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L orto perfetto ovvero

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Academic year: 2022

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Carlo Finocchi

L’orto perfetto

ovvero

Follia, sangue e… profumo di basilico

nello scenario più bello del mondo

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Tutto è cominciato alcuni giorni fa, quando è suonata la campanella del pomeriggio, alle 16, e tutti noi abbiamo lasciato le nostre camere per scendere in salone a fare merenda, giocare e farci compagnia fino all’ora di cena. E fin qui niente di strano, perché succede tutti i giorni; ci ritroviamo tutti a bere un succo di frutta e mangiare pane e prosciutto, poi ci sediamo dove ci pare e giochiamo a carte, a dama, a scacchi;

oppure leggiamo, o parliamo di qualcosa. Se è bel tempo usciamo nel parco a fare una passeggiata o gio- chiamo a bocce o a ping-pong.

Qualunque cosa facciamo, con noi ci sono sempre gli “amici” (chissà perché vogliono che li chiamiamo così!), con i loro camici bianchi e la targhetta col nome attaccata al bavero. Stanno sempre con noi quando siamo fuori dalle camere, giocano con noi, passeggiano e parlano con noi proprio come se fossero degli amici, ma qualcuno di noi dice che non lo sono, che stanno lì solo per spiarci, per controllare quello che facciamo e ascoltare i nostri discorsi. Sarà, ma non ci credo; non capisco perché a loro debbano interessa- re i nostri discorsi o vogliano controllare le nostre azioni: nessuno di noi fa cose strane, non litighiamo mai, al massimo qualche scherzo a quelli che si addormentano sulla sedia; ma intanto quelli dormono tutto il giorno, e sembra che capiscano poco di quello che gli succede attorno! In effetti qualcuno sembra un po’

rimbecillito, perché passa la maggior parte del tempo appisolato su una sedia, e noi stiamo zitti attorno a lui per vedere se cade; a volte succede, scivola lentamente dalla sedia, e mentre noi sghignazziamo quello si affloscia per terra come uno straccio, continuando a dormire; allora arrivano gli “amici”, lo prendono su di peso e lo rimettono sulla sedia, che intanto non serve a niente perché dopo un po’ lui ricade, e noi di nuovo a ridere!

Insomma, non succede mai niente, e non capisco cosa abbiano da spiare! C’è l’”amico” Gianluca, ad esempio, che sta sempre con me e con il mio gruppo, che passa i pomeriggi con noi giocando a dama o a tressette (però perde sempre!), ci racconta delle storie divertenti ma soprattutto vuole che gliele raccontia- mo noi, e s’interessa alle nostre storie e dice che sono così belle che prima o poi le metterà in un libro con tutti i nostri nomi.

Io finora non gli ho raccontato nulla, anche perché non saprei proprio cosa dirgli. Ma l’altro giorno è tornato sull’argomento, e mi ha fatto una proposta davvero divertente. Era appena successo questo: come tutti i pomeriggi, Franconero (si chiama Franco, ma siccome è un po’ scuro di pelle lo chiamiamo Franco- nero) si era messo a giocare a scacchi da solo, dopo aver proclamato a gran voce a tutti che avrebbe af- frontato un avversario particolarmente bravo; aveva sistemato la scacchiera ed iniziato a danzare attorno a questa, un po’ da una parte e un po’ dall’altra, tutto preso dalla partita con se stesso, emettendo gridolini di gioia o gemiti disperati a seconda di come andava, e verso la fine richiamando a gran voce gente perché venisse ad assistere al suo trionfo contro quell’avversario invisibile, come sempre, ma più furbo del solito.

Correva agitato attorno al tavolino, minacciando di morte a turno il re bianco e quello nero, spostando alfieri e cavalli all’impazzata mentre le due regine si rincorrevano nella scacchiera in una fuga disperata e con manovre sempre più ardite. Noi tutti lì attorno, ad aspettare la fine di quella sua giornaliera, estenuan- te tenzone con se stesso, sapendo già come sarebbe andata a finire; perché è quasi un anno che sono qui, ed è quasi un anno che conosco Franconero, ed è quasi un anno che ad un certo punto decide che la partita è finita, fa un grand’urlo e con una gran manata butta a terra tutti gli scacchi sbraitando “Ho perso, ho per- so, questo bastardo non riesco a batterlo, questo figlio di puttana bara, ne sono convinto, sono certo che im- broglia!” Sempre così, tutti i pomeriggi la stessa scena. Secondo me, Franconero non è tutto a posto nel cervello.

Ma l’altro giorno c’è stata la novità: mentre Franconero sbraitava come al solito lamentandosi che ave- va perso, gli si è avvicinato Antonio, un napoletano che non parla mai, e gli dice: “Ma non lo vedi che non sai giocare? A te ti batterebbe anche un bambino!” Quello si gira e gli tira un pugno in faccia, spaccandogli il labbro inferiore. E’ scoppiato un putiferio: due “amici” sono saltati su Franconero e l’hanno portato via, mentre Antonio, che mugolava con una mano sulla bocca, via in infermeria a fermare il sangue che gli scorreva sul mento. E poi discussioni a non finire: ha fatto bene, no ha fatto male, possibile che non impari a giocare a scacchi, non sa usare la regina, è un po’ matto …!

Quando, dopo un po’, è tornata la calma, ecco che mi si avvicina l’”amico” Gianluca, si siede accanto a me e mi dice: “Vedi che c’è sempre qualcosa d’interessante o divertente da raccontare! Chissà quante ne hai viste nella tua vita di cose del genere; dai, raccontamene qualcuna!” Beh, devo essere sincero: quello che era successo mi aveva fatto ricordare quanto mi era accaduto tanto tempo prima (ma quanto tempo pri-

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ma?), quando quel cretino di Giobatta aveva di nuovo criticato il mio orto, sicuramente il più bello di tutto il golfo, e anch’io gli avrei tirato volentieri un cazzotto in faccia, ma avevo in mano la zappa e… .

“Si, forse ce l’avrei una storia da raccontare, ma è troppo lunga – gli ho detto – e non abbiamo tempo”.

“Hai ragione – mi dice lui – perché non la scrivi? Ci puoi mettere tutto il tempo che vuoi; vedrai che se ti metti a scriverla ti verranno in mente tanti particolari che adesso forse ti sfuggono. La storia diventerà sicu- ramente più bella e interessante, e io e te potremmo parlarne, commentarla; potrebbe anche diventare un bel- lissimo romanzo..!

Ci ho pensato su tutta la notte, e poi ho deciso che l’avrei scritta; ma la darò solo a Gianluca: sono con- vinto che lui la capisce… .

Eccola qua, la mia storia.

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Sono nato ed ho vissuto nel paese di San Simone, anzi, più propriamente in quella grande casa isolata so- pra il paese, quasi in cima alla collina. Da lì si domina tutto il golfo e nelle giornate di tramontana si riesce a vedere la punta di un’isola che si chiama Corsica, mentre di notte una fila ininterrotta di luci indica la curva della costa verso occidente, quasi alla Francia. Il tutto in un mare di olivi che scendono a balzi fin quasi alle rocce della costa, nodosi e contorti come solo loro sanno essere. E poi si vede un mare che vorrebbe essere immenso, ma non lo è, tutto stretto tra golfi e promontori, che pare non voglia mai aprirsi verso il nulla; e per apparire ancora più domestico ecco che cambia di colore ogni pochi metri, qua appena toccato dalla brezza di terra, là striato di schiuma da una striscia cangiante di maestrale improvviso. Lì il mare è come l’o- livo, ti accompagna sempre, da qualunque parte tu giri lo sguardo, a qualunque ora esci di casa o alzi la testa dai lavori dell’orto, eccolo lì, il mare, e attorno gli olivi; sempre così, da quando sono nato, ma forse anche da quando c’era nato mio nonno.

Nonno Angelino diceva che lui e quella casa erano nati e cresciuti insieme. Diceva che quando era picco- lo la casa era poco più di un pollaio, ma che ogni anno a primavera arrivavano i muli carichi di pietre, ed al suo compleanno, a dicembre, c’era una stanzetta in più dove tutti entravano emozionati dallo scricchiolio del pavimento di canniccio, già pronta con il suo pagliericcio di foglie, una cassapanca di castagno ancora chia- ro e la nicchia per la lampada ad olio.

Era un tipo strano nonno Angelino: diceva che sapeva leggere e scrivere, ma non faceva mai nessuna del- le due cose perché, sosteneva, un vero contadino come lui non aveva bisogno di quelle cose da signori, ma gli bastava saper guardare il cielo, dove andavano le nuvole o la forma della luna; e poi il colore del mare, l’odore dell’aria, l’umidità della terra, come frinivano le cicale, dove passavano i colombacci, se le rane ave- vano le uova o quanto erano azzurri i ramarri della nuova primavera. E così aveva dimenticato come si leg- geva e scriveva, ma aveva fatto ancora in tempo a leggersi e imparare a memoria quasi tutto il libretto del- l’Aida, di cui si era follemente innamorato assistendo ad una rappresentazione, in forma ridotta, una notte di luglio in piazza De Ferrari, durante il suo viaggio di nozze a Genova, con la nonna Maria giovanissima che si era addormentata appoggiata ad una colonna sotto i portici dell’Accademia. Da allora lui non aveva fatto altro che cantare pezzi dell’Aida, alla mattina quando si alzava, quando batteva le olive o rincalzava le pata- te. Alle sue due figlie aveva imposto i nomi di Celeste e Aida, così che quando nonna Maria le chiamava, bambine, perché venissero a mangiare (a mezzogiorno in punto, tutti attorno al tavolo di ardesia, sotto l’e- norme caco davanti alla porta di casa), e gridava “Celeste, Aida”, da qualunque parte fosse la possente voce del nonno proseguiva “forma divina, mistico serto di luce e fiori, del mio pensier tu sei regina, tu di mia vita sei lo splendor” (ma una volta ho sentito che chiedeva a mio padre: “ma cos’è il mistico serto?). E siccome le mie zie rimasero zitelle e quindi non lasciarono mai la casa, questa storia andò avanti per anni e anni, sempre uguale, tutti i giorni, anche quando Celeste e Aida, ormai adulte, non avevano più bisogno di essere chiamate perché erano in casa a fare pulizie o con la nonna a cucinare; a mezzogiorno nonna Maria conti- nuava ad affacciarsi alla porta di casa a chiamare “Celeste, Aida”, e il nonno, dall’orto, mentre mollava a terra la zappa, continuava con il suo “forma divina, mistico serto di luce e fiori,…”.

Smise solo quando nonna morì, durante la raccolta delle olive; era un dicembre non troppo freddo, gli al- beri erano carichi di frutti così neri e gonfi da promettere una quantità eccezionale di olio, e tutti eravamo impegnati in quell’operazione così entusiasmante, perché per una volta ci riuniva tutti, anche papà e zio Bruno, ma che d’allora non ho più voluto fare. Mi ricordo che io ero sotto la scala su cui era zia Aida, che con una lunga canna batteva le olive con la sua solita vigoria, e queste cadevano abbondanti rimbalzando dappertutto, anche sulla mia testa, e mi scivolavano nel collo, giù nella maglietta; e allora per ripararmi mi ero spinto un po’ più sotto, verso le gambe della zia, scoprendo così che non portava le mutande. La cosa mi aveva affascinato, perché non sapevo nulla di quel mondo misterioso e, mi avevano detto, di peccato: quale, non l’ho mai saputo …. Con la testa infilata lì sotto, cercavo di capire quale mistero ci fosse tra le gambe delle donne e perché nulla del genere ci fosse tra quelle degli uomini. Ma il mistero sta tutto lì – mi dicevo – nel fatto che noi abbiamo il belino e loro no? Nel fatto che io quando faccio la pipì prendo di mira qualco- sa, una foglia, una pietruzza, un insetto, e vinco se riesco a colpirla, mentre loro non possono farlo questo gioco, perché senza belino come fanno a dirigerla, la pipì?

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Riflettevo così, con la testa sotto l’abito di zia Aida, anche un po’ deluso dalle conclusioni a cui stavo ar- rivando, ma comunque contento d’aver svelato un mistero, quando dall’olivo accanto, dove c’era a battere zia Celeste, arriva uno strillo scandalizzato, quasi isterico: Remo, cosa stai facendo? La zia Aida guarda giù, e si accorge di me e dei miei sguardi furtivi tra le sue gambe, e di scatto si raccoglie la gonna e fa per scen- dere dalla scala, ma per la troppa fretta scivola e cade. Pochi gradini, due o tre, ma sufficienti per farla cade- re pesantemente a terra. Anzi no, non a terra, perché in quel momento passava la nonna Maria portando in testa un grosso cesto di olive, e la zia Aida le piomba addosso, in un volare di gambe, braccia e bellissime olive mature. Ma il bordo della piana era proprio lì, a pochi centimetri, e la nonna e il canestro volano di sot- to.

Con la spina dorsale rotta, la nonna Maria restò in ospedale circa due settimane prima di morire; dissero che dentro non le funzionava più niente, che si era bloccato tutto. Ma da quel giorno nonno Angelino non cantò più.

Lui mori due anni dopo, a dicembre, come la nonna: in una bellissima domenica di sole, dopo aver pran- zato fuori, sotto il caco, con stufato di capra e polenta. Si accese il suo mezzo toscano, abbasso il cappello sugli occhi e si appoggiò allo schienale della sedia per fare il pisolino, come sempre, nell’attesa che l’ombra del caco gli girasse sul viso; ma non si svegliò più.

Dei tre figli maschi mio papà Enrico era il più grande, ma non c’era mai, e io lo ricordo molto poco. Ar- rivava tutte le sere con la sua vespa su per la stradina in terra battuta che porta a casa nostra partendo dall’ul- tima curva di San Simone, e ripartiva la mattina dopo, quando era ancora buio. Parlava poco, e con me ci stava solo la domenica pomeriggio, perché la mattina la passava nei campi; la domenica sera voleva sempre guardare i miei quaderni, ma quando li sfogliava non mi diceva nulla, e mentre li buttava sul tavolo con aria svogliata diceva sempre questa parola: Vedremo! Poi una volta trovò una nota del preside che gli chiedeva di andarlo a trovare; lui ci andò, e al ritorno, quelle sera, a tavola, disse a tutti: Ho una buona notizia: final- mente dall’anno prossimo Remo non andrà più a scuola. Resterà qui a casa, con noi, e diventerà un bravis- simo contadino. Siete contenti, vero? Ci furono abbracci e applausi, e zia Celeste mi disse anche una cosa molto bella: Sei diventato un vero ometto. Io sorridevo; forse ero contento, non lo so.

Prima che finissi la scuola, papà morì in un incidente. Mi hanno detto che lavorava per un’azienda elettri- ca, e che mentre faceva una riparazione in una cabina aveva toccato qualcosa che non doveva. Tra l’Azienda e l’assicurazione arrivarono un po’ di soldi, e zio Bruno comprò l’ape per portare le uova e la verdura del- l’orto in città. Ho ancora una foto di me e papà: io sono molto piccolo, seduto sul sellino della vespa, e papà è in piedi, tutto elegante con la camicia bianca e i pantaloni neri. Foto con la mamma non ne ho, perché è morta quando sono nato io. Aveva già avuto due bimbi, nati morti; io invece sono nato vivo, ed è morta lei.

Che buffa la vita!

Anche lo zio Giulio non l’ho mai conosciuto. E’ andato via quando era molto giovane, a Genova a fare l’aiuto cuoco, poi s’è sposato con una ragazza di San Simone ma poco dopo se ne sono andati in Cile, che deve essere molto lontano, e non sono più tornati. Ogni tanto arrivava una lettera, il nonno la faceva leggere a qualcuno poi la metteva via senza dire una parola, mentre invece la nonna Maria si asciugava gli occhi.

Una volta le ho chiesto com’era lo zio Giulio, e lei di nascosto dal nonno mi ha portato in camera ed ha tira- to fuori da un cassetto del comò un pacco di lettere e una foto, piccola e un po’ sbiadita: lo zio mi è sembra- to uno qualunque, mentre lei era magra magra, con gli occhi segnati e le gambine storte; teneva in braccio un fagotto di stracci con un buffo cappellino che, mi ha detto la nonna, si chiamava Giovanni ma lì dov’era- no loro si chiamava Quanito; sullo sfondo, un po’ di spiaggia ed un mare malinconico e deserto

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Una mattina di luglio lo zio Bruno venne a svegliarmi all’alba, mi fece fare colazione con il latte, il pane del giorno prima e marmellata di fichi e poi mi disse: Da oggi sei il mio aiutante nell’orto; ti stancherai, ma ti divertirai anche. Appena ti mangerai un pomo-doro coltivato da te, sarai felice!

Da quel giorno, tutti i giorni, ho lavorato con lo zio nell’orto. All’inizio non sapevo usare né la zappa né la vanga, e mi facevano male le mani e la schiena; poi la schiena si abituò, e sulle mani, ancora troppo pic- cole, mi vennero dei calli. Passavo intere giornate con la zio nell’orto, zappando finché la terra non era soffi- ce e sminuzzata come fondi di caffè; poi facevamo le aiole, grandi o piccole a seconda di quello che ci avremmo piantato, belle lisce e pulite, a volte con un po’ di colmo, poi tiravamo la lenza e a fianco faceva- mo i buchetti per le sementi con un attrezzino che mi aveva fatto lui, un punteruolo di legno scolpito con il coltello. Lo zio Bruno mi spiegava il perché di tutto quello che facevamo: perché le carote le piantavamo sempre in quell’aiola laggiù, che a gran fatica avevano mischiato con la sabbia e così le carote crescevano lunghe e grosse, e ogni tanto me ne tiravo fuori una, la pulivo con le mani e me la mangiavo; e perché le me- lanzane bisognava trapiantarle con le radici in superficie, e come capire quand’era il momento per rincalzare le patate o dare il calcio ai pomodori o il veleno alle cavolaie.

Quando alla mattina, appena c’era luce, andavamo nell’orto a lavorare, io mi sentivo felice e non pensa- vo affatto a quanto mi sarei stancato; ogni tanto ci fermavamo a guardare con soddisfazione quello che ave- vamo fatto; poi lo zio mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva: siamo bravi eh! guarda che meraviglia di orto! Ci fermavamo a mangiare qualcosa che ci aveva portato la zia Celeste (la zia Aida si muoveva sem- pre meno, piena di dolori per la sua malattia che le deformava le ossa), qualche pezzo della focaccia di pane ancora calda, fette di lardo, uova sode, fichi e due belle zucche piene di acqua fresca e vinella. E poi via di nuovo a lavorare.

La mia vita cambiò completamente, perché me la realizzavo ogni giorno in quei lunghi orti rigogliosi dove scintillavano grandi peperoni quadrati rossi, verdi e gialli, e piccoli, verdi a punta, e rossi a forma di corno che sembravano lucidati, e melanzane di tutte le forme; i pomidoro mi superavano in altezza, le lattu- ghe, cicorie, indivie sembrava mi chiamassero ad assaggiare la loro tenerezza, e quando era stagione un’in- tera piana di cavoli voleva farmi vedere tutte le sfumature dei colori, dal bianco candido al grigio scuro, dal rosa al violetto e ad un’infinità di verdi. E cipolle di tutti i tipi, quelle rotonde e lisce dorate, bianche piccole grandi, rosa e rosse… .

Quando non avevo niente da fare giravo per l’orto in silenzio, a inebriarmi di quella meraviglia; sfioravo con la mano le zucche che sembravano crescere a vista d’occhio, lisce o grinzose, lì appese ai muretti come grossi turbanti dagli incredibili colori maculati, o toccavo i timidi fiori delle patate, già anticipando col pen- siero la giornata campale di quando con zio Bruno le avremmo raccolte per cuocere le più piccole nello strutto, con l’alloro, sotto il testo, e accatastate le altre in un mucchio sul fondo della cantina, coperte di pa- glia e terra.

Spesso mi fermavo a guardare le piantine appena spuntate, sicuro che le avrei viste crescere; non ci riu- scivo, ma il giorno dopo ero sicuro che fossero già più alte: spinaci, piselli, cetrioli, taccole crescevano da un giorno all’altro, e io mi dicevo: qui tutto ha un senso, una logica che non conosco ma nella quale occor- re solo infilarsi per seguirne la corrente; questo, senza uomini, è un mondo perfetto, ed io ne tiro fuori un orto perfetto. Io sono Remo, e questo è il mio orto perfetto!

Passarono così mesi e anni, tanti anni, nei quali diventai sempre più padrone di quel mondo che mi dila- gava nell’anima, mi pacificava, mi arricchiva, mi completava; quell’orto era l’unico scenario ammesso ai miei occhi, e l’unico interlocutore del mio spirito. Non lo lasciavo mai, perché il resto non m’interessava;

non lo tradivo, perché mi occupavo di lui anche quando pioveva o quando il sole d’agosto diventava così cattivo che sembrava volesse spaccare il terreno in mille venature, e lui non tradiva me. Era dolce, affidabi- le, disponibile; mi seguiva paziente, quasi grato, anche quando scardinavo qualcuna delle sue più solide cer- tezze, magari anticipando di una luna la semina delle fave per averle primizia tra le primizie, o seminando gli spinaci a pieno campo, fitti e affollati in apparente disordine, ma senza un filo di erba tra loro; quando volli diradare più del solito quelle delicate piantine di ravanello, me li restituì tondi e levigati, perfetti, pro-

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prio come avevo sperato. Sembrava che mi leggesse dentro e capisse che cosa volevo da lui, e lui si compia- cesse di accontentarmi e farmi felice.

Ed io infatti ero felice, in pace con me e col mondo, sempre più orgoglioso del mio orto, l’orto PERFET- TO, col quale eravamo diventati un’unica cosa (o persona?) che con metodo, pazienza, una sorta di scono- sciuto ed inafferrabile ritmo interiore rispondeva sempre ai miei richiami, esaudiva le mie aspettative, grati- ficava i miei desideri. La mia mente, invasa completamente da lui, non aveva spazi vuoti, non conosceva né ombre né cupezze, non inciampava in dubbi, non conosceva ostacoli, non balbettava in ragionamenti arditi e contorti; tutto scivolava via facile, ogni pensiero sembrava rotondo, scorreva via senza intoppi, facile e leg- gero; ogni gesto, ogni attimo della giornata aveva senso in se stesso, sempre illuminato dalla luce giusta.

Così accadde che iniziassi a provare un sentimento che non conoscevo, e di cui nessuno mi aveva mai parlato: credo che sia chiamato “amore”, ma non ne sono sicuro. Certo è che io e il mio orto eravamo diven- tati una cosa sola, ed ognuno di noi viveva perché c’era l’altro che tutti i giorni gli dava un senso; io lo puli- vo e lo curavo, m’interessavo ai suoi bisogni passando con lui tutte le ore di luce, ne respiravo i profumi, ne interpretavo i malesseri; andavo in soccorso delle piantine più deboli, e se qualcuna moriva me ne prendevo io la colpa perché – gli dicevo – vuol dire che non t’ho amata abbastanza. Lui ricambiava a piene mani, of- frendomi canestri di piselli dolcissimi e succosi, mazzi di bietole d’un verde sfavillante, cespi di scarola dal- la delicatezza impareggiabile o zucchine croccanti quasi illuminate dai loro fiori paglierini.

Io con lui ero preciso, puntuale, generoso, e lui rispondeva con metodicità, altruismo, prodigalità; io gli creavo tutte le condizioni per darmi dei pomidoro magnifici, e lui me li dava perfetti; io dedicavo ore a sar- chiare la terra per le bellissime carote, e lui me le dava perfette; io ricoprivo con cura i giovani germogli del- le cipolle perché non le mangiassero gli uccelli, e lui me le dava compatte, asciutte, dolci, perfette. Lui era il mio orto, ed era PERFETTO; io e lui eravamo l’orto, ed eravamo PERFETTI. Non c’era alcun dubbio, tutti noi lo sapevamo, e quindi lo sapevano tutti.

Tutti, meno Giobatta.

Quando i miei capelli cominciarono a ingrigire mi ritrovai da solo, ma forse lo ero sempre stato. Non avevo parlato quasi mai con nessuno, perché da sempre tutto si svolgeva nella mia testa, e le parole degli al- tri raramente mi significavano qualcosa. E poi cosa avrei mai potuto dire a papà, con quell’aria sempre così desolata e assorta, l’aria della domenica, che una volta mi aveva fatto un’altalena attaccata ad un ramo di un enorme ciliegio, ma si era rotta dopo pochi minuti e non me l’aveva mai riparata. Non avevo neppure do- mande da fargli, a lui come a nessun altro, perché tutto il mio mondo era lì, nella mia testa, che si dava tutte le risposte da sola attingendo quanto serviva da quello che mi circondava e dalle sensazioni che provavo.

Anche i miei ragionamenti, quelli che facevano ammattire il maestro a scuola, io trovavo così semplice farli, così facile arrivare alla soluzione dei problemi, alla MIA soluzione! Nella mia testa avvenivano pochissimi passaggi, a volte anche molto simili tra loro, ed ecco già la soluzione; non ho mai capito cosa volesse dire quando qualcuno mi parlava di “dubbi” o di “alternative”, e non capisco quando dicono che è così diffide stare al mondo. Non so, forse sono io che sono stato fortunato nella vita, da quando zio Bruno mi ha portato con sé nell’orto, ma trovo che sia tutto così facile, e non capisco che bisogno si abbia degli altri!

La zia Aida un giorno l’avevano portata via perché, dicevano, ormai non si muoveva più neppure con la sedia a rotelle attorno al tavolo della cucina, che è pure grande. Era stata qualche tempo in un grande ospe- dale della città, ma un giorno era venuto un uomo alto, con una divisa grigia e lo stemma sul cappello, a por- tarci un biglietto, e così avevamo saputo che era morta. La zia Celeste aveva pianto molto ed aveva passato quasi un mese rannicchiata su sé stessa con in mano un libricino da cui uscivano tante immagini di santi, come quella di sant’Antonio che c’era in cucina, ma anche altre che non capivo e non mi piacevano perché c’erano teschi e cuori sanguinanti; però ne aveva una bellissima, che quando gliel’ho chiesta me l’ha regala- ta, con un bambino dai riccioli biondi e una pecorella accucciata accanto. Mi ha detto: conservala sempre, mi racco-mando, che ti porterà sempre tanto bene, e difatti ce l’ho ancora adesso.

Poi, un giorno che c’era una leggera tramontana e mi veniva voglia di allungare la mano per toccare le case sul promontorio, lo zio Bruno e la zia Celeste passarono tante ore a parlare seduti sotto il caco, mentre io cavavo le patate nuove di settembre. La zia va via, va a vivere in un pensionato per anziani, in città – mi

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disse quella sera lo zio, quando guardavamo il tramonto dopo aver cenato – non se la sente più di stare qui;

troppi ricordi, e dice che le fanno male. Io non ho capito quella strana frase di zio Bruno, perché anch’io ho i ricordi, e non mi hanno mai fatto male, ma lo zio aveva le lacrime agli occhi, e questo vuol dire che forse facevano male anche a lui, non so. Dopo qualche giorno la zia partì e così nessuno ci portò più il pane caldo con il lardo nell’orto, ma io e lo zio mangiavamo lo stesso, anche se il minestrone che facevamo insieme non riuscì mai buono come quello di zia Celeste: vedi – mi diceva – da quando non c’è più la zia il cucchia- io non sta più dritto! Mi sorrideva, mostrando quei suoi pochi denti color granturco, e poi facevamo a gara a chi lo finiva prima.

Passarono ancora degli anni, che furono sempre sereni perché noi vivevamo nella nostra casa isolata e ci dedicavamo sempre all’orto, anche se lo zio Bruno mi sembrava sempre più magro e rinsecchito, al punto che lo avevo soprannominato “zio carassa” perché assomigliava a quelle vecchie canne un po’ curve che usavamo per sostenere i pomidoro: Remo, un giorno o l’altro mi pianterai due melanzane nelle dita dei pie- di – mi aveva detto una volta – e vedrai come mi si arrampicheranno su, fino alla testa! Ridevamo e zappa- vamo, e l’orto era sempre più PERFETTO.

Poi cominciò a tossire, una tosse secca, “cattiva” diceva lui, che non passava neppure con l’infuso di la- vanda e timo che lui si faceva tutte le sere. Di notte lo sentivo, anche se lui per distrarsi si alzava a passeg- giare attorno al tavolo sotto il caco, ma intanto tossiva sempre, anche quando tornava a letto; la mattina ave- va gli occhi rossi e nell’orto faticava, finché un giorno di primavera, mentre stavamo raccogliendo i primi cavolfiori (sembravano fanali da tanto erano grossi e luminosi), con un colpo di tosse uscì dalla sua gola una specie di gorgoglio, e su un cavolfiore candido apparvero delle goccioline di sangue.

Quando vennero a prenderlo mi fece ancora qualche raccomandazione (lo so che tu sei bravo, Remo, ma ricordati che bagni sempre troppo poco, e ch’è l’ora di raccogliere le cipolle rosse; e mi raccomando, con- tinua a segnare sul quadernetto la data in cui semini e com’era la luna, così puoi vedere se ha reso bene; tu ogni tanto ti dimentichi …).

Ci eravamo sempre divertiti nell’orto, io e lo zio Bruno, e avevamo passato la vita insieme, volendoci bene, ma forse non era stato sufficiente, perché non tornò più.

Giobatta non ho mai saputo chi fosse, né mi ha mai interessato saperlo perché non mi era simpatico e anzi mi dava fastidio quando veniva a girare silenzioso tra le aiole del mio orto. So solo che viveva a San Si- mone, perché una volta che con zio Bruno eravamo scesi in paese con l’ape per comprare del concime al consorzio (tutti lo chiamavamo così, ma in realtà non era altro che l’unico negozio del paese, vendeva di tut- to e dietro aveva un cortiletto con sacchi di letame di cavallo secco e granturco per le galline), lo avevamo visto sulla porta del bar Italia che parlava con non so chi; ci aveva visti, e fatto a zio il cenno di fermarsi, ma lui aveva tirato dritto facendo solo un breve cenno di saluto con la mano; ma avevo notato che era stato un cenno asciutto asciutto, e da questo avevo concluso che non dovevano essere amici, e quindi non mi era simpatico.

Cominciò a comparire dopo che ero rimasto solo, ogni tanto, a distanza di mesi, anche tanti mesi, venen- do su a piedi dalla stradina, dritto e segaligno, i baffi girati un po’ in su e quelle curiose mani enormi e no- dose, sproporzionate rispetto alle braccia magre e lunghe che faceva ciondolare senza sosta.

La mia vita non era cambiata dopo la partenza di zio Bruno: io passavo sempre le mie giornate nell’orto, con la differenza che adesso continuavo a parlare forte anche se non c’era più nessuno, ma non ci facevo caso neppure quando a metà mattina facevo merenda, perché era come se me l’avesse portata la zia Celeste, e io per questo la ringraziavo; poi mi giravo verso la piana degli zucchini, dove in fondo, sotto al pero, c’era la panca su cui sedevamo sempre io e zio Bruno, e dicevo: Beh, io mangio eh zio! e divoravo il pane con il pomodoro e basilico, d’estate, o con il lardo, d’inverno, e poi l’acqua bella fresca dalla zucca e un sorso di vinella.

Vivevo bene, sereno, avvolto nella pace di quel posto generoso che mi offriva tutto quello di cui avevo bisogno: la casa mi proteggeva, la stufa della cucina mi riscaldava, e l’orto … l’orto, che era sempre più PERFETTO, mi riempiva lo stomaco e l’anima, saturandomi delle più belle emozioni.

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Ma poi, ogni tanto, ecco arrivare Giobatta, e allora era come se una grossa nube nera e carica di pioggia oscurasse improvvisamente il sole: sai che la tua vita nell’orto termina lì, che dovrai rinviare i tuoi lavori ad un altro giorno, che arriva la pioggia e la tristezza e dovrai startene in casa, dietro alla finestra a sentirti inu- tile e lontano, e nella testa i pensieri si frammentano e si rendono oscuri, si annodano tra loro come se im- provvi-samente diventassero cattivi, e non ti danno tregua; poi la pioggia finisce, torna un po’ di sole e men- tre tu ti riavvii verso l’orto ecco che risenti i profumi conosciuti, ma ora esaltati dall’umidità che t’investe a vampate salendo da terra, e i pensieri si sbrogliano, si pacificano, tornano semplici, chiari, amichevoli.

Era cosi quando arrivava Giobatta; e arrivò anche quel giorno, era un giovedì, il 17 aprile (poi capirai perché ricordo la data), con quella sua andatura dondolante e l’aria di sufficienza del gran signore che va a trovare il modesto contadino. Arriva, mi biascica un “Ciao Remo, stai bene?” e comincia, come al solito, a girovagare per il mio orto con aria indifferente; e poi inizia con le sue domande, sostenute dal solito tono acido e indagatore, di quello che non è affatto convinto di quello che fai, che lui sa farlo meglio; solo che quel giorno lui era più antipatico del solito, e io facevo più fatica delle altre volte a sopportarlo.

Era una giornata fresca, ed era dall’alba che zappavo una gran fetta di orto per prepararla alle piantine di pomidoro, quelli a forma di pera per farmi la scorta di salsa, e quelli grossi e lisci, e quelli un po’ costoluti che mi piacciono tanto; poi avrei piantato le melanzane, quelle genovesi, piccole e tonde dal sapore forte e pungente, e i peperoni verdi a punta, che sembrano quelli piccanti ma che invece sono quasi dolci, da mette- re nello stufato. A metà mattina mi ero fermato un po’ anche per parlare col pettirosso, forse l’ultimo rima- sto prima della partenza per i paesi freddi; era tutto il giorno che saltellava tra le zolle appena smosse per mangiarsi i vermetti o cos’altro, e io ero soddisfatto perché si nutriva bene per affrontare il grande balzo ver- so il nord. Era buffo e simpatico; se mi fermavo, lui saltava in cima ad una zolla e mi guardava piegando il capino in modo interrogativo; io ridevo, e riprendevo a zappare anche per farlo contento.

“Ciao Remo, stai bene?”Giobatta mi si presenta davanti, mi fa un mezzo giro attorno e il pettirosso vola via, prima sulla staccionata, poi su quel vecchio ciliegio in fondo, e non lo vedo più: “chissà se tornerà – ho pensato – chissà se ha mangiato abbastanza”; ma la sua scomparsa mi aveva messo tristezza. E poi Giobat- ta comincia:

Cosa fai? E io: preparo per i pomidoro

Come, già adesso? Non è troppo presto? E io: li ho sempre messi in questo periodo E se viene un colpo di freddo? E io: questa piana è verso sud ed è ben riparata

Mi ero fermato, appoggiato al manico della zappa, e guardavo verso il ciliegio: magari il pettirosso, a sal- telli, si sarebbe riavvicinato. Giobatta continuava a girarmi attorno.

E quei solchi per cosa li hai fatti? E io: per le melanzane.

Come, cosi vicini? Ti verranno troppo fitte! E io: cresceranno un po’ di più in altezza, e poi mi faranno più ombra sul terreno, resta umido e ci crescono meno erbacce.

Mah – dice Giobatta – sarà … !

Il pettirosso non tornava. Perché non tornava, con tutto quel cibo che c’era ancora per lui, nel terreno!

Giobatta continuava:

Hai ancora le fave – come fanno ad essere ancora tenere, da novembre?

Le ho seminate a fine gennaio.

A gennaio? E i semi non soffrono?

Li metto un po’ più profondi.

Ma poi non germogliano!

Ci metto sopra uno strato di paglia, così non passa il freddo.

Che strano sistema!

Andò avanti così per un bel po’, facendo stupide osservazioni su come imbiancavo i porri, sulle cipolle che erano troppo scoperte, sul terreno preparato per il basilico che era troppo soffice … .

Questo suo modo di fare non l’avevo mai accettato, solo sopportato; ma quel giorno, quel 17 aprile, co-

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za dei miei solchi o la profondità delle fave? Chi è lui per dirmi di rincalzare le cipolle? Non lo sa, questo spilungone baffuto, che il mio è un orto PERFETTO? Ecco – mi dissi – tutto questo non mi piace: perché non c’è qui con me lo zio Bruno, la zia Celeste? E papà, e il nonno Angelino, dove sono, perché mi hanno lasciato solo?

Mi venivano dei brutti pensieri che m’ingarbugliavano la testa, come nei giorni di pioggia, e provavo delle strane emozioni sconosciute, la malinconia, che mi levava le forze, e lo sconforto di una solitudine che scoprivo per la prima volta o che avevo sempre ignorato; e mi rendevo conto che avevo l’orto, solamente l’orto, che era tutto il mio mondo e che vivevo solo per lui: vivevo in un mondo PERFETTO perché il mio orto era PERFETTO! Lì c’era tutta la mia storia, che non era iniziata con la mia nascita, ma con le prime pietre portate da nonno Angelino e con il suo primo colpo di zappa; a me sembrava una storia lunghissima, ma che io avevo vissuta tutta, anche quando non c’ero. Una storia sempre uguale nei suoi riti, instancabile, in cui erano passate tante comparse (molte non le avevo neppure conosciute, come la mamma) ma nella qua- le pareva che la morte non significasse nulla perché la mia storia era comunque dominata dalla costanza del lavoro e dalla rifiorire insistente, pervicace, dell’orto. Era lui che dava continuità alla mia storia, lui vinceva la morte.

Poi, un pensiero, uno solo, così semplice, così ovvio, mi si affacciò alla mente: Certo – mi dissi – è giu- sto così.

Giobatta stava guardando la piana di sotto, quella dove avevo appena messo le patate, e mi stava dicendo che gli sembrava avessi fatto dei solchi poco profondi, e quindi rincalzato troppo poco; io ero dietro di lui, appoggiato alla mia zappa, ma non lo ascoltavo perché ormai seguivo solo il mio pensiero, che mi aveva ri- portato ordine in testa, serenità, aveva ricostituito quel senso di pace a cui ero abituato.

Alzai la zappa all’altezza della mia testa, la ruotai indietro e la calai con tutte le mie forze contro quella di Giobatta. Lo presi nella tempia, con uno scricchiolio di ossa che si frantumavano, e lui cadde a terra senza un suono: per un attimo vidi muoversi una mano, un tremito a una gamba, poi più nulla.

Lasciai la zappa a terra e mi diressi verso casa: avevo fame, mi aspettava il minestrone tiepido, fatto quella mattina, ed ero soddisfatto.

Dopo aver sonnecchiato un po’ sotto il caco, sono tornato nell’orto; speravo che Giobatta fosse scompar- so, ma invece era ancora lì a terra, con mezza faccia di uno strano colore bruno. L’ho spogliato completa- mente e buttato tutta la sua roba su un piccolo falò, quello in cui brucio le canne rotte e l’erba, quindi ho di- segnato nella terra che avevo zappato una bella aiola all’incirca della sua misura (era alto, Giobatta, alto e magro) e l’ho scavata in profondità, ce l’ho disteso e poi ricoperto bene, pareggiando la superficie col ra- strello. Mentre stavo finendo, ecco che torna il pettirosso, curioso e affamato come sempre, e si mette a bec- care sull’aiola: Lì c’è un boccone troppo grosso per te – gli ho detto scoppiando a ridere - non sei ancora partito? Parti, vai al freddo a farti una famiglia, ma l’anno prossimo torna a trovarmi, mi raccomando;

troverai tanti di quei vermi…! Invita anche gli amici! E giù ancora a ridere.

Il sole stava ormai piegando verso il promontorio, su cui si erano fermati alcuni ciuffi rosa, e le ombre si erano allungate, come piacciono a me; mi sentivo proprio bene, tranquillo, con l’anima leggera. Andai in cantina a rovistare in uno scatolone dove tengo le sementi, e trovai quello che cercavo: così sparsi due buste di semi di bietole (quanto mi piace il polpettone, ma anche bollite e condite con olio e limone!) sull’aiola di Giobatta, rastrellai ancora bene, bagnai e me ne tornai a casa, anche perché cominciava a rinfrescare.

La mattina dopo Giobatta me l’ero già dimenticato, come la sua aiola: era lì, ma non ci facevo caso. Lui per me non esisteva più, e l’aiola era solo un cumulo di terra liscio e pulito, com’è giusto, ma nient’altro.

Non l’ho più guardata, l’ho ignorata: non faceva parte del mio orto PERFETTO. Ho piantato le melanzane tutt’attorno, in belle file regolari e ordinate, con un pizzico di concime ad ogni piantina, ma non troppo vici- no alle radici. Poi, dopo pranzo, mentre sonnecchiavo sotto il caco, arrivano due uomini in divisa nera, cre- do carabinieri, molto gentili, e mi chiedono se sapevo qualcosa di Giobatta, perché era scomparso.

Certo, è stato qui ieri verso metà mattina – ho detto io – poi se n’è andato, prima di pranzo.

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Trascorse tanto tempo, da quel giorno, più di due mesi, poi un giorno tornarono.

L’orto era esploso in una meraviglia di colori, e credo che non sia mai stato così bello come allora, quasi come il più bello dei giardini: io giravo tra i peperoni che sembrava abbagliassero col loro giallo sfolgorante e con un rosso così terso da potercisi specchiare; le melanzane pendevano a grappoli, lucide e perfette nella forma; e poi la piana di tutte le possibili insalate, in aiole esattamente allineate e alternate di colore, che sembrava una grande bandiera, con in fondo un’intera parete di cetrioli; e schiere di piselli, fagiolini e tacco- le, e aiole di basilico dal profumo così intenso da inebriare.

C’era sole forte quel giorno, e ogni tanto mi bagnavo la testa sotto l’acqua della fonte, che è più fresca di quella dell’acquedotto, per rinfrescarmi un po’, ma dopo pochi minuti ero già asciutto. Arrivarono nell’ora più calda, poco prima di mezzodì, e mentre tengo la testa sotto l’acqua mi sento salutare: Buon giorno si- gnor Remo. Mi tiro su dall’acqua tutto gocciolante e vedo che sono in tre, due in divisa azzurra, un po’ in- dietro, e uno, quello davanti, vestito come si fa di domenica, pantaloni blu e camicia bianca; ha una faccia simpatica, e mi sorride mentre mi viene incontro con la mano tesa: Il signor Remo, vero? Il signor Remo XXXXX?

Si, sono io – rispondo – vi serve qualcosa?

Oh no! Abbiamo solo bisogno di scambiare due parole con lei. Sa, a proposito del signor Giobatta, sem- bra proprio che sia scomparso, e lei è stato l’ultimo che l’ha visto. L’abbiamo cercato in tutta la campagna da qui a San Simone – sa, magari un malore – ma niente, sembra proprio scomparso.

E così restiamo lì in piedi sotto il sole, tra le melanzane, mentre lui mi racconta di tutte le ricerche fatte per ritrovare Giobatta, di tutti i posti in cui avevano guardato, di tutte le persone a cui avevano domandato.

Io intanto lo guardavo, cercando di capire perché da subito, da quando l’avevo visto, mi aveva fatto uno strano effetto. Era uno normale, alto come me, né bello né brutto, molto gentile, sempre sorridente, ma nulla più; eppure c’era in lui qualcosa che m’incuriosiva, qualcosa che sembrava volesse scavarmi nella mente, sollecitare qualche ricordo che non c’era, qualcosa di perduto che vuol farsi ritrovare, ma tu non lo sai. Mi sforzavo di capire, m’intestardivo seguendo quella strana emozione, ma niente, assolutamente niente. Co- munque mi piaceva quel tipo, simpatico, sicuro di sé, e anche coraggioso a starsene sotto quel sole a quell’o- ra senza niente in testa, mentre gli altri due erano rimasti sì nelle vicinanze, ma s’erano messi all’ombra del pero.

Mentre parla si guarda spesso attorno, curiosa con lo sguardo nel mio orto, ma con aria compiaciuta, non come faceva Giobatta: certo – mi dice ad un certo punto, interrompendo il suo discorso – certo che il suo orto è proprio una meraviglia; non ho mai visto nulla di simile, e un pochettino di orti me ne intendo. Per- ché non mi accompagna a fare un giro e mi illustra un po’ questo splendore? E mi sorride, sempre con quel suo fare amichevole che mi piaceva tanto. Abbiamo girato per almeno mezz’ora, sotto un sole sempre più cocente, tra porri e lattughe, zucchine chiare, scure, lunghe e corte, cipolle colore dell’oro e indivie, scarole, cetrioli, ravanelli e pomidoro, zucche di tutti i colori, sedani e peperoni. Tutto, ha voluto vedere tutto, ed era entusiasta. Poi, comincia a fare domande: ma, il prezzemolo quanto tempo ci ha messo a crescere così?

Quando lo ha seminato? E le indivie, e il lattughino da taglio, quando le ha seminate? Domande un po’

strane, a dire la verità, ma che forse, ho pensato, manifestavano solo l’incompetenza del profano, stordito dalla perfezione di quell’orto.

Ma io ero pronto ad accontentarlo: lo zio Bruno mi aveva insegnato a tenere un quadernetto dove segnare la data in cui seminavo: Ti servirà, vedrai, perché non c’è solo un buon terreno e un buon clima, ci sono an- che le buone sementi, e solo così potrai sapere quelle che germinano meglio, più in fretta, e danno una resa migliore. Era stata una buona abitudine, così buona che io il quadernetto me lo tenevo sempre in tasca, e al- lora lo tiro fuori e gli dico quando avevo seminato il prezzemolo, le indivie e il lattughino. Ma lui va avanti:

e quelle bietole là, quelle laggiù, vicino alle melanzane? Io guardo nel quadernetto e gli rispondo: Il 17 aprile.

Ero contento di me, avevo fatto una splendida figura!

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Lui tira fuori un’agendina piccola piccola, e comincia a sfogliarla; poi si ferma, la guarda con attenzione, guarda l’aiola di Giobatta e la rimette via. Mi sorride di nuovo: le posso chiedere un favore? Non potrei avere una bottiglia d’acqua? Sa, con questo caldo, anche i miei uomini… .

Acqua e vinella – dico io – non c’è niente di meglio per la sete. Vado a prenderla.

Quando ritorno con bottiglie e bicchieri, i due uomini non erano più sotto il pero, ma in piedi davanti al- l’aiola di Giobatta, affiancati, immobili, e lui non c’era più. Poi, uno si sposta su un fianco, e allora vedo che lui è inginocchiato sull’aiola, e con una mano si tiene un fazzoletto contro il naso; con l’altra regge qualcosa che esce dal terreno, un pezzo di braccio sporco di terra, secco e grigio, con in cima una grande mano ossu- ta. E’ Giobatta vero? – mi dice.

Certo – gli rispondo – certo che è Giobatta; ma non volete un po’ d’acqua?

Torniamo tutti sotto al pero, su quella comoda panca che aveva fatto lo zio Bruno, e beviamo acqua e vi- nella, come facevo con lui quando c’era.

Lui mi chiede di raccontargli di quel giorno, di quel 17 aprile; ha un’aria un po’ triste, ma non cattiva. Io sono tranquillo, finalmente all’ombra, e mentre beviamo gli racconto delle visite di Giobatta, di questo Gio- batta che non sapevo neppure chi fosse e che cosa facesse, delle sue domande indiscrete, dei suoi commenti acidi, delle sue critiche verso il mio orto PERFETTO; e anche, naturalmente, di quel gran colpo di zappa che gli avevo tirato sulla testa.

Povero Giobatta – dice lui – vedi, Remo…

Io penso che se ora mi dà del tu e non mi chiama più Signor Remo è perché siamo diventati amici.

Vedi, Remo, com’è strano il caso! Io Giobatta lo conoscevo, non benissimo, ma abbastanza – e poi ti dirò perché lo conoscevo; Giobatta era un contadino, uno come te, che faceva bellissimi orti: ne teneva tan- ti, a San Simone ma anche in paesi vicini, ed era richiesto per le sue capacità. Lui viveva così, era capace solo di fare orti; non ne aveva uno suo, e li faceva per gli altri, prendendo per sé una parte della produzio- ne che poi vendeva nei migliori negozi della città. Viveva modestamente, lavorando molto. Era molto bravo.

Come me – dico io – era bravo come me?

Qui è il problema – fa lui, e finalmente gli ricompare un leggero sorriso – tu sei il migliore, Remo, asso- lutamente il migliore: il tuo orto è stupefacente, direi PERFETTO, e Giobatta aveva ragione quando diceva che come il tuo non ce n’era uno uguale. Ti ammirava talmente tanto che mi confessò di tutte le volte che veniva a trovarti per cercare di scoprire qualche tuo segreto, di copiare qualche tua tecnica, di imparare quel poco che, sfuggendo a lui, gli impediva di ottenere degli orti come il tuo. Ma sai, era anche un po’ or- goglioso e non voleva che tu capissi il vero scopo delle sue visite, e allora si inventava delle obbiezioni, del- le critiche, tanto per sviare la tua attenzione sulla verità delle sue visite. Credo che a volte riuscisse anche ad essere antipatico, ma d’altra parte lui …, beh,… simpaticissimo non lo era!

Lo guardo in silenzio: non mi è facile seguire il suo discorso, e tanto meno capire questa storia di Giobat- ta che voleva carpirmi i segreti del mio orto PERFETTO. Segreti, quali segreti? Nella mia testa ci sono dei pensieri così semplici, così facili! E poi ce ne passa uno per volta, che mi costa anche tanta fatica portarlo fino in fondo; non potrei avere segreti, non ne ho mai avuti. Cosa potrei farmene io di un segreto? La vita è così naturale, così certa! Ti alzi all’alba, anzi un po’ prima se hai le mucche da mungere, poi fai un giro a controllare i germogli della vigna, le foglioline nuove degli olivi e poi vai nell’orto, e li fai tutto quello che devi fare; poi, nei ritagli di tempo, impasti il pane, prepari il minestrone, sgrani i fagioli, intrecci le cipolle, fai il pesto e il sugo di pomodoro. Dov’è la difficoltà? Dov’è il segreto? Io sono sempre stato sereno, forse anche felice, e la mia vita nell’orto è sempre stata bellissima, e non ho mai avuto bisogno di tenermi delle verità nascoste nel fondo della mente.

Restiamo in silenzio, seduti sotto il pero. Si comincia a vedere un poco più di ombra, e non abbiamo nep- pure mangiato, e allora vado a prendere una forma di pane e un mezzo salame, accompagnato dai due uomi- ni, che stanno sempre in silenzio.

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Quando torno da lui, glielo dico: sai, un segreto io veramente ce l’ho! Io tutte le sere, prima di andare a letto, prendo in mano una figurina che mi ha dato la zia Celeste, dove c’è sopra un bellissimo ragazzino con i capelli biondi e una pecorella, e prego che torni lo zio Bruno, che è tanto che è andato via, che maga- ri è morto e non me l’ha detto.

Ah – fa lui – lo zio Bruno! Papà me ne parlava spesso.

Lo guardo negli occhi, che ora sorridono, ma non capisco.

Anch’io ho un segreto, Remo, e ora te lo svelo.

Sono attentissimo: finalmente saprò cos’è un segreto.

Io sono Giovanni, anzi Quanito, sono il figlio di Giulio, di zio Giulio. Sono tuo cugino.

La testa mi si svuotò di colpo, per poi affollarsi di immagini della mia vita e di tutte le persone con cui avevo vissuto, alla ricerca di zio Giulio, ma zio Giulio non c’era. Li passai in rivista tutti, uno ad uno, cer- cando attentamente, anche nei particolari, nelle sfumature, ma niente. Rividi la nonna Maria, quella volta che, agitando la scopa, aveva inseguito nonno Angelino attorno a casa perché lui aveva rotto un fiasco di vino quasi pieno, e mentre lei gli sbraitava dietro lui rideva e le faceva le boccacce. E poi la zia Aida, con quel gran sedere bianco lassù, sulla scala a battere le olive, e la zia Celeste, che per insegnarmi i numeri mi faceva giocare tutte le domeniche a tombola, sul gran tavolo d’ardesia sotto il caco, e ogni volta mi dava una cartella in più, che alla fine non ci capivo più niente. Lo zio Bruno me lo rividi quella volta che mi aveva fatto tanto ridere, perché mi aveva detto di tirare il mio primo solco con la zappa (Mi raccomando, bello dritto!), e io l’avevo fatto; lui lo guarda e mi dice ridendo: Cosa facevi mentre tiravi il solco? Inseguivi una biscia? Poi mi ha insegnato a usare il cordino, anzi il lenzino, come lo chiamava lui. Avevo invece pochi ri- cordi di papà, perché non c’era mai ed era sempre silenzioso; e così l’immagine che mi arrivò in testa fu sempre quella della fotografia sulla sua vespa e lui in piedi, con una mano sul manubrio ed un sorriso stenta- to.

Ma mentre rivedevo nella mia memoria quella foto, ecco che questa lentamente svanisce e se ne sostitui- sce un’altra, tenuta in mano dalla nonna Maria che l’ha presa da un mazzo di lettere, nel primo cassetto del comò; pian piano ecco che il ricordo si fa preciso e presente, soprattutto nei particolari: il viso di lei, un po’

patito, e quel fagotto in braccio, e la nonna che mi dice: Quello è il loro bambino, il mio nipotino; si chiama Giovanni, ma dove sono loro lo chiamano Quanito.

Così mi alzo, vado da Giovanni, anzi Quanito, e lo abbraccio. Ti ho già visto sai – gli dico – avevi un buffo cappellino.

Dopo aver mangiato ancora un po’ di pane e salame, lui si alza e va a parlare con i due uomini, che sta- vano sempre nelle vicinanze. Mentre torna da me, uno va all’automobile e torna con una specie di lenzuolo che stende sull’aiola di Giobatta; l’altro si stacca dalla cintura una grossa scatola nera e ci parla dentro. Poi Giovanni mi racconta la sua storia: Quando papà e la mamma si sono sposati, si sono fatta una casetta a San Simone, anche se lui lavorava a Genova, che è un po’ lontana, ma dopo pochi mesi hanno deciso e sono partiti per il Cile, dove sono nato io in una bella città sul mare, Vina del Mar; papà faceva il cuoco in un grande albergo, e vivevamo bene, anche se la mamma era sempre più malata: sai, aveva la tubercolosi, ce l’aveva sin da ragazzina; poi è morta, quando avevo dodici anni. Papà non ha mai voluto risposarsi, benché gli girassero attorno in parecchie perché era abbastanza un bell’uomo e guadagnava bene; lui ha sempre voluto che studiassi e che parlassi l’italiano, al punto che mi mandava a scuola a Valparaiso, che è vicinissima, dove c’è una scuola italiana. Mi parlava sempre di questi luoghi, di San Simone e di questa casa: E’ il posto più bello del mondo – mi diceva – vedi gli olivi che entrano in mare, e c’è sempre uno splendido profumo di basilico. Aveva nostalgia, continuava a frequentare gente che veniva dall’Italia e

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mana nell’albergo di papà, e litigavano ferocemente, sempre in genovese, perché quello era sampdoriano, che per papà era peggio di una bestemmia in chiesa.

Poi non ce l’ha fatta più: quando ho finito le scuole, a diciannove anni, mi ha detto: Basta, abbiamo fatto abbastanza, non ce la faccio più: torniamo a casa. Tempo un mese siamo partiti, in aereo fino a New York, poi in nave, come fosse una vacanza…ma è finita male.

Siamo ormai nel pomeriggio; il sole è meno violento, ma dal terreno s’alza una gran calura. Lui abbassa lo sguardo, ma ho fatto in tempo ad accorgermi che ha gli occhi velati e tristi. Prosegue nel racconto: La mattina in cui dovevamo arrivare a Genova lui ha voluto alzarsi presto e mi ha trascinato con sé sul ponte, a prua. Godiamoci il ritorno a casa – mi ha detto, e ce ne stavamo lì guardando avanti, in attesa di scorgere qualcosa attraverso quella poca foschia che c’era. E difatti ecco apparire una strisciolina di terra, e in mezzo c’è una macchia bianca: E’ Genova – mi dice lui – siamo arrivati. Era felice, come non lo avevo mai visto, e mi sorrideva; ma poi, di colpo, il sorriso scompare: Ho freddo, e mi sento stanco – dice; subito dopo si porta una mano sul petto e si affloscia a terra.

Sento che la voce gli trema un po’; ho deciso che gli voglio bene, a mio cugino Giovanni, e che un’altra volta che verrà a trovarmi gli chiederò di raccontarmi della nave, che io le ho sempre viste passare, lontano, ma non so come sono fatte.

Infarto – prosegue lui – un infarto violento, terribile; è morto subito, neanche il tempo di portarlo in in- fermeria.

Tace per qualche minuto, poi scuote la testa come a cacciar via brutti ricordi.

Beh, per fortuna ero giovane e parlavo bene italiano; qualche soldino ce l’avevo, perché quando papà e mamma sono partiti per il Cile la casa di San Simone non l’hanno venduta, ma l’hanno affidata ad un avvo- cato perché si occupasse di affittarla e tenerla in ordine. E sai a chi l’ha affittata? Proprio alla famiglia di Giobatta, che poi è rimasto solo ma ha continuato a vivere lì. Io mi sono trovato un buco a Genova, mi sono iscritto a legge e dopo la laurea sono entrato nella polizia. Ho girato un po’ di commissariati e ora…ora eccomi qua.

E’ tornato a sorridere, finalmente, ed ha di nuovo gli occhi luminosi. Ecco, ora sì, ora mi ricordano quelli di nonno Angelino, e anche quella strana attaccatura dei capelli, così indietro e rotonda quasi a fare un semi- cerchio, non ce l’aveva così anche papà?

Mi sembra di sentire in lontananza una sirena: Sarà un’ambulanza – gli dico – speriamo che nessuno si sia fatto male.

Si, dev’essere un’ambulanza – mi risponde; poi mi prende sottobraccio e ci avviamo verso casa, mentre continua a guardarsi attorno.

Hai proprio un bell’orto, veramente magnifico: complimenti, sei bravissimo, sono contento di avere un cugino così!

Erano ricomparsi i due uomini, e ci seguivano a distanza, mentre la sirena mi sembrava più vicina.

Vero che è bello? – gli dico io; sono molto emozionato, e così lo abbraccio nuovamente, e lui mi sembra contento: Credo che sia perfetto, un orto perfetto.

Sì, quasi – fa lui – quasi perfetto. Vedi Remo, io sono venuto da te quasi certo che Giobatta fosse scom- parso qui, perché non c’erano molte alternative; eravamo tutti sicuri che da qui non fosse mai venuto via, perché aveva detto che veniva da te, ed era stato visto salire per la tua stradina. Ma non avevo nessuna prova che fosse veramente qui, non l’avevo finché non ho visto il tuo orto.. .

Il mio orto? Mi fermo di colpo, come fulminato. Cos’ha che non va il mio orto! E’ bellissimo, è il più bello!

Appunto – mi dice lui, e mi riprende sottobraccio mentre mi porta verso l’aiola di Giobatta – è bellissi- mo, talmente bello che un’aiola così non ci può stare; tu non puoi coltivare in questo modo un’aiola di bie- tole!

La guardo, e mi rendo conto che la sto osservando per la prima volta da quel 17 aprile. L’avevo sempre ignorata, come se non esistesse, e quindi non me n’ero mai occupato. Le bietole erano cresciute in un disor- dine totale, accavallate l’una all’altra, frammiste ad erbacce orrende che si erano avvolte alle piantine; e le

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foglie erano brutte, non di quel bellissimo verde cupo che dovrebbero avere, ma piccole, giallastre, cosparse di bolle, ormai moribonde.

No, Remo, tu sei troppo bravo per fare una cosa del genere; se uno vede il tuo orto, capisce che qui, in quest’aiola, è successo qualcosa di strano

Sono in piedi davanti al lenzuolo che c’è stato steso sopra, sulla parte dove c’è Giobatta; Giovanni mi mette una mano sulla spalla, e la sirena mi sembra che sia ormai all’ultima curva del paese.

Mi è venuto subito il sospetto, perché era una cosa troppo anormale; ma non volevo ancora metterci le mani, speravo di sbagliarmi. Purtroppo la conferma me l’hai data tu, quando mi hai detto che qui avevi se- minato il 17 aprile: non solo è il giorno in cui Giobatta è scomparso, che potrebbe anche essere una coinci- denza, ma…

S’infila una mano in tasca e tira fuori quella piccola agendina che gli avevo visto maneggiare la mattina;

la sirena è su per la strada, e sento che sta venendo a casa mia: chissà cosa vorranno, qui non è successo mica niente!

Ma vedi, sai cos’è che mi ha convinto? Qui, nel calendarietto della mia agenda, ho visto che quel gior- no, il 17 aprile, è…

E’? – dico io, incuriosito più che mai – cos’è il 17 aprile? Un venerdì, che porta male?

No, Remo, no – mi ha ripreso sottobraccio e ci stiamo dirigendo verso la casa; è arrivata l’ambulanza, e dietro un’altra auto dalla polizia – venerdì 17 non porta male, è seminare le bietole con la luna nuova che porta male, e il 17 aprile era il secondo giorno della luna nuova, luna crescente insomma; infatti si notano subito, tutte allungate e costolute, tutto gambo e niente foglie, dure e con un insignificante fiore giallastro in cima. Chi mai farebbe un errore del genere, meno che mai chi ha un orto come il tuo, un orto PERFET- TO!

Dall’ambulanza sono scesi in tre, e portano una specie di barella verso l’aiola di Giobatta. Ora è pieno di poliziotti, alcuni con macchine fotografiche, e mi guardano incuriositi. Lui mi porta verso la sua auto.

Andiamo via – gli dico – ma dove andiamo?

Dobbiamo andare giù in città, Remo, per un po’ di tempo.

Ma io devo bagnare le zucchine questa sera, è il loro turno!

Non preoccuparti, Remo, ci penserò io alle tue zucchine. Vieni, sali.

Io salgo in auto, e due dei poliziotti che erano appena arrivati mi si siedono affianco.

E voi – gli dico – non lo volete vedere il mio orto? E’ bellissimo, è il più bello di tutti: è PERFETTO!

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La mia storia l’ho scritta e l’ho data a Gianluca; lui l’ha letta, e mi ha detto che è bellissima ma molto triste, e questo proprio non lo capisco. Mi ha anche detto che la darà da leggere al dottor Riccardi, che qui da noi è un po’ il capo, è quello che ci porta nel suo studio e ci fa raccontare quello che ci pare e piace; lui dice che è per il nostro bene, perché così capisce come stiamo di salute e magari siamo guariti. Io continuo a dirgli che sto bene, ho solo un po’ di mal di schiena che mi è venuto da quando non zappo più il mio orto:

lui allarga le braccia e mi dice che non sa cosa farci, di rivolgermi all’infermeria, ma io lì non ci vado più perché una volta che c’ero ho visto che tenevano sulla finestra una piantina di basilico tutta stentata, con delle foglioline piccole verde chiaro chiaro che odoravano di menta, e allora gli ho detto cosa fare per ti- rarla un po’ su, ma loro non mi hanno dato ascolto e poi la piantina è morta.

Comunque sono contento perché tra un po’ è Natale e anche quest’anno verrà a trovarmi mio cugino Giovanni, che poi si chiama Quanito, che mi porta sempre dei regali, come un bel calendario dell’anno nuovo con tutte le cose da fare nell’orto, mese per mese: cosa seminare, come potare i peri, quando legare la vigna (ma mi hanno detto che non si trovano più i rametti di sambuco, e allora come si fa?), e poi ci sono tutti i cicli lunari, che per l’orto sono importantissimi e bisogna seguirli attentamente, anche se dicono che non è vero, che è una leggenda, ma io posso assicurare che è vero.

Ma c’è un altro motivo per cui sono contento: mi ha detto Gianluca, in gran segreto, che stanno pensan- do di farci fare un orto nell’angolo in fondo del parco, dove c’è il ruscello; a me sembra proprio una buona idea, e anche il posto sarebbe giusto, perché è in mezz’ombra e c’è l’acqua. Però mi ha detto che io mi oc- cuperò di organizzarlo e dirigerlo, dire quello che bisogna fare, cosa piantare e quando; Ma perché – gli ho detto - io non ci posso lavorare? Tra l’altro mi passerebbe il mal di schiena!

No Remo, è meglio di no – mi ha risposto lui sorridendo – è meglio che tu la zappa in mano non la pren- da più!

Ma non ho capito perché …!.

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