Il clinico, prima di utilizzare un protocollo terapeutico in corso di leishmaniosi canina, deve tenere conto di molteplici fattori che influiscono sulla evoluzione della risposta alla terapia.
Stadiazione clinica (linee guida)
STADIO A (esposto): i cani non vanno trattati farmacologicamente ma ricontrollati clinicamente e dal punto di vista sierologico e parassitologico dopo 8-16 settimane dal primo riscontro di positività sierologica.
STADIO B (infetto): i cani devono essere trattati farmacologicamente se l’evidenza del parassita è associata a sieroconversione. In assenza di sieroconversione i soggetti non vanno trattati ma strettamente monitorati clinicamente e sierologicamente ogni 8-16 settimane, per almeno un anno.
STADIO C (malato): i cani devono essere trattati con farmaci anti-Leishmania. In questi soggetti, un esame fisico completo e l’esecuzione di un accurato screening di laboratorio consentono di valutare la necessità di terapie collaterali.
STADIO D (malato con quadro clinico grave). I cani in questo stadio devono essere trattati con farmaci anti-Leishmania e con terapie di supporto suggerite dal quadro clinico del paziente.
STADIO E (cani malati refrattari al trattamento)
• escludere “false positività”;
• rivalutare le alterazioni clinico-patologiche;
• escludere altre patologie (ad es. patologie trasmesse da zecche);
• rivalutare il protocollo terapeutico (dosi, tempi, correttezza di somministrazione,
“compliance” del proprietario);
• valutare l’utilizzo di un protocollo terapeutico alternativo.
Tab.2.1: Stadiazione secondo il G.S.L.C. (2008)
E’ infatti stato dimostrato che l’efficacia della chemioterapia è inversamente proporzionale al grado di compromissione clinica, ed inoltre che i flebotomi che assumono sangue da cani asintomatici od oligosintomatici dopo trattamento con antimoniali, risultano meno infettanti rispetto a quelli che si nutrono da cani marcatamente sintomatici, anche quando questi sono stati trattati con ripetuti cicli di terapia (Roura et al., 2002).
Carica parassitaria
La valutazione della carica parassitaria si effettua tramite una valutazione su ago- aspirato splenico e linfonodale, utilizzando una scala di valori proposta da Chulay e Bryceson (1983). La precisa definizione del “grading” parassitologico dell’animale ammalato ed il suo monitoraggio nei mesi successivi al trattamento, rappresenta un punto chiave per limitare la diffusione della malattia, in quanto gli animali così trattati, tenuti in una condizione di persistente “eclissi parassitologica” mediante interventi terapeutici ripetuti nel tempo, possono costituire indubbiamente un rischio minore per la trasmissione della malattia all’uomo (Roura et al.; 2002).
Stato immunitario dell’animale
E’ ormai noto come nella popolazione canina esistano almeno due classi di soggetti, ognuna delle quali reagisce diversamente nei riguardi dell’infezione da Leishmania:
animali caratterizzati da un’attività dei linfociti Th1 (produttori di IL2 e IFNγ), i quali condizionano la produzione di bassi livelli di anticorpi specifici e lo sviluppo di una solida attività cellulo-mediata, con conseguente evoluzione benigna della malattia, ed animali nei quali il contatto con il parassita determina un’attivazione dei linfociti Th2 (produttori di IL4 e IL5) con elevata produzione di anticorpi, per lo più aspecifici, e deficit della risposta immunitaria cellulare. Questi ultimi soggetti mostrano segni clinici molto evidenti (sintomatici e marcatamente sintomatici), alti titoli anticorpali (IFAT>1:320) ed un protidogramma caratterizzato da aumento delle proteine sieriche totali, iperglobulinemia e inversione del rapporto albumina/globuline.
Appare quindi logico che per seguire l’evoluzione della malattia prima e dopo il trattamento terapeutico, oltre alla valutazione dei parametri clinici e parassitologici, sia fondamentale controllare nel tempo le modificazioni del titolo anticorpale e del quadro elettroforetico, al fine di poter interpretare in maniera più precisa le possibili variazioni della risposta immunitaria.
Profilo ematologico e funzionalità epato-renale:
Possono contribuire ad emettere un giudizio prognostico più preciso, e aiutare nella scelta del chemioterapico da utilizzare. In particolare, qualora siano presenti profonde modificazioni della crasi ematica e della funzionalità di uno o più organi, prima di agire con farmaci specifici, o comunque collateralmente al loro impiego, deve essere istituita un’idonea terapia di supporto.
Patologie concomitanti
Queste possono alterare l’efficacia del trattamento se non vengono opportunamente diagnosticate. Si tratta di parassitosi (Ehrlichia, etc.), neoplasie (specialmente in animali in età avanzata), co-infezioni. Anche situazioni di stress, alimentazione errata, uso di immunosoppressori possono rompere l’equilibrio e produrre una condizione di malattia.
Follow up
I parametri sopra indicati devono essere monitorati periodicamente (solitamente ogni 6 mesi), teoricamente per tutta la vita dell’animale ammalato, in modo da poter mettere in atto tutte le possibili strategie, sia profilattiche che terapeutiche, atte a renderlo non pericoloso per la salute umana, e per intervenire tempestivamente su eventuali recidive.
Di fondamentale importanza per un successo terapeutico è sapere quando è il momento giusto per poter intervenire con un trattamento.
Ancora oggi il trattamento terapeutico del cane leishmaniotico rappresenta una sfida per il medico veterinario, a motivo dell’estrema complessità della patologia che si esprime con una varietà di quadri clinici la cui evoluzione non è facilmente prevedibile (Oliva et al., 2007).
Gli scopi della terapia anti-Leishmania possono essere ricondotti a:
• riduzione (eliminazione) della carica parassitaria del paziente;
• controllo dei danni indotti dal parassita;
• ripristino della risposta immunitaria del cane;
• stabilizzazione nel tempo dei risultati ottenuti;
• trattamento delle recidive.
Cosa importante da ricordare è che tutti i farmaci anti-Leishmania sono stati ideati e sviluppati in fasi pre-cliniche e cliniche esclusivamente per la terapia delle leishmaniosi umane e solo successivamente sono stati studiati ed utilizzati nel cane (Alvar et al., 2006). Mentre in campo umano, però, la terapia porta ad una percentuale di guarigione completa di circa il 94-95% dei casi (Gradoni et al. 1995;
Gradoni et al., 2003) negli animali purtroppo tale percentuale scende drasticamente.
Spesso si tende a confondere la guarigione clinica (regressione di tutti i sintomi) che è possibile, ed anzi frequente, allorché le condizioni iniziali del paziente non siano già compromesse (Mancianti & Bizzeti, 2000; Baneth & Shaw, 2002), con la guarigione completa (negativizzazione dei test sierologici e scomparsa del parassita), considerata evento rarissimo. Le scarse conoscenze sulla risposta immunitaria dei soggetti ammalati prima, durante e dopo il trattamento terapeutico, contribuiscono a rendere di difficile interpretazione i molteplici insuccessi che si registrano in numerosi casi di leishmaniosi canina.
Un altro punto critico della terapia anti-Leishmania nel cane è la non sempre ottimale interazione farmaco-bersaglio.
Queste considerazioni spiegano, la discrepanza di dati riguardanti molecole che, pur efficaci in vitro, non hanno dimostrato efficacia nel cane e, di conseguenza, la scarsità di farmaci leishmanicidi commercializzati come tali. Altro punto da considerare è che spesso gli studi effettuati hanno delle carenze metodologiche come:
a) assenza di cecità;
b) assenza di gruppo di controllo;
c) basso numero di campioni analizzati;
d) gruppi di cani non omogenei e quasi mai paragonabili con quelli di altri lavori analoghi
e) estrema variabilità dei criteri diagnostici;
f) estrema variabilità dei criteri di “guarigione” clinica e/o parassitologica;
g) follow-up brevi
h) estrema variabilità dei dosaggi e tempi di terapia, anche per lo stesso farmaco utilizzato.
Inoltre, i risultati terapeutici estrapolabili dai lavori presenti in letteratura riguardano spesso prove sperimentali, il cui obiettivo primario non è quello della valutazione di efficacia terapeutica del farmaco ma, ad esempio, la valutazione di alcuni parametri della risposta immunitaria pre e post-terapia.
Altro aspetto da considerare è quello del sistema immunitario che gioca un ruolo certamente fondamentale nel determinismo della risposta alla terapia (oltre che all’infezione in generale), ma questo aspetto non è ancora sufficientemente chiarito per comprendere una tale variabilità di risposte individuali (Miranda et al., 2007).
È importante il monitoraggio sintomatologico-laboratoristico (soprattutto della funzionalità renale, epatica e cardiaca) prima, durante e dopo la terapia; in seguito alla fine del trattamento, sono necessari controlli periodici ad vitam per individuare eventuali recidive, piuttosto frequenti in seguito alla guarigione clinica (Alvar et al., 2004).
È anche vero che nelle zone endemiche non è possibile distinguere le reinfezioni dalle recidive vere e proprie (Mancianti & Bizzeti, 2000; Genchi & Pietrobelli, 2006), anche perché lo zimodema che viene praticamente sempre isolato in Italia è il MON-1 (Leishmania infantum); in questo senso, recentemente è stato sviluppato un protocollo PCR-RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphism) che può differenziare la variabilità genetica che interessa lo zimodema, a partire da sangue periferico, e quindi può essere applicato per studi epidemiologici, soprattutto per l’identificazione di focolai autoctoni in ex-aree indenni (Nord Italia) (Ferroglio et al., 2006).
Affinché le probabilità di successo siano maggiori, è importante che, prima d’intraprendere la terapia, il proprietario venga educato approfonditamente sulle precauzioni igieniche, sulle corrette modalità di somministrazione dei presidi farmacologici, sulle possibilità di guarigione e sulla prognosi (Baneth & Shaw, 2002).
La tabella 2.2 riassume le varie possibilità in modo da avere un quadro di come e quando poter agire.
Tabella 2.2:
Trattamento in base allo stadio (Roura, 2006)
Stadio A Stadio B Stadio C Stadio D
Cani senza infezione ma a
rischio perché vivono, o hanno
vissuto in una zona endemica
Cani senza segni clinici(es. fisico o analisi),ma infetti o
con possibilità di esserlo
Cani con segni clinici e infettati
Cani refrattari al trattamento
Non trattare Trattamento in funzione del titolo IFAT e dalla
presenza del
parassita (citologico, biopsia, RT-PCR)
Segni clinici altamente sospetti:
trattamento S. clinici non sospetti :
1).non trattare e scartare altre malattie
trattare e aspettare la risposta(follow up) 2).trattare e scartare le altre malattie S. clinici dubbi:
1).trattare e aspettare la
risposta(follow up) 2).trattare e scartare le altre malattie
1).Scartare altre malattie
2).uso di un tratt.
alternativo
2.1 Terapia specifica
Composti antimoniali
L’Antimoniato di N-metilglucammina (AnM) è l’unico farmaco a base di Antimonio pentavalente (Sbv) utilizzato in Europa. Il primo ad utilizzare l’antimonio (Sb) per trattare la leishmaniosi viscerale umana fu Vianna nei primi anni del Novecento, tramite il tartrato antimoniale di potassio (tartaro emetico); successivamente, nel 1915, anche Christina e Caronia in Italia e Rogers in India utilizzarono gli antimoniali per la cura della malattia. L’antimonio presente in queste formulazioni pionieristiche era però trivalente (SbIII), piuttosto irritante e tossico in generale, tant’è che Cole affermò che l’utilizzo terapeutico del tartaro emetico non era molto meglio di nessun trattamento. Per questo negli anni Venti si arrivò alla scoperta degli antimoniali pentavalenti (SbV) e dal 1945 iniziò la commercializzazione dell’AnM.
In Italia è disponibile una formulazione per uso veterinario (Glucantime®).
Farmacocinetica
Il destino farmacocinetico dei composti antimoniali è pressoché sovrapponibile nell’uomo e nel cane: in entrambe le specie, infatti, la concentrazione degli antimoniali nel sangue è ben descritta da un modello a tre compartimenti, con una corta fase iniziale di distribuzione seguita da un’eliminazione biesponenziale, realizzata principalmente per via renale.
L’emivita del farmaco nel cane, come dimostrato da Tassi et al. è particolarmente breve e risulta pari a 20,5 min quando somministrato per via ev, 42,1 min se impiegato per via im e 121,6 min per via sc. L’eliminazione dell’Antimonio avviene per l’80-95% attraverso il rene nell’arco di 6-9 ore dopo la somministrazione (Tassi et al., 1994; Valladeres et al., 1998).
La fase finale di eliminazione lenta può essere dovuta alla conversione dell’antimonio da pentavalente a trivalente; questo ultimo può essere poi responsabile della tossicità osservata soprattutto in corso di trattamenti ad alte dosi e di breve durata.
Meccanismo d’azione
Il meccanismo d’azione del farmaco, non ancora del tutto chiarito, sembra legato all’inibizione di alcuni enzimi della glicolisi del parassita, fosfofruttochinasi e deidrogenasi piruvica sia nel cane che nell’uomo. In particolare la tossicità dipende dalla riduzione in vivo di SbV in SbIII a cui sono sensibili sia i promastigoti che gli amastigoti (mentre i promastigoti non lo sono alla forma pentavalente). Il sito e la modalità di riduzione sono controversi: in vitro SbV può essere ridotto spontaneamente nella forma trivalente dalla glutatione-S-transferasi, allorché i tioli di basso peso molecolare, come il GSH ed uno specifico tripanotione parassitario, fungono da riduttori; tale riduzione si verifica più rapidamente in un ambiente acido, com’è quello all’interno dei vacuoli parassitofori. Studi biochimici compiuti negli ultimi 20 anni, hanno indicato un certo numero di potenziali bersagli dell’azione leishmanicida degli antimoniali. Tra questi c’è la glicolisi, in particolare l’inibizione della fosforilazione dell’ADP e della β-ossidazione degli acidi grassi; dal momento che l’ADP viene fosforilato ad ATP con l’utilizzo del NADH generato dalla glicolisi e dal ciclo dell’acido citrico, i livelli di ATP intracellulare, necessari per la sopravvivenza di Leishmania, decadono. Inoltre SbV si lega al ribosio, formando complessi stabili con i nucleosidi dell’adenina, che agiscono da inibitori dei trasportatori della purina del parassita; la formazione di questi complessi interferisce con il metabolismo nucleosidico ed agisce in sinergia con alcuni derivati nucleosidici citotossici. È stato anche messo in evidenza un effetto inibitorio degli antimoniali sulle topoisomerasi del DNA: l’enzima di tipo I è altamente sensibile al farmaco e quindi si ha l’inibizione della topoisomerizzazione catalizzata dall’enzima stesso (Mishra et al., 2007).
Tossicità
Gli effetti collaterali sono di vario tipo ed interessano diversi distretti organici come il cuore, il rene, il fegato; più raramente possono verificarsi alterazioni del profilo ematologico, rappresentati da leucopenia, grave agranulocitosi ed anemia emolitica.
L’effetto collaterale dell’AnM più frequentemente descritto è l’istolesività nel sito di inoculo, specialmente quando il farmaco è somministrato in unica dose giornaliera con volumi superiori ai 2-3 ml. Vengono segnalati, inoltre, rari episodi transitori di anoressia, diarrea e febbre. Tra le alterazioni dei parametri di laboratorio vanno segnalati aumenti transitori delle transaminasi e dell’amilasi (Ikeda-Garcia et al., 2007). Il ruolo del farmaco nel possibile peggioramento della funzionalità renale del cane affetto da leishmaniosi non è chiaro, poiché nel corso della terapia non è facile attribuire il deterioramento delle condizioni renali alla progressione della malattia o agli effetti del farmaco. Probabilmente, l’uso del farmaco in soggetti con gravi disfunzioni renali non è in grado di determinare un miglioramento della funzionalità renale.17Infatti quando la situazione è già compromessa, l’AnM può addirittura peggiorare il quadro renale fino a portare a morte od a richiedere l’eutanasia (Ikeda- Garcia et al., 2007). Per questi motivi, prima d’intraprendere la terapia con AnM, deve essere valutata attentamente (stadiazione) l’eventuale insufficienza renale preesistente, al fine di individuare l’entità del rischio di tossicità (Baneth & Shaw, 2002). Inoltre, in corso di terapia, è di fondamentale importanza il monitoraggio costante della proteinuria e dell’azotemia (BUN e creatininemia): qualora si dovessero riscontrare degli aumenti, è necessario interrompere la terapia o, almeno, ridurne la dose (Zini et al., 2007).
Spesso, però diventa difficile distinguere gli effetti collaterali dei farmaci antimoniali dai sintomi legati al progredire della malattia. Nell’uomo oltre che i classici effetti collaterali (nausea, vomito, dolori addominali, malessere generalizzato, cefalea, innalzamento delle transaminasi, nefrotossicità artromialgie, febbre, esantema cutaneo), si sono verificati quadri di pancreatite acuta (in particolare nei soggetti HIV-positivi), e alterazioni elettrocardiografiche correlate al dosaggio del farmaco;
le più frequenti sono rappresentate da alterazioni aspecifiche del tratto S-T, dall’allungamento dell’intervallo Q-T e, più raramente, da aritmie atriali e ventricolari.
Le morti improvvise osservate sono state associate a dosaggi maggiori di quelli raccomandati (Gradoni, 2001a). In ogni caso, dai dati desunti dalla bibliografia, si può affermare che il cane è meno sensibile dell’uomo ai derivati dell’antimonio (Gradoni et al.; 1987; Tassi et al.; 1994).
Protocolli terapeutici
Nel cane il protocollo terapeutico più seguito prevede un dosaggio di 100 mg/kg di metilglucamina frazionato in due somministrazioni giornaliere, somministrato per via sottocutanea per un periodo di 30 giorni consecutivi, da solo o in associazione ad altri composti (allopurinolo, amminosidina) (Miranda et al., 2007). Slappendel & Teske (1997), hanno dimostrato come l’efficacia del farmaco somministrato per via endovenosa (ev) non sia diversa da quella ottenuta utilizzando il farmaco per via sottocutanea (sc) e che i soggetti trattati per 3-6 settimane alla dose di 100 mg/kg SID sc e ri-trattati alla comparsa di recidive, hanno il 75% di probabilità di sopravvivenza per un periodo superiore a 4 anni. Altri protocolli prevedevano l’utilizzazione della sostanza a dosi più elevate o più basse, per periodi di tempo più lunghi: 300 mg/kg, a giorni alterni, per via i.m., per 30-40 giorni, oppure 60-100 mg/kg, i.m. al giorno, per 3 mesi (Euzeby; 1986). Valladares e coll. (2001) hanno inoltre riportato l’esperienza dell’utilizzo di un protocollo consistente nell’iniezione EV di AnM, seguita dopo 10 giorni da quella di una formulazione di AnM incapsulato in liposomi, una volta al giorno per due giorni per via EV e poi per 8 giorni per via SC in infezioni canine sperimentali: le concentrazioni plasmatiche di Sb sono risultate superiori a quelle della forma libera (emivita allungata), inoltre Sb raggiunge concentrazioni terapeutiche nei tessuti infetti. Nei soggetti trattati si è avuta la guarigione clinica, l’assenza di ricadute e di alterazioni delle globuline γ in un anno di followup. La bontà dell’assunto si basa sul fatto che i liposomi vengono fagocitati dai macrofagi di fegato, milza e midollo osseo, sedi elettive di Leishmania; sperimentalmente la formulazione si è rivelata circa 200 volte più attiva del semplice AnM, consentendo dosaggi molto più bassi (Alving, 1986; Frézard et al., 2000).
Successivamente Schettini e coll. (2005) hanno confermato le concentrazioni superiori di AnM a livello midollare, benché il protocollo delle somministrazioni multiple della formulazione liposomiale non sia riuscito ad eliminare completamente i parassiti.
Nel cane, l’associazione tra il Glucantime® (60 mg/kg die, s.c.) e l’amminosidina (5,25 mg/kg BID, s.c.) per 3 settimane, ha dato risultati superiori a quelli ottenibili con l’impiego delle singole sostanze (Oliva et al.; 1996).
Attualmente l’impiego combinato di Glucantime® e Allopurinolo appare molto utilizzato, ed esistono in letteratura numerosi protocolli; i più recenti sono riportati nella tabella 7.3.
l’Antimoniato di N- Metilglucamina
Allopurinolo Riferimenti bibliografici
100 mg/kg IM SID (fino a normalizzazione del quadro clinico)
20 mg/kg PO ogni 12h per 9 mesi
Ferrer et al.
(1995) 100 mg/kg SC per
3-4 settimane
15 mg/kg BID PO
Denerolle, Bourdosieau
(1999) 100 mg/kg SC per
3-4 settimane
20 mg/kg SID PO (continuativamente)
Slappendel, Teske (1999);
Baneth et al.
(2001) 75 mg/kg SC SID per 6 settimane 20-30 mg/kg
PO BID
Noli, Auxilia (2005) Tabella 2.3: Alcuni protocolli impiegati nell’associazione Glucantime®-Allopurinolo
nella terapia della leishmaniosi canina
E’ stato evidenziato un sinergismo tra i due farmaci che consente una remissione dei sintomi clinici (Martinez et al.; 1988; Denerolle & Bourdoiseau; 1999). Un singolo ciclo di Antimoniato di N-metilglucamina (Glucantime®) alla dose di 100 mg/kg SID per 20 giorni in combinazione ad Allopurinolo, alla dose di 15-30 mg/kg BID, è comunemente impiegato per l’induzione della terapia. L’Allopurinolo viene poi somministrato a dosi di mantenimento per lungo tempo.
La combinazione tra AnM e Allopurinolo consente una migliore tollerabilità della terapia e minori costi (Denerolle & Bourdoiseau; 1999), poiché una dose di mantenimento di Allopurinolo consente di diminuire la dose totale di AnM.
In numerosi studi comparativi tra l’efficacia terapeutica dei due farmaci, somministrati separati ed in associazione, si è evidenziato un netto miglioramento dei
segni clinici nelle terapie effettuate somministrando contemporaneamente i due farmaci, mentre dal punto di vista parassitologico, non si sono notate delle differenze significative (Alvar et al.;1994). Infatti la terapia provoca solo temporaneamente una diminuzione del potenziale infettivo dei cani positivi a L. infantum verso gli insetti vettori. Alvar e collaboratori (1994) hanno effettuato uno studio 6 cani infettati naturalmente con leishmania e trattati con una terapia combinata Allopurinolo-AnM per evidenziare la loro potenziale infettività verso il flebotomo vettore (Phlebotomus perniciosus). Tutti e 6 i cani sono stati trattati con una terapia di induzione di 40 mg/kg SID di AnM im per 20 giorni e di 20 mg/kg di allopurinolo per os per 30 giorni. 5 dei 6 cani rimasero parassitologicamente positivi per 10 mesi dopo il trattamento; 2 di essi erano infettivi per i flebotomi 3-6 mesi dopo il trattamento e le percentuale di flebotomi che divennero infetti dopo pasto di sangue su questi cani, aumentò con il tempo. Questo risultato è indicativo del fatto che il numero dei parassiti nei tessuti cutanei aumenta nonostante la terapia e la remissione della sintomatologia clinica.
Occorre ricordare che i composti antimoniali, analogamente agli altri farmaci utilizzati nelle terapie anti-Leishmania, non sono in grado di garantire la negativizzazione parassitologica degli animali ammalati, se non per brevi periodi di tempo, e, pertanto, sono molto frequenti i casi di recidive (Mancianti & Bizzeti, 2000). La mancata guarigione parassitologica è testimoniata da diversi Autori, con il riscontro di amastigoti di Leishmania in diversi tessuti dopo alcuni mesi dalla sospensione del trattamento (Ikdea 2007, Oliva et al., 1998; Pennisi et al., 2005;
Bianciardi et al., 2004). Anche le recidive vengono sovente descritte, in periodi variabili tra alcuni mesi ed uno o due anni; sicuramente le recidive sono più precoci quando il ciclo di terapia è inferiore a 4 settimane. La riduzione della carica parassitaria indotta dal farmaco è in grado di migliorare temporaneamente la risposta cellulomediata dell’ospite (Bourdoiseau, 1997). Inoltre il trattamento spesso induce una diminuzione dei titoli anticorpali.
Anche negli uomini sono particolarmente comuni le ricadute, e soprattutto nelle persone ammalate di AIDS; ciò sta ad indicare che il sistema immunitario stesso dell’uomo riveste un ruolo fondamentale nella risposta clinica al trattamento. In alcuni casi di leishmaniosi viscerale resistente ai soli antimoniali e di leishmaniosi cutanea diffusa, si è rivelata utile la loro associazione con IFN-γ ricombinante (Alvar et al., 2006).
Resistenza di Leishmania infantum ai composti antimoniali
La terapia eseguita con dosaggi inadeguati, sia nel cane che nell’uomo, ha contribuito purtroppo alla selezione di ceppi di leishmania chemioresistenti, sempre più frequentemente coinvolti in caso di insuccessi terapeutici, ormai registrati in tutto il mondo, in percentuali variabili tra il 5 e il 70% in alcune aree endemiche (Grogl et al., 1992) Questi fenomeni di farmacoresistenza sono evidenti soprattutto in India (Singh & Sivakumar, 2004). Uno dei focolai di resistenza è stato individuato anche nelle aree a nord del fiume Gange, in Bihar ed in Nepal (Alvat et al., 2006).
Il meccanismo della farmaco resistenza nella leishmaniosi sembra che sia per essere almeno in parte conosciuto (Croft., 2001). Il fenomeno della resistenza agli antimoniali è senza dubbio legato a molteplici fattori, quali lo stato immunitario dell’ospite (come nel trattamento di casi di leishmaniosi umana nei soggetti HIV positivi), le differenze individuali di ordine farmacocinetico esistenti, la diversa distribuzione dei parassiti nei singoli organi (l’efficacia degli antimoniali varia in ragione dell’organo in cui essi sono localizzati) e, non ultima, una predisposizione dell’ospite a non rispondere alla terapia. Inoltre un nuovo gene del cromosoma 9 è stato amplificato in parassiti farmaco resistenti (Singh et al., 2003).
Nella specie canina, Gramiccia et al. (1992) hanno dimostrato che cicli ripetuti di Glucantime® possono contribuire alla selezione di parassiti resistenti al farmaco, con potenziale rischio di ordine zoonosico. Per questo motivo in medicina veterinaria dovrebbe essere presa sempre più in seria considerazione l’utilizzazione di farmaci alternativi agli antimoniali (amminosidina, amfotericina B microincapsulata in liposomi, fluorochinoloni).
I composti antimoniali non sono in grado, come tutti gli altri farmaci antileishmania, di garantire la negativizzazione parassitologia degli animali ammalati, se non per brevi periodi di tempo, e pertanto sono molto frequenti i casi di recidive (Mancianti
& Bizzeti; 2000).
Negli ultimi anni si è notato che i cani trattati ripetutamente con meglumina antimoniato richiedono dosi più elevate e per periodi più prolungati, rispetto ai cani con infezione e malattia di recente insorgenza (Gramiccia et al., 1992; Mancianti &
Bizzeti, 2000; Mishra et al., 2007). Inoltre utilizzando un dosaggio elevato si sono
spesso ottenuti scarsi risultati, a causa di una particolare "cronicizzazione" della malattia che ha causato una remissione clinica dei sintomi parziale e incompleta, con un aggravamento delle condizioni fisiche dei soggetti e alterazioni ematochimiche, che hanno reso necessario valutare l'impiego di terapie alternative per questi soggetti.
È stato inoltre possibile notare una riduzione del tempo alla ricaduta e alla comparsa dei sintomi della malattia solo nei soggetti che hanno mostrato una risposta moderata alla terapia in atto.
In breve, in funzione della risposta del soggetto al trattamento considerato, è possibile distinguere:
• Animali non resistenti (ANR):si tratta dei cani che rispondono abbastanza bene alla terapia antimoniale già dal primo trattamento e che mostrano una buona tollerabilità nei confronti dei farmaci ed una rapida remissione della malattia (30-40 giorni). Anche nelle successive ricadute si ha una buona risposta alla terapia con “restitutio ad integrum” delle lesioni e totale remissione clinica della sintomatologia;
• Animali potenzialmente resistenti (APR): si tratta dei cani che richiedono tempi più prolungati di trattamento (>30 giorni) e dosaggi di farmaci più elevati (>75 mg/kg) rispetto alla media, per ottenere la remissione clinica della sintomatologia e la normalizzazione del tracciato elettroforetico. Perciò, in questi soggetti, la ricomparsa (ricaduta) della malattia spesso si verifica in un breve lasso di tempo (3-6 mesi);
• Animali resistenti (AR): si tratta dei cani che apparentemente mostrano un'assenza di risposta al trattamento antimoniale con il prolungamento del periodo di trattamento (>45 giorni) e con dosi elevate (100 mg/kg). Inoltre le condizioni cliniche e la sintomatologia non si normalizzano mai del tutto
• Animali fortemente resistenti (AFR): si tratta dei cani che non rispondono in alcun modo al trattamento in corso, sebbene il dosaggio (>100 mg/kg) e la durata della terapia (>60 giorni) tendano ad aumentare. In questi soggetti è necessario ricorrere a qualche trattamento alternativo rispetto al protocollo con antimoniali, poiché una terapia prolungata ed inefficace porta a epato e splenomegalia, nonché ad un aggravamento della sintomatologia clinica.
Purtroppo l'aumento del dosaggio in soggetti anziani o comunque in quei soggetti che presentano frequenti ricadute della malattia, provoca effetti collaterali, che si traducono in un'eccessiva concentrazione di farmaco in circolo ed con il prolungamento del tempo di eliminazione (in particolare nei soggetti anziani) con conseguente epatotossicità (Bianchini & D'Amico, 2005).
Allopurinolo
L’allopurinolo è un composto simile all’ipoxantina, largamente impiegato nell’uomo nella terapia della gotta, in quanto interferisce bloccando la xantina- ossidasi nella sintesi dell’acido urico. È stato il primo farmaco ad essere introdotto per la terapia orale della leishmaniosi, alla fine degli anni Settanta.
Farmacocinetica
Viene assorbito bene nel tratto gastroenterico e circa il 20% della dose somministrata viene eliminata con le feci. L’emivita plasmatica è di circa 1-2 ore per l’alta velocità di filtrazione glomerulare (escrezione renale). L’allopurinolo ed il suo principale metabolita - l’ossipurinolo - inibiscono l’enzima adenilsuccinato sintetasi, che catalizza la conversione dell’acido inosonico in adenosin monofosfato.
L’allopurinolo viene idrolizzato in ribosidi, analoghi dell’inosina e, in questa forma, viene incorporato nell’RNA del parassita al posto dell’ATP, interferendo con la normale sintesi proteica parassitaria. Comunque sia, l’adenilsuccinato sintetasi o l’adenin fosforibosiltransferasi sono i probabili bersagli del farmaco (Mishra et al., 2007).
Meccanismo d’azione
La sua attività antileishmania è dovuta al fatto che le leishmanie, come altri emoflagellati, non sono in grado di sintetizzare ex-novo le purine, per cui necessitano delle basi azotate ed i nucleosidi dell’ospite (“purine salvage pathway”).
L’allopurinolo, una volta recuperato dalla leishmania come qualunque altra base azotata, è in grado di dar luogo a composti tossici che interferiscono con la normale sintesi proteica del parassita, inibendo la crescita del parassita.
Nel citosol del parassita il farmaco viene trasformato in allopurinoloriboside e, in tappe metaboliche successive, in 4-aminopirazolopirimidina, composto tossico che viene incorporato al posto dell’ATP nell’acido ribonucleico del parassita, determinandone la morte (Shapiro, et al., 1991).
Tossicità
Nei tessuti dei mammiferi, al contrario, solo il 10% di allopurinolo viene convertito in allopurinolo riboside (il restante 90% è trasformato in ossipurinolo, composto totalmente inattivo), che non subisce nessuna conversione citotossica successiva: per questo motivo, l’allopurinolo è considerato pressocchè privo di effetti collaterali, anche se sussiste un rischio relativo che induca iperxantinuria (Mancianti & Bizzeti, 2000) con possibile formazione di uroliti di xantina, eventualità meno rara se è concomitante una patologia epatica (Noli & Auxilia, 2005; Ling, et al.; 1991).
L’Allopurinolo dimostra quindi un’ottima maneggevolezza, anche quando somministrato per periodi molto lunghi (1-2 anni).
Si tratta quindi di un farmaco comunemente impiegato per la terapia della leishmaniosi sia da solo, che in combinazione con antimoniali pentavalenti, in quanto poco tossico, efficiente a migliorare lo stato clinico, a basso costo e facilmente somministrabile per via orale.
Protocolli terapeutici
Il dosaggio comunemente usato è di 15-30 mg/kg BID per terapia a lungo termine.
In molteplici studi è stato però evidenziato che la terapia effettuata con il solo allopurinolo, anche per periodi prolungati, non è sufficiente a far diminuire in maniera significativa i titoli anticorpali antileishmania. A conferma di ciò Saridomichelakis e coll. hanno dimostrato non solo che l'utilizzo dell'allopurinolo, per una settimana al mese durante il periodo d'attività dei flebotomi, alla dose giornaliera di 20 mg/kg, non previene l'infezione da Leishmania infantum di cani non infetti, ma anche che non aiuta ad eliminare il parassita da soggetti con infezione
asintomatica (Saridomichelakis et al., 2005). Di contro, nel cane, quando somministrato in monoterapia, per periodi non inferiori a 2-3 mesi, determina quasi sempre un miglioramento clinico ed in parte dei parametri di laboratorio, compresa la riduzione di alcune proteine della fase acuta (Cavaliero et. al., 1999; Pennisi et al., 2005; Sasanelli et al, 2007;Vercammen, 2002).
È stato dimostrato anche che l’ utilizzo prolungato del farmaco in monoterapia per la cura della leishmaniosi canina cronica, ha migliorato il numero circolante di cellule T CD4 +, ma non ha ripristinato il loro numero entro il range di normalità.
(Papadogiannakis et al., 2009).
Viene riportato che la sua somministrazione non migliora una malattia renale preesistente, anche se nell’uomo si segnala che può indurre nefrite interstiziale; sulla base di questa estrapolazione, Koutinas e coll. (2001) preconizzano nel cane una riduzione del dosaggio in caso di insufficienza renale preesistente. In soggetti con proteinuria asintomatica, il trattamento con allopurinolo per 6 mesi (10 mg/kg OS BID), ha consentito una sua significativa riduzione e, nel 30% dei casi, una sua completa scomparsa; inoltre in 11 soggetti su 12, il trattamento avrebbe prevenuto la comparsa della proteinuria stessa (Plevraki et al., 2006).
Segnalata (Plevraki et al., 2006) la capacità del farmaco, attraverso il controllo della carica parassitaria, di ridurre o mantenere stabile il grado di proteinuria nei cani leishmaniotici proteinurici, e di prevenire/rallentare il deterioramento della funzione renale nei cani infetti non azotemici.
Non sembra che l’allopurinolo migliori la risposta iniziale al trattamento, piuttosto ritarda e riduce la frequenza delle recidive (Alvar et al., 2004; Noli & Auxilia, 2005).
Ginel e coll. (1998) hanno comparato l’efficacia di due protocolli nella prevenzione delle recidive in seguito alla guarigione clinica di un primo trattamento (AnM 100 mg/kg/die + allopurinolo 30 mg/kg/die): il gruppo di cani che ha ricevuto la terapia di mantenimento con allopurinolo (20 mg/kg/die) non è andato incontro a ricaduta in un periodo di 10-44 mesi, mentre l’86% dei cani del gruppo non trattato col mantenimento è andato incontro a ricaduta entro 14 mesi; inoltre nei cani sottoposti al trattamento “intermittente” gli anticorpi specifici sono diminuiti o non sono cambiati affatto e non è stato evidenziato alcun effetto collaterale direttamente attribuibile al farmaco.
Lo studio di Saridomichelakis e coll. (2005) dimostra che un analogo trattamento (allopurinolo 20 mg/kg SID una settimana al mese da aprile a novembre) non è in grado di prevenire l’infezione né di eradicare il parassita eventualmente già presente, per cui risulta inutile un eventuale impiego in senso profilattico in soggetti sani. È risultato anche che associando l’allopurinolo con l’AnM o con l’amfotericina B, si ha una riduzione significativa, ma non completa, dell’infettività dei cani trattati nei confronti dei flebotomi (xenodiagnosi), rispetto alla somministrazione dei 3 principi separatamente (l’allopurinolo da solo è il meno efficace) (Alvar et al., 2004).
Associazione
Antimoniato di N-metilglucammina/Allopurinolo
L’associazione tra i due farmaci è il protocollo più utilizzato nella terapia della leishmaniosi del cane. Come dimostrato da Denerolle e Bordoiseau (1999), i soggetti trattati con la combinazione dei due farmaci hanno una remissione più duratura se paragonata a quella ottenuta con l’utilizzo delle due sostanze in monoterapia. In un altro studio il trattamento a lungo termine con allopurinolo ha ridotto la percentuale di recidive dopo la fine del trattamento con antimoniali, anche se non ha permesso una cura parassitlogica (Baneth & Shaw, 2002). Un altro dato interessante è la buona tollerabilità di tale associazione farmacologia. Nella pratica il protocollo più frequentemente usato è quello che prevede l’uso di antimoniato di N- metilglucammina alla dose di 100mg/Kg SID sc o 50mg/Kg BID sc per uno- due mesi unitamente alla somministrazione di allopurinolo alla dose di 10mg/Kg BID po, da protrarre per molti mesi, alcuni autori considerano la possibilità di somministrare a vita il farmaco dopo la remissione clinica. Anche tale associazione, se utilizzata per lunghi periodi, non determina la guarigione parassitologica (Gradoni et al., 1987).
Le recidive sono possibili nonostante il protrarsi della terapia (Manna et al., 2008).
Amfotericina B
L’amfotericina B è un antibiotico polienico prodotto dallo Streptomyces nodosus, che da moltissimi anni viene impiegato nella terapia delle micosi sistemiche.
Nella leishmaniosi viscerale umana, regimi di 0,5 mg/kg SID ev per 14 giorni oppure di
20 dosi di 1 mg/kg SID ev a giorni alterni sono relativa mente atossici e hanno un’efficacia terapeutica di circa il 97% (Davidson, 1998). In letteratura sono riportati alcuni esempi di terapia della leishmaniosi canina con Amfotericina B desossicolato, diluita in soluzione salina sterile ed emulsionata con olio di soia (Cortadellas, 2003;
Lamothe et al., 2001).
Farmacocinetica
Scarsamente assorbita in seguito a somministrazione orale, la sostanza viene utilizzata esclusivamente per via endovenosa, in sospensione micellare in desossicolato sodico, diluita in destrosio al 5%. Nel cane, l’amfotericina B, somministrata per via endovenosa in dose unica persiste nel sangue fino alla 12ª giornata a concentrazioni molto più basse rispetto a quelle tissutali (renali, epatiche e polmonari).
Meccanismo d’azione
Il meccanismo d’azione è comune a quello esibito contro i miceti, si traduce in un’alterazione dell’ergosterolo, principale sterolo delle membrane sia di Leishmania che dei miceti, con conseguente formazione di pori di membrana responsabili della perdita di ioni potassio e magnesio e della successiva morte del parassita (Davidson, 1998). L’amfotericina B mostra però una certa affinità anche per il colesterolo, fondamentale costituente lipidico delle membrane cellulari dei mammiferi; per questo peculiare meccanismo d’azione, la sostanza non è priva di effetti tossici.
Tossicità
In particolar modo a livello tubulare renale, si ha una riduzione del flusso ematico ed una diminuzione della filtrazione, cui si associa una minore clerance della creatinina (Brajtburg et al.; 1990). Per questo motivo, ed ancora per altri effetti collaterali (febbre, vomito, anoressia, periflebiti), l’antibiotico, pur essendo sia “in vitro” che
“in vivo” circa 400 volte più potente degli antimoniali nei confronti della Leishmania infantum (Lamothe; 1995), non è stato mai considerato farmaco di prima scelta nella terapia della leishmaniosi dell’uomo, quanto piuttosto un chemioterapico da utilizzare nei casi di multiresistenza ad altri farmaci (Mishra et al.; 1992). La tossicità intrinseca del farmaco e la sua scarsa maneggevolezza hanno limitato l’uso anche nel cane. Il problema della tossicità dell’amfotericina B è stato quasi del tutto superato in questi ultimi anni con la messa a punto di nuove preparazioni farmaceutiche, che prevedono l’incorporazione dell’antibiotico in particolari strutture lipidiche dette liposomi (Moreno et al.,1999).
I liposomi
Si tratta di vescicole microscopiche (Ø: 25-100 nm) formate da lipidi naturali (lecitine dell’uovo) o sintetici, frequentemente utilizzati in terapia come carrier di particolari farmaci (chemioterapici, antiblastici, immunomodulanti). Sono costituiti da uno o più strati concentrici di fosfolipidi naturali, che si formano quando questi sono sospesi in una soluzione acquosa con la parte idrofila della molecola rivolta verso l’esterno e quella idrofoba verso l’interno; a seconda delle tecniche impiegate si possono realizzare vescicole uni o multilamellari.
Oltre ai fosfolipidi, i liposomi possono contenere altre sostanze, quali il colesterolo, che ne aumentano la stabilità; in ogni caso i componenti di tali vescicole sono biodegradabili e relativamente non immunogeni. Le tecniche impiegate per realizzare l’unione tra queste vescicole e i farmaci, comprendono l’incapsulamento e l’adsorbimento, oppure il legame chimico. Somministrati per via endovenosa, interagiscono con due gruppi di proteine plasmatiche:
Le HDL che una volta adese ai liposomi attraverso la fosfotidilcolintransferasi, determinano la rimozione dei fosfolipidi dalla membrana liposomica, causando alterazioni della stessa e/o disintegrazione delle vescicole;
Le Opsonine che si adsorbono sulla superficie delle vescicole lipidiche in corrispondenza dei pori causati dalle HDL rendendole disponibili alle cellule fagocitarie circolanti e tissutali.
La penetrazione delle vescicole nei macrofagi fissi e nei monociti circolanti avviene per endocitosi: a questa fase segue la loro incorporazione nei lisosomi e la successiva distruzione ad opera delle fosfolipasi lisosomiali: così libero il farmaco può agire all’interno del sistema lisosomiale, oppure, a seconda delle sue caratteristiche fisico- chimiche, diffondere attraverso le membrane in altri comparti cellulari.
I liposomi di dimensioni più grandi sono fagocitati rapidamente dalle cellule del sistema reticolo-istiocitario, per cui si accumulano in organi ricchi di tali cellule, come fegato, milza, midollo osseo.
Con il diminuire delle dimensioni, la loro distribuzione organica è più ampia, anche se, per le loro caratteristiche non superano la barriera emato-encefalica né il filtro renale.
I farmaci veicolati con le vescicole liposomiali sono meno esposti ai processi di trasformazione ed escrezione, permangono più a lungo nell’organismo e tendono a concentrarsi e a persistere in alcuni organi e tessuti ricchi di cellule ad elevata attività fagocitaria; inoltre pare che le formule combinate con liposomi di un farmaco siano meno tossiche della forma libera dello stesso.
Amfotericina B microincapsulata in liposomi (AmBisome
®)
Questa formulazione ha dimostrato particolari successi per la terapia delle forme multiresistenti di leishmaniosi viscerale umana e dall’assenza quasi assoluta di recidive nei pazienti immunocompetenti. Nell’uomo una dose totale di 18-20 mg/kg somministrata in 2-6 dosi ha un’efficacia terapeutica del 98% (Gradoni et al., 2003).
Per questo motivo, per la sua bassa tossicità, per la semplicità di esecuzione del trattamento terapeutico e per la riduzione del tempo di ricovero ospedaliero rispetto alla terapia con gli antimoniali, l’AmBisome è diventato il farmaco di elezione nella terapia della leishmaniosi viscerale umana, soprattutto nei bambini.
Il notevole interesse suscitato dall’AmBisome® e la possibilità di mettere a punto una nuova arma terapeutica che unisse all’efficacia clinica la capacità di sterilizzare l’animale parassitato, ha portato alla sperimentazione del farmaco nella specie canina.
Da tali sperimentazioni si è evidenziato che i risultati clinici più evidenti si sono ottenuti nei cani trattati a dosaggi più elevati (3 mg/kg per 4-5 gg EV lento), anche se, indipendentemente dalla dose impiegata, quasi tutti i cani hanno presentato una recrudescenza della malattie dopo alcuni mesi dal trattamento (Oliva et al., 1995).
Anche nel cane, come nell’uomo, la tollerabilità del farmaco, anche a dosi elevate, è risultata piuttosto buona: a differenza dell’amfotericina B libera l’AmBisome® è nettamente meno nefrotossico, a causa della scarsa e lenta eliminazione per via renale che è inferiore all’1% (Berman et al.; 1998).
Esiste una seconda formulazione lipidica dell’amfotericina B, costituita dauna dispersione colloidale in colesterolo (Amphocil), che e stata impiegataper la prima volta nel trattamento della leishmaniosi viscerale umana inBrasile, dimostrando elevata efficacia anche a basso dosaggio, ma contossicita maggiore rispetto all’AmBisone (Gradoni, 2001a; Sundar et al., 2004).
I risultati ottenuti quindi possono far ritenere che l’AmBisome®, almeno a dosaggi elevati, potrebbe essere impiegato anche nella terapia della leishmaniosi del cane, pur con limiti derivanti dal non sicuro effetto sterilizzante e dall’elevato costo. Il suo utilizzo però non viene preso in considerazione per problemi deontologici. Infatti L’OMS sconsiglia l’impiego del farmaco nel cane, allo scopo di evitare l’insorgenza di ceppi resistenti al principio attivo in quanto attualmente l’anfotericina B è il farmaco di scelta nella terapia della leishmaniosi viscerale umana.
Amminosidina
L’amminosidina (sinonimo:
Paromomicina) è un antibiotico amminoglicosidico prodotto dallo Streptomyces chrestomiceticus, dotato di un ampio spettro di attività antibatterica, comprendente germi Gram+, Gram- e alcool acido resistenti (Mycobacterium tubercolosis), ma
anche micoplasmi ed alcuni protozoi, quali Balantidium coli, Entamoeba histolitica, Giardia intestinalis, Trichomonas spp., Leishmania spp.
Farmacocinetica
L’amminosidina somministrata per via s.c. o i.m. nel cane, permane nel torrente circolatorio per circa 5 ore; la sua escrezione, al pari di altri amminoglicosidi, avviene quasi esclusivamente per via renale, inoltre non viene assorbita che in minima parte a livello intestinale.
Meccanismo d’azione
L’attività antiprotozoaria dell’amminosidina nei confronti di Leishmania infantum risulta oggi ben definita, come si evince dai risultati di ricerche svolte sia in “vivo”
che in “vitro”(Thakur et al.; 1992; Gradoni et al.; 1993).
Essa è avvalorata anche da studi clinici condotti in medicina umana e veterinaria, che indicano una sicura efficacia terapeutica dell’amminoglicoside nella leishmaniosi viscerale dell’uomo e in quella del cane (Scott et al.; 1992; Persechino et al; 1994;
Oliva et al; 1996; Poli et al 1997).
Il suo meccanismo anti-leishmania sembra essere identico a quello nei confronti dei batteri: il contatto tra farmaco ed i microrganismi sensibili comporta la formazione di una proteina carrier di membrana grazie alla quale l’antibiotico riesce a raggiungere elevate concentrazioni intracellulari, con successiva interazione con la subunità ribosomiale 30 S e conseguente anomala trascrizione di aminoacidi.
Tossicità
I sintomi tossici legati all’utilizzazione dell’amminosidina, quasi sempre reversibili e comuni agli altri amminoglicosidi, comportano l’accumulo degli antibiotici nella perilinfa e nell’endolinfa dell’orecchio interno (ototossicità) nonché nelle cellule del tubulo renale prossimale (nefrotossicità), con conseguente possibile alterazione dei parametri di funzionalità renale ed interessamento dell’VIII paio dei nervi cranici (Noli et al., 2005).
Protocolli terapeutici
Molto interessanti risultano essere i risultati ottenuti nella terapia della Leishmaniosi del cane, sia con l’impiego della sola amminosidina (Olliaro, Bryceson; 1993; Neal et al.;1994; Poli et al., 1997) che con l’associazione dell’amminosidina-AnM (Oliva et al.; 1996).
Nel primo caso, l’impiego di protocolli terapeutici differenti, hanno permesso di stabilire che i migliori risultati si ottengono con dosi di amminosidina pari a 5,25 mg/kg ogni 12 ore, s.c. per 3 settimane (Barman; 1997).
Ulteriori conferme sulla possibilità di applicazione dell’amminosidina nella terapia della leishmaniosi del cane, derivano dai risultati ottenuti da studi comparativi effettuati con l’amminoglicoside e Antimoniato di N-metilglucamina, utilizzati singolarmente (Poli et al.;1997) o in associazione (Oliva et al; 1996). Il protocollo da preferire comprende l’associazione dei due farmaci, ovvero 5,25 mg/kg ogni 12 ore, s.c., di amminosidina + 60 mg/kg di Glucantime® SID s.c., per 21 giorni.
Di contro, l’uso di aminosidina ad alto dosaggio (20-80 mg/kg die), è fortemente sconsigliato a causa dei forti effetti collaterali che ne derivano (Vexenat et al., 1998).
Questo protocollo ha garantito, in numerosi studi effettuati, un numero maggiore di soggetti guariti clinicamente, per il minore numero di ricadute, per la drastica
riduzione della carica parassitaria sia in ambito midollare che linfonodale e per la significativa diminuzione dei titoli anticorpali (Oliva et al., 1996).
Gli effetti positivi dell’associazione sono da ricondurre alle modificazioni di natura farmacocinetica operate dall’amminosidina nei confronti degli antimoniali, quando i due farmaci sono impiegati contemporaneamente: l’amminosidina , infatti, oltre a consentire un ritardo nell’assorbimento e nell’escrezione dell’AnM, ne condiziona una più lunga persistenza a livello sierico, con conseguente maggiore attività nei confronti dei parassiti che ancora non hanno raggiunto l’ambiente intracellulare.
L’amminosidina, inoltre, secondo Karla e coll. (1996), al pari di altri amminoglicosidi, interferendo sulla disponibilità di calcio intracellulare, potrebbe ritardare o impedire l’adesione e la penetrazione delle leishmanie nei macrofagi, rendendole così più esposte all’azione dei farmaci.
Come gli antimoniali, anche nel caso di utilizzazione dell’amminosidina, il trattamento terapeutico dovrebbe essere ripetuto fino a guarigione clinica ed eventualmente parassitaria, ed ogni qualvolta si osservino modificazioni di uno dei parametri di screening per il monitoraggio degli animali ammalati.
Pentamidina
La pentamidina e stata aggiunta alla lunga lista dei farmaci anti-Leishmanianel 1950 (Alvar et al., 2006). Si tratta di un composto diamidinico con elevata attività antiprotozoaria ed antifungina ampiamente utilizzata in Francia nella terapia della leishmaniosi e di alcune tripanosmiasi sia nell’uomo che nel cane.
Farmacocinetica
La sostanza si accumula per mesi in fegato e reni, attraverso i quali viene eliminata molto lentamente.
Meccanismo d’azione
Il Meccanismo d’azione è poco conosciuto, ma è stato dimostrato che la pentamidina è in grado di causare danni al DNA del kinetoplasto e al complesso mitocondriale dei parassiti.(Rhalem et al., 1999). La sostanza si accumula per mesi in fegato e reni, attraverso i quali viene eliminata molto lentamente
Tossicità
La pentamidina causa numerosi effetti collaterali acuti (ipotensione, nausea, vomito, scialorrea, diarrea, shock anafilattico) e cronici (ipoglicemia, diabete, danni epato- renali, trombocitopenia) (Goodman et al., 1991). Per questi motivi, nell’uomo, il trattamento terapeutico con la pentamidina viene riservato esclusivamente ai pazienti che mostrano resistenza al trattamento con antimoniali e/o con altri chemioterapici (Olliaro et al., 1993).
Inoltre la formulazione attualmente in commercio (Pentacarinat® Rhone-Poulenc- Rorer) somministrata per via intramuscolare risulta fortemente istolesiva, tanto da
provocare la formazione di ascessi nel punto di inoculazione. Nell’uomo è stata impiegata per via i.m., alla dose di 4 mg/kg 3 volte alla settimana, per un periodo di 11 settimane.
Protocolli terapeutici
Nel cane la pentamidina viene utilizzata in particolare in Francia, in alternativa o in associazione agli antimoniali, sebbene non sia stato dimostrato un effetto sinergico tra i due farmaci.
Le dosi suggerite sono di 4 mg/kg a giorni alterni, per periodi di 3-4 settimane;
quando adoperata in associazione al Glucantime®, si somministra un giorno la pentamidina e un giorno il composto antimoniale per 24-30 giorni (Buonaccorsi, 1995). In virtù delle sue capacità di accumulo, ne è stato proposto l’impiego nella profilassi, a dosaggi uguali a quelli terapeutici, da somministrare una volta al mese.
Anche nel cane, però, nonostante l’efficacia antileishmania della pentamidina, vengono segnalati gli stessi gravi effetti collaterali dell’uomo. L’uso di pentamidina per il trattamento della leismaniosi canina e stato investigato in due studi nei quali il farmaco veniva somministrato due volte la settimana ad una dose di 4 mg/kg IM per 4 settimane, seguita da un secondo trattamento ripetuto dopo 3 settimane (Rhalem et al., 1999; Lasri et al., 2003). In tutti gli animali e stata osservata una quasi totale scomparsa dei segni clinici, senza che si siano verificate recidive nei 6 mesi successivi. Sfortunatamente negli studi sopracitati non e stata riportata l’insorgenza e la gravita degli effetti collaterali che, comunque, potrebbero limitare fortemente l’uso di questo farmaco nella pratica clinica.
Miltefosine
(alkylphospocoline)La miltefosina, (nome chimico: esadecilfosfocolina); è un analogo dei fosfolipidi, composto da esteri con diverse catene lunghe sature e insature di gruppi alchilici.
Nato come antineoplastico (1984), fu formulato e registrato come un trattamento topico per tumori cutanei. La sua registrazione come farmaco orale per la leishmaniosi viscerale umana in India è avvenuta nel Marzo del 2002, in seguito a studi che hanno dimostrato una percentuale di guarigione del 95% e del 94% nella fase II e III della sperimentazione, rispettivamente. Nel 2005, è stata registrata in Colombia per la cura della leishmaniosi cutanea (Croft et al., 2006).
Farmacocinetica
Il farmaco non ha alcun metabolismo ossidativo con il citocromo P450, questo rende improbabile una competizione metabolica con altri composti metabolizzati da questo sistema. Dopo somministrazione orale, primo vantaggio di questa terapia, viene assorbito dal tratto gastro–intestinale; è stata dimostrata una biodisponibilità del 94%
con un tempo per il raggiungimento del valore di massima concentrazione variabile tra 4 e 48 ore.
Inoltre dopo ripetute somministrazioni orali nel cibo per 28 gg, la clearance plasmatica è risultata di soli 3,40 ml/Kg/h, corrispondente ad un tasso di eliminazione corporea complessivo di circa 0,06% in un cane di 10 Kg. Questo suggerisce che nei cani, l’efficacia metabolica di trasformazione della miltefosina in differenti metabolici è scarsa e non si assiste ad un primo passaggio metabolico epatico. L’emivita del farmaco nel cane è di 6,3 gg, e il raggiungimento di un equilibrio dinamico si raggiunge dopo circa 3-4 settimane di somministrazioni giornaliere. Al termine dei 28 giorni si assiste ad un lento e progressivo decremento dei livelli di miltefosina plasmatica, che resta comunque presente a livelli terapeutici
per ulteriori 3-4 settimane circa (8 settimane di livelli terapeutici con 4 settimane di somministrazione). Nei cani ripetute somministrazioni di 2mg/Kg/die di miltefosina per 28 giorni portano ad un indice di accumulo (rapporto tra la quantità di miltefosina raggiunta all’equilibrio dinamico e quella ottenuta dopo la prima somministrazione) del 7,65.
La miltefosina ha un’ampia distribuzione nei tessuti bersaglio dove sono presenti i parassiti di Leishmania. Tale distribuzione, è stata valutata nei ratti dopo 11 gg da una singola somministrazione orale; il livello più elevato di radioattività per grammo di tessuto dopo somministrazione è stato riscontrato in reni, fegato, milza e cute.
Inoltre la miltefosina, è caratterizzata da una lenta metabolizzazione epatica in colina, un composto naturale innocuo e assenza di eliminazione renale, quindi può essere scelta per la cura di cani con insufficienza renale. La somministrazione del farmaco nel cane, come nel ratto, ha dimostrato che viene lentamente escreta nelle feci; la clearance media osservata è stata bassa (0,32 mg/Kg/h), molto simile al flusso biliare, suggerendo cosi che la clearance di miltefosina è in pratica una clearance biliare. Poiché la clearance fecale rappresenta circa il 10% della clearance totale, si può concludere che solo circa il 10% della dose somministrata per via parenterale viene eliminata come farmaco nelle feci. (Bianciardi, 2007).
Meccanismo d’azione
Numerosi studi indicano che il meccanismo d'azione leishmanicida della miltefosine si esercita colpendo la via del metabolismo dei fosfolipidi del parassita, interferendo quindi con le vie di comunicazione cellulare e inibendo la sintesi della membrana cellulare parassitaria (Achterberg and Gercken, 1987; Paris et al., 2004; Prasad et al., 2004). Le modalità di azione del farmaco sono rappresentate dall’inibizione della biosintesi dei recettori del GPI (glicosilfosfatidil-inositolo), molecola chiave per la sopravvivenza intracellulare degli amastigoti di Leishmania, e dall’alterazione del segnale di trasduzione agendo sulle fosfolipasi C e proteinchinasi Leishmania specifiche. Ne consegue la morte per apoptosi della cellula protozoaria oltre ad un aumento anche nell’attivazione delle cellule T e dei macrofagi, e nella produzione di azoto reattivo e ossigeno che permette di ottenere una attività leishmanicida indipendente dalla risposta immunitaria (Murray & Delph-Etienne, 2000).
L’attività leishmanicida della Miltefosina è stata studiata sia in vitro che in vivo. I test eseguiti in vitro hanno valutato l’attività del farmaco nei confronti di 6 differenti specie di Leishmania ed hanno dimostrato una significativa attività sullo stadio promastigote extracellulare e l’aumento del killing macrofagico nei confronti dello stadio intracellulare.
L’attività in vitro della miltefosina è stata inoltre osservata valutando la sensibilità del ceppo di riferimento MHOM/ET/67/L82 di Leishmania donovani; risultando di efficacia comparabile contro i promastigoti (IC50, 0,4-3,8 microM) e gli amastigoti, contenuti all’interno di macrofagi peritoneali di topo (IC50, 0,9-4,3 microM).
(Vermeersch et al., 2009).
Tossicità
Pareri discordanti sulla tossicità e l’efficacia di questo trattamento nonché i pochi studi ancora effettuati portano la terapia col le miltefosine nei confronti della leishmaniosi canina ancora oggetto di discussione.
Studi di tossicità negli animali di laboratorio e nel cane evidenziano che la Miltefosina è ben tollerata ai dosaggi registrati per numerose settimane consecutive, non determina nefrotossicità e che gli effetti collaterali gastroenterici sono dose dipendenti. A differenza di altri agenti chemioterapici, la miltefosine non presenta mielotossicità ed esercita effetti stimolatori sulle cellule progenitrici emopoietiche (Prasad et al., 2004).
Un recente studio clinico multicentrico ha valutato l’efficacia e la sicurezza dell’associazione Miltefosina e Allopurinolo rispetto alla terapia con Antimoniato di N-metilglucammina e Allopurinolo in cani con infezione naturale da Leishmania infantum (Mirò et al., 2008) risultati hanno mostrato una significativa riduzione dello score clinico, la normalizzazione dei dati di laboratorio e la riduzione della carica parassitaria in entrambi i gruppi. Non sono state osservate differenze significative tra i due trattamenti.
Studi di tossicità acuta di singole dosi in animali da laboratorio non hanno evidenziato alcuna mortalità nei ratti con dosi maggiori 2000mg/Kg. I segni clinici di tossicità osservati sono stati pilo erezione e diminuzione dell’attività motoria all’inizio del periodo di esposizione.
Basandosi su questo valore il Milteforan® è classificato come non dannoso per os e quando i cani vengono trattati al dosaggio terapeutico, 2mg/Kg, che equivale a 0,1 ml/Kg, l’Indice di sicurezza ottenuto è 20 (pari a 2ml/Kg di farmaco). Studi di tossicità multipla sub-acuta hanno dimostrato che la miltefosina è ben tollerata senza alcun effetto collaterale sulle funzioni vitali quando somministrata per os a ratti adulti a circa 4,5 mg/Kg e in cani a circa 3mg/Kg (1,5 volte la dose terapeutica), per più di 13 settimane. Negli studi di tossicità cronica, è stata somministrata a dosi differenti per 52 settimane in ratti e in cani in condizioni sperimentali. A livelli di dosaggio 1,5 volte superiori la dose terapeutica (3 mg/Kg PO) sono stati osservati lievi sintomi clinici come ipersalivazione, vomito e diarrea, quando somministrati per 52 settimane. Al dosaggio 5 volte superiore la dose terapeutica nei cani (10mg/Kg PO) questi effetti collaterali sono aumentati significativamente di gravità e frequenza. A 2 e 4 mg/Kg die per 28 giorni ( x 1 e x 2 le dosi terapeutiche in studi di tolleranza) Milteforan® è stato ben tollerato in cani sani e non ha causato alcun segno clinico, con esami urine e sangue che erano normali durante il trattamento.
Studi di determinazione della dose efficace in cani naturalmente infetti da L.infantum effettuati in condizioni di campo hanno dimostrato risultati simili, con effetti collaterali gastroenterici dose-dipendenti, di breve durata e auto-limitanti.
Questi risultati indicano che il tratto gastroenterico è il bersaglio degli effetti collaterali e che questi effetti sono dose dipendenti. effetti indesiderati frequenti come febbre e brividi, e nel 40% dei casi sono riportati effetti collaterali gastro- intestinali (Roura, 2006). Nello studio di tossicità orale di 52 settimane a livello di ovaie canine sono state osservate alterazioni a tutte le dosi nelle cagne. C’è stato un aumento dose correlato nel numero di follicoli ovarici atresici e i cani del gruppo trattato con dosi elevate, risultavano morfologicamente in anestro. A causa di questi effetti, l’impiego di Milteforan® è controindicato nelle cagne gravide, per l’effetto embriotossico, fetotossico e teratogeno, in lattazione e da riproduzione. (Sindermann
& J. Engel, 2006; Bianciardi, 2007).
E’ stato eseguito uno studio su otto cani sani di razza Beagle, analizzando contemporaneamente la miltefosina e l’N-metilglucammina, per valutare la possibile tossicità renale dei due farmaci. I cani sono stati divisi in due gruppi, ai quali è stato somministrato rispettivamente: gruppo 1 miltefosina, 2 mg / kg di peso corporeo po una volta al giorno, per 28 giorni, e al gruppo 2, è stata somministrata N-
metilglucammina 100 mg / kg di peso corporeo per via sottocutanea una volta al giorno per 28 giorni. Dopo il trattamento, tutti i cani sono stati controllati per circa un mese. Nei giorni 1 e 55 è stata effettuata una biopsia renale su tutti i cani, e i campioni sono stati analizzati mediante microscopia ottica, immunofluorescenza e microscopia elettronica. Tutti gli esami non hanno dimostrato alcuna lesione nei soggetti trattati con miltefosina; al contrario i cani trattati con antimoniato di N- metilglucammina, hanno dimostrato grave danno tubulare, caratterizzato da necrosi delle cellule tubulari e apoptosi (Bianciardi et al., 2009).
Woerly et al. hanno eseguito uno studio multicentrico aperto, finalizzato a valutare l'efficacia dei profili di tolleranza per via orale del Milteforan®,su 96 cani infetti da leishmaniosi naturale. I cani sono stati trattati con il farmaco somministrato per via orale alla dose di 2 mg/kg dipeso corporeo una volta al giorno per 28 giorni. Secondo i punteggi clinici, il trattamento ha dimostrato un significativo effetto terapeutico tempo-dipendente con conseguente riduzione del 61,2% in media 56 giorni dopo il trattamento. Durante il periodo in esame, le reazioni avverse probabilmente associate con il trattamento sono state osservate nel 11,7% dei cani. Tuttavia, essi non erano gravi. Il più frequente è stato l vomito, che è risultato transitorio, autolimitante, e reversibile. Questi dati dimostrano che il farmaco alla dose raccomandata è sicuro ed efficace per il trattamento della leishmaniosi canina.(Woerly et al., 2009).
Sembra che molecole strutturalmente chiuse di alkylphospocoline (liposomal oleic phosphocoline), siano meglio tollerate dal cane; nuove ricerche stanno valutando questo tipo di formulazione.
Protocolli terapeutici
Nella leishmaniosi viscerale umana, la somministrazione di miltefosina (Impavido®), alla dose di 2,5 mg/Kg SID po per 28 giorni, mostra un’efficacia terapeutica del 94%.(Sundar et al., 2007). Il dosaggio registrato per il cane è di 2mg/Kg di peso corporeo, pari a 1 ml ogni 10 Kg di peso corporeo al giorno per via orale per 28 giorni. Recenti studi clinici hanno valutato l’efficacia e la sicurezza dell’associazione miltefosina e allopurinolo rispetto alla terapia con antimoniato di N-metilglucammina e allopurinolo in cani con infezione naturale da Leishmania infantum. I risultati hanno dimostrato una significativa riduzione dello score clinico, la normalizzazione dei dati di laboratorio e la riduzione della carica parassitaria in