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Problemi teorico-metodologici del concetto di merito : inganni dell oggettività e paradossi della performatività

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Academic year: 2022

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Problemi teorico-metodologici del concetto di “merito”: inganni dell’oggettività e paradossi della performatività

di Stefano Nobile

Prima di arrivare ad essere usato come grimaldello in una versione sinonimica di “giustizia sociale”, il concetto di merito – e, con esso, quello di meritocrazia – ha conosciuto una traiettoria che lo ha spostato su accezioni che, da quella originale, ne hanno in seguito decretato le alterne fortune e l’appropriamento da parte di ideologi e forze politiche, fino ad approdare nel lessico della nuova sinistra. Partiamo dunque proprio dall’etimologia del termine per capire come esso possa avere in seguito assunto coloriture tanto diverse e quali ricadute abbia in qualità di strumento ingannevole rispetto alla possibilità di essere definito come elemento oggettivante in fase di competizione su un bacino non illimitato di risorse.

Merito è una parola che deriva dal greco meiromai (“ricevere la propria parte”, “ciò che spetta”), che non è altro che un diverso grado apofonico di un termine greco che sta per mortale. Mortale, dunque, come colui a cui “viene assegnata la sua parte”, come elemento che rende uguali i destini di tutti gli uomini (‘a livella della nota poesia di Totò), che ci accomuna senza distinzioni.

Dal greco il termine è transitato nella lingua latina, diventando meritum, cioè ricompensa, premio, a sua volta originato da mereri, ossia – ancora – ottenere una parte, una porzione. Il merito entra quindi fin dalle sue origini in un ambiente semantico che lo connota da un punto di vista morale, poiché con esso si intende il riferimento a un sistema di premi (“ti meriti una medaglia”) e punizioni (“ti meriti il castigo divino”) conseguenti all’operato individuale.

Al tempo stesso, il concetto subisce un’ulteriore sfumatura: quella che, in qualche modo, lo condurrà ad essere usato come rampa di lancio per la presunta oggettivizzazione dei processi valutativi relativi, appunto al merito. Questa declinazione è quella che richiama l’uso della parola nel senso di “entrare nel merito”, ossia tematizzare l’essenza di una cosa, il suo nocciolo, la sua parte più intima e profonda, quella che, appunto, merita reale considerazione.

Parcheggiato a lungo nell’alveo del discorso etico, il concetto di merito viene sussunto in quello di meritocrazia grazie a Michael Young. In un’opera satirica di fantasociologia chiamata The rise of meritocracy, scritta alla fine degli anni ’50, il sociologo britannico avvertiva – attraverso un

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espediente letterario ingegnoso – che stavamo correndo il rischio di rimpiazzare i privilegi basati sul censo e l’appartenenza di classe con quelli basati sull’ingegno. Non a caso la sua opera era centrata sull’istituzione educativa. E non a caso proprio a quella istituzione ha fatto sfacciatamente e insistentemente richiamo una delle massime paladine della meritocrazia, Maria Stella Gelmini, la quale – quando era Ministro dell’Istruzione – ha firmato con Roger Abravanel un programma denominato Piano nazionale per la qualità e il merito. Abravanel aveva da poco dato alle stampe un libro intitolato Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (sic): quello stesso Abravanel che – riprendendo Young – lo aveva completamente distorto dimostrando di non avere capito granché dello spirito del sociologo inglese.

D’altronde, la lingua ci mette continuamente di fronte agli slittamenti semantici, come è avvenuto nel passaggio del concetto di meritocrazia dalla critica serrata di Young all’elegia di Abravanel. Introducendo il duplice meccanismo della valutazione e della misurazione, Abravanel ammanta con un’aura di presunto oggettivismo e, verrebbe da dire, di scientismo, il suo progetto di radicamento delle disuguaglianze sociali. Un progetto talmente ben riuscito da essere persino percepito come autoevidente con la stessa disinvoltura con cui, tre secoli fa, si sarebbe detto che i bianchi sono intrinsecamente superiori ai neri. Il concetto di meritocrazia è uno dei grimaldelli più efficienti sui quali si sta da tempo facendo leva per dare una veste “giusta” alle disuguaglianze sociali, per due vie: decretando che cosa debba essere valutato e come. Fa specie che ai sostenitori acritici della meritocrazia sfugga tanto l’enfasi gelminiana quanto, dalla sponda opposta, sia il celeberrimo motto di Marx (1875) – “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni” – sia la lezione della scuola di Barbiana, che dell’istituzione scolastica rifiutava proprio l’aspetto meritocratico, quello fondato sullo svantaggio delle posizioni di partenza.

Per i suoi pretoriani, il concetto di meritocrazia diventa inevitabilmente sinonimo di obbedienza e dovere, «perché presuppone una legittimazione discrezionale da parte di qualcuno che occupa una posizione gerarchica superiore, o esercita un potere politico» (Boarelli, 2010; cfr. anche Barone, 2012), alimentando così un’incruenta affermazione autoritaria di destra per poi proporsi come «un alibi morale e una definitiva legittimazione delle disuguaglianze» (Solimine, 2014). Per non dire poi della legittimazione dei valutatori, chiamati a gestire il “cosa” e il “come”, in un’ottica che – in qualsiasi campo, dal lavoro all’istruzione – ha equiparato indissolubilmente le attività umane ad attività mercificabili, in barba al primo articolo dello statuto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che stabilisce che “il lavoro non è una merce”.

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Ben prima di Abravanel, fu Daniel Bell (1972) ad accogliere il concetto di meritocrazia come la panacea che avrebbe ristabilito equità sociale. Per Bell l’utopia meritocratica non era altro che l’esito naturale della società postindustriale, l’elemento che avrebbe contribuito a garantire le pari opportunità per tutti, senza considerare due punti cruciali: che la società postindustriale stava virando, con la benedizione del neoliberismo, verso un modello fortemente competitivo e che la presunta utopia meritocratica non sarebbe stata affatto di garanzia perché la competizione – a partire dall’acquisizione di competenze scolastiche – non avrebbe mai e poi mai messo tutti nelle stesse condizioni di partenza. In questo senso, paradossalmente una società meritocratica finisce con l’essere persino peggio di una società ascrittiva. Come scrive Karabel (1972, p.42), quest’ultima, perlomeno, «non costringe i meno fortunati a interiorizzare il proprio fallimento». In questo modo, come sottolinea Coniglione (2014), si prendono « due piccioni con una fava: l’insistere sul merito lusinga la classi subalterne con una apparenza di democrazia e di possibilità di riscatto; al tempo stesso costituisce uno specchietto per le allodole per gran parte delle élites intellettuali, che da tale degenerazione della vita democratica e del sistema di mobilità sociale subiscono le maggiori conseguenze negative, in quanto il loro ruolo viene sempre più eroso a favore di coloro che godono anche del privilegio sociale (amicizie, conoscenze, network sociali favorevoli ecc.) perché membri organici del ceto dirigente».

Ma perché, dunque, l’idea di una società meritocratica ha avuto, da un certo momento in avanti, tanta fortuna? Perché è stata inglobata così acriticamente anche nel lessico della sinistra quando, come dimostrano sia la satira sottesa all’opera di Young quanto le aspre critiche di un osservatore acuto come Lasch (1995), la meritocrazia è uno degli emblemi della cultura conservatrice, tutta intenta a mantenere le differenze di classe e, quindi, di opportunità?

Che ciascuno debba essere ricompensato secondo i propri meriti e il proprio impegno sembra essere un’idea talmente lapalissiana da non richiedere neppure una riflessione e, quindi, già di per sé facile da accogliere alla stregua di un truismo. Barone (2012, p. 30) suggerisce che la grossa attrattiva suscitata dalla meritocrazia risiede nella capacità di avere coniugato abilmente «equità sociale ed efficienza economica». In questo senso, la meritocrazia sarebbe il più calibrato viatico possibile per ottenere il meglio tanto da chi è impegnato nel sistema scolastico, quanto da chi lo è in quello lavorativo, incentivando le persone alla maggior produttività possibile (efficienza economica) e al tempo stesso remunerandole equamente (equità sociale). Un caso eclatante che avrebbe dovuto o quanto meno potuto suonare come campanello d’allarme rispetto alle pretese utopistiche che la meritocrazia vorrebbe avallare è quello della Cina

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imperiale. Prima che fosse introdotto il criterio meritocratico, vigeva un sistema nepotistico per il reclutamento dei mandarini, ossia i burocrati di alto rango a servizio dell’imperatore. L’introduzione dei criteri meritocratici, che garantivano prove difficilissime con assegnazione di codici numerici che rendevano impossibile l’identificazione della singola persona, produsse tuttavia una distorsione, se possibile, peggiore di quella del nepotismo. Quegli esami, infatti, richiedevano una lunghissima preparazione, l’assunzione di tutori e una grande quantità di tempo libero.

Risultato? Soltanto i figli dei grandi proprietari terrieri riuscivano ad assicurarsi un posto come mandarino, poiché gli altri, non avendo sufficiente tempo né denaro a disposizione, di fatto ne erano esclusi. Un esempio perfetto, dunque, di applicazione dei criteri meritocratici che risultano al tempo stesso perfettamente iniqui.

Il caso dei mandarini della Cina Imperiale offre un ottimo punto di partenza per osservare le incongruenze del principio meritocratico, elevato, nel nostro Paese, a incontestabile principio autoevidente.

Il problema cruciale che non viene quasi mai focalizzato nel dibattito pubblico è quello della parità delle opportunità. Applicare il principio meritocratico senza tenere conto delle disparità di opportunità in campo equivale a sancire il regolamento di una gara di corsa dando ampio vantaggio ad alcuni e lasciando indietro gli altri. Nella visione fantasociologica di Young, il merito non è altro che la semplice addizione di intelligenza e impegno. Se l’intelligenza (leggi, più estesamente, talento) mette le persone in condizioni disuguali di partenza, l’impegno sembra avere un carattere più equo e, per così dire, morale. Di nuovo: se ti impegni di più, è giusto che tu riceva una maggiore ricompensa. Il problema, a ben vedere, è l’indissolubilità tra i due elementi. A parità di impegno profuso, la maggiore o minore dotazione di talento metterà le persone in condizioni diverse di “gara”. Tornando all’analogia con la gara di corsa, richiamata anche da Schaar (1967, p.228), è come mettere a gareggiare Bolt insieme a un cinquantenne, a una persona sovrappeso, a una donna e a un cardiopatico.

Un ulteriore aspetto da considerare è quello riconducibile alle riflessioni di John Rawls (1971), il filosofo assurto a fama mondiale grazie ai suoi scritti sul tema della giustizia. I punti salienti del suo discorso che qui ci interessano sono due: uno legato agli effetti perversi del talento (che, si ricorderà, è uno degli ingredienti imprescindibili che entra nel discorso meritocratico), l’altro alla logica redistributiva che deve presiedere a qualsiasi tentazione di applicare principi meritocratici. Rispetto al primo, premiare il talento a prescindere dalle ricadute di questo sulla collettività, significa correre il grosso rischio di ricompensare anche le forme distorte di talento: il manager strapagato che manda allo sbaraglio gli operai tramite le

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sue decisioni spericolate; il broker che rastrella affari lucrosissimi mandando in miseria torme di persone. In questa prospettiva, Rawls insiste affinché si affermi una giustizia procedurale che garantisca la possibilità di prescindere dalle azioni individuali e, quindi, dai moventi dei singoli. Il secondo punto chiama in causa, si passi la forzatura, la visione socialista intrinseca alla lettura di Rawls: il talento, per essere premiato, deve avere una ricaduta collettiva. Si tratta di una visione opposta rispetto a quella più in voga, accolta ormai da tempo anche nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra. Dove lì si premia il merito, attribuendo ad esso una valenza morale che ammanta l’operato del singolo, lì, in Rawls, lo sguardo va al talento capace di produrre merito e dunque vettore di beneficio collettivo.

A ben vedere, una simile prospettiva prende le dovute misure dalla quella lettura che non fa altro che ratificare se non addirittura rafforzare le disuguaglianze sociali. Vista in quest’ultima prospettiva, la meritocrazia rappresenta la strada per generare l’effetto San Matteo sulla base di talento ed impegno, dimenticando che il primo è innato e che il secondo dipende da una congerie di variabili strutturali: «a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Vangelo secondo Matteo; versetto 25, 29). A questo riguardo, e proprio con riferimento a quanto avviene nell’istruzione – trampolino dell’applicazione dei principi meritocratici, vale la pena di ricordare l’analisi che Jerome Karabel, in un saggio intitolato The Chosen. The Hidden History of Admission And Exclusion at Harvard, Yale, And Princeton, condusse sui criteri di ammissione alle principali università della Ivy League e sui mutamenti che queste fecero registrare negli ultimi 150 anni. L’autore mette in luce il fatto che da un lato i docenti cercassero studenti più “facili” da formare e quindi – come illustra Mariuzzo (2014) – «già avanzati nella preparazione generale e provenienti da istituzioni scolastiche omogenee per programmi e di provata fama». Dall’altro lato, Karabel fa anche notare che i vertici amministrativi di questi atenei ricavavano a loro volta un’ulteriore marchio di qualità dalle carriere dei laureati migliori, che gli ex allievi spesso fanno dipendere il loro interessamento economico dalla facilità con cui i loro figli possono entrare nell’ateneo, che le fondazioni pubbliche e private finanziatrici di queste università dimostravano una forte inclinazione a pagare quote più alte per atenei che garantissero la possibilità dei loro laureati di rendere l’investimento e così via. Proprio nella patria che ha sempre esaltato il valore delle pari opportunità e ha foraggiato il mito del self made man, ecco riprodursi – su un fondamento falsamente meritocratico – il perdurare delle disuguaglianze e l’impedimento più eclatante alla reale possibilità di prendere l’ascensore sociale, quello che passa per la scuola e la formazione. In questo senso, il sistema meritocratico statunitense è

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l’emblema della conservazione delle disuguaglianze, la culla del perpetuarsi dei vantaggi a favore dei WASP.

In conclusione, dunque, per tutte le ragioni succintamente esposte, la meritocrazia è una forma ingannevole di equità sociale, rivestita da una spessa patina di morale, accolta ormai da tempo – come si diceva – anche nei ranghi ideologici della sinistra. Il fatto che il merito debba essere incentivato con delle ricompense, ha peraltro anche degli effetti perversi, come in parte abbiamo già visto: non solo perché questo sistema di valutazione dell’impegno può spingere i dipendenti (soprattutto quelli pubblici) verso forme di resistenza, ma anche perché rischia di produrre risultati paradossali e perniciosi, come quello documentato da Heckman, Smith e Taber (1996). Essi studiarono un programma statunitense di formazione professionale, nel quale venne introdotto un sistema di incentivi che premiava gli impiegati che riuscivano a trovare più impieghi per i loro utenti. Il risultato, ancora una volta paradossale, fu quello che gli impiegati puntarono soprattutto sugli utenti con curricula migliori, più occupabili, trascurando così quelli con maggior bisogno di formazione e occupazione.

Ancora una volta, il sistema di incentivi sul merito mostra le sue falle e i suoi effetti perversi, che vanno a detrimento della collettività. Nelle valutazioni che si fanno sul merito, inoltra, spesso si trascura di considerare gli effetti collaterali ai quali il sistema di premi e punizioni dà adito, ossia il fatto stesso che questi meccanismi possono spingere le persone, per dirla con Merton, a comportamenti rinunciatari se non anomici o antagonisti rispetto ai mezzi e ai fini culturalmente diffusi.

Analogamente, il sistema di punizioni, tale per cui chi produce meno viene additato come “fannullone”, ha importanti conseguenze non soltanto sul piano pratico, ma anche su quello simbolico. È infatti possibile che la reazione non sia quella di investire più energie nella competizione, bensì il suo contrario: ritirarsi da essa. Le conseguenze che ne derivano sono evidenti e hanno ricadute sull’intera collettività.

Il principio meritocratico è dunque inapplicabile finché si continua a confondere la causa (l’impegno) con l’effetto (la produttività), finché si legge in essa un corrispettivo in termini di beneficio economico e fino a quando non si penserà a pareggiare le condizioni di partenza, attraverso una redistribuzione delle risorse o un bilanciamento degli incentivi che, necessariamente, dovrà prendere in considerazione i molti parametri che rendono possibile l’impegno in caso di condizioni di vita impari.

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