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Capitolo 2. NOSOGRAFIA ED EPIDEMIOLOGIA DELLA DEMENZA

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Capitolo 2. NOSOGRAFIA ED EPIDEMIOLOGIA DELLA DEMENZA

2.1 Caratteri clinici, neuropsicolocigi e neuro radiologici comuni e distintivi delle forme degenerative e vascolari

La demenza è una sindrome clinica caratterizzata da perdita di memoria e di almeno un’altra funzione cognitiva di entità tale da interferire con le attività sociali e lavorative del soggetto, è una patologia cronica, disabilitante, progressiva, letale ed attualmente priva di una cura risolutiva. Queste affermazioni non variano se si considerano tipologie differenti di demenza che pur presentando profili clinici, neuropsicologici, strumentali spesso molto differenti hanno la tendenza comune ad avere prognosi infausta: il paziente sviluppa disabilità ingravescente che sfocia di solito in una sindrome da allettamento e muore per le complicanze legate alla patologia di base. Uno stato cachettico, polmoniti ab ingestis conseguenti a disfagia, malnutrizione, disidratazione, fratture, lesioni da decubito sono tra le complicanze mediche più frequenti (Trabucchi et al., 2000). Anche se questo decorso accomuna tutte le demenze ed è esperienza comune la sovrapponibilità dei quadri clinici quando la demenza diventa grave, l’importanza di eseguire accurate diagnosi differenziando le varie eziologie ha il significato di, se possibile, ritardare (per ora non scongiurare) la progressione della malattia, prevedere e controllare i sintomi e le complicanze.

Le demenze sono in continuo aumento in tutto il mondo a causa del progressivo invecchiamento delle popolazione. Esse rappresentano la quarta causa di morte negli ultrasessantacinquenni, risultano essere una delle cause di disabilità più importanti nella popolazione anziana e sono, dunque, una

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delle più importanti emergenze che i sistemi sanitari si troveranno ad affrontare nei prossimi anni.

Vari studi, anche di proiezione, hanno evidenziato un aumento di incidenza e prevalenza della demenza: questo fenomeno potrebbe essere legato a diversi fattori (fenomeno age-related, maggiore capacità e sensibilità di diagnosi, maggiore coscienza sociale della malattia).

In diversi paesi industrializzati sono stati condotti studi epidemiologici circa la prevalenza della demenza nella popolazione. La prevalenza raddoppia approssimativamente ogni 5 anni di età per i soggetti di età compresi tra i 65 e 85 anni fino ad un plateau di 35-40% nella fascia di età compresa tra 85-90 anni (Fratiglioni et al, 1999).

La demenza di Alzheimer è, come noto, la forma più frequente con una prevalenza di circa il 6.2% sopra i 65 anni (Roth, 1978), del 20% sopra gli 80 anni (Mortimer, 1983) e del 45% sopra ai 95 anni (Gottfries, 1990). E’

responsabile del 50-80% di tutti i casi di demenza in

Europa, Stati Uniti e Canada seguita dalla demenza vascolare che, a seconda degli studi, rappresenta dall’11 al 24% dei casi (Baldreschi et al., 2000; Bachman et al., 1992; Beard et al., 1995; Canadian Study of Health and Aging Workimg Group, 1994; Fratiglioni et al., 1991; Lobo et al., 1995; Ott et al., 1995; Rocca et al., 1991; Schoemberg et al., 1985), mentre altre forme quali la demenza a corpi di Lewy e la malattia di Pick sono causa di demenza nel 10-30% dei casi (Trabucchi et al, 2000; Stephanie et al., 1999). Infine il 10-20% delle demenze è secondario a patologie potenzialmente reversibili (Trabucchi et al, 2000).

La variabilità nella prevalenza della demenza vascolare deriva soprattutto dall’impiego di differenti criteri diagnostici: la frequenza della diagnosi di demenza vascolare è più alta adoperando i criteri DSM-IV e l’Hachinski Ischemic Score (HIS) (Hachinski et al, 1975) e notevolmente più bassa utilizzando i criteri del National Institute of Neurological Disorders and

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Stroke e dall’Association Internationale pour la Recerche et l’Enseignement en Neurosciences (NINDS-AIREN) (Roman et al, 1993). In uno studio anatomopatologico i criteri NINDS-AIREN e ADDTC (Chui et al, 1992) si sono dimostrati più sensibili rispetto all’HIS nella diagnosi di demenza vascolare possibile con una specificità inferiore degli ADDTC (del 64%

rispetto all’80% dei NINDS-AIREN e all’88% dell’HIS). Il maggior livello di sensibilità in tale studio è stato raggiunto utilizzando in combinazione ADDTC e HIS mentre la maggiore specificità si è raggiunta associando i criteri NINDS-AIREN con l’HIS (Gold, 1997).

Se la demenza di Alzheimer ha, comunque, una presentazione clinica tendenzialmente più costante, molti più problemi pone la diagnosi di demenza vascolare per la variabilità dei quadri clinici che vengono etichettati sotto questo termine. Si dovrebbe infatti parlare di “demenze vascolari” poiché la pluralità dei quadri clinici trova corrispondenza nelle diverse manifestazioni anatomopatologiche di quello che è un disturbo vascolare. Quindi, se l’origine del problema si può ritenere comune, individuando fattori di rischio che causano malattia organica etichettata genericamente come malattia cerebrovascolare, non si può non caratterizzare poi il tipo e la sede delle lesioni, poiché da queste deriva il fenotipo clinico. Tale lavoro di categorizzazione è spesso difficile poiché la clinica non riflette sempre la presenza delle lesioni, così ben definite e misurabili con le tecniche di neuroimaging. A tale proposito pare estremamente affascinante la teoria della

“riserva cognitiva”, che individua nel cervello la capacità di compensare il danno subito sia questo vascolare o degenerativo, utilizzando due riserve una passiva che viene considerata il livello individuale di sviluppo delle normali funzioni e performance cerebrali raggiunto (quel 100 o 60 che sia da cui si parte in condizioni di normalità e che è dovuto a fattori biologici, genetici, al numero di sinapsi presenti, ma anche all’ambiente in cui si è vissuti, agli stili di vita, alla stimolazione intellettuale, all’educazione, a fattori nutrizionali), e

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una attiva che viene descritta come la capacità del cervello di adattarsi e compensare la presenza di patologia.

Tale variabilità clinica assieme alla complessità nell’identificare i meccanismi patogenetici della demenza vascolare porta alla necessità di classificare la demenza vascolare in base alle lesioni neuropatologiche riscontrate:

1. alterazioni diffuse della sostanza bianca e infarti lacunari multipli da patologia delle piccole arterie e delle arteriole parenchimali (demenza vascolare sottocorticale);

2. infarti corticali territoriali multipli o infarti di confine, superficiali o profondi, da aterotrombosi dei vasi intra- ed extra-cranici di ampio calibro o su base cardioembolica (demenza multi-infartuale in senso stretto);

3. singolo infarto localizzato in sedi strategiche, come il giro angolare, l’ippocampo, la porzione antero-mediale del talamo, il nucleo caudato, il ginocchio della capsula interna (demenza da singolo infarto strategico);

4. emorragie cerebrali singole o multiple;

5. fistole durali e malformazioni artero-venose cerebrali, che possono determinare ischemia stagnante o ipoperfusione regionale da furto ematico intracerebrale;

6. forme miste, come quella in cui è possibile riscontrare la contemporanea presenza di infarti territoriali e lesioni dovute alla patologia dei piccoli vasi

In generale si riconoscono comunque alcuni punti comuni delle forme vascolari o comunque segni comuni della presenza di una componente vascolare: un esordio improvviso, le fluttuazioni di sintomatologia, la frequente associazione con segni neurologici, la comparsa precoce di disturbi comportamentali (soprattutto depressione, labilità emotiva, disinibizione, aggressività), la presenza di fattori di rischio cardiovascolari, la

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compromissione dello stato funzionale spesso precoce, deficit neuropsicologici nelle funzioni esecutive, sono le caratteristiche più riportate in letteratura. L’esperienza clinica mostra come spesso i pazienti che hanno una forma di malattia cerebrovascolare sono mosaici, con quadri clinici difficilmente categorizzabili sotto profili definiti, che riflettono la casualità della sede della lesione in rapporto alla capacità di riserva.

Nelle forme sottocorticali, la localizzazione delle lesioni vascolari è per definizione a livello della sostanza bianca sottocorticale degli emisferi cerebrali, in assenza di danno corticale. Secondo l’ICD-10 per la diagnosi di demenza vascolare sottocorticale è anche obbligatoria la storia di ipertensione arteriosa. Nei criteri diagnostici NINDS-AIREN viene definita come

“malattia dei piccoli vasi associata a demenza”.

Non esistono dati di popolazione sulla proporzione delle forme sottocorticali. In passato queste erano considerate meno frequenti di quelle associate a infarti corticali multipli su base aterosclerotica. Studi neuropatologici recenti suggeriscono invece che le forme più frequenti potrebbero essere quelle sottocorticali, legate alla patologia dei piccoli vasi e a meccanismi locali di ipoperfusione cerebrale (Brun,1994).

Nei casi di demenza vascolare sottocorticale il quadro neuropatologico si distingue per la varia associazione delle seguenti lesioni (Garcia et al, 1994):

1) alterazioni della sostanza bianca periventricolare e dei centri semiovali caratterizzate da:

a) diffusa rarefazione delle fibre mieliniche non associata a necrosi coagulativa (assenza di macrofagi);

b) vacuolizzazione causata da piccole aree di necrosi o da aumento di liquido nello spazio extracellulare;

c) astrogliosi reattiva, con aumento del volume citoplasmatico e proliferazione dei processi astrocitari, visibili in parte con le normali colorazioni istologiche, più facilmente con tecniche specifiche

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immunoistochimiche (Glial Fibrillary Acidic Protein);

2) infarti lacunari di diametro inferiore a 1,5 cm, spesso multipli, localizzati nelle sedi tipiche (gangli della base, capsula interna, talamo), ma anche eventualmente in altri distretti come la sostanza bianca sottocorticale;

3) angiopatia delle piccole arterie (<500 micron di diametro) e arteriole intraparenchimali, caratterizzata da perdita delle cellule muscolari lisce con deposizione di materiale ialino, fibroialino o lipidico nella tunica dei vasi.

I principali fattori di rischio per demenza sottocorticale possono essere identificati con l’età avanzata (Sheltens et al, 1998) e l’ipertensione arteriosa.

È importante sottolineare, però, che alcuni studi hanno evidenziato, nei soggetti con lesioni diffuse ed estese della sostanza bianca, più che una ipertensione persistente, una deregolazione della pressione arteriosa sistemica, caratterizzata da oscillazioni marcate e fasi di ipotensione (Chamorro et al, 1997). In questi pazienti è stata anche osservata una modificazione del ritmo circadiano della pressione arteriosa, con la perdita del fisiologico calo pressorio durante le ore notturne (Tohgi et al, 1991).

Un altro fattore di rischio frequentemente associato con leucoaraiosi, e quindi, per inferenza, con la demenza vascolare sottocorticale, è rappresentato dalle malattie cardiache, specialmente quelle da diminuita gittata sistolica (pregresso infarto del miocardio, aritmie, valvulopatie).

Il ruolo del diabete mellito sembra essere più limitato, ma non completamente valutato è il peso dell’interazione tra diabete e ipertensione arteriosa.

L’importanza di altri fattori di rischio vascolare (iperlipidemia, fumo di sigaretta, disturbi della coagulazione) rimane ancora da definire.

Infine, è opportuno ricordare la possibile influenza di fattori genetici. Una forma descritta di demenza vascolare sottocorticale su base genetica è quella

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indicata con l’acronimo CADASIL: Cerebral Autosomal Dominant Arteriopathy with Subcortical Infarcts and Leukoencephalopathy. Questa patologia si caratterizza per una trasmissione di tipo autosomico dominante e, dal punto di vista clinico, per episodi ischemici ricorrenti sullo sfondo di un deterioramento cognitivo che progredisce fino alla demenza (Chabriat et al, 1995).

Sebbene il deficit di memoria sia classicamente riportato come peculiare in ogni forma di demenza (e, anzi, sia tuttora considerato come una conditio sine qua non per la sua definizione), altre funzioni cognitive risultano più selettivamente e precocemente colpite nella demenza vascolare sottocorticale:

le funzioni esecutive (velocità dell’elaborazione cognitiva, la capacità di astrazione, la categorizzazione e la pianificazione, l’attenzione e la concentrazione). Il deficit mnesico, a differenza di quello tipico delle forme degenerative primarie, tipo Alzheimer, è più evidente nel richiamo di nozioni precedentemente apprese che nell’acquisizione di nuove informazioni. Sono inoltre di frequente riscontro alterazioni del tono dell’umore, in senso depressivo o disforico, apatia, abulia e irritabilità. Nella demenza vascolare sottocorticale, in associazione al deficit cognitivo, possono essere frequentemente osservati disturbi motori caratteristici: aprassia della marcia contraddistinta da rallentamento della deambulazione, allargamento della base d’appoggio, marcia a piccoli passi, in presenza di una normale motilità e coordinazione degli arti inferiori. Possono inoltre essere presenti deficit focali di forza, disartria, disfagia, tremore, rigidità, distonie. Frequenti sono anche i disturbi vescicali, in genere incontinenza o minzione imperiosa.

Le tipiche alterazioni neuroradiologiche sono rappresentate alla tomografia computerizzata (TC) dell’encefalo da ipodensità diffusa e simmetrica delle regioni periventricolari e/o del centro semiovale (cosiddetta leucoaraiosi), spesso associata a piccole lesioni ipodense, rotonde od ovalari, a limiti netti (infarti lacunari), localizzate soprattutto nei gangli della base, nel talamo,

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nella sostanza bianca sottocorticale e nella capsula interna.

Alla risonanza magnetica (RM) le corrispondenti lesioni sono caratterizzate da aree di iperintensità nelle sequenze T2-pesate di estensione diversa, a volte discrete, in altri casi confluenti o addirittura diffuse, situate bilateralmente nella sostanza bianca sottocorticale. In associazione possono essere rilevate lesioni molto più piccole, rotonde od ovalari, a limiti netti, evidenti sia nelle sequenze T2-pesate che in densità protonica, localizzate nelle sedi tipiche e corrispondenti a infarti lacunari.

È noto che la RM ha una sensibilità molto maggiore della TC per le lesioni della sostanza bianca. D’altronde, a una maggiore sensibilità si associa una minore specificità in quanto non tutte le alterazioni di segnale evidenziate dalla RM possono essere considerate patologiche (Pantoni et al, 1995).

Aspetti tecnici innovativi, come ad esempio l’applicazione di particolari sequenze RM chiamate Fluid Attenuated Inversion Recovery (FLAIR), potrebbero portare in breve tempo a un sensibile miglioramento della specificità della RM.

È importante sottolineare che la presenza di alterazioni della sostanza bianca, o anche di infarti lacunari sporadici, non è di per sé sufficiente alla diagnosi di demenza vascolare sottocorticale che rimane essenzialmente una definizione clinica. Ciononostante, il ruolo delle indagini neuroradiologiche è fondamentale in questo settore. Inoltre, sia la TC che la RM possono rappresentare uno strumento per lo studio della progressione della malattia e un possibile ausilio per la valutazione dell’effetto di alcune misure preventive o terapeutiche. A tale riguardo è importante sottolineare come attualmente esista un gran numero di scale per la classificazione dei vari tipi e della gravità delle alterazioni della sostanza bianca (Sheltens et al, 1997) e come, a livello internazionale, si percepisca l’esigenza di unificare queste scale, come pure di tenere conto, nella descrizione di questi quadri radiologici, di altre lesioni cerebrali coesistenti quali infarti lacunari, atrofia cerebrale e

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dilatazione ventricolare.

Le forme degenerative sono a presentazione solitamente più coerente anche se la presenza concomitante di lesioni vascolari spesso comporta la comparsa di variazioni nel fenotipo classico della malattia. Tale coerenza clinica deriva da una maggiore costanza della progressione delle lesioni a livello cerebrale.

La demenza di Alzheimer, viene classicamente descritta come una patologia ad esordio graduale, con progressione continua, senza fluttuazioni caratterizzata principalmente da perdita progressiva della memoria, del linguaggio, delle abilità visuospaziali, della personalità e della cognitività. La perdita di memoria è solitamente il primo sintomo, frutto dell’atrofia presente a livello degli ippocampi. Viene persa la memoria episodica, inizialmente, e il paziente diventa ripetitivo, perde gli oggetti e sviluppa una incapacità ad apprendere nuove informazioni. Successivamente sia il deposito che il richiamo della memoria episodica vengono ad essere fortemente alterati e diversamente da quanto accade per i pazienti con danno frontale o sottocorticale il paziente non beneficia di aiuti per ricordare (Miller et al., 2001). Anche la memoria semantica viene interessata, anche se in modo meno grave e più tardivamente rispetto alla memoria episodica: il paziente fatica a ricordare fatti ed informazioni generali con incapacità a richiamare fatti storici e nomi. Tale disfunzione sarebbe correlata al deterioramento della neocorteccia temporale anteriore sx regione che viene interessata anche in corso di AD oltre che nella demenza frontotemporale (Hodges et al, 1992).

Successivamente la working memory (memoria di lavoro) diviene deficitaria e il paziente non riesce a trattenere le informazioni per brevi periodi di tempo e quindi a manipolarle. Queste funzioni sono legate alla degenerazione della corteccia prefrontale e temporo-parietale posteriore ( Waltz et al.,1999). Nella AD si riscontra deficit del linguaggio che tipicamente non è precoce ed è meno rilevante che nelle demenze frontotemporali ed è caratterizzato da

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minore disponibilità di parole seguita da progressiva difficoltà nel recupero delle stesse, fino, in alcuni casi a una vera e propria afasia fluente, associata a deficit di comprensione, che si associa ad un coinvolgimento delle regioni posteriori cerebrali fino ad interessare l’area di Wernicke. Le abilità visuospaziali sono spesso precocemente e gravemente compromesse, segno del coinvolgimento dei lobi temporali e parietali che si associa all’interessamento degli ippocampi; questo tipo di deficit si correla alla perdita di capacità di usare e manipolare gli oggetti, copiare disegni, ma anche muoversi nell’ambiente circostante, vestirsi, usare un pettine, cucinare;

simultaneamente si sviluppa una vera aprassia ed il paziente perde la capacità di eseguire movimenti organizzati. Il coinvolgimento del lobo parietale dx è responsabile del deficit delle capacità visuo-spaziali mentre la aprassia deriva dalla progressione dell’atrofia al lobo parietale di sx (Miller et al., 2001). Il paziente perde, quindi, progressivamente l’autosufficienza e sviluppa dipendenza: prima vengono perse le competenze strumentali più complesse ed infine le più elementari secondo un modello descritto da Reisberg come inverso rispetto allo sviluppo delle competenze nel bambino secondo il modello di Piaget (Reisberg, 2002; Piaget, 1955). Lo sviluppo di disturbi comportamentali non è frequente nelle prime fasi della malattia di Alzheimer, eccezione fatta per la depressione che spesso caratterizza le fasi iniziali di malattia e può precedere di mesi l’esordio di un quadro conclamato. Gli AD conservano per molto tempo normali competenze sociali, mentre sviluppano precocemente apatia, irritabilità e ritiro sociale. Con la progressione della malattia si sviluppano disturbi del comportamento quali aggressività, deliri (soprattutto di furto, gelosia, di Capgras), allucinazioni visive, agitazione psicomotoria, wandering, affaccendamento dovuti al danno della corteccia parietale, frontale e limbica (Cummings,1992) Al neuroimaging la demenza di Alzheimer si caratterizza per atrofia diffusa o atrofia degli ippocampi alla

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TC e alla RM, ipometabolismo ed ipoperfusione, solitamente simmetrici dei lobi parietali, temporali e degli ippocampi alla SPECT e alla PET.

Questo quadro differisce per presentazione dalle altre demenze di tipi degenerativo: la demenza a Corpi di Lewy (LBD) è classicamente caratterizzata da sintomi psicotici (aggressività, deliri, allucinazioni visive) ad esordio precoce, precoci e gravi deficit delle funzioni visuospaziali. La sintomatologia ha caratteristicamente andamento fluttuante e clinicamente è presente un quadro di parkinsonismo con un anamnesi spesso positiva per frequenti cadute. Tipica anche l’ipersensibilità all’uso di neurolettici. Questo in un contesto di rendimento cognitivo sostanzialmente conservato; la demenza Fronto-Temporale (FTD) si caratterizza per un esordio precoce tra i 50 e i 70 anni ed ha una durata media di 7 anni: l’esordio graduale è caratterizzato spesso da modificazioni della personalità, disturbi del comportamento e delle condotte sociali. Le modificazioni di personalità precedono di alcuni anni lo sviluppo della demenza e sono determinate da disfunzione/degenerazione dei lobi frontali: in particolare disinibizione, iperoralità con predilezione per i cibi dolci ma a volte con picacismo, ipersessualità, prodigalità, condotte antisociali sono legati a disfunzione delle aree fronto-basali. A volte il quadro clinico si caratterizza per la presenza di ritiro sociale, apatia, tali sintomi “pseudodepressivi” sono dovuti al coinvolgimento dell’area frontale mediale. I sintomi cognitivi quando si manifestano sono caratterizzati soprattutto da disturbi del linguaggio con inizialmente una riduzione del linguaggio spontaneo e comparsa di stereotipie verbali. Altre funzioni restano per lungo tempo inalterate come le funzioni visuospaziali mentre compromesse sono alcune funzioni esecutive con perseverazioni, difficoltà a concettualizzare, scarsa attenzione e ridotta inibizione alla risposta. Sono presenti spesso anche deficit di programmazione motoria. La diagnosi della demenza frontotemporale è resa complessa dalla

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mancanza di un consenso generale e univoco rispetto ai criteri diagnostici con una nosografia estremamente confusa. Il neuroimaging mostra atrofia dei lobi frontali spesso asimmetrica alla TC e alla RM mentre alla PET e alla SPECT si evidenzia una disfunzione dei lobi frontali e temporali spesso molto marcata. A differenza dell’AD la parte posteriore dei lobi temporali è spesso risparmiata.

Se alcuni anni fa AD e VaD venivano considerate in prevalenza forme

“pure” con pochi i casi di sovrapposizione, negli ultimi anni si è visto come in realtà siano prevalenti quadri di coesistenza della malattia degenerativa con la cerebrovascolare (Geroldi et al, 1997; Skoog, 2003; Langa, 2005). Le evidenze raccolte, e l’esperienza clinica comune suggeriscono come le forme pure di AD e VaD possano essere meno frequenti (Skoog, 2005) e la maggioranza dei casi, soprattutto quelli ad insorgenza in tarda età, presentino spesso entrambe gli aspetti in quadri clinici codificati come demenza di Alzheimer con componente vascolare associata. Le manifestazioni cliniche della demenza dipendono, quindi, da due fattori: il numero delle lesioni (degenerative o vascolari che siano) e dal grado di resistenza dell’individuo a tali insulti. In generale le lesioni vascolari sembrano in grado di slatentizzare i sintomi di una AD ed i pazienti affetti da AD senza lesioni cerebrovascolari possano tollerare un quadro di degenerazione cerebrale molto maggiore senza manifestare segni clinici di demenza (Snowdon, 2003). Le lesioni cerebrovascolari che più spesso portano al manifestarsi clinico della demenza sono quelle sottocorticali che colpiscono la sostanza bianca (per la sua importante funzione di network) che sono quelle che nella pratica clinica si incontrano più spesso nel grande vecchio. Anche studi anatomopatologici dimostrano una certa sovrapponibilità delle due forme dementigene, infatti il 30% dei pazienti con AD presentano lesioni cerebrovascolari periventricolari, degenerazione vascolare ed angiopatia amiloide e il 40% dei pazienti con

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VaD presenta placche senili e degenerazione neurofibrillare (De La Torre, 2002). Questa sovrapponibilità patologica porta a difficoltà diagnostiche poiché spesso non si trova corrispondenza tra la clinica e la rigidità dei criteri diagnostici previsti per le forme pure.

Di particolare interesse è quindi il concetto di malattia dei piccoli vasi, che comprende la leucoaraiosi e gli infarti sottocorticali. Questo particolare quadro clinico è una malattia ubiquitaria che può accelerare la progressione clinica della malattia di Alzheimer. La leucoaraiosi è comunemente considerata in relazione ad alterazioni della sostanza bianca periventricolare e profonda. Non vi sono domini cognitivi specifici correlati ad essa, tuttavia l'associazione con il declino cognitivo e funzionale è consistente. In genere pazienti con lesioni confluenti hanno una prognosi peggiore rispetto a quelli con lesioni puntiformi. In genere nei pazienti con malattia dei piccoli vasi è più frequente riscontrare atrofia corticale. Nella patogenesi della malattia un ruolo fondamentale sembra essere svolto dal danno dei piccoli vasi parenchimali (<500 micron di diametro). L’età avanzata, l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito possono tutti contribuire alle alterazioni descritte a carico dei piccoli vasi situati all’interno del parenchima cerebrale. Tale microangiopatia può causare una sofferenza ischemica delle strutture cerebrali sottocorticali che può essere acuta e focale o cronica e diffusa. Se la diminuzione del flusso cerebrale è acuta e focale e di entità tale da determinare necrosi tissutale si produrranno veri e propri infarti, seppure di limitate dimensioni (infarti lacunari); se invece la diminuzione del flusso cerebrale regionale è subliminale, tale cioè da non produrre necrosi coagulativa, il danno ischemico sarà selettivo per alcune componenti istologiche (infarto incompleto) (Brun A, 1986; Garcia JH, 1996); la sommazione temporale e spaziale di questi piccoli insulti porterà a un danno subacuto o cronico, eventualmente silente per una lunghissima fase, più

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diffuso a carico della sostanza bianca sottocorticale (territori profondi di confine), caratterizzato da rarefazione delle fibre mielinizzate con il tipico quadro di “pallore” nelle sezioni istologiche colorate con metodi specifici per la mielina. La stessa arteriolopatia può essere alla base di una disfunzione dell’autoregolazione cerebrale (spesso rilevata in soggetti con danno cerebrale su base microangiopatica) che può concorrere alla genesi di una condizione di ischemia cronica o ricorrente. In presenza di una disfunzione di questo meccanismo compensatorio intrinseco dell’encefalo, una riduzione del flusso sistemico da ridotta gittata cardiaca, da eccessivo trattamento antipertensivo o da ipotensione ortostatica, può essere un ulteriore fattore di riduzione della perfusione tissutale cerebrale con conseguente danno parenchimale. Un ulteriore e complementare meccanismo di danno alla sostanza bianca sottocorticale può essere rappresentato dalle alterazioni della barriera ematoencefalica, legate sia all’età che all’effetto cronico sull’endotelio microvasale dei suindicati fattori di rischio (ipertensione arteriosa e diabete), con conseguente accumulo di liquido nel tessuto (Pantoni L, 1993). La vacuolizzazione della sostanza bianca e la gliosi reattiva potrebbero essere in parte secondarie a questo fenomeno.

2.2 La sindrome disesecutiva

Con il termine “funzioni esecutive” si intende un insieme di processi e sotto-processi cognitivi complessi che servono a controllare e coordinare le funzioni cognitive strumentali, in particolare il linguaggio, la prassia e la gnosia. Dalla letteratura neuropsicologica emerge che il risultato ottenuto ai test che valutano le funzioni esecutive sia strettamente dipendente dalla corteccia frontale. Da qui i termini “funzioni esecutive” e “funzioni dei lobi frontali” sono spesso usati come sinonimi. In realtà, recenti teorie hanno

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dimostrato come questa visione sia semplicistica e come anche le regioni sottocorticali possano essere coinvolte in questi meccanismi (Elliott, 2003).

Dati clinici e sperimentali, infatti, suggeriscono un ruolo fondamentale delle connessioni fra corteccia prefrontale e striato (Heyder et al 2004). Inoltre, l'attivazione di strutture sottocorticali durante l'esecuzione di compiti esecutivi è stata rilevata in diversi protocolli di neuroimaging funzionale (Owen, 2004; Lewis et al, 2003).

Le funzioni esecutive generalmente sono implicate in funzioni cognitive complesse quali, risoluzione dei problemi, modificazioni del comportamento alla luce di nuove informazioni, generazione di strategie o di sequenze di azioni complesse. In un recente studio, Funahashi riassume tali funzioni come un prodotto di operazioni coordinate di vari processi per raggiungere un obiettivo particolare in modo flessibile. Questa coordinazione flessibile di sottoprocessi per ottenere un risultato specifico è sotto la responsabilità dei sistemi esecutivi di controllo. Quando questi sistemi vengono danneggiati, il comportamento viene scarsamente controllato, disarticolato e disinibito (Funahashi, 2001).

Nonostante le funzioni esecutive coinvolgano l’attivazione di più aree cerebrali contemporaneamente, sono solitamente supervisionate dai sistemi frontali bilaterali.

Nell'uomo sono una delle strutture filogeneticamente più recenti e tra quelle che maturano più lentamente nel corso dell'ontogenesi. I lobi frontali sono inoltre molto più sviluppati rispetto alle altre aree corticali e ricchi di connessioni sia afferenti che efferenti che li collegano a tutti i sistemi funzionali del cervello, sia corticali che sottocorticali (Ladavas E, 1995).

I lobi frontali vengono divisi in 4 aree principali: l’area motoria (area 4 di Brodmann), l’area premotoria, l’area prefrontale (aree 9, 10, 45, 46) e la

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porzione basomediale dei lobi (dall'area 9 alla 13, 24, 32). Generalmente le ultime due porzioni vengono riunite sotto il termine di regione prefrontale.

L’insieme dei processi che costituiscono il dominio delle funzioni esecutive può essere scomposto in "unità" cognitive parzialmente differenziabili (Grossi et al, 2005), che comprendono: le capacità di pianificazione e valutazione delle strategie efficaci in relazione ad un fine specifico connesse con le abilità di problem-solving e la flessibilità cognitiva; il controllo inibitorio e i processi decisionali che supportano la selezione della risposta funzionale e la modificazione della risposta (comportamento) in relazione al cambiamento delle contingenze ambientali (es. rinforzo); il controllo attenzionale riferito alla capacità di inibire stimoli interferenti e di attivare l’informazione rilevante; la memoria di lavoro che si riferisce a quei meccanismi cognitivi che consentono il mantenimento on-line e la manipolazione dell'informazione necessaria per l'esecuzione di operazioni cognitive complesse quali ad esempio il linguaggio, la comprensione e il ragionamento configurandosi, dunque, come una funzione trasversale rispetto alle precedenti.

Diversi ricercatori (Cummings 1995, Duke et al, 2000) hanno evidenziato la presenza di tre principali circuiti frontali-sottocorticali implicati in processi cognitivi, emozionali e motivazionali:

1) Circuito Dorsolaterale: si proietta principalmente alla testa dorsolaterale del nucleo caudato ed è correlato a funzioni esecutive quali, la fluenza verbale, l'abilità a mantenere e spostare l'attenzione, la capacità di pianificazione, il controllo inibitorio, la memoria di lavoro, l'abilità di organizzazione, la capacità di risolvere i problemi, ed il pensiero astratto.

2) Circuito Ventromediale: è coinvolto nella motivazione e

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nell'iniziativa, inizia a livello del cingolato anteriore e si proietta al nucleo accumbens. Lesioni in tale regione producono apatia, riduzione dei contatti sociali, e rallentamento psicomotorio.

3) Circuito Orbitofrontale: si proietta al nucleo caudato ventromediale ed è associato ad un comportamento socialmente appropriato. Lesioni a livello di quest'area causano disinibizione, impulsività, e comportamento antisociale.

I lobi frontali sono coinvolti in tutti gli aspetti del comportamento adattivo all’ambiente e a seconda della localizzazione della lesione del lobo frontale o dei circuiti fronto-sottocorticali, si osserveranno differenti manifestazioni cliniche, definite sindromi disesecutive (Baddeley A, 1988).

La Sindrome prefrontale dorsolaterale (tipo disesecutivo) si caratterizza per la presenza di alterazioni nelle funzioni esecutive ed in particolare per ridotta capacità di giudizio e di categorizzazione, ridotta capacità a generare ipotesi e ridotta fluenza, ridotta capacità di pianificazione e problem-solving, ridotta meta cognizione; sono inoltre presenti deficit nelle strategie di apprendimento ed in particolare una ridotta capacità di organizzazione temporale. Infine si riconoscono disturbi della programmazione motoria (difficoltà ad eseguire sequenze motorie e compiti motori alternanti o reciproci). Sono inoltre tipici i disturbi caratterizzati soprattutto da ridotta capacità di introspezione e ridotta cura personale. Il comportamento è disorganizzato e caotico, non appropriato rispetto al fine prefissato, ed è presente una rigidità comportamentale, con risposte ripetitive (comportamenti perseverativi).

La Sindrome del cingolo antero-mediofrontale (tipo apatico) si caratterizza, invece, per la presenza di disturbi comportamentali tipici quali riduzione della spontaneità o inibizione comportamentale, riduzione del

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comportamento motorio (inerzia o aumento della latenza della risposta, acinesia) e del comportamento verbale (inerzia verbale, mutismo acinetico).

Sono presenti disturbi di personalità con riduzione delle risposte emozionali (apatia).

Questa regione appare particolarmente implicata nella capacità di prendere una decisione quando la situazione esterna ha caratteristiche di bassa strutturazione, cioè quando per decidere occorre basarsi su un sentimento soggettivo di correttezza "feeling of rightness" (Elliott R et al. 2000).

La Sindrome orbitofrontale (tipo disinibito) si caratterizza per la presenza di disturbi comportamentali di tipo disinibito, stimolo-guidati e alterazioni del’iniziative caratterizzate soprattutto da distraibilità ed iperattività. Sono presenti disturbi di personalità quali irritabilità

atteggiamento fatuo, ipomania, labilità emotiva

Alcuni studi evidenziano che lesioni a livello delle regioni orbito-frontali producono una difficoltà a decidere in modo vantaggioso per se stessi e di rispettare le norme sociali (Bechara et al. 2000). Gli effetti sulla gestione della vita quotidiana sono significativamente più gravi in pazienti con lesione orbitofrontale, rispetto a quelli con lesioni delle aree prefrontali.

Anche lesioni sottocorticali producono deficit esecutivi simili a quelli conseguenti a lesioni corticali, caratterizzati da ridotta capacità di astrazione e pianificazione, ridotta flessibilità mentale, ridotte capacità di attenzione divisa, focalizzata e sostenuta (distraibilità) e rallentamento mentale (bradifrenia) (Barbarulo et al, 2005).

Secondo uno studio longitudinale in anziani normali l'avanzare dell'età porta ad un decremento volumetrico relativamente maggiore a carico dei lobi frontali e dello striato rispetto agli altri distretti cerebrali. La presenza e l’estensione delle WML (White Matter Lesions) risultano associate al riscontro di deficit cognitivi sia nel paziente demente che nell’anziano

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clinicamente normale (Salat et al, 2001; Tisserand and Jolles. 2003). Tali lesioni della sostanza bianca interrompono i circuiti fronto-sottocorticali che a loro volta sono implicati nel controllo esecutivo.

Lo studio ha evidenziato che l'atrofia del giro frontale superiore ed orbito- frontale, può predire la sindrome disesecutiva indipendentemente dal volume delle lesioni della sostanza bianca ed è associata al grado di severità delle lesioni (Vincent C.T. Et al, 2008). Anche il riscontro di atrofia sottocorticale con ventricoli laterali dilatati, e di atrofia della capsula interna sono fattori predittivi di alterazioni delle funzioni esecutive ed è associato al grado di severità delle lesioni della sostanza bianca, anche se lesioni a livello della capsula interna sono associate anche ad un declino cognitivo (Tatemichi TK et al, 1992).

Un ruolo chiave sul controllo dell'andatura e dell'equilibrio sembra essere attribuito alle funzioni esecutive. Alcuni autori hanno evidenziato come la capacità di flessibilità mentale, aspetto importante delle funzioni esecutive, sia un fattore indipendentemente associato ad un'importante variazione dell'andatura e ad instabilità posturale (Marianne B van Iersel et al, 2008). La velocità di andatura dipende dalle funzioni esecutive e varia a seconda del grado di adeguamento motorio e sensoriale necessari per l'esecuzione di compiti complessi. Le funzioni esecutive svolgono un ruolo importante nelle abilità degli anziani, sia nell'adattarsi efficacemente a condizioni ambientali complesse sia nell'allocare adeguatamente le risorse attentive che sono necessarie per completare con successo un determinato compito.

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