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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

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Academic year: 2022

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. L’IMPUTAZIONE.

Gli odierni imputati sono stati tratti a giudizio in primo grado davanti al Tribunale di Rovigo, sezione distaccata di Adria, per rispondere (anche a seguito di contestazione suppletiva) dei reati di:

a) getto pericoloso di cose, continuato e in concorso (art. 674 c.p.) b) danneggiamento aggravato, continuato e in concorso(art. 635 c.p.)

c) omessa adozione, continuata e in concorso, di misure per evitare il peggioramento delle emissioni atmosferiche (art. 13 comma 5 e 25 comma 7 DPR 203/88)

d) superamento, continuato e in concorso, dei valori di emissione stabiliti dalla normativa regionale (art. 25 comma 3 DPR 203/88)

e) inosservanza delle prescrizioni dell’autorità, continuata e in concorso, nell’esercizio di un impianto fonte di emissioni (art. 25 comma 2 DPR 203/88).

Si anticipa fin d’ora che in ordine al capo E tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste, e che sul punto non vi è stata alcuna impugnazione. Tale capo della sentenza, pertanto, è passato in giudicato. Oggetto dell’appello sono solo le condanne in ordine ai capi A, B, e C, e l’assoluzione in ordine al capo D, impugnata dal Ministero dell’Ambiente costituitosi parte civile.

Tutte le imputazioni si riferiscono ad emissioni in atmosfera prodotte dalla centrale termoelettrica di Porto Tolle, situata nella frazione di Polesine Camerini, costruita negli anni ’70, e alle seguenti qualifiche rivestite dagli imputati:

periodo A.D. e Dir. Gen. ENEL Direttore della Centrale

fino al 23/5/02 Tatò Zanatta

dal 24/5/02 al 30/6/04 Scaroni Zanatta

dal 1/7/04 in poi Scaroni Busatto

Il capo A concerne emissioni in atmosfera di gas, vapori e fumo contenenti agenti inquinanti, ed in particolare una serie di nove episodi definiti di “ricadute oleose”, compresi tra il 18.4.99 e il 15.9.05.

Secondo l’accusa, tali eventi sono avvenuti a causa delle seguenti condotte: impiego, nelle prime tre sezioni della centrale, di olio combustibile ad elevato tenore di zolfo fino al 31.12.02, e dopo tale data a BTZ (mentre solo la quarta risulta, dal 7/11/00, “ambientalizzata”, così da poter impiegare combustibile STZ, ed essere in linea con la normativa, in particolare con il D.M. 12.7.90); assenza di adeguato sistema di depurazione; violazione della normativa regionale vigente dal 1997, che stabiliva l’alimentazione a metano; sotto-utilizzazione dell’unica sezione “ambientalizzata”;

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mancata adozione delle migliori misure tecniche ed organizzative di prevenzione e contenimento, con particolare riferimento alle condizioni climatiche più sfavorevoli; inadeguato monitoraggio esterno della qualità dell’aria; infine, negli anni 2003-2004, violando (Scaroni, Zanatta e Busatto) il decreto interministeriale 13.6.03, che prescriveva limiti di producibilità di energia elettrica per le sezioni 1, 2 e 3.

Il capo B concerne danneggiamento (aggravato ai sensi dell’art. 635 nn. 3 e 5 c.p.) perché, con le condotte descritte al capo A, sarebbe stato cagionato danneggiamento:

dell’ambiente circostante, nel quale la flora (compresa anche in aree verdi demaniali e nel Parco Regionale del Delta del Po) nel raggio di 25 Km. dalla centrale (e più intensamente tra 10 e 15 Km.

in direzione S-O) avrebbe subito alterazione della biodiversità, e bioaccumulo di inquinanti;

di una serie di cose, mobili ed immobili, esposte alla pubblica fede, appartenenti a privati cittadini e ad enti pubblici, dettagliatamente elencate in imputazione, che sarebbero state imbrattate irrimediabilmente, intaccate e corrose dalle “ricadute oleose” descritte al capo A.

Il capo C concerne la mancata adozione, nelle more del rilascio dell’autorizzazione definitiva, delle misure necessarie ad evitare un peggioramento anche temporaneo delle emissioni, peggioramento che si sarebbe avuto sia con i descritti episodi di “ricadute oleose” rispetto alle giornate precedenti, sia perché comunque, nel periodo tra il 1999 e il 2005, le emissioni di SO2 (ossido di zolfo), NO2 (ossidi di azoto) e polveri, anziché progressivamente migliorare nel tempo, avevano subito dei temporanei peggioramenti rispetto alla media del periodo considerato.

Il capo D concerne il superamento dei limiti di emissione previsti dalla normativa regionale (leggi regionali del Veneto nn. 36/97 e 36/99) che, imponendo l’alimentazione a gas metano, implicitamente avrebbero vietato il superamento di quei valori di emissione che si sarebbero ottenuti utilizzando tale combustibile.

Si omette ogni ulteriore esplicazione sul capo E per i motivi già esposti (passaggio in giudicato della relativa statuizione).

2. LA SENTENZA DI PRIMO GRADO.

2.1 Capo A (art. 674 c.p.). Le ricadute

La sentenza impugnata, dopo un’ampia descrizione, contenuta nella prima parte, delle caratteristiche e modalità di funzionamento della centrale, e del suo adeguamento alle normative contro l’inquinamento atmosferico succedutesi nel tempo a partire dal DPR 203/88 (che si

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riprenderanno per quanto necessario ad illustrare i motivi della decisione), procede ad esaminare i singoli reati contestati agli imputati secondo una summa divisio, che è quella tra tipi di evento, ossia da un lato le cosiddette “ricadute oleose” (che in realtà oleose pare non siano, come si vedrà), di cui tratta la seconda parte della sentenza, e dall’altro le “emissioni ordinarie”, di cui tratta la terza parte.

Nella presente sentenza si ritiene invece opportuno, per maggior chiarezza espositiva, esaminare i capi di imputazione nel loro ordine alfabetico, distinguendo per ciascuno di essi, laddove rilevante, il tipo di evento contestato, e salvi i successivi richiami, in ordine ai capi esaminati dopo, agli eventi già descritti.

Per quanto concerne il reato di cui all’art. 674 c.p., il giudice di primo grado ha ritenuto che il fenomeno delle “ricadute oleose” integri la prima ipotesi contemplata dall’art. 674 c.p., ossia quella di chi “getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone”, mentre il fenomeno delle “emissioni ordinarie” integri la seconda ipotesi, ossia quella di chi “nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”.

In ordine al primo fenomeno, la sentenza impugnata, in base alle consulenze tecniche, ne ricostruisce le cause nel depositarsi sulle pareti del camino di parte delle ceneri di combustione (un’altra parte viene trattenuta dagli elettrofiltri, ed una terza fuoriesce dal camino formando le

“polveri” che sono un elemento delle emissioni). Tali aggregati carboniosi, pur aderendo, in un primo momento, alle pareti del camino, a causa di variazioni della temperatura (shock termici) che causano dilatazioni o contrazioni delle lamiere, si frantumano, e, sotto forma di scagliette dette

“smuts”, vengono trascinati all’esterno. Qui, successivamente, abbinandosi all’umidità e a particelle di acqua presenti nell’aria, danno forma a goccioline di acqua apparentemente oleose, che ricadono al suolo in un raggio (se provenienti dalla Centrale) di circa 800 metri dal camino. Essendo indubbio che nella zona fenomeni di tali ricadute siano avvenuti, poiché ampiamente testimoniati e documentati fotograficamente, la sentenza ritiene provato oltre ogni ragionevole dubbio che i fenomeni in questione siano provenienti dalla Centrale, cosa questa contestata dalla difesa degli imputati, che sostiene la possibilità di spiegazioni alternative.

Secondo il giudice di primo grado vi è anzitutto, secondo quanto riferito dal CT Montanari, corrispondenza morfologica e chimica tra i detriti in questione e il particolato trovato nella Centrale, e sono superabili le obiezioni in contrario mosse dai consulenti della difesa (punto 4.4.3); inoltre, tutti i fenomeni di ricaduta avevano caratteristiche comuni costanti, in contrasto con l’ipotesi di una diversità di fonti inquinanti, e precisamente: tutte le ricadute sono avvenute nel raggio di 800-1000 metri al massimo dalla Centrale, tutte sono consistite in una pioggerellina nera fine, la maggior parte di esse è avvenuta di notte, di lunedì, dopo l’avviamento di uno dei gruppi della centrale, e,

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quando è stato possibile effettuare il riscontro, le ricadute sono risultate ricollegabili a fenomeni di emissioni anomale della centrale; per alcune ricadute è accertata direttamente, e non tramite indizi, la provenienza del particolato dalla centrale (si tratta di quei casi, di cui al capitolo 5, in cui i testi hanno dichiarato di aver visto uscire una nuvola di fumo dal camino e subito dopo cadere le macchie “oleose”); non sarebbe infine provata l’esistenza di situazioni meteorologiche incompatibili, con particolare riferimento al vento, come sostenuto dalla difesa; non sono infine risultate provate possibili fonti alternative, che la difesa ha indicato nei motori diesel delle imbarcazioni, negli incendi di residui delle coltivazioni agricole e di piante infestanti, e negli essicatoi di foraggi, oltre che (ma più genericamente) in altre attività domestiche e commerciali.

La sentenza si sofferma poi ad esaminare partitamente ciascuno degli episodi di ricaduta contestati nel capo di imputazione (od oggetto di contestazione suppletiva, come quello del 20.5.02), evidenziandone gli elementi che inducono a ritenere provata la riconducibilità di tali episodi a fuoriuscite dal camino della Centrale ENEL (e con particolare dovizia di dettagli per l’episodio del 24.5.02, il più dotato di riscontri) con la sola precisazione, per quanto riguarda l’episodio del 15.9.05, che il giudice di primo grado ritiene che la ricaduta in questione non provenisse dal camino centrale, ma da una sorgente secondaria (visibile anche in alcune foto riferite ad altri episodi) la cui esatta identità, si afferma, non è stata accertata per la reticenza del personale della centrale.

Il giudice di primo grado ritiene inoltre, posto che la contestazione in ordine ai capi A e B è generica e ricomprende tutti gli episodi nel periodo compreso tra il 1990 e il dicembre 2004 (6.1.1, pag. 113), di poter affermare la sussistenza di altri episodi di ricaduta non oggetto di una precisa contestazione, ma che sono emersi dall’istruzione dibattimentale: si tratta degli episodi del 24.5.99, 18.10.99, 17.11.99, e 23-24.8.00, di cui è stato possibile individuare la data, e di altri, di cui non è stata esattamente individuata la data, avvenuti con periodicità (a seconda della vicinanza della centrale e della posizione sottovento) fra le 5 e le 20 volte all’anno.

In ordine alle suddette ricadute, la sentenza impugnata ritiene irrilevante il mancato superamento dei limiti dei valori delle emissioni, essendo nettamente diverso il bene giuridico tutelato dal DPR 203/88 da quello tutelato dall’art. 674 c.p. (nel primo caso, la qualità dell’aria e dell’ambiente, nel secondo l’incolumità delle persone); ritiene inoltre ricorrere, in ordine ad esse, l’attitudine ad imbrattare persone (e quantomeno delle cose furono effettivamente imbrattate), oltre che a molestarle: questo per il fastidio procurato dai danni a cose, ma anche da odori e rumori, anche questi descritti da numerosi testi (6.2.3).

La sentenza di primo grado, inoltre, pur premettendo che anche un guasto occasionale non escluderebbe la colpa, alla luce della prevalente giurisprudenza della Cassazione, si sofferma ad esaminare quei comportamenti, attivi od omissivi, degli imputati, che avrebbero cagionato le

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ricadute, e ne individua essenzialmente cinque: 1) la riduzione della manutenzione (in termini di personale e di investimenti), in particolare attraverso l’eliminazione dei controlli preventivi, che, per motivi economici, si è avuta a partire dalla metà degli anni ’90, ossia in coincidenza con la privatizzazione dell’ENEL, e con la nomina a direttore dello Zanatta; 2) il cambiamento del combustibile, che si ha sempre nello stesso periodo, passando ad un olio a più alto tenore di zolfo, e a più basso prezzo, che produce maggiore particolato, e soprattutto determina maggiore acidità, e quindi maggiore dannosità delle ricadute; 3) insufficienza del sistema di filtraggio, rappresentato dagli elettrofiltri, che non solo intercettavano esclusivamente le polveri superori a 10 micron, permettendo il rilascio in atmosfera delle altre, ma soprattutto, dovendo raggiungere una certa temperatura per essere operativi, non funzionavano proprio nella fase in cui ve ne era maggiore bisogno, ossia nella fase di avviamento, restando inattivi per alcune ore, sia nella fase di avvio, sia nella fase di ripresa dopo un blocco temporaneo; 4) assenza di predisposizione di “protocolli” o manovre atti ad evitare le fuoriuscite anomale di particolato nei “transitori di esercizio”, ossia nei periodi di avvio o arresto della centrale, in cui, per le contrazioni o dilatazioni delle pareti del camino, più facilmente si staccavano i residui carboniosi ivi depositati, e che erano agevolmente prevedibili perché rientranti nella routine; 5) assenza di “protocolli” o manovre di intervento per i casi di “inversione termica”, in cui, essendo più fredda la temperatura nello strato d’aria più vicino al suolo di quella riscontrabile negli strati superiori dell’atmosfera, viene ad essere favorita la discesa dei fumi nello strato più basso; in particolare la sentenza evidenzia come l’ENEL avesse dotato di strumentazioni tecniche (quali il Ras Sodar), atte a rilevare l’inversione termica, altre centrali, ma non quella di Porto Tolle. Al punto 6.4.3. la sentenza impugnata accenna anche all’insufficienza del sistema di lavaggio delle canne.

Resta perciò provato, secondo il giudice di primo grado, anche l’elemento soggettivo, che per il reato in questione, contravvenzionale, può consistere anche soltanto nella colpa: posto che gli episodi di ricaduta si sono concentrati pressoché esclusivamente nel periodo tra la metà degli anni

’90 ed il 2002, con una punta fra il 2000 ed il 2002, a riprova della loro dipendenza da scelte gestionali, e che tali episodi erano sostanzialmente dovuti all’incrociarsi dell’accensione (o del riavvio dopo un blocco) di uno dei quatto gruppi della centrale con l’inversione termica, essi erano prevedibili, con uno strumento che accertasse la situazione termica, e prevenibili, perché c’era la possibilità di prevenire la formazione di particolato carbonioso, e di modulare l’attività della centrale in modo tale da evitare l’incrocio tra emissione anomala e inversione termica: tanto è vero che, in seguito, il fenomeno si è ridotto e proprio grazie ad uno studio più approfondito del problema da parte dell’ENEL.

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2.2. Capo A (art. 674 c.p.). Le emissioni ordinarie.

La sentenza impugnata, al capitolo 12, affronta il problema della configurabilità dell’art. 674 c.p.

anche sotto il secondo profilo, ossia quelle delle emissioni di gas, vapori e fumi “nei casi non consentiti dalla legge” atte a cagionare gli effetti di cui alla prima ipotesi (e quindi sempre a offendere, molestare o imbrattare persone), in relazione alle emissioni normali e quotidiane della Centrale.

La sentenza afferma che si verte nell’ipotesi di casi non consentiti dalla legge perché (come poi si vedrà a proposito del capo C) tali emissioni avvennero parzialmente in violazione dell’art. 13 comma 5 DPR 203/88, nella parte in cui contravvennero all’obbligo di adottare le misure necessarie ad evitare un peggioramento. Dopo un ampio excursus della giurisprudenza sul punto, si afferma che il rispetto degli standards fissati dalla normativa anti-inquinamento (nella specie il DPR 203/88) non impedisce di ravvisare il reato di cui all’art. 674 c.p. tutte le volte che si sia comunque cagionato effettivo disturbo, offesa o molestia alle persone, superando la normale tollerabilità, perché in tal caso la legge violata è comunque ravvisabile nell’art. 844 c.c. (peraltro, nel caso di specie, essendo i limiti da rispettare non quelli fissati dalla legge, ma quelli auto-assegnatisi dall’ENEL nella domanda, in assenza di autorizzazione sia definitiva che provvisoria, secondo il giudice di primo grado sarebbe inconferente il richiamo al rispetto dei valori tabellari).

Secondo il giudice di primo grado, molestie per emissioni in casi diversi dalle ricadute oleose si ebbero anzitutto nei casi di emissioni anomale non seguite da ricadute oleose descritte al punto 11.4.1 (si tratta di temporanei aumenti di valori delle emissioni, emersi dalla corrispondenza indirizzata dalla stessa Centrale ENEL all’ARPAV, riferiti alle date del 10.7.02, 22.7.02, 24.9.02, 18.11.02, e 11.12.02), e delle emissioni visibili e straordinarie, che, pur non dando luogo a ricadute, hanno creato turbamento, disagio e apprensione, qualificabili come molestia, descritte al capo 11.4.2 (si tratta delle nubi che secondo il teste Lazzari oscuravano il sole 4 o 5 volte ogni sei mesi, della segnalazione del presunto incendio da parte della Caserma aeronautica del Monte Venda, e più in generale delle nubi di fumo particolarmente intense e vaste riferite da numerosi testi: Balasso, Negri, Donà, Pozzati, etc.). Ma non solo: perché tutte le emissioni ordinarie provocavano comunque allarme in quanto “così frequenti e gravi erano gli episodi di emissione anomala che la popolazione viveva nella continua apprensione nel vedere la Centrale in attività” (punto 12.3, pag. 202). E ciò, secondo il giudice di prime cure, costituirebbe molestia, come consente di affermare la giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini del reato di cui all’art. 674 c.p., la molestia può anche consistere semplicemente in un turbamento della tranquillità e della quiete delle persone, e nel suscitare preoccupazione e allarme. E ciò senza contare il disturbo provocato da odori acri e da forti rumori (12.3).

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Tali molestie, secondo il primo giudice, risulterebbero superiori alla normale tollerabilità, perché l’attività della Centrale aveva causato la modifica dello stile di vita di coloro che dovevano subire le emissioni, e perché lo stato di allarme nella popolazione si acuì con l’infittirsi delle emissioni anomale e delle ricadute oleose (per poi venir meno quando tali fenomeni cessarono) (12.4.1).

Inoltre il limite di tollerabilità andrebbe riferito anche al particolare contesto ambientale, la cui valutazione non può prescindere dall’istituzione del Parco del Delta del Po, avvenuta nel 1997.

Le emissioni, poi, debbono ritenersi avvenute “nei casi non consentiti dalle legge” anche perché in violazione della legge regionale n. 36/97, che imponeva la presentazione di piani di riconversione, e del D.M. 12.7.90, lett. D all. 3, che imponeva l’applicazione delle migliori tecnologie disponibili al fine di contenere le emissioni. Tale disposizione risulta violata a) utilizzando un combustibile non idoneo a contenere le emissioni, b) non attuando il piano di adeguamento previsto nel 1994, c) non dichiarando ambientalizzato il gruppo 1, pur oggetto di adeguamento, d) sottoutilzzando il gruppo 4, già ambientalizzato.

Tuttavia la permanenza del reato cessa alla fine del 2002, in quanto nel periodo successivo non sono stati provati episodi di ricaduta oleosa se non sporadici, e nel 2003 vi è stato miglioramento delle emissioni. Il modesto peggioramento del 2004 non raggiunge i caratteri della molestia (conclusioni, pag. 12).

2.3 Capo B. Il danneggiamento.

Preliminarmente il giudice di primo grado evidenzia come, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, si debba ritenere integrato il delitto di danneggiamento, in luogo della più tenue ipotesi dell’imbrattamento (art. 639 c.p.), quando sia impressa alla cosa una modificazione che ne richieda un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità, mentre ricorre l’imbrattamento quando l’alterazione sia temporanea e superficiale: si deve pertanto ritenere deturpato o imbrattato ciò che, pur con spesa ingente, può lavarsi e ripulirsi, mentre è deteriorato ciò che subisce lesione, più o meno grave, in corpore vili, e necessita di totale o parziale rimessione in pristino, come avviene ad esempio nel caso di sfregio, mediante una chiave, della carrozzeria di un’autovettura, o nel caso di uso di vernice indelebile per imbrattare una saracinesca (che invece, nell’ipotesi corrente di uso di vernice normale, darebbe luogo solo ad imbrattamento).

Ciò premesso, ritiene il primo giudice che nel caso di specie le ricadute oleose abbiano dato luogo a danneggiamento poiché contenenti acido solforico, che si forma mediante la combinazione del biossido di zolfo con acqua presente in atmosfera, il quale provocava fori sulle foglie (che il Tribunale esclude motivatamente possano addebitarsi a comuni agenti patogeni: 7.2.2.), fusione

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delle materie plastiche (ad esempio delle coperture delle serre), corrosione della vernice dei veicoli, macchiatura indelebile degli indumenti, effetti più o meno gravi a seconda dell’acidità, e quindi differenti dall’uno all’altro episodio di ricaduta. Ripercorrendo l’imputazione, il primo giudice ritiene pertanto provato ogni singolo episodio di danneggiamento contestato quale conseguenza delle ricadute oleose. Ritiene inoltre provato il danneggiamento anche alle aree verdi di proprietà demaniale, diverse dalle colture, che circondano nel raggio di 1 Km. la Centrale, poiché tali zone non possono non aver riportato gli stessi danni subiti dalle colture. Ritiene inoltre sussistere l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede per tutte le cose, mobili e immobili, che sono state danneggiate, ivi comprese le case, le coltivazioni, etc., perché esposte alla pubblica fede rispetto alla qualità dell’azione lesiva, contro la quale il privato non può approntare difese, nonché quella del fatto commesso su boschi, selve o foreste, ma non su “piantate di alberi”; è stata ritenuta altresì sussistere l’aggravante del fatto commesso su beni destinati a pubblico servizio o pubblica utilità, con riferimento ai beni demaniali della Capitaneria di Porto e alle aree verdi demaniali.

La sentenza, per quanto concerne invece i danni prodotti da emissioni ordinarie, ritiene provati solo i danni alla flora lichenica, che, in base alla consulenza tecnica del P.M., risulta, nella zona più prossima alla Centrale, assai impoverita, e costituita da poche specie pioniere, risultando così alterata la biodiversità, ed esclude l’influenza su ciò della cause alternative ipotizzate dal consulente della difesa, come gl’impianti di essicazione. Esclude invece, poiché non provato, un danno alla flora maggiore, o vascolare. Sussiste quindi solo l’aggravante del fatto commesso su cose di pubblico servizio e utilità, ma non quella del fatto commesso su boschi o piantate di alberi.

2.4. Violazioni del DPR 203/88. Premessa.

E’ opportuno a questo punto premettere l’esposizione della situazione autorizzativa delle emissioni che la sentenza di primo grado tratta nella prima parte (capitoli 1 e 2), riprendendola poi nella terza (8.1 e 11.1.1).

A seguito dell’entrata in vigore del DPR 203/88, l’ENEL, ai sensi dell’art. 12, presentava, il 26.6.1989, una domanda di autorizzazione, corredata da una relazione tecnica (contenente la descrizione del ciclo produttivo, le tecnologie adottate per prevenire l’inquinamento, la quantità e qualità delle emissioni), nella quale si indicava come situazione di partenza, al 2.6.1989, la seguente:

- SO2: 5100 mg/Nmc - NOx: 800 mg/Nmc - polveri: 120 mg/Nmc,

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ed un progetto di adeguamento delle emissioni, secondo il quale avrebbe dovuto progressivamente adeguarsi, entro il luglio 1992, per gli ossidi di zolfo, al valore di 3400 mg/Nm3.

In base alle previsioni legislative, veniva emanato il 12.7.90 un decreto del Ministero dell’Ambiente, contenente le linee guida per le emissioni inquinanti, che prevedeva, per i grandi impianti di combustione di potenza termica superiore a 500 MW, come la Centrale di Porto Tolle, limiti di emissione pari a:

SO2 400mg/Nmc NOx 200 mg/Nmc polveri 50 mg/Nmc.

L’adeguamento, per le imprese come ENEL aventi più impianti, avrebbe dovuto avvenire in modo tale che a rispettare i limiti di emissione fosse il 35% della potenza termica installata entro il 31.12.97, il 60% entro il 31.12.99, e il 100% entro il 31.12.02.

In via transitoria, non essendo stata rilasciata l’autorizzazione definitiva (che avrebbe comportato il rispetto dei limiti fissati dal D.M. 12.7.90) né una provvisoria (che avrebbe comportato il rispetto delle prescrizioni ivi contenute, ex art. 25 comma 2), ed essendo stato prorogato fino al 31.12.02 il termine per l’adeguamento al D.M. 12.7.90, restava l’obbligo di realizzare il progetto di adeguamento nei termini e modi indicati nella domanda (art. 13 comma 3) e di adottare tutte le misure necessarie ad evitare il peggioramento delle emissioni, ex art. 13 comma 5, sanzionato dall’art. 25 comma 7.

Nel periodo tra il 1993 e il 2002, i valori limite di emissione, che risultano rispettati, erano quelli previsti nella relazione allegata alla domanda di autorizzazione del giugno 1989, ossia:

SO2: 3400 mg/Nmc NOx: 800 mg/Nmc polveri: 120 mg/Nmc

In data 23.12.92, e poi in data 30.3.94, l’ENEL risulta aver presentato due successivi progetti di adeguamento ambientale, in base ai quali avrebbe dovuto rispettare la tempistica di adeguamento prevista dal D.M. 12.7.90, con completamento dell’adeguamento al 31.12.02. Senonché, secondo la sentenza impugnata, tale tempistica risulta rispettata solo in relazione alla prima scadenza, del 31.12.97, e alla seconda, del 31.12.99, mentre per la terza scadenza, del 31.12.02, Porto Tolle non era pronta, essendo stata “ambientalizzata” solo la quarta sezione, e l’ENEL comunicò che per tale data avrebbe cessato la produzione di energia con le sezioni 1, 2 e 3.

Nel frattempo erano intervenute due leggi regionali venete che riguardavano la Centrale di Porto Tolle: con la prima, la n. 36 del 1997, si prevedeva (art. 30) che tutti gli impianti di produzione di energia elettrica presenti nel territorio dei Comuni interessati al Parco del Delta del Po, dovessero

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essere alimentati a gas metano o ad altre fonti alternative non inquinanti, e che entro 12 mesi dovessero essere presentati all’Ente Parco piani di riconversione; con la seconda, la n. 7 (non 36) del 1999, si ribadiva l’obbligo di riconversione a gas metano o ad “altre fonti alternative di pari o minore impatto ambientale”, e si concedeva un ulteriore termine (di 18 mesi dall’entrata in vigore della nuova legge) per la presentazione dei piani di riconversione. Ma tale normativa, si legge nella sentenza impugnata (02.06), non è mai stata ottemperata dall’ENEL.

Il 3.8.2000, comunque, ENEL Produzione presentò una richiesta di adeguamento ambientale basato sulla previsione di adottare come combustibile il cosiddetto Orimulsion, che comportava la realizzazione di impianti di desolforazione e altri interventi: tale progetto non viene tuttavia approvato entro il termine del 31.12.02 (e verrà successivamente abbandonato dall’ENEL nel 2003- 2004, per motivi connessi all’approvvigionamento di detto combustibile).

A questo punto intervengono due successivi decreti-legge, il n. 281 del 23.12.02 (decaduto) e il n.

25 del 18.2.03, convertito nella legge n. 83 del 17.4.03, che consentivano l’esercizio in deroga, sulla base di piani transitori approvati con decreto del Ministro della Attività Produttive. L’approvazione è avvenuta con D.M. 13.6.03, e prevedeva nuovi limiti, ossia:

- CO 250 mg/Nmc - NOx 650 mg/Nmc - polveri 100 mg/Nmc - SO2 1700 mg/Nmc

con l’ulteriore limite di non superare l’80% della potenza complessiva installata.

A partire dal 1.1.2005, risulta che ENEL si sia adeguata ai limiti di cui al D.M. 12.7.90 (400, 200, 50) (capitolo 02.5).

La sentenza impugnata afferma che l’ENEL non ha mai superato i limiti autorizzativi delle emissioni (8.2).

2.5. Capo C (peggioramento delle emissioni).

Secondo la sentenza impugnata, che si rifà sul punto ad alcune pronunce della S.C. (Cass. pen. sez.

III, 95/7692, 97/11836) l’obbligo imposto dal legislatore, ex art. 13 comma 5 DPR 203/88, a chi operi in regime transitorio, ossia al titolare di autorizzazione provvisoria o a chi (come nel caso di specie l’ENEL) operi in regime di “silenzio assenso”, di adottare tutte le misure atte ad impedire un peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni, ossia la clausola dello “stand still” (che si ritrova in altre leggi contro l’inquinamento, come l’art. 25 della legge n. 319/76 o l’art. 32 del DPR 915/82) ha ragione nel fatto che il periodo transitorio può essere lungo, e pertanto si impone agli

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impianti in questione di migliorare progressivamente per avvicinarsi ai limiti di legge che dovranno essere rispettati alla fine di tale periodo, o quantomeno di non peggiorare. Il termine “temporaneo”

include anche un peggioramento delle emissioni episodico od occasionale, e comunque limitato nel tempo, e può dipendere anche dall’aumentata produzione in presenza di impianti invariati.

L’obbligo (sanzionato penalmente dall’art. 25 comma 7) prescinde dal rispetto dei valori limite, che sono espressi in medie, e la cui violazione sarebbe altrimenti sanzionata (art. 25 comma 3). Non corrisponde poi al vero, secondo la sentenza, che la norma interpretata in questo modo comporterebbe una rincorsa senza fine verso il miglioramento, perché una volta raggiunti i limiti di legge l’obbligo di miglioramento cesserebbe.

Secondo il giudice di primo grado, il peggioramento può essere temporaneo o non temporaneo; a sua volta il peggioramento temporaneo può assumere due forme: a) il peggioramento

“momentaneo”, che consiste nell’aumento dei valori medi orari per un periodo apprezzabile (ma anche inferiore alle 24 ore) rispetto ai limiti da rispettare (che sono espressi in valori medi mensili o annuali); b) il peggioramento “istantaneo”, ossia consistente in picchi che non incidono sui dati medi, ma che comportano tuttavia un peggioramento sensibile delle emissioni che determina un inquinamento atmosferico (ossia un’alterazione dell’atmosfera che incide negativamente sui beni naturali). Anche il peggioramento non temporaneo può assumere due forme: c) peggioramento dei valori medi di emissione, annuali o mensili, a seconda di quali siano quelli da rispettare nel caso specifico (nel caso dell’ENEL erano annuali, in base alla disciplina transitoria), d) causazione di maggiore inquinamento atmosferico complessivo, determinato da un incremento della produzione o dalla modifica dell’impianto.

Nel caso di specie, secondo il giudice di primo grado, vi è la prova che si siano verificate le ipotesi sub a) e b); in relazione a quest’ultima ipotesi, afferma che la prova della “ricaduta” costituisce prova del peggioramento temporaneo, a prescindere dalla rilevazione strumentale. Più nel dettaglio, il Tribunale prende in esame i vari episodi di ricaduta oggetto della contestazione, e ritiene provate l’ipotesi sub b) in ordine agli episodi del 18.4.99, 25-26.10.99, 15.5.00, 12.3.01, 5-6.4.02, 20.5.02, e 24.5.02, in cui sono provate le ricadute, per quanto detto in ordine al Capo A, e l’ipotesi sub a) in ordine agli episodi del 25-26.10.99, 15.5.00, 12.3.01, 20.5.02, 5-6.7.02 e 30.12.02, in cui vi sono (a seconda dei casi, insieme alle ricadute, o in assenza delle stesse) riscontri strumentali circa l’aumento delle emissioni. Ritiene invece che il fatto non sussista in ordine agli episodi del 6- 7.10.04, perché, pur essendovi prova della ricaduta, sussiste la possibilità che tale fenomeno dipendesse in gran parte dalle condizioni atmosferiche, e potesse quindi verificarsi senza un superamento dei valori delle emissioni; e del 15.9.05, perché il fatto è avvenuto nel corso di attività di manutenzione, quando l’impianto non era in esercizio. Inoltre ha ritenuto che dal dibattimento

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fosse emersa la prova di ulteriori peggioramenti temporanei (che “l’ampia descrizione dell’accusa”

consente di ritenere contestati), derivati da segnalazioni della stessa Centrale ENEL all’ARPAV, basate su momentanei superamenti di valori (quindi, ipotesi sub a), ed avvenuti nelle date del 10.7.02, 22.7.02, 24.9.02, 18.11.02, 11.12.02. Infine vi sarebbero stati ulteriori fenomeni, non collegati a ricadute oleose né a superamento dei valori di emissione, ma che, rappresentando

“emissioni visibili straordinarie” (si tratta delle nubi che secondo il teste Lazzari oscuravano il sole 4 o 5 volte ogni sei mesi, della segnalazione del presunto incendio da parte della Caserma aeronautica del Monte Venda, e più in generale delle nubi di fumo particolarmente intense e vaste riferite da numerosi testi: Balasso, Negri, Donà, Pozzati, etc., già viste a proposito del Capo A, nella parte dedicata alle “emissioni ordinarie”) “non è possibile non parlare di un peggioramento, che risulta automaticamente dalla descrizione del fenomeno e dalla constatazione che fortunatamente non erano queste le condizioni ordinarie dell’esercizio dell’impianto”.

Per quanto concerne i peggioramenti non temporanei consistenti in peggioramento dei valori medi (ipotesi sub c), la sentenza impugnata, che distingue tra i due periodi 1999-2002, e 2003-2004, evidenzia, in relazione al primo periodo, per quanto concerne il biossido di zolfo (SO2), un netto peggioramento in tutti gli anni dal 1999 in poi, anni compresi nella contestazione (valori: 3309 nel 1999, 3200 nel 2000, 3227 nel 2001, 2996 nel 2002) rispetto ai valori del 1995 (1857), anno precedente all’inizio della gestione Tatò, dopo il quale i valori iniziano a peggiorare (anche se la contestazione parte dal 1999). Qualora si volesse invece prendere in considerazione soltanto, per ciascun anno, il peggioramento rispetto all’anno precedente, ritiene la sentenza impugnata che sussisterebbe reato solo nel 1999 (anno precedente: 3107) e nel 2001.

In ordine agli ossidi di azoto (NOx), la sentenza di primo grado, sempre in ordine al primo periodo considerato, evidenzia un peggioramento negli anni 2000 (valore 395), 2001 (valore 376) e 2002 (valore 358), rispetto alla punta più bassa, raggiunta nel 1999 (valore 333); oppure, prendendo in considerazione solo il peggioramento rispetto all’anno precedente, sussisterebbe reato solo nel 2000.

Infine, in ordine alle polveri, sempre nel periodo 1999-2002, viene riscontrato un peggioramento, rispetto alla punta più bassa riscontrata nel 1995 (37), in tutti gli anni oggetto di contestazione (1999: 67, 2000: 67; 2001: 53; 2002: 50); secondo la diversa opzione interpretativa, che tiene conto solo dei peggioramenti rispetto all’anno precedente, vi sarebbe reato solo nel 1999 (anno precedente, 1998: 50).

Anche sotto il profilo del peggioramento da incremento della produzione (ipotesi sub d) ritiene la sentenza impugnata che sussista il reato, in quanto la quantità complessiva delle emissioni di SO2, rispetto alla situazione del 1995 (68.700 ton/anno) è stata costantemente superiore negli anni

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considerati dalla contestazione (oltre 111.000 nel 1999, oltre 90.000 nel 2000, oltre 85.000 nel 2001, oltre 72.000 nel 2002).

Nel 2003 cambiano, come detto, i parametri di riferimento, a seguito del D.M. 13.6.03, e quindi la sentenza prende in considerazione separatamente il periodo 2003-2004, evidenziando un peggioramento nel 2004 rispetto ai valori del 2003 per quanto concerne l’SO2, che passa da 1162 a 1345, e per le polveri, i cui valori passano da 30 a 34, mentre ritiene irrilevante il peggioramento relativo agli NOx (da 337 a 339). Non vi sono stati invece aumenti della quantità di emissioni.

Conclusivamente, il giudice di primo grado ritiene sussistere il reato in quanto, oltre ad essersi verificati i suddetti peggioramenti, non sono state adottate le misure necessarie ad evitarlo, ed anzi, peggiorando la qualità del combustibile rispetto a quello utilizzato nel 1995, ed aumentando le quantità di emissioni, si sarebbe operato per il peggioramento. La colpa, secondo il primo giudice (e salvi gli approfondimenti da compiersi in ordine alle singole posizioni individuali), sussisterebbe per la consapevolezza di acquistare combustibile a più alto tenore di zolfo, e di adottare, in quella specifica Centrale, minori dispositivi di contenimento delle emissioni rispetto ad altre centrali della stessa ENEL.

2.6. Capo D. Violazione della normativa regionale.

Il P.M. aveva contestato anche il reato di cui all’art. 25 terzo comma del DPR 203/88 per mancato rispetto dei valori di emissione stabiliti dalla legge regionale, con riferimento alle due leggi regionali del Veneto nn. 36/97 e 7/99, che ponevano l’obbligo, per gli impianti di produzione di energia elettrica presenti nel territorio dei Comuni interessati al Parco del Delta, di alimentarsi a gas metano o con altre fonti non inquinanti, e di presentare i relativi piani di riconversione entro un dato termine (l’ultimo dei quali scaduto il 13.9.00).

Il giudice di primo grado, pur riconoscendo l’irrilevanza del fatto che la Centrale non sia compresa nel territorio del Parco (infatti la menzionata normativa dispone non solo per il territorio del Parco, ma per quello dei Comuni ad esso interessati), nega la sussistenza del reato, in quanto le suddette leggi regionali non fissano alcun valore di emissione. Secondo l’accusa, tali leggi stabilirebbero dei valori con riferimento al tipo di combustibile indicato, ossia imporrebbe di non superare i valori che deriverebbero dall’uso del metano. Il giudice ha rigettato tale interpretazione, perché l’art. 25 terzo comma sanziona il superamento dei limiti stabiliti “direttamente” dalla legge statale o regionale, mentre le leggi in questione, anche nell’ottica dell’accusa, stabilirebbero tali valori solo indirettamente, con riferimento a nozioni tecniche generiche ed imprecise, poiché non esiste un solo

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tipo di gas metano, e inoltre ammettono l’impiego di fonti alternative “di pari o minore impatto ambientale”, che potrebbe essere tale riguardo ad un inquinante ma non ad altri.

Neppure sarebbe sanzionata, secondo il primo giudice, la mancata presentazione dei piani di riconversione, che secondo l’accusa sarebbe sanzionata ai sensi dell’art. 25 terzo comma, perché inserita nella procedimentalizzazione della riconversione a metano. Tale interpretazione, secondo il Tribunale, sarebbe ancor più forzata della precedente, perché introdurrebbe un ulteriore termine di riferimento indiretto, stavolta sotto il profilo temporale, per la determinazione dei valori di emissione, che l’art. 25 terzo comma vuole, invece, fissati “direttamente” dalla legge. Quindi il fatto potrebbe essere al più sanzionato in via amministrativa, secondo la generale previsione dell’art. 33 della legge regionale.

2.7. Le posizioni individuali e le pene.

Preliminarmente la sentenza afferma di non poter tenere conto della scriminante dell’ignoranza della legge penale, che non può essere invocata da chi, professionalmente inserito in un determinato campo di attività, non si informi sullo stato delle norme che disciplinano il campo stesso.

La sentenza procede poi all’esame in generale della posizione degli amministratori delegati ENEL s.p.a., evidenziando come agli stessi fosse stata conferito l’incarico, tra l’altro, di predisporre il piano pluriennale e il budget annuale (compreso quello relativo all’approvvigionamento dei combustibili) da sottoporre per l’approvazione al consiglio di amministrazione (punto a), di proporre al CdA gli indirizzi strategici e le direttive nei confronti del gruppo (punto e), di adottare le determinazioni in materia di liti attive e passive, e di transazioni (punto g), e di aggiudicare commesse e contratti in materia di acquisti, appalti e servizi (punto h). Si sottolinea, inoltre, che le decisioni sui punti e) e h), secondo l’istruttoria svolta, venivano prese ai più alti vertici, e quindi certamente dall’A.D., e che in tema di inquinamento derivante dalla Centrale esisteva un notevole contenzioso civile, oltre che processi a carico del direttore della Centrale. Inoltre erano stati stipulati protocolli di intesa con diversi enti territoriali, e Scaroni aveva anche partecipato ad assemblee di zona illustrando la posizione della società (il che formerebbe prova della precedente competenza in ordine agli stessi problemi anche in capo a Tatò).

I direttori di centrale, inoltre, avevano l’incarico, conferito da ENEL Produzione s.p.a., di “porre in essere tutti gli interventi ed adottare gli atti e le decisioni” necessarie al rispetto della normativa, tra l’altro, in materia di tutela ambientale e di inquinamento.

Il giudice di primo grado esprime qualche perplessità in ordine alla scelta dell’accusa di contestare i fatti solo al primo (l’A.D. della holding) e all’ultimo (il direttore di centrale) della scala gerarchica,

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saltando i livelli intermedi, ma conclude che suo compito era limitarsi a valutare le responsabilità degli imputati, le cui difese, tra l’altro, non avevano esercitato alcuna attività finalizzata ad attribuire la responsabilità a terzi soggetti.

La sentenza di primo grado esclude anche il concorso di persone nei reati, affermando che nulla è emerso di un disegno criminoso comune, e neppure della consapevolezza dell’operato altrui; il giudice ha pure escluso la cooperazione nel reato colposo ex art. 113 c.p. (eventualmente riqualificando il concorso ex art. 110 contestato), non essendovi prova di cooperazione alcuna, ed anzi essendo provato che gli imputati hanno agito senza coordinarsi fra di loro e senza cooperare, dando vita a condotte autonome, anche perché non vi erano neppure rapporti di conoscenza diretta tra gli imputati stessi (19.1).

Più nello specifico, valutando la posizione dell’imputato Tatò, la sentenza impugnata osserva che se egli (in carica dal 1996) si fosse limitato ad attuare il piano di riconversione del 1994, non vi sarebbe alcuna responsabilità, mentre è sotto la sua gestione che vengono fatte due scelte fondamentali: la mancata ambientalizzazione di Porto Tolle, e la sostituzione dell’olio fino allora usato (MTZ), con altro (ATZ), più inquinante, favorendo il peggioramento illegittimo delle emissioni, e quell’aumento dei residui di combustione che erano all’origine delle ricadute oleose.

Tutto ciò sarebbe stato sufficiente per provare la responsabilità del Tatò a titolo di colpa per i reati contravvenzionali (capi A e C).

Per giungere ad affermare la responsabilità di Tatò a titolo di dolo in ordine al reato di cui al capo B, il giudice di primo grado evidenzia come: a) la scelta dell’olio combustibile fosse una scelta strategica indipendente dal direttore della Centrale, che secondo i testimoni assunti veniva fatta a Roma, e che, spettando all’A.D. la predisposizione del budget per l’acquisto dei combustibili, non poteva essergli sottratta, e dalle scelte del combustibile derivava la certezza di un peggioramento delle emissioni, e del danneggiamento dell’ambiente circostante, eventi per i quali c’era quindi stata un’accettazione del rischio, così come per le ricadute oleose, fatti che si erano ripetuti per anni, comportando anche numerose cause civili; b) il progetto di riconversione a Orimulsion (anche se poi non è stato attuato) implicava l’impossibilità di adeguare la Centrale agli standards normativi entro le previsioni di legge, tale scelta era sicuramente ascrivibile ai vertici aziendali, e quindi all’A.D. Tatò; c) anche la scelta di diminuire la manutenzione fu presa a livello centrale, poiché i budget per la stessa non erano fissati dai direttori di centrale, e, dal momento che tale scelta era concomitante con quella di usare un combustibile meno pulito, le conseguenze erano facilmente prevedibili; d) il fatto che la scelta di ignorare la legge regionale sia stata illustrata in riunioni pubbliche in Polesine dal successore di Tatò, Scaroni, dimostra che si trattava di una scelta di competenza dell’A.D. ENEL. Pertanto, secondo il primo giudice, vi fu piena accettazione del

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rischio sia dell’aumento dei fenomeni anomali, come le ricadute oleose, sia in generale del peggioramento delle emissioni, con il conseguente danno all’ambiente che ne sarebbe derivato, con conseguente prova del dolo eventuale. La sentenza precisa anche che temporalmente le responsabilità di Tatò vanno estese alla ricaduta oleosa del 24.5.02 (avvenuta nel giorno dell’avvicendamento di Scaroni) e al peggioramento delle emissioni ordinarie nel 2002, eventi riconducibili a scelte fatte in precedenza.

Tatò è stato quindi riconosciuto colpevole dei reati di cui ai capi A, B e C in continuazione, commessi fino a tutto il 2002, e condannato alla pena di mesi sette di reclusione, concesse le attenuanti generiche equivalenti, con la sospensione della pena.

Scaroni, per l’epoca in cui assunse le funzioni (24.5.02), è stato assolto da tutte le accuse concernenti le ricadute oleose: dopo aver escluso, ovviamente, la sua responsabilità per l’episodio avvenuto il giorno stesso del suo insediamento, la sentenza di primo grado la esclude anche per quello del 6-7 ottobre 2004, considerato che si trattò di un fatto anomalo ed isolato, e che dal 24.5.02 non si erano più verificati episodi analoghi, per cui si poteva ritenere cessata l’attenzione della struttura verso il fenomeno. Dell’episodio del 15.9.05, invece, lo Scaroni non risponde, essendogli subentrato a quell’epoca altro A.D., Fulvio Conti.

In ordine al peggioramento delle emissioni ordinarie, secondo il giudice di primo grado Scaroni, che non deve rispondere degli episodi di peggioramento avvenuti nel 2002, in quanto ricollegabili a scelte compiute dal predecessore, deve invece rispondere del peggioramento verificatosi nel 2004:

tale evento sarebbe infatti dipeso da scelte economiche, consistite nell’acquisto di un combustibile più scadente rispetto a quello acquistato nel 2003, poiché avente un più alto tenore di zolfo.

Tuttavia, la mancanza di ripetizioni di episodi di ricadute oleose, e la mancanza di richieste di risarcimento del danno nel periodo interessato, portano il Tribunale di Rovigo a ritenere non provato, in ordine allo Scaroni, quel grado di consapevolezza necessario ad integrare il dolo eventuale.

Pertanto Scaroni è stato condannato solo in ordine al reato di cui al capo C, commesso nel 2004, alla pena di un mese di arresto, concesse le attenuanti generiche, e convertita la pena detentiva in pecuniaria ex art. 53 legge n. 689/81.

Zanatta e Busatto, per la loro qualità di direttori di centrale, secondo l’impugnata sentenza, non possono rispondere di scelte strategiche che venivano compiute più in alto, quali quelle relativa alla scelta del combustibile e al budget per la manutenzione. Essi vengono quindi assolti dalle accuse concernenti il peggioramento dei valori medi di emissione di cui al capo C, e il danneggiamento conseguente elle emissioni ordinarie di cui al capo B. Rispondono invece degli episodi di ricaduta oleosa quantomeno a titolo di colpa.

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Tuttavia il giudice di primo grado valuta con maggiore severità la posizione di Zanatta, in quanto ritiene che, per il ripetersi degli episodi di ricaduta oleosa sotto la sua gestione, per la puntualità con la quale descriveva all’ARPAV i vari episodi (pur tendendo a minimizzarli, ogni volta definendoli anomali e irripetibili), per la sua conoscenza delle problematiche inerenti l’inversione termica, e più in generale per essere egli un tecnico capace e preparato, era a conoscenza che la Centrale veniva fatta operare in condizioni tali da rendere praticamente certe le emissioni anomale. Egli, secondo il giudice di prime cure, non risulta aver manifestato la sua opposizione alle decisioni dei vertici, o quantomeno segnalato le evidenti anomalie, o adottato strategie tese a ridurre le conseguenze dannose delle condizioni in cui operava l’impianto. Ma, oltre a ciò, non ha adottato, nell’ambito della sua sfera di autonomia decisionale relativa alle modalità di esercizio, quegli accorgimenti che avrebbero ridotto i rischi, in tema di tempi di avvio e spegnimento, riscaldamento delle canne, funzionamento in assenza di perfetto filtraggio, e così via.

Pertanto Zanatta è stato condannato, a titolo di dolo eventuale, per i reati di cui ai capi A, B e C, relativamente agli episodi di ricadute oleose, e alle emissioni visibili diverse dalle ricadute, fino a tutto il 2002, unificati dalla continuazione, alla pena di mesi due di reclusione, concesse le attenuanti generiche equivalenti, e convertita la pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria ex art. 53 legge n. 689/81.

Busatto (in carica dal 1.7.04) deve rispondere, secondo la sentenza impugnata, dei soli due episodi di ricadute oleose, contestati sub A), avvenuti il 7.10.04 e il 15.9.05, ma a titolo di colpa, così escludendosi il reato sub B, stante il diverso tempo in cui egli ha diretto la Centrale, e la rarità degli episodi verificatisi. La colpa non è esclusa, stante la giurisprudenza che ritiene punibili a tale titolo anche i guasti o gli errori di gestione, in quanto prevedibili e prevenibili. Detti episodi, tuttavia, non sono punibili a titolo di peggioramento temporaneo (capo C) non risultando provato il peggioramento delle emissioni in tali episodi.

Non potendosi riconoscere la continuazione in ordine agli episodi per cui è stato riconosciuto colpevole il Busatto (proprio perché a titolo di colpa), lo stesso è stato condannato alla pena di € 260 complessivi di ammenda.

2.8. Le statuizioni civili.

Quanto alle responsabilità civili, il giudice di primo grado l’ha riconosciuta sussistere per il danno cagionato dal reato sub A nella misura nella misura del 70% a carico di Tatò, del 25% a carico di Zanatta, del 5% a carico di Busatto; per il reato di cui al capo B, nella misura dell’85% a carico di

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Tatò, e del 15% a carico di Zanatta; per il reato di cui al capo C, nella misura dell’85% a carico di Tatò, del 10% a carico di Scaroni, e del 5% a carico di Zanatta.

La condanna risarcitoria è stata estesa ai responsabili civili, citati dal Ministero dell’Ambiente, ENEL Produzione s.p.a. ed ENEL s.p.a.; la prima è proprietaria degli impianti, e quindi la responsabilità le si estende, secondo il giudice di primo grado, ex artt. 2049, 2050 e 2051 c.c.; la seconda è la società capogruppo, e ad essa sono stati applicati i principi in materia di responsabilità civile della holding ex art. 2497 c.c., ritenendo provata la funzione di direzione e controllo esercitata da parte dell’ENEL s.p.a. sulle controllate.

Il giudice di prime cure ha ritenuto provato un danno non patrimoniale e ambientale, ai sensi della legge n. 349/1986, da risarcirsi al Ministero dell’Ambiente, ritenendo tuttavia impossibile quantificare allo stato tale danno, ma concedendo una provvisionale di € 800.000,00.

Ha inoltre riconosciuto il danno ambientale e quello non patrimoniale anche agli altri enti pubblici (Regioni, Province, Comuni – per alcuni dei quali si è costituita in via sostitutiva l’associazione Italia Nostra, ai sensi del T.U. degli Enti Locali - ed Enti Parco) costituitisi parte civile, da liquidarsi in sede civile, ma con provvisionali per la cui determinazione il giudice ha considerato anche la maggiore o minore efficacia delle rispettive attività di controllo e prevenzione esercitata, laddove possibile, nei confronti della Centrale.

Ha quindi, in favore dei privati cittadini costituitisi parte civile, riconosciuto il danno morale per le molestie ex art. 674 c.p., in considerazione dello stato di preoccupazione e di allarme, di turbamento della serenità quotidiana della vita, e dell’atteggiamento poco disponibile dell’ENEL, oltreché il danno materiale e morale per il reato di cui all’art. 635 c.p., liquidandolo equitativamente in favore di tutte le parti stesse.

Ha infine liquidato il danno alle associazioni di protezione dell’ambiente, costituitesi parte civile ex art. 13, in ragione, secondo quanto statuito dalla S.C. (Cass. pen. sez. III, 96/9837), del loro impegno effettivo per la tutela della zona e la sensibilizzazione della popolazione, e in taluni casi (Comitato Cittadini Liberi di Porto Tolle) per la funzione di supplenza svolta nei confronti di alcuni enti territoriali.

E’ stata invece ritenuta inammissibile la domanda di ripristino svolta dal Ministero dell’Ambiente, per l’impossibilità di emanare un ordine avente carattere di sufficiente “liquidità”. Inoltre è stata rigettata la domanda di inibitoria all’alimentazione della Centrale, anch’essa proposta dal Ministero dell’Ambiente in violazione della legge regionale, essendosi ritenuta tale violazione irrilevante penalmente. Di conseguenza, è stata disattesa anche la richiesta della parte civile di subordinare la sospensione della pena alla realizzazione degli interventi necessari al ripristino.

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3. GLI APPELLI.

Avverso la predetta sentenza hanno interposto appello i difensori, rispettivamente, di Scaroni Paolo, Busatto Renzo, Tatò Francesco Luigi e Zanatta Carlo, nonché il difensore dei responsabili civili Enel S.p.a. ed Enel-Produzione S.p.a.; ha interposto appello, infine, anche l’Avvocatura dello Stato, in qualità di difensore ex lege del Ministero dell’Ambiente, parte civile costituita.

3.1. Appello Scaroni Paolo

Il Difensore dello Scaroni, premesso che il tribunale aveva dichiarato la penale responsabilità dell’imputato limitatamente al peggioramento delle emissioni ordinarie emesse dalla centrale di Porto Tolle nell’anno 2004, rispetto all’anno precedente, e che era stato ritenuto penalmente rilevante il solo peggioramento delle emissioni di SO2 (ossido di zolfo) e delle polveri, non quello di NOX (ossido di azoto), ha contestato la resa affermazione di colpevolezza tanto sul piano della materialità della contestata contravvenzione, quanto su quello della sussistenza di qualsivoglia profilo di colpa, quanto, infine, in ordine alla posizione soggettiva stessa dello Scaroni.

3.1.1. In particolare, con il primo motivo, ha sottolineato l’appellante come avesse errato il Giudicante nel ritenere che il peggioramento non temporaneo delle emissioni sussistesse in presenza di un innalzamento dei valori medi delle medesime emissioni, ovvero, in alternativa, nell’ipotesi di un innalzamento della massa degli inquinanti espulsi in atmosfera, essendo, per contro, contestualmente necessarie, ai fini della configurabilità del reato contestato, entrambe tali situazioni, un tanto evidentemente ricavandosi sia dalla formulazione delle disposizioni normative in materia, sia da più articolate considerazioni logico-giuridiche: nel caso di specie, la stessa sentenza aveva precisato come, negli anni 2002, 2003 e 2004, si fosse assistito ad una continua e consistente diminuzione delle emissioni, sicché l’accusa di aver peggiorato le predette emissioni nel corso del 2004 – essendo unicamente fondata su un lieve aumento della concentrazione di SO2 e di polveri per metro cubo - era palesemente destituita di fondamento.

Comunque, neppure era corretto il raffronto effettuato dal tribunale in ordine alle concentrazioni degli inquinanti rispetto all’anno precedente: il termine di comparazione, invero, avrebbe dovuto essere individuato nel massimo valore medio consentito dal piano di utilizzazione della centrale di cui al D.M. 13.6.2003 (pari a 1700 mg/Nmc per l’SO2 e 100 mg/Nmc per le polveri), pena la violazione dei principi di legalità e tassatività della norma penale: ebbene tale valore massimo - ha ribadito la Difesa - mai era stato superato nell’anno in contestazione.

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Inoltre, mentre i dati di emissione del 2004 erano stati raccolti su base annua, non così era avvenuto per quelli del 2003, trattandosi di dati relativi a periodo inferiore all’anno (la centrale, infatti, era stata fermata nel primo semestre del 2003, venendo, quindi, riattivata solo a seguito dell’emanazione del D.M. 13.6.2003), sicché l’affermazione di responsabilità si era basata, all’evidenza, sul raffronto di dati non omogenei e, pertanto, era palesemente viziata.

Infine, un ulteriore errore logico contenuto nel discorso giustificativo della sentenza impugnata era anche rappresentato dal fatto che, sebbene fosse stato pure affermato che l’applicazione della disposizione di cui all’art. 13, co. 5, DPR 203/88 potesse avere luogo unicamente nell’ipotesi di valori medi annui di emissione ricompresi nella fascia rientrante tra i limiti del D.M. 12 luglio 1990 ed i limiti delle cd. “emissioni assentite” (sicché, in buona sostanza, non vi sarebbe stato peggioramento nel caso in cui, nonostante l’aumento, i valori medi si fossero comunque collocati al di sotto dei limiti previsti dal D.M. 12 luglio 1990) e nonostante il limite previsto da tale D.M. per le polveri fosse del valore medio annuo di 50 mg/NMc, il tribunale aveva concluso per la responsabilità dell’imputato anche in relazione all’emissione di polveri e, questo, quantunque il valore medio di emissioni di queste ultime fosse pacificamente stato, per l’anno 2004, pari a 34 mg/mc.

3.1.2 Quindi, con il secondo motivo, relativo ai temi dell’elemento soggettivo e dello specifico ruolo rivestito dal giudicabile all’interno del gruppo, la Difesa ha evidenziato come il tribunale avesse ancorato la colpa dell’imputato alla “posizione di garanzia” ricoperta, sul rilievo che il peggioramento delle emissioni sarebbe dipeso dalla scelta di impiegare un combustibile peggiore – specie in punto di concentrazione di zolfo - rispetto a quello precedentemente utilizzato e che tale sostituzione del carburante sarebbe stata frutto di una scelta imprenditoriale dettata da ragioni economiche, scelta, pertanto, inevitabilmente da ricondursi al vertice aziendale.

Al riguardo, precisato come l’aumento della percentuale di zolfo nel combustibile fosse stata tale da comportare unicamente un lieve innalzamento della concentrazione degli inquinanti per metro cubo, ma non già un peggioramento in termini di oggettivo aumento della quantità degli inquinanti emessi, ha osservato il Difensore come il combustibile impiegato - sia pure di pochissimo superiore, in tenore di zolfo, a quelle utilizzato l’anno precedente - fosse stato in ogni caso caratterizzato da una percentuale di zolfo inferiore all’1%, come peraltro previsto a seguito del D.M. 13 giugno 2003.

Del resto, il risparmio derivante dall’impiego del combustibile impiegato nel 2004 era stato infinitesimale, trattandosi comunque di combustibile BTZ a bassissimo contenuto di zolfo, considerazione, questa, che privava di qualsivoglia base razionale la tesi della finalità economica – e, perciò solo, riconducibile all’A.D. - della scelta dell’impiego, nel corso dell’anno 2004, di un

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combustibile lievemente differente da quello utilizzato nel corso dell’anno precedente; per contro, era palese che la lieve diversità del tipo di combustibile impiegato fosse unicamente dipesa dalla differente raffineria di provenienza del combustibile, combustibile che, peraltro, era stato miscelato con quello derivante da precedenti partite.

Nessuna strategia aziendale, pertanto, poteva rinvenirsi alla base della scelta dell’olio combustibile impiegato nel corso del 2004 e, men che, meno, poteva individuarsi responsabilità alcuna in capo all’A.D. Scaroni, specie tenuto conto dell’articolata struttura del gruppo – pure dettagliatamente richiamata nell’atto di appello – struttura che vedeva, in particolare, la presenza di una autonoma

“Area di Business”, denominata “Fuel”, dotata di ampia autonomia patrimoniale e decisionale, struttura cui era affidato l’incarico di curare l’approvvigionamento di combustibili liquidi; né - come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza del Supremo Collegio - poteva di certo valorizzarsi, in senso contrario, il mero dato formale costituito dalla legale rappresentanza della struttura societaria, pena un’affermazione di colpevolezza attribuita a titolo di mera responsabilità oggettiva. Nel caso di specie, lo Scaroni aveva adempiuto ai propri doveri strutturando l’organizzazione in modo da assicurare la salvaguardia dei beni penalmente tutelati – posto che erano state individuate figure o strutture intermedie responsabili delle scelte tra partite di combustibile, sempre comunque rientranti nella categoria di combustibili a bassissima presenza di zolfo, inferiore all’1%, ed unicamente caratterizzate da lievissime differenze di tenore di zolfo, sicché non poteva essere ravvisata responsabilità alcuna dell’imputato.

Ha chiesto, pertanto, l’assoluzione del proprio assistito per insussistenza del fatto, o, comunque per non aver commesso il fatto, ovvero ancora perché il fatto non costituisce reato.

3.2. Appello Tatò Francesco Luigi.

Avverso la citata sentenza ha interposto appello anche il difensore del Tatò, con un gravame che ha investito tutti i capi del provvedimento e le relative statuizioni con cui si è affermata la penale responsabilità.

3.2.1 Preliminarmente, il difensore ha formulato alcune considerazioni generali, relative alla complessiva posizione processuale del proprio assistito: innanzitutto, ha contestato l’affermazione secondo la quale la stessa Difesa non avrebbe fornito indicazioni circa la presenza, nell’organigramma del gruppo Enel, di persone dotate di competenza esclusiva nelle scelte e nelle attività comunque concernenti l’approvvigionamento dei combustibili, gli adempimenti in materia ambientale e la manutenzione delle centrali, ivi compressa quella di Porto Tolle: era stato all’udienza del 17.2.2006, infatti, che la medesima Difesa aveva prodotto specifica documentazione

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attestante l’avvenuta preposizione institoria, con procura conferita il 13.1.1997, dell’ing. Giuseppe Potestio, capo della Divisione Produzione dell’Enel S.p.a., preposizione cui era conseguita, ai sensi delle disposizioni codicistiche in materia, in ragione proprio della ampiezza dei poteri rappresentativi discendenti da tale atto, l’individuazione di un vero e proprio alter ego dell’imprenditore, avente pertanto poteri, compiti, funzioni e responsabilità del tutto assimilabili a quelli del suo dante causa e ben maggiori di quelli attribuibili con una semplice delega, investendo l’intera gestione dell’impresa, ovvero di una sua sede secondaria o di un suo ramo.

Pertanto, richiamata la consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in punto di “delega di funzione” ed analizzate, specificamente, le dettagliate previsioni contenute nella predetta procura institoria, in forza della quale l’ing. Potestio aveva operato dal 1994 al 1999, con competenze esclusive in materia di attività connesse alla produzione di energia elettrica, ha concluso per l’estraneità del proprio assistito rispetto agli addebiti: solo la dimostrazione di aver concorso con il predetto ing. Potestio - eventualmente anche mediante mere approvazioni o consensi, ovvero autorizzazioni rilasciate a quest’ultimo - avrebbe, infatti, potuto condurre all’affermazione di responsabilità del Tatò, ma tale dimostrazione era del tutto mancata nel processo, essendo positivamente emersa, per contro, la prova della esclusiva gestione dell’attività di produzione di energia da parte del predetto institore: unicamente a tale soggetto, quindi, doveva ricondursi la responsabilità relativa al rispetto della normativa in materia di emissioni, in particolare sotto il profilo della vigilanza sull’operato dei direttori di centrale, effettivi vertici operativi dell’attività di produzione energetica.

Sarebbe stato davvero arduo, del resto, nel caso di specie, immaginare una diversa ripartizione di poteri - e, conseguentemente, delle connesse responsabilità - essendosi in presenza di una struttura societaria altamente sofisticata, complessa, con migliaia di dipendenti ed una capillare distribuzione sul territorio, struttura in cui ciascuna divisione aveva le caratteristiche di vera e propria impresa.

D’altronde, era stato proprio l’ing. Potestio a sottoscrivere il piano di risanamento ambientale presentato dall’Enel nel 1994, intrattenendo rapporti con i direttori di centrale ed impartendo loro direttive, il tutto mentre l’imputato era rimasto assolutamente estraneo a tali aspetti gestionali, senza affatto intrattenere alcun rapporto - contrariamente a quanto sostenuto in sentenza - con le autorità ovvero gli enti territoriali in relazione a problematiche connesse alla centrale di Porto Tolle.

Quanto al periodo successivo al 1999 - anno nel quale l’Enel si era trasformata in un gruppo di imprese, a seguito della liberalizzazione del mercato elettrico di cui al D.Lgs 16.3.1999, nr. 79 – tutta l’attività di produzione elettrica era stata affidata ad Enel Produzione S.p.a., la quale aveva operato in piena autonomia patrimoniale, organizzativa, industriale, decisionale e gestionale, mantenendo Enel S.p.a. unicamente funzioni di indirizzo e di coordinamento strategico, pena una

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dannosa sovrapposizione di competenze evidentemente del tutto estranea agli obiettivi perseguiti dal Legislatore: pertanto, era all’A.D. di Enel-Produzione s.p.a, ing. Craparotta – la cui nomina era stata documentata dalla Difesa dell’imputato alla medesima udienza del 17.2.2006 – che facevano capo, in tale periodo, i poteri gestori di tale società, tant’è che era stato proprio il predetto amministratore a conferire allo Zanatta, nell’aprile del 2002, la procura per il compimento degli atti di gestione dell’impianto di Porto Tolle., mentre non poteva rilevare, in alcun modo, il ruolo di indirizzo strategico e di coordinamento delle società controllate svolto da Enel S.p.a., il primo consistendo nella definizione di obiettivi di lungo e medio periodo ed il secondo nell’armonizzazione delle politiche e delle scelte del gruppo, senza, pertanto, che alla società capogruppo potessero competere interventi nei processi decisionali delle società controllate e, men che meno, nelle scelte gestionali correnti.

Per vero, rientrando l’approvvigionamento di combustibile, evidentemente, nei compiti operativi di Enel Produzione S.p.a., e non rinvenendosi, nel processo, neppure labili indizi dai quali evincere che, nel triennio 1999-2002, l’A.D. di Enel Spa avesse impartito direttive, ovvero si fosse ingerito nelle scelte operate dall’A.D. di Enel Produzione Spa in relazione alla attività connesse alla produzione di energia, all’approvvigionamento di combustibili ed alla ripartizione degli stessi fra le varie centrali, non era dato comprendere la ragione per la quale il Giudicante avesse affermato la riconducibilità al Tatò della scelta dell’olio combustibile impiegato nella centrale, facendo unicamente leva sul compito di predisposizione del budget per l’acquisto dei combustibili: anche in tal caso, solo la prova del concorso del Tatò con il Craparotta - nella specie, del tutto mancata - avrebbe potuto legittimare l’affermazione di responsabilità.

Quindi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la Difesa ha sostenuto che nessuno degli elementi addotti dal Giudicante per radicare il giudizio di colpevolezza poteva essere condiviso:

a) quanto alla scelta dell’olio combustibile, in ragione della assoluta assenza di rapporti di dipendenza tra determinazione del budget – documento per sua stessa natura privo di carattere analitico e, comunque, solo arbitrariamente ricondotto dal Tribunale all’amministratore delegato – ed individuazione del carburante da acquistare, carburante la cui scelta, come detto, rientrava totalmente nelle competenze, dapprima, della Divisione Produzione e, dal 1999, della Enel- Produzione S.p.a. ed era comunque frutto di valutazioni derivanti, talvolta, da fattori assolutamente contingenti e non prevedibili, anche in relazione alla maggiore o minore reperibilità, sul mercato, dei vari tipi di olio combustibile.

In ogni caso, anche a volersi ricondurre all’A.D. la scelta dell’olio combustibile, non poteva di certo sostenersi che fosse compito di quest’ultimo provvedere alla ripartizione fra le varie centrali dei diversi quantitativi e delle differenti qualità di olio combustibile.

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