. A partire dalla fine degli anni ’90 mi diviene chiaro che il problema stava proprio all’interno del paradigma umanistico: non era pos- sibile tracciare filosoficamente una critica coerente all’antro- pocentrismo rimanendo all’interno delle coordinate umani- stiche, vale a dire muovendosi negli spazi di quell’edificio che poggiava su fondamenta antropocentriche.

Allora, cerco di avvicinarmi al tuo quesito prendendo in considerazione quello che ritengo il manifesto dell’antropo- centrismo umanistico, il De hominis dignitate di Pico della Mirandola4, e ciò che ne rappresenta la più bella rappresenta- zione, L’Uomo di Vitruvio di Leonardo da Vinci.

1 R. Marchesini, Il concetto di soglia, Theoria, Roma, 1996.

2 R. Marchesini, Post Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Bo- ringhieri, Torino, 2002.

3 R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo, Dedalo, Bari, 2008.

4 G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Edizioni della Scuola Nor- male Superiore di Pisa, Pisa, 2012.

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Il concetto di “uomo misura del mondo” che attraverso Platone si esplicita nell’antropometrica vitruviana e soprat- tutto nell’antropoplastica umanistica, solo in apparenza può essere collegato al pensiero dei sofisti, al panton chrematon me- tron estin anthropos (l’uomo misura di tutte le cose). In realtà Protagora intende proprio il contrario, ponendo l’accento non sulla categorizzazione della condizione umana, bensì sulla sin- golarità dell’esperienza intellettiva.

Nel progetto umanistico le singolarità dell’esperienza – come unicità individuale ma altresì (attenzione!) come irri- petibilità del hic-et-nunc vissuto – vengono messe in ombra dalla categorizzazione di “anthropos” e su questo occorre sof- fermarsi. L’essere umano viene svuotato di contenuto epime- teici, proprio per renderlo parimenti neutro – ossia non decli- nato come nel caso delle altre specie – al fine da poter fungere da unità di misura, e non-radicato – ovvero non connesso al tellurico nei suoi caratteri funzionali – al fine di poterne fare un’entità libera e autopoietica.

Mentre gli eterospecifici sono in quanto esprimono funzio- ni chiuse nella radice adattativa, l’essere umano risponde solo a se stesso, è autoriferito, demiurgo del proprio destino. Con l’umanismo l’uomo prende il volo, Prometeo lo trasforma in una sorta di Icaro e la tecnoscienza a partire dal XVII secolo ne rappresenta l’ebbrezza. Come nel dipinto di Leonardo da Vinci, l’antropometria se sposata ai presupposti prometeici non si ferma al giudizio ma si fa progetto, vale a dire “antro- poplastica”, e soprattutto pretesa contenitiva: l’anthropos come sussunzione e contenitore di mondo.

Orbene, siamo ancora lontani dalla riva del tuo quesito, ma ci sono delle foci di riflessione che possono essere utili per chiarire meglio la natura della domanda.

La lettura umanistica della condizione umana getta le basi di un antropocentrismo ontologico che chiude all’interno di un perimetro dai confini predefiniti ogni tentativo ermeneuti- co ed epistemologico – e, come vedi, sto attentamente lontano da ogni considerazione etica.

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Se l’uomo sussume il mondo, ogni forma di realtà può essere contenuta nell’uomo o espressa dall’uomo. La sintesi galileiana-cartesiana rappresenta l’acrobazia più stupefacente e – siamo onesti! – più produttiva del principio sussuntivo dell’umanismo: nel geometrizzare la processualità e nell’iscri- verla su due assi algebrici, ha matematizzato il fenomeno. Il problema della sussunzione sta tuttavia nella sua natura so- lipsistica, nell’onanismo epistemologico che implica. Il cogito è di fatto un momento privato, autoreferenziale, meno che mai dialogico; per cui, il passaggio ardito, da una res extensa intesa come fondale-palcoscienico per il solitario attore senza pubblico – il nietzschiano funambolo proiettato verso quel- la dimensione emancipata che da Pico in poi non è in alcun modo mutata – a res extensa considerata come invenzione del cogitante, è conseguente e scontato.

Se accettiamo il paradigma umanistico, siamo condannati a domandarci se, per caso, anche noi come gli eroi di Phi- lip Dick, non ci troviamo dentro una neurosimulazione... e la risposta è in qualche modo un atto di fede. Per rivedere il paradigma umanistico è necessario partire dalla sua interpre- tazione della condizione umana, per questo faccio riferimento a una proposta postumanistica – non antiumanistica – che ritengo rappresenti il cantiere filosofico del XXI secolo.

Innanzitutto occorre rivedere e rimettere quel principio metrico-sussuntivo che sta alla base dell’interpretazione uma- nistica e che ancora campeggia all’interno della riflessione filo- sofica – penso per esempio all’antropologia di Arnold Gehlen – ma altresì, seppur con ambivalenze, nella fenomenologia.

L’essere umano è una delle tante specie comparse sulla Terra e non è possibile non tener conto del preciso tracciato filo- genetico che lo ha caratterizzato, pensarlo quale “figlio-delle- stelle”, come fa Gehlen che, contraddicendo qualunque prin- cipio darwiniano, ci fa credere che possa di colpo emergere dai cespugli mutazionali, un taxon totalmente indeclinato, nudo e disadattato.

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Oltre tutto, si ipotizza incompletezza e primitivismo in una specie che deriva e si iscrive nell’albero dei primati, vale a dire in un ordine estremamente complesso e articolato sotto il profilo etografico, ovvero dal punto di vista della “grammatica del comportamento”, dell’innato: non basterebbe parecchie decine di milioni di anni per una simile delezione, altro che i miseri 2 della comparsa del genere Homo. Questo significa che, come peraltro ci ha mostrato la psicologia della gestalt, l’etologia, le scienze cognitive, la neurobiologia, noi umani non siamo una focale neutra sul mondo ma un modo di leg- gere il mondo. Potremmo dire che la realtà esorbita la nostra umwelt – se non che, come vedremo, occorre andare oltre il concetto di umwelt.

Non siamo unità di misura e non sussumiamo il mondo, ma stiamo al mondo come il termine zebra nel famoso afo- risma: “tutte le zebre sono animali, ma non tutti gli animali sono zebre”. Occorre partire da questa consapevolezza di par- zialità epistemica filogenetica, che nell’ontogenesi dell’indivi- duo definisce le dotazioni di appraisal di partenza, le coordi- nate di indirizzo epistemologico e forse – chi può dirlo? – di range di virtualità ovvero di limiti insuperabili.

L’uomo non può sussumere il mondo e quindi non può comprimerlo all’interno di una spiegazione – che non signifi- ca resa senza condizioni ma ammettere con umiltà la propria particolarità e dismettere ogni pretesa universale. Ogni essere vivente testimonia la propria particola epistemica, per cui do- vremmo rinunciare alla spiegazione solipsistica del cogito e riconoscere che se ne sappiamo di più del mondo – se siamo potuti andare oltre l’epistemica filogenetica – lo dobbiamo ai processi dialogici instaurati con le alterità.

Prendo a prestito da Speusippo5 il concetto di “piani di re- altà” applicandolo alle diverse dimensioni epistemiche. Ogni volta che si accede a un piano si riconoscono dei predicati –

5 E. Berti, Sumphilosophien. La vita nell’accademia di Platone, Laterza, Roma, 2010, pag. 106.

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proprio come in un grande magazzino dove ogni piano preve- de particolari tipologie merceologiche – ma i predicati di ogni livello non sussumono l’intero magazzino.

Per viaggiare attraverso i piani di realtà occorre andare ol- tre la propria dimensione – affidarne un dominio di validità epistemologica – e sono necessari degli ascensori capaci di de- centrare. Questo è il ruolo che affido alle alterità, da sempre in intersezione con l’essere umano: la messa in discussione di quella umwelt che altrimenti ci condannerebbe a rimanere chiusi all’interno di un solo piano.

L’essere dialogico ti fa viaggiare attraverso i piani di realtà, ma devi aver consapevolezza che se-lo-fai e nel-farlo ti ibri- di con un’alterità, non ti emancipi-elevi come vorrebbe Peter Sloterdijk6, ma ti leghi a doppio filo al non-umano. L’oltreuo- mo o il postuomo non è pertanto un’entità prossima ventura ma quel passato che ci apparecchia innanzi le proiezioni, quel passato che non sta dietro ma tra il presente e il futuro.

L’emergenza oltreumana – già nei primordi di un chopper o di un bambino che si licantropa nella relazione con il lupo – non ti libera, non ti eradica, non ti emancipa, non ti ren- de evanescente – per questo parlo di postumanismo – ma, al contrario, attraverso riti di contaminazione ti sporca di terra, ti rende altro perché ti coniuga sull’altro. Ammettere questo significa altresì riconoscere la singolarità dell’atto epistemico e di quello ermeneutico: non è possibile bagnarsi gli occhi due volte sullo stesso quadro.

Singolare non significa non cercare della assonanze e delle sovrapposizioni, forse proprio in questo si esplica il lavoro del- la ragione, soprattutto di quella inconscia. Singolare vuol dire accettare l’epistemologia dialogica e uscire dal cogito solipsi- stico, giacché per vedere qualcosa di nuovo abbiamo bisogno di uno spirito guida: un libro, un maestro, un amico, un cane.

6 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Raffaella Cor- tina, Milano, 2010.

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Antropodecentrarsi significa pertanto riconoscere la pluri- versalità del reale, la sua incomprimibilità, e parimenti il bi- sogno di centrifugare dalla gravitazione antropocentrata pro- prio per allargare la sfera della propria presenza intellettiva. Sia chiaro: non si tratta di decostruire o di annichilire il reale, ma di riconoscere l’impossibilità di un panopticon o di un demo- ne laplaciano, poiché il vedere qualcosa significa sempre non vedere qualcos’altro.

Ogni dialogo con un’alterità ci consente di prendere un ascensore e accedere a un piano che altrimenti ci sarebbe ri- masto precluso, ma non esiste un piano che riassume tutti i predicati dell’edificio. Siamo solo all’antefatto, prova a rifor- mularmi la domanda, da un’altra prospettiva geografica.

Caffo — Proviamo a fare ordine. Dalla tua risposta emer- gono, a mio avviso, due elementi fondamentali: (1) non si può

“rompere” l’ingranaggio dell’antropocentrismo senza abban- donare, almeno funzionalmente, la posizione umana e (2) la realtà, come una torta nuziale, è fatta a strati.

Quando parli di piani, infatti, non si può non pensare ai

“mille piani” d’esistenza di Deleuze e Guattari7 loro non usa- vano questa parola ma oggi sappiamo, senza forzature, che discutevano di ontologia.

Mi pare che su (1) si sia ragionato molto: la risposta “con- tinentale” ai tentativi, entro la filosofia analitica, di fare anti- specismo – penso a Singer, Regan, Cavalieri, Zamir, Horta, solo per dirne alcuni – che hanno avuto il merito di creare dei veri e propri sistemi etici in cui lo sfruttamento animale risulti ingiustificato, è servita proprio a mostrare che il ragionamento razionale attorno alla questione animale ha solo rafforzato il confine “noi/loro” da cui siamo partiti. L’umano rimane me- tro di paragone assoluto, come il vitruviano di cui dicevi, e

7 Deleuze G., Guattari F., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvec- chi, Roma, 2003.

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non c’è nessuno sforzo di affacciarsi verso la seconda strada che suggerisci in cui l’animalità, nelle sue infinite forme, ha proprio la funzione di traghettarci in realtà diverse da quelle osservabili camminando sue due zampe che poi, per conven- zione, abbiamo deciso di chiamare “gambe”.

E forse qui, credo, che si cela la meta-questione della “que- stione – animale”: per quanto, come dicevi, ogni mondo-am- biente (Umwelt) sia chiuso in se stesso, e nonostante nessuno, come racconta Nagel8, potrà mai comprendere cosa si provi a essere un pipistrello, possiamo comunque provare a osservare il mondo con gli occhi del mostruosamente altro?

Io credo, qui probabilmente non concorderai, che dentro la questione animale si celino, almeno, tre sotto-questioni. La prima, e più banale, e quella dell’etica animale da cui poi, di conseguenza, deriva l’attivismo contemporaneo. Possiamo so- stenere, al di là di una questione di scelte e propensioni perso- nali, che lo specismo sia insostenibile? E qui, piaccia o meno, i pensatori dell’etica analitica sono serviti, e come, a fornire gli strumenti necessari per rispondere alle più variegate obiezioni a un progetto anti-specista. Concordo però su un punto, che sarebbe banale se non fosse così poco analizzato: che specismo e antispecismo non sono questioni filosofiche; dividersi al di qua, o al di là, del rispetto per un essere vivente non è filosofia.

Le vere questioni importanti, e fondamentali, sono infatti le altre due. Ai lati opposti della base triangolare che è la que- stione animale, infatti, collegati da una corda costantemente tesa, giacciono la filosofia dell’animalità e il postumano. Le due domande: “cosa significa essere un animale?” e “quale umanità è possibile concepire, attraverso l’animalità?”, sono intrinsecamente connesse. Ma mi pare che, nelle tue afferma- zioni, tutto ciò si ricolleghi a una questione più ampia: quella dell’interpretazione della realtà. Il mondo è uno: che sia la

8 T. Nagel, What is it Like to be a Bat?, in The Philosophical Review, 1974, vol. 83, n. 4, pp. 435-450.

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totalità dei fatti di Wittgenstein, o un inventario di oggetti diversi, come vuole l’ontologia contemporanea, comunque è il palcoscenico in cui si muovono le vite degli animali – umani e non – e che dunque li trascende. Quel palco potrebbe, come in futuro sarà, anche essere vuoto – ma esisterà lo stesso. Tut- tavia, come dicevamo entrambi, il modo di guardare e recitare da quel palco dipende, nel senso che è intrinsecamente con- nesso, dal sistema percettivo specifico che abitiamo. L’umano vede delle cose: e nel momento stesso in cui osserva un feno- meno X, ne perde di vista uno Y.

L’antropocentrismo, che nonostante Copernico e Darwin continua a imperare, è proprio la concezione che il nostro modo di recitare non sia, semplicemente il migliore, ma pro- prio l’unico. E allora qui, come dicevi, è necessaria la metafora dell’ascensore: prendere in prestito gli occhi di un animale, di un individuo unico e irripetibile, significa comprendere che le recite sono infinite e che, non solo variano di specie in spe- cie, ma proprio da esemplare a esemplare. La diversità, e non l’identità, come aveva compreso il Deleuze della Logica del sen- so9, è la cifra di questo mondo.

Ma affinché non si resti ancorati al pourparler, credo, è necessario anche proporre tentativi pratici di cominciare ad anticipare, qui e ora, quella rivoluzione antispecista che è la presa di questo ascensore: la consapevolezza, definitiva, che ogni realtà, proprio in quanto reale, è diversa e unica e che dunque, l’animalità, è primariamente una maschera su di un soggetto che dovrà recitare la sua esistenza.

Come sai, nel mio piccolo, ho proposto una visione dell’antispecismo, che ho chiamato “debole” in cui cerco di comprendere, al di là delle implicazioni specifiche ed indirette di altri approcci contrastanti lo specismo, cosa possiamo fare – adesso – per cominciare a liberare gli animali dall’inferno in cui li abbiamo rinchiusi. Tu sostieni invece un antispecismo

9 G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975.

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postumanista volto, piuttosto, a scardinare alla radice la cen- tralità dell’uomo che è la causa principe di ogni specismo. Ma come può l’umano, da una posizione umana, auto-eliminarsi?

Ovvero come si risolve un paradosso apparente? L’umanità può de-umanizzarsi utilizzando, comunque, nient’altro che tecniche umane?

Marchesini — Vorrei per un attimo mettere tra paren- tesi la prima questione, ovvero l’analisi dell’interpretazione del concetto di specismo e della proposta antispecista. Avre- mo modo di analizzarle più avanti nella nostra conversazione, ora sento l’urgenza di trovare le parole per spiegarmi meglio sul tema dell’antropocentrismo o, come ritengo più corretto, delle diverse forme di antropocentrismo. Solo così potrò mo- strarti cosa significhi per me interpretare l’umano secondo una prospettiva postumanistica – mettendo in mora non l’essere umano ma una concezione del farsi umano – giacché vivere il mondo attraverso la propria prospettiva e l’assolutizzarla sono, come puoi ben capire, due cose assai differenti.

Attraversando il continente antropocentrico mi sono reso conto che in realtà si trattava di un arcipelago di entità assai differenti tra loro e spesso in contraddizione. Per questo parlo di antropocentrismi in senso plurale, e non solo perché inve- stono ambiti differenti dell’espressione – ontologia, epistemo- logia, etica – ma perché hanno genealogie e conseguenze non sovrapponibili.

A partire da Il concetto di soglia10 – soglia come luogo di transizione e come punto di interscambio – mi sono reso con- to che l’arcipelago antropocentrico ha dato vita a numerosi fringuelli, per usare la metafora darwiniana, ciascuno con un suo profilo di autoreferenzialità. Per questo, anche a costo d’essere ripetitivi e eccessivamente puntigliosi, occorre fermar- si e fare un lavoro minuzioso.

10 R. Marchesini, op. cit.

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Quando affrontiamo la questione posizionale dell’umano dobbiamo imparare a distinguere due forme di antropocentri- smo – due isole ben distanti tra loro, seppur con qualche pon- te di connessione – perché danno luogo a posizionamenti dif- ferenti: 1) la prospettiva antropocentrata o antropocentrismo prospettico, vale a dire il gravitare intorno al proprio centro ontico, attraverso proiezioni (antropomorfizzazione delle alte- rità) o disgiunzioni arbitrarie (categorizzazione delle alterità), chiusura in un’immagine del mondo, stabilità sulla propria sponda; 2) l’interpretazione antropocentrica o antropocentri- smo ideologico, vale a dire il proporsi come centro ontologico, da cui l’idea metrico-sussuntiva dell’umanismo e la concezio- ne autarchica, autopoietica, autoreferenziale e prima di tutto emancipativa e disgiuntiva del destino dell’essere umano.

La mia lettura postumanistica si basa sulla critica essenzial- mente del punto 2 – che pertanto richiederà un punto a parte – ma altresì sull’idea che il farsi umano sia stato un processo di decentramento dalla prospettiva antropocentrata, da quell’an- thropos filogenetico che ne stabilisce il dettato espressivo, da cui il mio concetto di “antropodecentrismo”.

Ma procediamo con ordine verso l’arcipelago. La prima isola che ci viene incontro è costituita dalla prospettiva antro- pocentrata (1) e dai suoi pre-giudizi sull’interpretazione del reale. Si tratta di un’isola arcaica, fortemente stabile e con- divisa dagli umani, eppure facilmente smascherabile: quello sguardo immediato che un bambino esprime nella sua imme- diatezza e autenticità.

La prospettiva antropocentrata è il retaggio della nostra filogenesi, il guardare il mondo attraverso strumenti parziali d’interpretazione – come ho detto, stabilizzati dalla selezio- ne proprio perché parziali ovvero funzionali a specifici scacchi adattativi. Rischieremmo di restarne invischiati se effettiva- mente la nostra umwelt – giacché l’isola 1 la contiene – fosse chiusa in se stessa e se avesse ragione Nagel, ciascuno bloccato nel proprio piano senza alcun possibile ascensore. Come ave-

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vo anticipato, per me le cose non stanno in questo modo e il quesito di Nagel è forviante e pretestuoso. Si fonda infatti sui presupposti: a) che l’essere umano possa dialogare esclusiva- mente con il conspecifico – sia isolato al proprio piano e possa formulare quesiti solo alle persone che ne fanno parte; b) che non esistano piani intermedi di sovrapposizione – vale a dire che la sofferenza di una madre di scimpanzé per la perdita del cucciolo non abbia alcun punto in comune con l’amore ma- terno di una donna. Se fosse così, se Nagel avesse ragione, non solo l’antispecismo ma la stessa etologia dovrebbe fare le valigie per il mare. Ma procediamo con ordine. Nonostante il rifiuto del biologismo, ogni critica all’antropocentrismo viene spesso bollata di incoerenza: come potrebbe l’uomo non guardare il mondo dalla prospettiva umana? Se per “prospettiva umana”

s’intende quella filogenetica e si dichiara inappellabile tale po- sizionalità, allora non ha senso parlare di ontologia: non è che ci si può appellare alla condizione originale – impropriamente detta “naturale” – solo quando fa comodo. Nulla è immobile e statico, figuriamoci la sponda posizionale. Anche il soggetto nasce egocentrico e in difficoltà nell’empatizzare, ma nella re- lazione con il suo prossimo impara a decentrarsi e ad assumere una posizionalità meno egocentrata. La stessa cosa vale per la prospettiva antropocentrata che, se è punto di partenza del- la nostra ontogenesi, non necessariamente deve anche essere punto d’arrivo. L’ontogenesi è un processo evolutivo che, par- tendo da risorse filogenetiche – che non nego anzi, valorizzo e sottolineo, proprio come fa De Waal11 – tuttavia costruisce dotazioni singolari: lo sviluppo non è completare un puzzle, cioè mettere i pezzi nel posto prefissato, ma utilizzare i colori che ci ha dato la filogenesi per costruire un quadro unico. Al- lontanarsi o allargare l’orizzonte epistemico oltre il perimetro filogenetico è forse tradire l’umano? Parliamone.

11 F. De Waal, Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e in altri animali, Garzanti, Milano, 2001.

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Rispetto al de-umanizzarsi e al concetto di tecniche uma- ne, occorre pertanto attraccare e fermarsi in quest’isola-che- c’è, altrimenti non dialoghiamo in modo chiaro.

Primo punto, ossia sul de-umanizzarsi. Non credo che an- thropos e umano siano legati a doppio filo: il primo termine si riferisce alla dimensione specie specifica, il secondo a quel- la ontopoietica. Nel processo evolutivo esistono processi che strutturano il canone di specie, ma anche eventi che decentra- no rispetto a detto profilo, dove cioè l’individuo in ontogene- si imparando da un eterospecifico si allontana dal canone di specie. Se lo sviluppo del profilo individuale dell’essere uma- no fosse chiuso all’interno della dimensione di specie (l’essere umano cioè imparasse solo dai conspecifici) non ci sarebbe alcuna distanza tra i due termini e potremmo fare a meno del secondo. Ma se, come io credo, i predicati umani sono il frutto dialogico con le alterità eterospecifiche, anthropos non perimetra più l’umano. La dimensione umana cioè esorbita il perimetro di anthropos, perché portatrice di contenuti al- loctoni: per tale motivo affermo che l’essere umano non è nemmeno misura di se stesso! Dobbiamo cioè parlare di una metaontogenesi, un’evoluzione della dimensione ontogenetica che muta in ragione dei contenuti e degli indirizzi evoluti- vi impressi dalle alterità eterospecifiche. I due termini allora assumono connotazioni differenti: l’uomo come entità filoge- netica non è più misura del proprio spazio ontogenetico. L’es- sere umano non guarda più il mondo da una sola posizione filogenetica e si umanizza – dà contenuti al secondo termine,

“umano” – quanto più, ibridandosi con le alterità, sviluppa la sua ontopoiesi. De-umanizzarsi pertanto significa (al con- trario!) antropocentrarsi, ovvero legare l’umano all’anthropos impedendogli di antropo-decentrarsi.

Come vedi, il mio obiettivo è favorire l’umanizzazione dell’essere umano, non il contrario, nella consapevolezza che quanto più ci saremo ibridati-decentrati (umanizzati) tanto più saremo in grado di comprendere e di con-sentire con le alterità.

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Secondo punto, sul concetto di tecniche umane. L’idea che la techne sia l’arte prometeica di costruire strumenti – ovvia- mente non solo operativi, ma anche elaborativi, ermeneutici, epistemici e quant’altro – è una visione umanistica che io ri- getto. L’essere umano si affida alla techne quando riconosce l’espressione animale (il volo di un uccello) come epifania – ispirazione di una dimensione esistenziale possibile (posso volare) – imitandone non la tecnica (come volare) ma lo spa- zio esistenziale (il librarsi nell’aria). Le tecniche pertanto non possono dirsi umane perché non sono emanazioni dell’uomo ma frutti dialogici della relazione tra l’essere umano e gli ete- rospecifici.

Ma ti ho promesso di attraccare all’isola 1 e così farò, per- ché rimane in sospeso il modo di concepire la relazione tra antropocentrismo prospettico e umwelt e l’eventuale indero- gabilità di questa.

Appena sbarchiamo ci rendiamo subito conto di come l’uomo sia un artefatto, come peraltro tutti gli enti natura- li, qualcosa assemblato alla meglio dall’orologiaio cieco con i pezzi di precedenti artifici della filogenesi; per cui non un progetto – sapiente e oculato – ci ha strutturato ma una sto- ria di progressive rifiniture sulla base di occorrenze, ove ogni pregresso ha vincolato l’artificio in merito al materiale a dispo- sizione. L’ex-aptation di Stephen J. Gould e Elisabeth Vrba12 s’inserisce in un milieu di pensiero che da una parte rende ra- gione del diacronico – sconfessando la pretesa della compres- sione algoritmica – dall’altra spazza via ogni idea finalistica o di perfezione, seppur adattativa.

Concepire la umwelt come “punto di vista” è già un peccato di antropocentrismo – non capisco gli entusiasmi verso questa teoria che porta dritti-dritti all’animale povero di mondo di Heidegger13– ma soprattutto non rende ragione circa la na-

12 S. J. Gould, E. Vbra, Exaptation, il bricolage dell’evoluzione, Bollati Bo- ringhieri, Torino, 2008.

13 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza,

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tura cognitiva e non sensoriale della percezione. Non si tratta perciò di semplice percezione ma di immersione nel mondo – orientamenti, preferenze, sensibilità elicitative, elaborazio- ni, motivazioni – che rende ogni specie centrata sulla propria dimensione ma evolutiva in essa, cioè libera di costruire la propria soggettività.

Ma torniamo all’essere umano. Antropocentrico in senso prospettico significa in prima battuta essere compresi all’inter- no di un mondo che non solo offre una precisa immagine del mondo ma altresì conduce a particolari elaborazioni che, nella loro conformazione euristica (cioè di scorciatoie interpreta- tive) se utili in certi contesti sono necessariamente esposte a biases in altri.

L’antropocentrismo prospettico, ricorda un po’ l’egocentri- smo, e ti porta a proiettare e a disgiungere sulla base di opera- tori parziali, perché parziale è il loro scopo adattativo, se è vero (come è vero) che la selezione non conduce al miglioramento assoluto ma alla specializzazione adattativa. Qualcuno la chia- ma “fisica ingenua”14, ma di fatto si tratta di quelle dotazioni epistemiche innate – gli a-priori che Konrad Lorenz tradurrà in a-posteriori filogenetici – che ci portano per esempio a in- crementare lo iato tra noi e le alterità, a negligere le differenze tra le alterità, ad antropomorfizzare le alterità.

Possiamo continuare a chiamarla umwelt, stiracchiando un po’ la formulazione di Jakob Johann von Uexküll15, ma di fat- to è un flusso di strutture epistemiche che si susseguono lungo l’ontogenesi, partendo dalle dotazioni filogenetiche per allar- garsi in altre direzioni a seconda delle esperienze del soggetto.

Piaget16 ha speso gran parte della propria vita a delineare i processi evolutivi dell’epistemica del bambino ove l’antropo-

solitudine, Il Melangolo, Genova, 1992.

14 P. Bozzi, Fisica ingenua. Studi di psicologia della percezione, Garzanti, Milano, 1990.

15 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2010.

16 J. Piaget, L’epistemologia genetica, Laterza, Bari, 1973.

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centrismo rappresentava i primi passi dell’individuo chiamato a interpretare il mondo. Anche Bachelard17 peraltro parlerà di un ostacolo antropocentrico nell’epistemologia. Gli steccati non esistono in natura, tutto si ibrida con tutto e ogni indivi- duo costruisce la sua posizionalità e la cambia continuamente.

Non si tratta perciò di autoeliminarsi ma di riconoscere che la condizione umana non è definita a-priori ma è influenzata dagli a-priori. Non possiamo ignorare da dove partiamo ma altresì è scorretto ritenere di essere crocifissi nella prospettica antropocentrata. L’antropo-poiesi, quel farsi umano che non è una mera ontogenesi etografica ma un raggiungere una di- mensione-condizione umana, ci mostra come da sempre (non con la nascita dell’animalismo) abbiamo messo in discussio- ne il nostro egocentrismo di specie: l’universo copernicano e il darwinismo – come hai sottolineato – ne sono importanti esempi. Per questo rispetto all’antropocentrismo prospettico non propongo cambiamenti di rotta, ma semmai un’accelera- zione. Abbiamo bisogno di umanizzarci un po’ di più, ammi- rando la bellezza di quest’isola ma evitando di restare arroccati tra i suoi sassi. Chi ci può aiutare? Gli stessi che da sempre si sono occupati di educare la nostra umanità: le altre specie.

Caffo — C’è una canzone di un gruppo italiano che amo molto, i Massimo Volume, che si chiama Fuoco Fatuo. A un certo punto, il testo, fa più o meno così: «Nella tua camera ho trovato una rivista di karate. Dentro c’è la sequenza di un uomo che uccide un toro a mani nude. C’è la carica del toro e il particolare delle corna per terra, spezzate! Ma manca la foto del contatto tra le corna e la mano... Leo, è questo che siamo?». Mi sono scervellato mesi per capire cosa volesse dire ma ora, credo, forse più spero, di averlo capito.

Più o meno mi hai risposto tu: educare la nostra umanità attraverso, ovvero lasciandoci attraversare, dalle altre specie.

17 J. Bachelard, La formazione dello sprito scientifico, Raffaello Cortina, Mi- lano, 1995.

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L’umano che uccide il toro, ma che in realtà lo fa uccidere da altri, ma si prende solo il merito dopo la mancata foto del contatto, è una grande metafora. Mi permetti di riflettere sulla soglia di un paradosso che è proprio quella della mancanza di umanità nell’umano. Umanità che è innanzitutto fragilità:

perché vergognarsi di non riuscire a uccidere un toro a mani nude? Perché si vuole essere come quell’animale che si uccide, denaturalizzandosi.

Va da sé che, tra di noi, quello dell’uccisione del toro non è un esempio meraviglioso: ma mi sembrava assai emblematico.

Prima di parlarti, infatti, credevo che il problema fosse la trop- pa umanità ora, invece, credo che sia la sua mancanza.

Qui, probabilmente, c’è un errore centrale – e mi ci metto dentro anche io, con tutte e due le zampe – dell’animalismo e delle sue filosofie: credere che la soluzione sia il divenire ani- male deluziano. Invece, credo, il primo punto di svolta risie- de nell’osservazione di cosa siamo noi guardando, con le tue parole, la bellezza di quest’isola ma comprendendo, in modo complementare, che l’arcipelago è assai più vasto e che forse, con buona pace di Nagel, posso provare a dormire a testa in giù in una grotta sentendomi un pipistrello. Infatti più che a Deleuze, almeno a mio avviso, dovremmo guardare a Derri- da in cui, l’osservazione dell’animale, nelle sue parole, serviva proprio a «ricominciare a essere umani».

Però qui, fermandosi a questo incrocio di entità in compe- tizione, non si arriva da nessuna parte. Nel senso che, a mio avviso, quando parliamo di umano dobbiamo comprendere di cosa stiamo parlando.

So che apprezzi Agamben e, visto che siamo in due, vorrei stimolarti su un gioco intellettuale ai bordi della sua riflessione sulla vita. Bios e Zoé, specializzazione e nudità, sono le polarità trasversali che compongono questo rizoma: l’umano. A mio avviso, se per riacquistare umanità tu intendi la sua nudità, quell’atto primordiale del pensiero, sempre con Derrida, allora concordo. Purché, al contrario, non sia la Bios il nostro obietti-

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vo. Nella specializzazione della vita, nel senso di un oggetto na- turale che cambia scaffale dell’inventario del mondo, per farsi sociale, io ci vedo qualcosa di molto pericoloso: la cittadinanza.

Apparentemente inclusiva, infatti, l’appartenenza territoriale – nel senso tanto geografico, che geopolitico del termine, è la vera matrice della macchina antropologica. Per far appartenere un X a qualcosa, qualche Y ne dovrà rimanere fuori. Io credo che l’umanità si sia appiattita sulle sue coperture sociali dimen- ticandosi, completamente, della sua essenza primaria.

Sempre giocando, ma stavolta con Nietzsche – e con una sua lettura di Vattimo18, precisamente –, potremmo dire che il soggetto si è fatto maschera e che la maschera, alla fine di que- sto processo, si sente soggetto. Naturalizzare l’artificio: nelle tue parole, diverse dalle mie, certo, ma assai connesse – l’uma- no come artefatto.

È quella della vita come invenzione recente di Foucault che però ha senso, ancora una volta, solo se ci riferiamo al Bios e non alla Zoé. Non concordo, infatti, con la lettura biopolitica di pensatori come Esposito19, e forse anche di Agamben, che la biopolitica sia sempre zoopolitica. In Flatus Vocis20 provavo a dire una cosa simile: solo se ripartiamo dalla nudità possiamo liberarci dal dominio che ingabbia tutti, animali umani e non, e compiere atti (non azioni, attenzione) che siano davvero im- previsti dal sistema che abitiamo. E questo, al più, che inten- devo con “agire animale” ma che in fondo, parlando con te, adesso, mi sembra possa essere tradotto con “rifarsi umani”.

Purché però, ancora una volta, ci si intenda su cosa significhi umano e non si caschi, come temo, nel tranello di comprarsi gli artefatti insieme alle essenze esistenziali che compongono i contorni delle isole dell’arcipelago.

18 G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della libera- zione, Bompiani, Milano, 2003.

19 R. Esposito, Bìos. Biopolitica e filsofia, Torino, Einaudi, 2004.

20 L. Caffo, Flatus Vocis. Breve invito all’agire animale, Novalogos, Aprilia, 2012.

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Questo flusso di strutture epistemiche, come le chiami tu, facendo riferimento anche ai lavori di Paolo Bozzi (che, non a caso, era primariamente un musicista jazz) sulla fisica ingenua, devono essere quelle dell’umanità, certo, ma dell’umanità nuda e non dell’umanità vestita. Perché è nel momento stesso in cui guardiamo un animale in cravatta, dallo schermo di un computer, consentimi di banalizzare, che iniziamo a fratturare il mondo in opposti. Come facciamo a ibridarci, come provi a raccontarmi, se nascondiamo la nostra forma dietro il ritratto di un artificio? Ivano Ferrari, nella sua poesia Macello, ci for- nisce questa immagine disarmante:

Dalla vasca d’acqua bollente emerge un enorme maiale bianco come uno spettro

che oscilla impudico fino a quando dal finestrone il sole

accende quintali di luce

E su quel termine, “impudico”, che vorrei richiamare la tua attenzione. Perché ho come l‘impressione che è dal pudore che cominci questo nostro viaggio. Dalla vergogna di Derrida nudo dinnanzi alla sua gatta, e da quella di Callicle dinnanzi al Socrate platonico che gli insegna, prima di Nietzsche, che il superuomo non è altro che una creatura letteraria. Dobbiamo vergognarci, caro Roberto, per cominciare questo viaggio nel- le ibridazioni nell’isola dell’umanità? Non è proprio l’assenza di vergogna, forse, come quella foto mancante da cui sono partito, una parafrasi di mancanza di umanità?

Marchesini — Come avrai capito, io preferisco occupar- mi dell’isola-che-c’è piuttosto che sognare un altrove. Soffro di una terribile reazione allergica alla sola parola utopia, la mente mi si cosparge di eritemi fastidiosissimi. Chi nega una natura in Homo (non so perché-come sapiens e soprattutto fatico a declinarlo al quadrato come fa la tassonomia) non si rende

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conto di apparecchiare indicibili sofferenze prossime venture per l’umanità, come il XX secolo ha ampiamente dimostrato.

Quindi per ora resto sull’isola, per descriverti come mi appare.

L’isola non è un’entità assoluta ma un’occorrenza nella sto- ria della vita sulla Terra, un’increspatura casuale della zolla tet- tonica, accaduta ma non necessitata – come vedi non concor- do con Teilhard de Chardin. Inoltre la sua conformazione non è stabile e non orbita intorno a un nucleo fisso, ma cambia nel tempo, anche se con ritmi non incidenti sulla nostra per- cezione storica. Da queste due considerazioni dovrebbe essere chiaro che non ho una visione essenzialistica dell’essere uma- no, quantunque creda in una natura umana. Inoltre si tratta di un’isola per una questione meramente percettiva e momen- tanea, giacché basta una bassa marea a mostrarci i ponti e le condivisioni con le isole vicine, per cui insieme ad altre specie ci accorgiamo di vivere all’interno della stessa dimensione. In termini ecologici non esistono isole perché continuamente av- vengono scambi e ibridazioni.

Proviamo però a osservarla meglio, pur nella consapevolez- za di fare delle approssimazioni. Voglio subito esplicitare l’in- tento sotteso, perché mi si potrebbe accusare di riduzionismo o di biologismo, ma ciò significa non aver capito nulla della mia proposta che è agli antipodi dalla psicoenergetica lorenziana o dalla sociobiologia di Edward Wilson21 (oggi peraltro rivista dallo stesso autore). Quando parlo di natura umana intendo fare riferimento principalmente ad alcuni predicati filogeneti- ci che inseriscono nel sistema-uomo i germi del superamento di una chiusura nella condizione filogenetica stessa. I predicati dell’isola ci aiutano e ci spingono a prendere il mare ovvero ad andare oltre l’isola stessa – sembra un paradosso, per cui cercherà di illustrarlo meglio. Le caratteristiche filogenetiche di Homo sapiens prevedono strutture motivazionali che favo-

21 E. Wilson, Biodiversità. La violenza della natura, la resistenza della vita, Sansoni, Firenze, 1999.

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riscono l’ibridazione. Siamo una specie fortemente imitativa (nessun altro primate sa scimmiottare come noi), competitiva a tal punto da invidiare ed emulare le altre specie, esplorativa fino alla compulsività, tanto epimeletica – ovvero predisposta alla cura – da maternare cuccioli eterospecifici e creare così so- cietà multispecifiche, immatura a tal punto alla nascita e con un’età evolutiva così lunga da essere estremamente flessibile nella traiettoria ontogenetica. Inoltre siamo sillegici ovvero facciamo incetta e cataloghiamo qualunque cosa – testimo- nianza della nostra natura di raccoglitori frugivori (che strazio, sentire sempre affermare che l’uomo è un predatore!) peraltro testimoniata dalla nostra elettività verso il rosso, dal piacere verso gli odori dei fiori e dell’alcool, dal modo con cui ci ap- procciamo al cibo, nello stile con cui lo consumiamo e nel nostro apparato gastroenterico, dai denti fino alla struttura del colon-retto. Per un gatto la pallina sta al topo come per noi una figurina sta alla frutta.

Dall’intersezione di queste strutture motivazionali – e at- tenzione: quando parlo di motivazioni parlo di tendenze ine- renti e non di motivi o target esterni – si viene a creare una spinta ibridativa, vale a dire quell’emergere dell’oltre-uomo e/o post-uomo che più che una narrazione è una realtà da cui non possiamo spogliarci. Possiamo toglierci tutti i vestiti ma non riusciremo mai a dismettere la nostra dimensione ibrida.

L’essere umano è danza, musica, cosmesi, moda, tecnopoie- si, teoresi, figurazione, narrazione, ma queste espressioni non sono contenute nella natura umana, giacché sono predicati ibridi, anche se favoriti-incentivati dalla natura umana. Sia- mo intimamente coniugati agli eterospecifici, debitori di re- ferenze alloctone, organizzati ed espressivi secondo coordinate eteronomiche nel modo stesso di riconoscere in noi l’umano.

In altre parole ritengo che comprendere la natura umana sia fondamentale per capire il perché dell’ibridazione e non per spiegarne il frutto ibridativo (l’umano) giacché questo non è un esito emanativo-autarchico ma esprime contenuti non-

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umani. Questo mi fa prendere le distanze sia dall’antropologia filosofica che dalla sociobiologia, ma soprattutto mi fa rigetta- re qualunque petizione alla purezza dell’umano. L’oltre-uomo siamo noi e lo siamo sempre stati.

Come vedi, non ho volutamente affrontato i temi dello spe- cismo e dell’antispecismo, perché dal mio punto di vista prima occorre soffermarsi sulla dimensione umana e comprenderla perlomeno per sommi capi. Il farsi-altro-animale non significa perciò recuperare una dimensione primigenia – diventare il mister Hyde o sognare l’innocenza-sapienza dell’aperto – ma dare espressione alle qualità più autentiche della nostra natura:

contaminarci (e uso questa parola sapendo di sbagliare) con le alterità. Cosa ci accomuna perciò alle altre specie? Tanto.

Prima di tutto le evidenze darwiniane: 1) caratteri omolo- gici, giacché molti connotati sono condivisi secondo il prin- cipio della progenitura comune; 2) caratteri analogici, poiché molti connotati sono stati conformati dallo stesso bulino, vale a dire la pressione selettiva. Ma non solo. Esiste un terzo ponte di affinità, le evidenze zooantropologiche, ossia quei caratteri che l’essere umano ha assunto dalle altre specie, chiamandoli col termine generico di “cultura”.

La cultura pertanto non ci disgiunge dalle altre specie ma, al contrario, riafferma e rende ancora più cogente la nostra unione con gli eterospecifici. L’ibridazione aumenta il nostro bisogno ontologico dell’alterità, ci rende più fragili e non più potenti – esattamente come quando ci innamoriamo che im- mediatamente non ci bastiamo più.

Sia chiaro, sto parlando di referenze eterospecifiche e non di performatività: non sto cioè parlando di zootecnia, ma di stupore verso il predicato eterospecifico e di epifania dello stesso, intesa come capacità di ispirarmi una nuova dimensio- ne esistenziale. Il come raggiungerla è un’altra questione che per ora metto tra parentesi.

Nella vulnerabilità scattano le contromosse, per esempio il negare che quello che siamo lo dobbiamo alle altre specie,

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il costruire una mitopoiesi che vede l’uomo lottare contro la natura e realizzare da solo le sue vittorie. Si chiama arroganza e può essere una reazione psicologica o addirittura una struttura ideologica giustificativa.

A volte temo che l’essere umano stia distruggendo tutte le altre specie proprio per nascondere e non pagare i debiti contratti. Ma forse è solo un’illusione... il male è sempre più banale.

A ogni modo l’umanismo – e di questo penso dovremo parlare più approfonditamente – ha dato un bel contributo per costruire un’altra storia e abbiamo finito per crederci. Pen- so tuttavia che se ammettiamo una differenza tra condizione filogenetica (da “dove veniamo”, evolutivamente parlando) e condizione umana dobbiamo appellarci a un fattore cen- trifugativo, vale a dire un’alterità in grado di emanciparci da anthropos (ancora una volta rabbrividisco nell’usare la parola emancipazione ma non saprei come dirlo). Per cui o ci affi- diamo a una divinità o crediamo nei visitatori alieni oppure più realisticamente dobbiamo ammettere che il seminario di umanizzazione è stato tenuto dagli eterospecifici.

Concordo con te quando sottolinei che pudore, vergogna e, aggiungo, senso di vulnerabilità e umiltà siano i sentimenti giusti per umanizzare anthropos.

Caffo — Questa volta ti chiedo, più umilmente, così que- sta umanizzazione dell’anthropos comincia da noi, di raccon- tarmi più nel dettaglio tale tensione tra due sfere: la natura umana, seppur assai rivista come entità, e la contaminazione con le alterità.

Con l’idea di “natura umana”, come sai meglio di me, i filo- sofi (e non solo, intendiamoci), fanno i conti da millenni. C’è chi la nega (comportamentisti di vario genere, tipo Skinner o Quine), chi la considera pericolosa (Foucault, per esempio), chi crede sia un concetto fondamentale per comprenderci, e per immaginare un futuro sociale corretto (Chomsky, e con

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lui la maggior parte dei teorici dell’anarchismo), e potremmo andare avanti fino allo sfinimento e, aggiungo io, alla dilata- zione totale dell’ennesimo concetto filosofico.

Bisogna però, in questa disputa sul concetto di natura umana, stare attenti alla solita, ma ineludibile questione, che è la fallacia naturalistica. Ammettiamo pure che sia nella nostra natura essere raccoglitori, piuttosto che ibridanti e mimetici, questo cosa potrebbe dirci su cosa è necessario, o giusto, es- sere?

Io credo che la natura umana sia qualcosa di meraviglioso da studiare e che i tentativi, per darle senso anche in un pro- getto normativo, siano possibili – ma complessi. Per esempio, come hanno fatto alcuni (anche il “tuo” de Waal, infatti), pos- siamo argomentare che lo snaturamento dell’umano porti a una vita degenere, che non concorra allo sviluppo corretto di tutta una serie di capacità – dalla socialità, al linguaggio.

Proprio sul linguaggio, come sai, si sono ancorati i più re- centi, e interessanti, tentativi di revival della natura umana:

se l’umano è essenzialmente linguaggio, e il linguaggio è es- senzialmente comunicazione verso l’esterno, allora l’umano è essenzialmente votato alla condivisione pacifica degli spazi sociali. Per metterla giù, come dire, con un sillogismo fatto in casa. Ma se i discorsi sulla, e per la, natura umana vengono usati per dimostrare qualcosa che ruota intorno a enunciati fattuali sul qui e ora, lo sai, la fallacia è in agguato. E non si tratta di trascendere la logica, perché anch’essa figlia dell’an- tropocentrismo, ma di accettare una banalità al di là di ogni sua valenza politica o antropocentrica.

Dire che l’umano è essenzialmente raccoglitore, o Hýbris, non dice nulla su cosa debba avvenire oggi su quest’isola meta- forica di cui mi racconti. Va bene, certo, tu mi hai giustamen- te detto che non ami le essenze – che la cultura è tutt’uno con la natura (come Adorno, e ogni filosofo sano di mente aveva capito) – ma se tiriamo in mezzo la natura umana, o specifi- che capacità che dovrebbero caratterizzarci, attraverso, o per

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mezzo delle altre specie, rischiamo di dare valenze normative a mere constatazioni. Perché, credo, la potenza del postumano – così come tu lo hai saputo raccontare – così come dell’anti- specismo di cui, forse, è ancora presto per parlare – è proprio che non fanno tesoro di ciò che c’è, ma di ciò che potrebbe esserci e ancora non è.

Io credo nei mondi possibili. Ci credo, intendo, non come ci credeva David Lewis (“cose” reali popolati da controparti), ma come spazi ipotetici per la vita che verrà. Per me, teorici come te, sono un’anticipazione di un futuro inesplorato: la prova che è possibile spingersi, col pensiero, al di là di ogni barriera carnea, che avvolge i nostri pensieri, per lasciarsi at- traversare dagli altri versi che suonano la sinfonia della natura che chiamiamo esistenza. Ma qui, però, arriviamo a un pun- to cruciale. Questa ricerca di senso tua, mia... “nostra”, esiste perché l’umano – utilizzando le parole del filosofo Markus Gabriel22 – attribuisce “senso” al non-senso. È Hegel, tradotto ai nostri tempi. La filosofia della natura è possibile, appunto, perché qualcuno ne può fare una filosofia.

Ma c’è un vortice, che ingoia e sputa contraddizioni, forse meglio aporie, che è quello dell’umano che risolve problemi da lui stesso creati, e osserva altre isole che senza di lui non sarebbero che isole inosservate. Non sto, non fraintendermi, dicendo che l’umano fa, o è, cose che gli altri animali non possono eguagliare in nessun modo: sto dicendo che la teoresi, e le sue conseguenze, sono un affar nostro com’è un affare del pipistrello, d’altro canto, l’utilizzo dei sonar mentre vola basso sull’acqua per poter bere, o per catturare le prede da terra. Il rischio che vedo, e su cui ti stimolo, sperando di non portarti fuori strada ma, al massimo, chiedendoti di incrociare il tuo percorso con il mio, è quello delle deriva antropocentriche dell’anti-antropocentrismo o, come diresti tu, della critica alla

22 Gabriel, M., Il senso dell’esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Ca- rocci, Roma, 2012.

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posizione antropocentrata e, come diremo poi, dello specismo intrinseco ad ogni forma di antispecismo (parola che infatti detesto, e spiegherò in seguito i motivi).

Va bene la natura umana, e va benissimo la costruzione di un umanismo che accolga l’ibridazione tra le sue caratteri- stiche che, volendo osare, potremmo chiamare “designazioni rigide” nel senso di Kripke (senza quelle, in soldoni, non sa- remmo neanche umani). Ma tutto ciò, tutto questo, non ri- schia di sedimentare – come dice il protagonista de La Grande Bellezza di Sorrentino – il dolore della carne del mondo tra il chiacchiericcio e il rumore? Ci sono infiniti problemi, alcuni strati li stiamo bucando, e altri li dobbiamo ancora incontra- re – la questione animale è una Flatlandia: e dobbiamo avere pazienza, «ché è un mondo vasto e largo».

So che in parte, molto di quello che ho appena detto, non ti convince: ma il mio obiettivo è terminare questa conversa- zione cambiando idea, non fortificando le mie poche convin- zioni. Perciò spiegami: anche io credo, con te, che le alterità con cui possiamo ibridarci siano l’unica speranza. Ma se aveva ragione Walter Benjamin, e la speranza esiste solo per chi non ha più capacità di sperare, non è sempre agli animali, umani e non umani, che abbiamo compresso, metaforicamente e pra- ticamente, in gabbie infernali che dobbiamo guardare? Non è allo specismo che ti sto riportando: ma proprio all’umanismo di cui dicevi. Un termine con due letture. La prima la cono- sciamo, e ha il volto del Führer. La seconda, invece, sembra essere il suo opposto: ma quale?

Marchesini — Certo, io non ho fatto alcun accenno al prescrittivo, l’ho tenuto a distanza perché ho la sensazione che sia prematuro. Più che il valore per ora cerco la forma, la po- esia e non l’etica, l’essere al dover-essere. Il problema – sia chiaro, comprensibile – nel mondo dell’antispecismo è una prelazione dell’etica su tutti gli altri ragionamenti. Prima an- cora di capire, ci si chiede cosa si deve fare, si cerca di estrarre

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il valore come un alchimista, fino al paradosso di anteporre la prassi al pensiero – ma non voglio anticipare questo dibattito.

Il mio intento nei passi precedenti non era quello di mo- strare una via da seguire ma di tratteggiare un paesaggio e sem- mai ho voluto mettere in guardia rispetto a quanto paventi, per sottolineare che il rischio di fallacia naturalistica non sta solo nella traduzione normativa delle considerazioni fattua- li ma nella medesima descrizione delle stesse. In altre parole per me una forbice humeana non basta, quantunque il non derivare non deve escludere l’intersezione problematica tra i domini. È quello che ho cercato di fare per dire che, se esiste un contenuto filogenetico nell’essere umano – negarlo signi- fica credersi qualcosa di altro (non basta il termine “diverso”, giacché tutte le specie sono diverse) rispetto ai non-umani e la discussione sullo specismo perde di contenuti o, meglio, trova fondamenti – questo non solo non ci dice nulla su ciò che è necessario e giusto, ma altresì non specifica i predicati che andrà a dar luogo.

La mia critica alla concezione di “natura umana” sta pro- prio nell’idea che il filogenetico esaurisca i predicati dell’essere umano, perché questi emergono in modo dialogico dall’ibri- dazione. D’altro canto l’ibridazione non è una scelta, non na- sce da una volontà, non s’impone secondo un dettato norma- tivo, non è valutabile attraverso i parametri della prescrizione.

Emerge come il profumo da un fiore, come il riprodursi nel vivente, come la luce dal sole: semplicemente si compie perché è nelle sue disposizioni farlo. E tuttavia l’ibridazione porta lontano l’essere umano dal suo centro, rende il talento filogenetico il volano che sradica dal perimetro filogenetico.

L’ibridazione è una possessione – un preumanista potrebbe capirmi meglio di un umanista che, viceversa, nella sua sma- nia autopoietica, fa cadere ogni evento nella scelta compiuta dall’individuo.

Prova a dimenticare per un attimo il valore e tutte le pro- blematiche prescrittive e come un poeta cerca di carpire (am-

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mirare e capire) il processo che ci affida alle alterità per far emergere i predicati. Il mio discorso ricorda Saulo a Damasco, non c’è volontà ma possessione. D’altro canto questo evento mi dice qualcosa d’importanza nel rapporto tra natura uma- na (mai rinunciare a dichiarare qualcosa solo perché ritenuta pericolosa!) e predicati umani. Quando parlo d’ibridazione dico che non è possibile, da un punto di vista descrittivo, de- sumere i predicati dell’umano facendoli derivare dai caratteri filogenetici di Homo sapiens, ciò che si suol definire “natura umana”; li si può solo raccontare a posteriori dell’evento ibri- dativo. Ah, per inciso: non esiste una natura, né come legge né come personificazione, nel mondo dei viventi c’è tutto e il contrario di tutto. Ma torniamo al nostro discorso. Se esiste una non-sovrapponibilità o anisomorfia tra contenuti filoge- netici e predicati umani diviene necessaria – e si determina nel mio stesso ragionare postumanistico – una contromisura alla fallacia naturalistica anche in ambiti ove normalmente non si applica, ossia nel descrittivo. Pensando che il descrivere sia attribuire a un solo contesto (la natura come campo isodina- mico), errore che a mio avviso conduce dritti all’aporia della negazione o della pregnanza del concetto di natura umana, si finisce nel vicolo cieco della dicotomia res extensa (o natura morta) e res cogitans (trascendenza).

La descrizione umanistica della natura, come entità pas- siva da misurare, è funzionale alla presenza del trascendente che misura stando al di fuori. Attenzione perciò alla fallacia umanistica, non facile da riconoscere ma mortale, perché ra- gionando alla Cartesio è difficile poi conciliare antispecismo e coerenza teoretica. Io non faccio discendere i valori dai fatti – anche se non li separo ma li connetto problematicamente – ma parimenti non accetto la concezione di natura come res extensa, vale a dire come cosa-morta.

Il Novecento è costellato di filosofi che tentano di uscire dalle acque umanistiche, ma si agitano come chi non sa nuota- re, finendo col favorire la caduta nel profondo. Lo dico perché

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