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I Santi Innocenti Martiri

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Academic year: 2022

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I Santi Innocenti Martiri

Introduzione

Ogni anno, nella luce del Natale, la liturgia ci dona a contemplare il mistero dei «santi innocenti». Mistero di una santità e di un'innocenza dove né libertà, né responsabilità, né merito hanno parte!

Quest'episodio mette in scena lo scatenarsi della violenza suscitata dalla venuta di Gesù. Ora, se Gesù stesso ne rimane provvisoriamente indenne, il suo vicinato ne patisce in modo orrendo. Oltre ad evocare molti eventi della storia più o meno recente, questo racconto suscita seri interrogativi. Una prima serie di domande scaturisce dalla stessa definizione dei bambini di Betlemme massacrati da Erode quali «santi innocenti» che la chiesa onora come «martiri di Cristo»1. Cosa sono dunque l'innocenza, la santità e il martirio? Una seconda serie di domande si concentra sulla figura di Cristo nel suo rapporto con la violenza. In particolare modo, quale responsabilità porta costui riguardo alla violenza che il suo essere il Messia promesso scatenò attorno a se? Questo primo interrogativo si allarga alla figura di ogni giusto nel suo rapporto con la violenza che dilaga attorno a lui per il semplice fatto di essere giusto. Quale è la natura del nesso tra giustizia e violenza, tra verità e violenza, tra amore e violenza?

Nelle pagine che seguono tenterò di far emergere la buona notizia che questo brano del vangelo di Matteo reca agli uomini e alle donne d'oggi e, particolarmente, alle comunità cristiane. Il primo passo consisterà nell'analizzare il testo, ponendolo in relazione col suo contesto letterario e storico, in modo tale da fare emergere l'intento teologico del suo autore. In un secondo momento riprenderò le varie domande sopra elencate e proporrò elementi di risposta. In conclusione, alla luce della tradizione orante della chiesa, esplorerò alcune aperture che mi sembrano iscritte nel testo di Matteo.

1) Il testo ed il suo contesto a) Lettura

Matteo è l'unico evangelista che riferisce di un massacro di bambini a Betlemme in occasione della nascita di Cristo. Incastonato tra la «fuga in Egitto» ed il trasferimento a Nazaret, l'episodio della «strage degli innocenti» segue la visita dei Magi ed è posto in diretta relazione con essa:

«Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi» (Mt 2,16).

Erode aveva chiesto ai Magi di informarsi con acribia riguardo al bambino, di modo che potesse anch'egli venire ad adorarlo (2,8). Con la sua insistenza sulla precisione che caratterizza le domande di Erode (2,7.8), Matteo evidenzia la

1 «Il testo più antico che commemora i piccoli martiri è il Calendario di Cartagine (505 ca.), che al 28 dic. porta: "I santi bambini che Erode uccise".» Bibliotheca Sanctorum, vol. VII, col. 821, Roma 1966.

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strategia psicologica con la quale Erode gestisce il proprio ed altrui turbamento (2,3). Fino a quel punto, il testo di Matteo dice nulla riguardo alle intenzioni omicide di Erode. Vi allude forse quando scrive che i Magi «avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese» (Mt 2,12). Perché suggerire ai Magi di non tornare da Erode se non a causa dei propositi malvagi di costui? Tuttavia, poco più avanti, Matteo aggiunge che è proprio lo scoprirsi ingannato dai Magi che spinge Erode al suo gesto di crudeltà. Pare dunque che sia l'intervento divino a provocare il manifestarsi della violenza del re2. La Bibbia ci offre un altro esempio di questo tipo di meccanismo psicologico-spirituale, quello del Faraone. Alla fine del capitolo 5 dell'Esodo udiamo questo grido di Mosè rivolto al Signore: «Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!».

Come già detto, la pericope della strage degli innocenti è incastonata nel racconto più ampio della «fuga in Egitto» (vv. 2,13-15) e del trasferimento a Nazaret (vv. 2,19-23). Questo trittico è costruito in modo molto rigoroso dall'evangelista:

A) Essi erano appena partiti, quando

un angelo del Signore apparve in SOGNO a Giuseppe

e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché ERODE sta cercando il BAMBINO per ucciderlo».

14Giuseppe, destatosi, prese con sé il BAMBINO e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di ERODE, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio.

B) 16ERODE, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i

BAMBINI di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. 17Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:

18 Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande;

Rachele piange i suoi figli

e non vuole essere consolata, perché non sono più.

A') 19Morto ERODE,

un angelo del Signore apparve in SOGNO a Giuseppe in Egitto

20e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e và nel paese d’Israele; perché sono morti coloro che insidiavano la vita del BAMBINO».

21Egli, alzatosi, prese con sé il BAMBINO e sua madre, ed entrò nel paese d’Israele. 22Avendo però saputo che era re della Giudea Archelào al posto di suo padre ERODE, ebbe paura di andarvi.

Avvertito poi in SOGNO, si ritirò nelle regioni della Galilea 23e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret,

perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti:

«Sarà chiamato Nazareno».

I tre quadretti possiedono alcuni elementi comuni. Tutti e tre sono caratterizzati dalla menzione di Erode, da un qualche riferimento alla morte e dal

2 Tornerò su questo punto più avanti.

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compimento delle scritture profetiche.

Accanto a questi elementi comuni, ci sono delle differenze molto significative. Prima di tutto, appare con molta evidenza la diversa struttura del quadretto centrale (B) rispetto agli altri due (A e A'). Mentre nel primo e nel terzo (A e A') un angelo appare a Giuseppe in sogno (con due sogni in A') e gli da' un ordine riguardo al bambino e sua madre, nel secondo (B) non si parla né di Giuseppe, né dell'angelo, né tanto meno di un sogno. Invece del bambino (e di sua madre) vi è questione dei bambini di Betlemme.

Il riferimento all'Egitto fa da sfondo a tutto l'insieme: Il movimento di andata e ritorno dall'Egitto inquadra il racconto del massacro. In (A) la citazione di compimento «dall'Egitto ho chiamato mio figlio»3 ci offre la chiave teologica che permette di intendere il significato della fuga: il ritorno è il motivo profondo dell'andare in quanto è proprio il ritorno ad essere voluto da Dio, così come è espresso dalla sua Parola. Il Cristo, figlio di Giuseppe (!), deve andare in Egitto come Giuseppe figlio di Giacobbe4 e, come i figli di Giacobbe, ne deve tornare. Il terzo quadretto (A'), quello del ritorno, inizia in Egitto. Questo è estremamente importante dal punto di vista narrativo: l'episodio della strage degli innocenti ad opera di un re crudele si dispiega sullo sfondo dell'esilio-esodo del popolo-messia in Egitto. Erode è chiaramente presentato da Matteo come l'alter ego del faraone che volle far perire tutti i figli maschi degli Ebrei5.

Il tema della morte attraversa l'insieme dei tre quadretti ma vi subisce notevoli trasformazioni, sia per l'uso di un vocabolario variegato, sia per le circostanze messe in scena. Nel primo (A), Matteo pone l'accento sul proposito di Erode di far perire (ajpolevsai) il bambino Gesù. Anticipa altresì la morte (teleuthv, h'") di Erode quale termine del soggiorno in Egitto. Nel secondo quadretto (B), Matteo mette in scena la furia omicida (ajnei'len) di Erode, collegandola con il sentimento di costui di essere stato ingannato dai Magi. Nel terzo (A'), Matteo ci dice che «morto (Teleuthvsanto") Erode», l'angelo annunciò a Giuseppe che erano morti (teqnhvkasin) «coloro che insidiavano la vita del bambino». La fine6 del persecutore consente a Giuseppe di far ritorno nella Terra promessa.

Le citazioni di compimento chiudono ciascuno dei quadretti. Abbiamo visto brevemente il significato della prima. La terza è molto particolare, in quanto riferita ai profeti, al plurale, e, soprattutto, inesistente nella sua espressione formale.

3 Matteo segue il TM, mentre la LXX recita: «Dall'Egitto ho chiamato i suoi figli» e il Tgm: «Dall'Egitto li ho chiamati figli». Il profeta Osea si riferisce all'amore che Dio provava per Israele quand'era giovane - amore di cui la liberazione dall'Egitto fu segno efficace - per contrapporvi l'infedeltà successiva del popolo. Questo secondo elemento non interessa l'Evangelista. Egli si concentra esclusivamente sulla figura del Figlio. Per i rabbini, il mondo è stato creato in vista di Israele e Israele in vista del Messia. (Paolo riprenderà e svilupperà questa intuizione: cf. Col 1,16). La citazione matteana ci presenta dunque un fenomeno di concentrazione più che di contrapposizione. Gesù non è il vero e nuovo Israele contrapposto all'antico ma il fiore di quest'ultimo.

4 Cf. Gn 37,36 ; 39,1 ; 45,5.

5 Cf. Es 1,15-16.22. Si veda pure l'apocrifo Testamento di Mosè 6,2-6.

6 I termini utilizzati da Matteo, il sostantivo teleuthv e il verbo teleutavw contengono entrambi l'idea di tevlo", fine, compimento. Teologicamente questo significa che il tempo dell'oppressione ha un limite previsto e voluto da Dio.

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Probabilmente Matteo aveva in mente varie citazioni (i «profeti»!), dal ryz!n` (nazir, consacrato) di Nm 6,13, Gdc 13,5.7 al rx#n} (nezer, virgulto) di Is 11,1 o al rx^n`

(nazar, conservare) di Is 42,6; 49,8, da cui il «resto». Gesù è il consacrato, il virgulto spuntato sul tronco di Jesse, il resto eletto d'Israele.

Torniamo ora ai tre versetti che ci interessano. Il verbo ejmpaivzw, che la Bibbia CEI traduce con l'espressione prendersi gioco, viene da ejn , una preposizione strumentale, e paivzw che significa giocare come un bambino. Questo verbo ha lo stesso radicale di pai'", paidov", bambino. Parafrasando, potremmo dire che Erode si scopre giocato come un bambino e dunque ridotto allo stato di bambino. I magi sono menzionati all'inizio e alla fine del v. 16, secondo un sottile ed efficace gioco di opposizioni: Erode è stato giocato da quelli che aveva accuratamente interrogato7. Il turbamento8 suscitato dall'arrivo dei Magi si trasforma in collera quando viene messa in luce la paradossale ingenuità del re.

Il verbo utilizzato da Matteo per qualificare la collera di Erode è qumovw, il quale appartiene allo stesso ceppo semantico di qumov", ou, collera, la cui radice è costituita dal verbo quvw, che significa offrire, sacrificare, ammazzare, massacrare. Forse l'evangelista ha semplicemente voluto indicare l'ira del re idumeo, ma l'etimologia del termine impiegato desta sorpresa. In filigrana si profila una volontà omicida nei confronti di Gesù, dal sapore sacrificale.

Come gli altri due quadretti, il presente si conclude con una citazione di compimento. Molti esegeti ritengono che questa frase di Geremia (Ger 31,15) sia citata «ad sensum»9, modo elegante per dire fuori contesto... Personalmente non credo che Matteo, «scriba istruito nel Regno dei Cieli [...] simile ad un padre di famiglia che trae dal suo scrigno cose nuove ed antiche» (Mt 13,52), abbia considerato il Primo Testamento come un semplice serbatoio di citazioni. È probabile che Matteo abbia scelto questo testo in base alla tradizione di Gn 35,1910 che poneva la tomba della matriarca in Betlemme, ma non è l'unico motivo e neppure il più importante. Il capitolo 31 di Geremia costituisce uno dei vertici del Primo Testamento col suo annuncio dell'alleanza nuova. Quest'oracolo d'incontenibile speranza viene come sospeso al v. 15: «Udite, in Rama si odono gemiti e pianto amaro: è Rachele, che inconsolabile piange i figli che non vivono più». Due cose vanno sottolineate: anzitutto che è lo stesso Signore Dio ha parlare. Dio raccoglie ogni lacrima. «Rachele, colei che restò a meta strada, colei che morì nel dopoparto, solo si fissa nei figli morti [...]. Il suo pianto inconsolabile è la risposta al meraviglioso messaggio di Dio»11. Ma Dio asciuga pure le lacrime, ed è questo il secondo elemento. Al v. successivo il profeta prosegue con la personale risposta del Signore: «Ora così dice il Signore: Reprimi i tuoi singhiozzi, asciugati le lacrime - oracolo del Signore - il tuo travaglio sarà pagato, torneranno dal paese nemico, c'è speranza di un avvenire - oracolo del Signore -, i figli torneranno in patria». Soltanto Dio può riparare

7 Matteo utilizza il verbo ajkribovw, come in 2,7.

8 Mt 2,3.

9 Ad es. A. LANCELLOTTI, «Vangelo secondo Matteo», Il Nuovo Testamento, nuovissima versione dai testi originali, vol. I, Cinisello Balsamo 1998, p. 87, nota 15.

10 Cf. Gen 48,7. Invece 1Sam 10,2 situa tale sepoltura tra Betel e Gerusalemme, cioè a Rama. Mt combina le due tradizioni.

11 L. ALONSO SCHÖCKEL e J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 19963, p. 641.

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l'irreparabile perché soltanto lui lo può accogliere pienamente. Matteo lo sa bene che è l'unico degli Evangelisti a porre sulle labbra di Gesù in croce il terribile grido del salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22,2; Mt 27,46).

L'alleanza nuova profetizzata da Geremia non fa l'impossibile economia del dolore e della morte ma le attraversa e trasfigura.

b) Storia e midrash. L'intento teologico di Matteo

Si può riconoscere una qualche storicità all'episodio della strage dei bambini di Betlemme? Matteo è l'unico a farne cenno, ma quello che sappiamo di Erode e della sua psicologia profondamente perversa da Giuseppe Flavio - il quale non parla di un massacro a Betlemme - e da altre fonti del tempo, rende l'episodio perlomeno verosimile dal punto di vista dei lettori della fine del primo secolo.

D'altronde, il racconto di Matteo mal si concilia con quello di Luca, il quale narra un normale ritorno della famiglia di Giuseppe a Nazaret. Infine non si incontra alcuna allusione all'episodio del massacro dei bimbi di Betlemme in tutto il resto del NT. La storicità dell'episodio appare dunque al quanto dubbia. Tuttavia bisogna sottolineare con forza che tale non è la preoccupazione di Matteo. Il suo racconto si svolge ad un altro livello, midrashico o simbolico, comunque teologico12.

Come lo sottolinea fr. J. Martin13, il plurale del v. 20 rimanda alla pluralità di persone che attorniano Erode ai versetti 3-4: I sommi sacerdoti, gli scribi e tutta Gerusalemme. Il racconto del massacro degli Innocenti e della successiva fuga in Egitto appare dunque come profezia della Passione, così come quello della visita dei Magi lo è della conversione delle Genti al Messia d'Israele.

Inoltre, Matteo raccoglie in questa sua narrazione l'essenziale della storia della salvezza. Gesù, «figlio di Davide, figlio di Abramo»14, ripercorre le vicende di Mosè, dell'esodo e delle deportazioni a Ninive e Babilonia. In lui si concentra tutto il vissuto d'Israele. Infine, egli è il Figlio nel quale si compiono tutte le Scritture.

2) Quale buona notizia per noi oggi?

a) Echi recenti

L'immagine del «massacro degli innocenti» è stata utilizzata di frequente per qualificare vari eventi o fatti di società della storia recente quali, ad esempio, i bambini mai nati perché abortiti o i morti delle Torri Gemelle. In occasione dell'attentato contro le truppe italiane stanziate a Nassirya si è pure parlato di

«martirio». Questi tre esempi ci dicono tanto la carica emotiva che si cela dietro i termini di «innocente» e di «martire», quanto la confusione linguistica che regna nelle nostre menti.

12 Cf. le illuminanti considerazioni di A. MELLO, Evangelo secondo Matteo, Bose 1995.

13 Fr. J. Martin op, Échanges autour d'un texte - Hérode, http://biblio.domuni.org

14 Mt 1,1.

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b) Innocenza, martirio e santità

Chi sono i «santi innocenti martiri»? Perché sono innocenti? Perché sono santi? Perché sono martiri? Ecco tre termini, «santo», «innocente» e «martire» che bisogna esplicitare. Matteo non utilizza né il primo, né il secondo, né il terzo a proposito dei bambini di Betlemme, ma la tradizione cristiana l'ha fatto ed è precisamente il perché di quest'uso che dobbiamo capire.

- L'innocenza

Etimologicamente, l'innocenza è il proprio di colui che «non nuoce». In questo senso ristretto l'innocenza è una virtù «negativa» in quanto è dell'ordine dell'astenersi e del non fare. Con molta finezza, Giuliana Martirani ha scelto questo vocabolo per tradurre il termine indù «ahimsa», ossia nonviolenza.

Nelle nostre lingue moderne, il termine di innocenza ha ricevuto un significato un po' diverso: l'innocenza è la non colpevolezza. È così divenuto un quasi sinonimo di giustizia o di purezza. Un'ulteriore evoluzione del termine lo ha trasformato in qualità intrinseca di colui che è estraneo al peccato personale:

bambino o persona handicappata mentale che non può essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, vi è una corrente di pensiero (o, per meglio dire, una sensibilità) che afferma la bontà innata del bambino. Si osserva dunque uno slittamento dall'etico-giuridico verso l'ontologico:

L'innocente non è più solamente colui al quale non si può imputare una precisa colpa ma è colui che è senza macchia, vergine di ogni male. Ciò detto, il retroscena giuridico (e pure giudiziario) permane: «non colpevole» significa «non punibile».

Ora, è proprio perché delle persone sono ingiustamente colpite e / o punite che si sottolinea la loro «innocenza». L'infelicità dell'innocente appare tanto più scandalosa quanto meno si lascia interpretare nel quadro di una teoria (più o meno elaborata) della giustizia immanente. Di fronte ai suoi amici che vogliono spiegare la sua sorte in base alla loro teoria della retribuzione, Giobbe non tacce15 come non tacce la coscienza moderna di fronte alle troppo facili spiegazioni del male e del dolore!

Nel caso dei bambini di Betlemme incontriamo questo trinomio inscindibilmente legato dell'innocenza, dell'ingiustizia e dello scandalo. Scandalo di un male che colpisce i piccoli...

- Il martirio

In origine il martirio è la testimonianza e il martire il testimone. Con le prime persecuzioni anticristiane il termine assunse il connotato drammatico di testimonianza fino alla morte nonostante le sofferenze, cosicché per molti secoli il

15 Con tutto ciò, riconosciamo che tentiamo spesso di interpretare i guai che capitano in termini di responsabilità e punizione. Anche in un mondo «disincantato» come il nostro, il capro espiatorio è sempre il benvenuto, soprattutto se si è effettivamente reso colpevole di una qualunque malefatta. L'alcolista che si ammazza in un incidente stradale o il terrorista abbattuto da un tiratore di élite non suscitano pietà. «Se la sono cercata!» diciamo popolarmente. Inoltre, non ha forse affermato Cristo che «chi colpisce di spada, di spada perisce»? Ora, tutti gli alcolisti non si ammazzano al volante e tutti i terroristi non muoiono combattendo; ce ne sono addirittura alcuni, tra questi ultimi, che godono di ottima salute e trascorrono gli ultimi anni delle loro vite in qualche poltrona ministeriale o presidenziale...

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suo uso è stato riservato alla morte per fede. Soltanto in epoca recente la parola

«martirio» è tornata a designare ogni sorta di testimonianza dalle estreme conseguenze: si parla ormai di martiri della giustizia o della rivoluzione, della pace o della patria ecc. E se nella chiesa cattolica il termine di martirio - in senso tecnico - rimane riservato alla morte a causa della fede in Cristo, va diffondendosi un uso molto più largo che contempla non soltanto l'ortodossia ma l'ortoprassi. È ormai convinzione comune che vi è un martirio della carità, della giustizia, della pace o della non-violenza il cui valore non è inferiore a quello per fede16. Tale convinzione pone peraltro il problema dello statuto spirituale e teologico del martirio al di fuori del cristianesimo. Se vi è un nesso tra fede e carità, tra fede e impegno per la giustizia e la pace, non sempre (!) la carità, la giustizia e la pace procedono da una fede cristiana esplicita e neppure da una qualunque fede religiosa. Nella lotta contro la barbarie nazista si ritrovarono gomito a gomito «celui qui croyait au ciel et celui qui n'y croyait pas»17. Difficile sostenere che la morte del primo abbia avuto un valore più alto della morte del secondo!

La morte dei bambini di Betlemme costituisce un caso del tutto particolare di martirio, eppure esemplare per molti versi nonché gravido di importanti conseguenze propriamente teologiche. Martiri di Cristo lo sono perché morirono a causa sua. Ciò detto, vi sono delle notevoli differenze tra il loro martirio e quello che la chiesa ha comunemente inteso con questo termine lungo i secoli. Prima di tutto, i bambini di Betlemme non sono martiri della fede. Non conoscevano Gesù né potevano conoscerlo e ancora meno riconoscerlo quale Messia e Figlio di Dio! Il loro martirio fu dunque puramente passivo. Morirono a causa di Cristo ma non per la causa di Cristo. Questo li distingue da tutti gli altri martiri onorati18 dalla chiesa, da sant'Ignazio d'Antiochia ai monaci di Tibirine. Eppure questa pura passività del martirio dei «santi innocenti» dice qualcosa della sostanza di ogni martirio, ossia la parte di «non scelta» che vi è e lo distingue radicalmente dal suicidio19. Il martire non sceglie di esserlo ma è scelto. La tradizione cristiana ha sempre considerato il martirio come una grazia (e una delle più alte in quanto configura a Cristo crocifisso). Un altro aspetto del martirio che l'episodio del massacro di Betlemme mette in luce è la sua dimensione contestuale. Il martire è sempre la vittima della violenza del potente di turno e mai la causa di questa. Semmai costituisce l'occasione dello scatenarsi di tale violenza ma non ne è mai l'origine. Le confusioni al riguardo sono propriamente diaboliche20. Il martire è sempre innocente (non colpevole) della violenza che lo ammazza. Incontriamo qui la terza dimensione che la morte dei bimbi ebrei pone in risalto: il nesso strettissimo che vi è tra ogni martirio e l'innocenza.

- La santità

16 Questi non vanno contrapposti, in quanto la fede si esplicita nelle opere.

17 L. ARAGON, «Colui che credeva al cielo e colui che non vi credeva».

18 In senso largo, e non soltanto col culto.

19 Questo punto è estremamente importante perché permette di distinguere nettamente il martirio nel senso cristiano del termine da un certo martirio / suicidio di matrice islamista (non islamica!). Bisognerebbe aprire un altro capitolo per indagare sulla natura della «shahada» musulmana e delle sue odierne perversioni.

20 Il diavolo è menzognero e omicida fin dall'origine, e omicida perché menzognero. Cf. Gv 8.

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Dio solo è santo. Nel Primo Testamento la santità sta ad indicare la radicale differenza che vi è tra Dio e il creato. Dio è altro, separato, ineffabile. Ora questo Dio si rivela come amore che si comunica, cosicché la sua alterità si dice nella non- alterità, la sua separazione si manifesta nella comunione e la sua indicibilità si evidenzia nello stesso suo rivelarsi mediante la sua parola. Tutte le altre realtà qualificate come sante lo sono per grazia. «La santità di Israele può essere intesa unicamente come partecipazione alla santità divina»21. Tale partecipazione è il frutto dell'alleanza unilaterale voluta da Dio con il popolo che ha separato dagli altri popoli per farne sua «proprietà personale»22. L'impegno etico-cultuale al quale è invitato il popolo scaturisce da questo dato storico-salvifico.

Il Nuovo Testamento assume e approfondisce la concezione veterotestamentaria della santità. Gesù è «il santo di Dio»23 nel quale Dio si rivela come il Padre «che ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio l'unigenito»24 e mediante la morte per amore di costui effonde sull'umanità il suo Spirito di santità25. Nella sua lettera agli Efesini, Paolo - utilizzando un inno probabilmente anteriore - apre una prospettiva propriamente cosmica: «In [Cristo Dio] ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità»26. Nella libertà del suo atto creatore Dio ha voluto renderci partecipi della stessa sua santità, ossia divinizzarci per grazia. Questo suo disegno originario, Dio lo attua mediante la morte redentrice del Figlio27 e ne anticipa la realizzazione promessa col dono del suo Spirito, «caparra della nostra eredità»28.

Come per il martirio, l'episodio del massacro dei bambini di Betlemme mette in risalto il nucleo della nozione di santità. Se la santità non può mai essere concepita come il risultato dei nostri sforzi in vista di raggiungere la perfezione ma soltanto come la nostra libera risposta al disegno divino, nel caso dei «Santi Innocenti», essa si riduce ad essere pura grazia (come il martirio). I bambini di Betlemme sono santi perché Dio li ha voluti santi (come ciascuno di noi) fin dall'eternità. Dio ha realizzato questo suo disegno associandoli alla passione di suo Figlio, sia perché hanno sofferto e sono morti come Cristo, a causa del «peccato del mondo», sia perché hanno sofferto e sono morti «a causa di Cristo».

Vediamo con quanta giustezza la tradizione ha conferito il triplice titolo di

«Santi Innocenti Martiri» ai bambini massacrati da Erode. Capiamo pure come questi tre titoli siano inscindibilmente legati tra di loro. Non vi è santità che non sia totalmente disarmata - innocente - davanti al male e, perciò, martirio, testimonianza

21 G. ODASSO, «Santità», in P. ROSSANO, G. RAVASI, A. GIRLANDA (ed.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 19945, p. 1421.

22 Cf. Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18; Sal 135,4; Ml 3,7.

23 Gv 6,69.

24 Gv 3,16.

25 Gv 19,30. Cf. Gv 14,16-17.26; 15,26; 16,13-15.

26 Ef 1,4.

27 Cf. Ef 1,7-8

28 Ef 1,14.

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dell'amore incondizionato e vittorioso di Dio. Di fronte a una modernità (e postmodernità) che esalta la libertà dell'uomo al punto di farne la fonte esclusiva dell'etica, il culto dei Santi Innocenti Martiri ci ricorda che «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati»29.

c) Il giusto e la violenza

Dobbiamo ora affrontare una questione alquanto spinosa, ossia quella della responsabilità ultima della morte dei bambini di Betlemme (e quella della morte di tutti gli «innocenti» di questo mondo, dalle vittime di Dachau a quelle delle Torri Gemelle). È evidente che la responsabilità immediata del massacro di Betlemme è di Erode, ma il dubbio ci viene facilmente che Dio abbia pure lui una qualche responsabilità, addirittura maggiore di quella di Erode. Dio è provvidente e possiede la prescienza di tutte le cose. Orbene, perché ha voluto che suo Figlio nascesse a Betlemme e che i Magi facessero conoscere la cosa a Erode? Se non l'avesse fatto, i bambini di Betlemme non sarebbero morti. Tale interrogativo - che può apparire un po' stupido o banale - sfocia su due domande terribili: Perché Dio ha creato il mondo se sapeva che ci sarebbe stato il male a ferirlo a morte? Per caso, Dio sarebbe perverso?

Queste domande e le loro implicite risposte non sono nuove. Anzi sono le prime che incontriamo nella Bibbia: «“È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna:

“Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»30. All'origine del male che colpisce l'umanità31 lo scrittore sacro pone la menzogna su Dio. Ora tutta la Rivelazione non è altro che l'immensa opera compiuta da Dio per ristabilire la verità su di lui e dunque sull'uomo: Dio non è il rivale dell'uomo ma un Padre32 dalle viscere materne, un Fratello che si svuota della sua natura divina per farsi uomo, fino a morire33 per compiere il disegno del Padre di renderci partecipi della beatitudine divina34, uno Spirito che ci configura al Figlio facendo di noi dei figli nel Figlio35.

Amandoci «prima della fondazione del mondo36», Dio non poteva non volerci liberi, capaci di una libera risposta al suo amore. Non vi è amore senza possibilità del rifiuto. Non vi può essere beatitudine celeste senza la possibilità dell'inferno. La croce è la forma dell'amore.

29 1Gv 4,9.

30 Gen 3,1-5.

31 L'autore della Genesi non si pone il problema in termini metafisici ma storico-salvifici. Soltanto il tardo giudaismo approderà all'idea della caduta primordiale di alcuni angeli di cui abbiamo un'eco in Ap 12,7;

2P 2,4; Gd 1,6.

32 Cf., tra molti altri testi, Gv 17.

33 Cf. Fil 2,6-8.

34 Cf. Ef 1,4-5.

35 Cf. Rm 8.

36 Ef 1,4.

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Facciamo un altro passo nella nostra ricerca. Se quel che precede è vero, capiamo come la croce e il massacro degli innocenti siano, in qualche modo, inevitabili. L'amore non è amato e il giusto è sempre d'intralcio per gli ingiusti. Ora il giusto, il santo, il profeta non è mai situato in una sorta di solitudine assoluta di fronte ai suoi nemici. Come ogni essere umano, egli è inserito in una trama di relazioni: è figlio/a, sposo/a, fratello/sorella, amico/a, vicino/a ecc.

Necessariamente le sue azioni e le reazioni che ne conseguono hanno un impatto sul suo ambiente. Questo è un elemento non indifferente del suo dramma come lo si vede bene con Geremia, ad esempio. Gesù lo sapeva quando proclamava che non era «venuto a portare la pace ma la spada37». Non è che Gesù volesse la guerra, lui, il portatore del progetto di Shalom di Dio per l'umanità e il cosmo intero! Ma egli sapeva che la riconciliazione dell'umanità col Padre e tra i suoi membri passava attraverso la croce per se e per i suoi38. Gesù non poteva non essere fedele alla sua missione di rivelatore del vero volto di Dio. La verità fa violenza alla violenza. La verità suscita violenza e smonta la violenza rivelandosi come nonviolenza, innocenza, amore senza fine, perdono più originario del peccato.

Nella sua esemplare nudità, la vicenda dei bambini di Betlemme è simbolica, profetica e precorritrice degli elementi più drammatici della storia di Gesù e della comunità credente.

Conclusione

Uno dei gesti più significativi dell'anno santo 2000 fu lo scambio dei martirologi. Con profondo senso spirituale e profetico, il papa Giovanni Paolo II volle che le varie chiese offrissero le une alle altre il lungo e drammatico elenco dei loro martiri. Non ancora unite in un'unica professione di fede e in una comune partecipazione al banchetto delle nozze dell'Agnello immolato, le chiese hanno già la loro unità in Cristo crocifisso e possono celebrarla onorando la memoria della schiera di coloro che «seguono l'Agnello ovunque egli vada39».

Da secoli, la chiesa ricorda i bambini di Betlemme massacrati da Erode e li invoca sotto il titolo di Santi Innocenti Martiri. Ora, come lo scrivevo nell'introduzione, siamo confrontati al mistero di una santità, di un'innocenza e di una testimonianza dove né libertà, né responsabilità, né merito hanno parte! Inoltre i bambini di Betlemme non conoscevano Cristo, al meno non «tematicamente».

Questo aspetto incoativo della conoscenza di Cristo apre un varco nella nostra comune definizione del martirio. Nell'arco dei secoli molti furono quelli che diedero la loro vita liberamente e responsabilmente per testimoniare della verità di Dio come lo Spirito dava loro di percepire. Da alcuni anni si va sviluppando nella coscienza del popolo di Dio l'intuizione di una comunanza d'intenti40 e, di conseguenza, anche di sorte tra persone di ogni epoca, luogo, cultura e religione che testimoniarono, spesso fino al sangue, dell'amore di Dio, della sua cura per ogni

37 Mt 10,34.

38 Cf. Ef 2,16.

39 Ap 14,4.

40 Si potrebbe dire «comunione dei santi»?

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creature, della sua infinita misericordia41. Tale intuizione potrebbe essere giudicata come ingenua, eccessivamente affettiva, poco critica ecc. Invece, non soltanto mi pare che sia in atto un esempio di sensus fidei, ma che questa intuizione si inserisca felicemente nella lex orandi secondo la quale la chiesa, da secoli, onora i Santi Innocenti Martiri!

Se quel che precede è vero, non possiamo limitarci alla cerchia dei credenti, di qualunque religione essi siano. La pace, la giustizia, la fratellanza tra i popoli hanno i loro martiri, a volte rigorosamente laici, quando non atei... Eppure, se questi non conobbero Cristo né il Padre in modo esplicito, di Cristo e di Dio conobbero i nomi sostanziali di Verità, Amore, Libertà, Giustizia e Pace e per essi e per i loro fratelli e sorelle diedero la loro vita.

Lex orandi, lex credendi. L'episodio biblico del massacro dei bambini di Betlemme, il culto a loro tributato quali Santi Innocenti Martiri, tutto questo apre delle ampie prospettive. In particolar modo, questo fonda biblicamente e misticamente - e non solo eticamente -, da una parte, il dovere di memoria nei confronti di tutti i martiri di quei valori che furono l'oggetto della fede e dell'agire di Cristo e, dall'altra, il dovere per i cristiani di collaborare con gli uomini e le donne di buona volontà alla realizzazione del progetto di Pace che è il progetto di Dio per noi. Lex vivendi.

Infine, su un piano squisitamente politico, seppure radicato in una visione di fede, il culto dei Santi Innocenti Martiri ci ricorda che i piccoli - essi siano emarginati, esclusi, bambini non ancora nati, prostitute o malati di aids ecc. - sono il luogo del giudizio del nostro mondo e lo strumento della sua salvezza. Avevo fame, sete, ero ammalato o in carcere. Siete o non siete venuti a trovarmi?

Frédéric Eremo Sant'Ilarione

41 Si pensi ad Al-Hallağ, il martire mistico dell'islam, crocifisso (!) a Bagdad nel 922, per il quale Louis Massignon chiese, nella preghiera consegnata ai partecipanti del primo incontro del «groupe des Dombes», nientemeno che «la chiesa facesse, un giorno, memoria»; (cf. L. MASSIGNON, L'hospitalité sacrée, Parigi 1987, pp.

461-468). Si pensi pure a Gandhi o a Vinôbâ, per citare soltanto i più conosciuti.

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