Capitolo secondo: Assia Djebar e il
romanzo
La lingua di Assia Djebar
La langue française, la vôtre, Mesdames et Messieurs, devenue la mienne, tout au moins en écriture, le français donc est lieu de creusement de mon travail, espace de ma méditation ou de ma rêverie, cible de mon utopie peut-‐être.
Assia Djebar Estratto del discorso pronunciato il 22 giugno 2006 davanti all’Académie Française prima di prendere il seggio11.
È innegabile l’importanza del contributo di Assia Djebar nella lotta per l’emancipazione femminile, nella ricostruzione di una memoria collettiva algerina che sembrava relegata tra le mura degli harem, nell’espressione dell’identità storica e sociale di un Paese ricco di tradizioni, contraddizioni e forza. Tuttavia, pur scindendo la sua opera da ogni valenza sociale, politica o di genere, i suoi romanzi rimangono una finissima espressione di lirismo. Lo stile narrativo della Djebar racchiude in sé il ritmo tipico dell’oralità arabo-‐berbera e le descrizioni ad alta valenza poetica caratteristiche dei racconti orientali. Benché non impieghi nessuna mescolanza di codici linguistici, la scrittrice utilizza un francese che si poggia, alle volte, sulle strutture delle lingue berbera e araba, dando vita a una musicalità altra, particolarissima e coinvolgente. Ritengo che sia necessario, per comprendere appieno
11 Sito internet de l’Académie Française: http://www.academie-‐
questo tipo di polifonia, fare un passo indietro per analizzare i concetti di “francofonia” e “francofono”.
Note sulla francofonia
Il Trésor de la Langue Française dà per le entrate “francophonie” e “francophone” le seguenti definizioni:
Francophonie, subst. fém. Ensemble de ceux qui parlent
français; plus partic., ensemble des pays de langue française.
Francophone, adj. et subst. (Celui, celle) qui parle le
français [En parlant d'une collectivité] Dont la langue officielle ou dominante est le français.
È a mio avviso interessante notare che la sezione vocabolario dell’enciclopedia Treccani non riporta alcuna entrata per “francofonia”, mentre dà per “francofono” la seguente definizione:
Francòfono agg. e s. m. (f. -‐a) [comp. di franco e -‐fono]. – Di persona, gruppo, popolazione o territorio che adotta il francese come propria lingua (s’intende per lo più come lingua ufficiale o principale): le zone f. del Canada; i f. delle ex colonie francesi.12
Si parla quindi, in generale, di un francese che può essere lingua prima o seconda, lingua nazionale o straniera, ma che è necessario che adempia una funzione veicolare13. Possiamo dedurne che il rapporto tra i parlanti e il francese cambierà a seconda della comunità linguistica di cui il parlante fa parte, della distribuzione e dell’uso della lingua in ciascun Paese francofono, dell’istruzione ricevuta e dell’impiego ultimo della lingua.
12 Vocabolario Treccani online :
http://www.treccani.it/vocabolario/francofono/
13 Dominique Combe, Les littératures francophones. Questions, débats,
Nonostante l’apparente valenza neutra del termine, l’origine geopolitica dell’idea di “francofonia” ha fatto sì che durante l’evoluzione di questa parola essa abbia assunto anche connotazioni negative, che ne permeano il significato ancora oggi, anche e soprattutto quando si parla di letteratura. La parola “francofonia”, spiega Dominique Combe14, non è solo un termine astratto: riempie, invece, una funzione simbolica, data dalla potenza di connotazioni ideologiche e politiche che le altre –fonie ignorano. Se è vero, dunque, che per “francofonia” si intende “l’insieme di coloro che parlano francese”, è vero anche che la nascita di questo termine affonda le sue radici nell’espansione coloniale degli imperi europei (a partire dal XVI secolo e soprattutto verso la metà del XIX secolo). L’aggettivo “francofono”, infatti, è attestato nei dizionari a partire dagli anni ’30, ma sembra essere stato inventato già nel 1886 usato dal geografo Onéisme Reclus (1837 – 1916). Il contesto è quello del Trattato di Berlino (1885), tramite il quale le potenze europee, nel costituire i propri imperi coloniali, si spartivano i territori dell’Africa in base a zone di influenza definite per lingua. Le frontiere così tracciate non sarebbero state solo nazionali, ma anche linguistiche e culturali. Reclus, nel capitolo sesto della sua opera France, Algérie et colonies15, utilizza l’aggettivo “francophone”16, da cui ricava il sostantivo “francophonie”, per indicare la comunità di lingua francese in contrapposizione alle comunità di parlanti di altre lingue europee, con il fine ultimo di misurare la potenza francese in termini demografici. Quando negli anni ’30 il termine “francofono” si diffonde, con significato apparentemente neutro, viene impiegato per descrivere le relazioni tra le diverse comunità linguistiche dello stesso Paese (per esempio, francofoni vs arabofoni nel Maghreb). Ho utilizzato “apparentemente”, perché sebbene in un primo momento la valenza del termine fosse
14 Ivi, pp. 425 – 426.
15 Onéisme Reclus, France, Algérie et colonies, Parigi, Libraire Hachette, 1886 16 Dominique Combe, op.cit., p. 422: “nous acceptons comme francophones tous
tendenzialmente neutra, il significato intrinseco e le implicazioni della “francofonia” restano, di fatto, politiche.
Negli anni ’50 i critici letterari parigini assistono incuriositi all’esplosione di fama degli emergenti scrittori del Maghreb, dell’Africa o del Québec che scrivevano in lingua francese: utilizzando la lingua francese, arricchivano la letteratura nazionale con l’elevata qualità letteraria delle loro opere. In questi anni gli scrittori francofoni (che non erano ancora stati così etichettati) partecipavano all’universalità della lingua francese a pieno titolo. È solo negli anni ’60 che il termine “francofono” approda nel mondo della letteratura: in quegli anni, gli scrittori che non francesi furono “etnicizzati”, “folklorizzati”, per usare le parole di Combe, etichettati come “francophones”, posti inevitabilmente sotto il segno della “négritude”. Questa categorizzazione, come in fondo tutte le etichette, introduce una segregazione. Gli aggettivi “francese” e “francofono” sembrano allora escludersi vicendevolmente, ponendo il “francofono” nella posizione di “altro” rispetto all’Héxagone, venuto dalla “periferia” occidentale o del Sud. Se si considera la “francofonia” come un termine assimilabile all’eredità coloniale francese e di conseguenza a quel “terzo mondo” che ne ha subito la dominazione, si comprende bene come l’aggettivo “francofono” venga impiegato per indicare sempre “l’altro”, colui che manca di qualcosa per essere a pieno titolo francese. La risposta dei “francofoni” non tarda ad arrivare. Nel ’62 il presidente del Senegal e uomo di lettere Léopold Sédar Senghor, portando avanti una fiera battaglia per la rivisitazione e la riscoperta in chiave moderna della cultura africana, dichiara:
La Francophonie, c'est cet Humanisme intégral, qui se tisse autour de la terre : cette symbiose des "énergies dormantes" de tous les continents, de toutes les races, qui se réveillent à leur chaleur complémentaire.17
17 Léopold Sédar Senghor, “Le Français, langue” de culture, in Esprit, novembre
Senghor parla di una “francofonia” che unisce e non divide, che elimina ogni gerarchia tra “centro” e “periferia”, che arricchisce la cultura che ruota attorno alla lingua francese; la definisce come un umanesimo, intrinseco nella lingua stessa, nel modo di articolare il proprio pensiero. Si tratta della difesa di un’identità linguistica e culturale che non vuole e non può essere relegata semplicemente ai margini di un impero coloniale, ma che si fonde con la storia di ciascun Paese per creare una cultura sfaccettata e complessa. Nonostante i tentativi di disambiguazione, per svariati decenni il termine “francofonia” rimane oggetto di incomprensioni e di discriminazioni legate a ragioni del tutto politiche: molti scrittori non accettano di essere etichettati come “francofoni”, né di essere in qualche modo in una posizione di subordinazione rispetto alla letteratura francese di Francia. Quando Maurice Nadeau nel 1985 presenta lo speciale sul tema “écrire les langue françaises” della rivista La Quinzaine littéraire al Salon du Livre di Parigi, spiega di aver scelto di non usare il termine “francofonia” perché mal rispondeva alle intenzioni della testata. Il suo intento era di eliminare ogni eco di un’era coloniale ormai passata e di concentrarsi sul concetto di varietà della lingua francese18. Vent’anni dopo, nel 2007, viene pubblicato il manifesto Pour une littérature-‐ monde en français19, con l’intento di trovare una dimensione nuova per la letteratura in lingua francese, che fosse scevra da ogni eredità coloniale: il libro si propone di essere una sorta di ora del decesso della “francofonia” e insieme un attestato di nascita di una letteratura nuova, il cui filo conduttore è la lingua francese, che possa ospitare in egual misura e con egual dignità le letterature in lingua francese provenienti da ogni parte del mondo.
18 Dominique Combe, op.cit., pp. 58 – 59.
19 Michel Le Bris, Jean Rouaud, Eva Almassy, Pour une littérature-‐monde, Parigi,
La polifonia
Nel capitolo Le plurilinguisme dans le monde arabe: le berbère, l’arabe et le français en Algérie20, Dominique Combe fa una panoramica molto esplicativa della situazione linguistica algerina:
L’Algérie berbère, comme la Tunisie, a reçu de multiples langues au fil des invasions ou conquêtes dont elle a fait l’objet successivement : le phénicien, le latin, l’arabe, le judéo-‐espagnol, le turc, le français (sans parler de l’espagnol, de l’italien et de la lingua franca parlée dans les ports). Ces langues, certes imposées, appartiennent bien au patrimoine d’une Algérie plurielle. Les seules langues autochtones stricto sensu sont berbères, comme le kabyle en Kabylie, le chaoui dans les Aurès, à l’est, le tamachek chez le Touaregs, au sud. L’arabe classique (ou supposé tel) n’est en réalité moins « étranger » que le français, puisqu’il a été importé de la péninsule arabique au VII siècle. Le latin et le turc ont disparu, bien qu’ils aient laissé des traces en français et en arabe, par exemple.
Possiamo constatare che si tratta di una realtà in cui tutte queste lingue vengono – o sono venute – costantemente in contatto l’una con l’altra, all’interno delle diverse comunità linguistiche. Se intendiamo la lingua come veicolo non solo dell’idioma ma anche della cultura dei popoli e dei Paesi a cui è legata, possiamo immaginare come una simile situazione abbia potuto dar vita a un’identità nazionale complessa e multipla, che è di fatto il prodotto di interferenze, dominazioni e interazioni tra culture anche molto diverse tra loro. La diversificazione dell’uso delle molteplici lingue parlate in Algeria subisce allora il fenomeno della diglossia, ovvero una specializzazione delle lingue rispetto a funzioni legate all’oralità e alla scrittura, ai contesti linguistici e al tipo di interlocutori21. Ne possiamo dedurre che per Assia Djebar, come per la maggior parte degli scrittori algerini suoi contemporanei,
20 Dominique Combe, op.cit., p. 109. 21 Treccani online: definizione di diglossia.
l’uso del francese come lingua di scrittura non rappresenta affatto una scelta, ma si manifesta come il risultato delle controversie storiche di un Paese, di un plurilinguismo22 del tutto implicito nella stessa identità algerina e nel sistema educativo nel quale si è formata. In L’amour, la fantasia, è la stessa scrittrice a fornire un emozionante ritratto dell’uso della lingua nella comunità linguistica a cui appartiene, rivolgendo lo sguardo in particolare alle donne:
Pour les fillettes et les jeunes filles de mon époque – peu avant que la terre natale secoue le joug colonial – ,tandis que l’homme continue à avoir droit à quatre épouses légitimes, nous disposons de quatre langues pour exprimer notre désir, avant d’ahaner : le français pour l’écriture secrète, l’arabe pour nos soupirs vers Dieu étouffés, le libyco-‐berbère quand nous imaginons de retrouver les plus anciennes de nos idoles mères. La quatrième langue, pour toutes, jeunes ou vieilles, cloîtrées ou à demi émancipées, demeure celle du corps que le regard des voisins, des cousins, prétend rendre sourd et aveugle, puisqu’ils ne peuvent plus tout à fait l’incarcérer ; le corps qui, dans les transes, les danses ou les vociférations, par accès d’espoir ou de désespoir, s’insurge, cherche en analphabète la destination, sur quel rivage, de son message d’amour. 23
Il francese, quindi, è la lingua della scrittura segreta, intima, solitaria, la lingua-‐rifugio. È impensabile, tuttavia, che queste quattro lingue – il francese, l’arabo, il berbero e persino il linguaggio del corpo – restino separate e distanti l’una dall’altra. Nei romanzi della scrittrice algerina esse, in qualche modo, si compenetrano, convergono nella lingua della scrittura, il francese, che finisce per contenere un’eco, una traccia di tutte le altre.
Lucette Heller-‐Goldenberg in una lucida analisi dell’uso delle lingue nell’opera di Assia Djebar afferma:
Assia Djebar a su exorciser tous ses démons familiers : langue maternelle contre langue paternelle, féminité contre
22 Treccani online: definizione di plurilinguismo.
http://www.treccani.it/vocabolario/plurilinguismo/
masculinité, intellectualisme contre intuition sensible, vie du dedans contre vie du dehors, écriture contre oralité. Il n’est plus question de livrer la bataille : toutes ces langues se complètent même dans la rivalité, s’entrelacent et s’accouplent lorsqu’elles sont face à face. Pour gagner cette victoire, elle tentera de parasiter la langue d’accueil pour que « toujours subsiste l’aile de quelque chose d’autre », pour que ses mots « bruissent de la différence e de l’ailleurs ».24
Così il ritmo, il lessico, la struttura sintattica delle frasi in lingua francese risentono di “qualcosa d’altro”: emerge un substrato linguistico che è espressione di un’identità culturale complessa, multipla, sfaccettata. Ciò diventa evidente principalmente quando i protagonisti delle storie parlano tra di loro lingue diverse dal francese, come accade in questi estratti di Les enfants du nouveau monde:
Sa taille [de Chérifa] surtout, un port qui suscitait chez les vieilles, dans les fêtes où elles la regardaient s’avancer, tant de métaphores à l’orientale, improvisations murmurées qui se perdaient dans le bruit («Une gazelle qui court sur le sable », « Un coursier qui serait un ange du ciel déguisé », « Une caille qui frémit de pudeur sur une branche », etc.)25
« Tu trembles toujours, ma sœur ? » Son arabe est rude. Salima ouvre la bouche pour répondre, s’aperçoit qu’elle n’a plus de voix.26
O ma sœur, ma sœur ! – elle, tournant sa tête ankylosée dans sa direction, et se disant tristement : « Comme notre langue est belle, si simplement lyrique dans sa banalité même ! » – Ma sœur, je te remercie de ne pas parler. Ne leur dis rien. Tiens bon !27
24 Lucette Heller-‐Goldenberg, Écriture – Orature – Littérature, in (a cura di)
Najib Redouane, Yvette Bénayoun-‐Szmidt, Assia Djebar, Parigi, L’Harmattan, 2008.
25 ENM, p. 23. 26 Ivi, pp. 84 – 85. 27 Ivi, p. 86.
Nella prima citazione l’autrice raccoglie le metafore delle donne arabe che vedono passare Chérifa: è evidente che la lingua utilizzata dalle donne sia l’arabo e che la scrittrice traduca letteralmente ciascuna metafora in francese. La stessa cosa accade nella seconda citazione: l’uso del discorso indiretto libero – “son arabe est rude”, pensiero del narratore che passa attraverso la percezione di Salima – fa sì che l’autrice debba “tradurre” il dialogo dei suoi personaggi in francese. Si viene a creare, dunque, una “polyphonie fictive”28 che trasmette il significato del dialogo, ma che cerca nel contempo di trasportare anche parte del significante: il testo rimane intellegibile al lettore di lingua francese che percepisce, tuttavia, un calco letterale da un’altra lingua, riuscendone a intuire le strutture sintattiche e in alcuni casi persino il vocabolario (come nel caso delle metafore sulla bellezza di Chérifa). Il codice linguistico, dunque, non viene messo in discussione, ma viene arricchito, trasformato dall’interno per far sì che sia possibile sentire altre voci, percepire uno “scarto”. “La perception de cet écart, – afferma Combe – qui est le style lui-‐même, intensifie la ‘surconscience linguistique’ ”. Questo scarto29 ridà corpo alla lingua, la rende tridimensionale, si distacca da ogni ricerca di esotismo e affonda le radici del romanzo in un mondo che è reale, sfaccettato, plausibile.
È su questo scarto che il traduttore deve concentrarsi per non sottrarre allo stile dell’autrice tutte le altre voci che ne costituiscono la complessità e allo stesso tempo la poeticità.
28 Dominique Combe, op.cit., pp. 146 – 147
29 Augusto Ponzio, La Semiotica in Italia, Bari, Dedalo libri, 1976, pp. 261 – 262.
Ponzio ci fornisce definizioni chiarissime di “scarto” e di “stile” affermando che “la nozione di ‘stile’ viene applicata a ogni caso di ‘violazione intenzionale della norma dello standard’. […] Possiamo quindi con chiarezza definire lo stile come scarto dalle
forme linguistiche istituzionalizzate e irrigidite nel modello creato e imposto da fattori esterni alla dinamica del sistema.”
Les enfants du nouveau monde
Assia Djebar scrive Les enfants du nouveau monde nel 1960, in Marocco. Apparentemente meno introspettiva dei precedenti romanzi, quest’opera proietta la narrazione in una dimensione sociale oltre che intima. Il vero protagonista del romanzo è il popolo algerino, in tutte le sue espressioni, con tutti i suoi “modelli” di donna e con le figure quasi evanescenti degli uomini, divisi tra sfera pubblica e sfera privata. Si tratta di un incrocio di vite elegantemente orchestrato, o per usare le parole della Djebar, “une sorte de ballet autour d'un même lieu au cœur d'une même ville”30. Rispettando perfettamente le unità di luogo e di tempo, la scrittrice traccia l’architettura del romanzo, lo “mette in scena” in ventiquattrore, nella città di Blida, a sud di Algeri. È qui che si intrecciano le storie dei personaggi, con un occhio di riguardo per quelli femminili (che danno i nomi a cinque dei nove capitoli del libro), per quelle “figlie del nuovo mondo” che sognano, ricordano, riflettono, amano, tremano – e poi agiscono – durante la guerra di indipendenza algerina. Con questo romanzo, dunque, Assia Djebar dà voce alle donne, attinge alla propria esperienza personale e ai propri ricordi per creare un “portrait de moeurs de l’époque”31 e per esplorare il rapporto tra le donne e la guerra. Ne emerge la volontà del popolo algerino di dar vita a una società migliore, che si liberi dal giogo della colonizzazione per guardare a un futuro diverso, fatto di nuovi ruoli e di trasformazioni sociali.
30 Mildred Mortimer, “Entretien avec Assia Djebar, Écrivain Algérien”, in
Research in African Literatures, Vol. 19, No. 2, Special Issue on Women’s Writing, estate
1998, p. 198.
31 Najib Redouane e Yvette Bénayoun-‐Szmidt, Parole plurielle d’Assia Djebar
Le unità aristoteliche e l’uso dei flashback
Alcuni critici, come Jennie Dumont, hanno analizzato Les enfants du nouveau monde dal punto di vista della struttura “teatrale” dell’opera, considerandolo un romanzo a metà strada tra tragedia e commedia. La sua architettura, le opposizioni classiche tra i personaggi e una tradizione che li ostacola e i lunghi flashback che riportano “in scena” gli avvenimenti esterni alle ventiquattrore, farebbero pensare infatti a un taglio scenico, teatrale. Ad avvalorare questo tipo di interpretazione, sta il fatto che all’inizio del libro si trova la lista dei personaggi, del tutto simile a quella che troveremmo per un’opera teatrale.
Personnages
Chérifa, 29 ans, femme de Youssef. Lila, 24 ans, femme d’Ali.
Salima, 31 ans, institutrice. Touma, 19-‐20 ans.
Hakim, inspecteur de police.
Amna, femme de Hakim, amie et voisine de Chérifa. Hassiba, 16 ans (Traverse la ville).
Bachir, 17 ans, lycéen, fils de Si Abderahmane. Suzanne, 24 ans, femme de Omar, amie de Lila. Omar, avocat (Parti de la ville).
Khaled, 35-‐40 ans, avocat (Installé dans la capitale). Youssef, responsable politique local, époux de Chérifa. Jean, 55 ans environ, commissaire de police principal. Martinez, 38 ans, commissaire adjoint.
Said, ancien gérant du « Bagdad ». Bob, 19 ans, amoreux de Touma. Tawfik, 16-‐17 ans, frère de Touma.
Rachid Selha, 45 ans, père de Lila (Partis autrefois de la ville).
Ali, 26-‐27 ans, étudiant, époux de Lila (à la montagne). Mahmoud, responsable politique (à la montagne).32
32 ENM, p.11.
Poiché la lista dei personaggi segue sempre un ordine gerarchico, al lettore è subito chiaro che sono le donne (Chérifa, Lila, Salima e Touma) a regnare come protagoniste indiscusse del romanzo.
Assia Djebar a longtemps décrit ce roman comme classique en référence à sa construction selon les trois unité du drame classique : l’unité du temps (vingt-‐quatre heures), l’unité du lieu (ici, c’est la ville de Blida), l’unité de l’action (tous les événements liés à une intrigue centrale. Les critiques le considèrent comme un roman tragique. Cependant ce roman se prête à une réflexion aussi bien sur son sens comique que tragique.33
Sicuramente legato alla tragedia per via del suo epilogo e della drammaticità dell’introspezione dei personaggi, il romanzo svela, tuttavia, una struttura riconducibile a quello che la Dumont definisce come sens comique, nell’accezione legata al genere della nouvelle comédie. Sviluppando la sua critica attorno al pensiero del teorico Northrope Fry, Dumont intende la commedia come volontà di trasformazione dei personaggi in una tensione del tutto sociale, dove la realizzazione della felicità e dell’amore degli eroi li proietta verso un nuovo sistema di valori che distrugge il precedente, spazzando via ciò che impediva loro di realizzarsi. Nel terzo romanzo di Assia Djebar, infatti, una mole apparentemente insormontabile di ostacoli legati alla tradizione e al patriarcato si frappone tra gli eroi e la realizzazione della loro felicità, del loro goût du bonheur. Esattamente come nella nouvelle comédie, gli eroi di Les enfants du nouveau monde lottano per un sistema di valori innovativo, teso verso un nuovo ordine sociale, in attrito con le norme sociali precedenti, la qual cosa lascia, in principio, ben sperare in un ricongiungimento degli amanti in una nuova “société de la jeunesse où s’instaure une liberté réelle”34. In questo genere di analisi, viene sottolineata l’aspirazione comica piuttosto che la fine tragica del romanzo; si tratta di due dimensioni che, a mio avviso, si intersecano
33 Amel Chaouati (a cura di), Lire Assia Djebar!, Ciboure, La Cheminante, 2012,
pp.40 – 41.
perfettamente, creando un romanzo che non è né commedia né tragedia, ma che si serve di questi mezzi espressivi per costruire un microcosmo, un “mondo” che si rivela “nuovo”, ma allo stesso tempo plausibile, realizzabile e auspicabile. Si inseriscono in questo tipo di struttura tutte le riflessioni delle donne, come fossero scrigni di una memoria personale che si fonde con quella collettiva. L’uso dei flashback consente di richiamare nell’unità di tempo ricordi, avvenimenti storici, antichi dolori e sorrisi ormai sciupati che ci permettono di conoscere i personaggi, di comprendere il loro punto di vista e accompagnarli più consapevolmente nel corso della storia.
Una scrittura cinematografica
È forse opportuno ricordare che Assia Djebar si avvicinerà all’esperienza dell’espressione filmica nel corso degli anni Settanta, dopo aver pubblicato già quattro romanzi. In accordo con le riflessioni di Laura Restuccia, credo si possa individuare già in queste opere narrative una predisposizione alla professione di regista:
Contrariamente a ciò che accade di solito, l’esperienza cinematografica sembra essere servita alla scrittrice da matrice metodologica dell’elaborazione narrativa. Questa sua dote è chiaramente evidente fin dalle sue prime opere, e rimane costantemente espressa in tutta la sua produzione letteraria.35
Le scene descritte sembrano già “tagliate” in previsione di una sceneggiatura: gli incisi, le indicazioni tra parentesi, le minuziose descrizioni della gestualità dei personaggi richiamano con tutta evidenza un ipotetico copione. Les enfants du nouveau monde, nonostante sia cronologicamente ancora distante dal debutto cinematografico dell’autrice, mostra già un tipo di narrazione “per
35 Laura Restuccia, op.cit., p. 27.
scene”, come se fossimo davanti a uno schermo, o meglio ancora, dentro l’obiettivo di una telecamera.
Oui, il est entré comme d’habitude (Amna lève la tete, soutient son regard). Je l’ai meme entendu tousser au milieu de la nuit.36
Elle, d’un mouvement des épaules qui décelait une grâce blessée, se détournait, poursuivait sa quête le long des couloirs sombres, des chambres jamais habitées où il lui semblait soudain que, sa vie entière, elle persisterait à errer ainsi, errer encore, silhouette perdue dans les rets de l’oubli, qui fait quelques pas, s’arrête, se penche, tige souple, par une fenêtre, se retourne pour promener encore son ombre mince sur les murs immaculés que peut adoucir par moments la lumière du jour glissé à travers les stores que le petit homme tentait toujours de lever.37
Quelquefois en face, le professeur, une dame mûre de la ville, l’évite, fait glisser son regard sur elle, sur ses longues tresses (« à la mauresque » se moquait, dans son dos, une jeune beauté qui venait au cours sur des hauts talons, à quatorze ans), sur son teint trop brun (« elle a peut-‐être du sang noir », entendait-‐elle sur son passage), et Salima se tendait encore, ayant choisi une fois pour toutes de persévérer, de continuer en dépit de tout, du mépris de ces filles étrangères, de l’indifférence des siens, de tant d’autres obstacles.38
Elle ouvre son sac; ses gestes s’allongent d’une nonchalance provocante. Dans le café de droite, une bande bruyante de jeunes garçons est entrée. Sans tourner la tête, Touma entend leurs rires, leurs éclats de voix ; du fond, lui parvient une chanson américaine stridente qui lui donne envie de danser, de se trémousser avec des gestes exaspérés au beau milieu de la place. Elle sort, de son sac, un paquet de cigarettes et un briquet en argent, cadeau du commissaire Martinez. Le groupe de jeunes gens s’installe maintenant sur la terrasse : la chanson américaine continue, mais nostalgique. « Les Arabes, je les hais ! » murmure Touma, en allumant sa cigarette d’un mouvement désinvolte de la main droite, geste qu’elle a appris avec une application puérile et
36 ENM, p. 87.
37 Ivi, pp. 37 – 38. 38 Ivi, pp. 92 – 93.
dont la maîtrise lui est devenue nécessaire chaque fois qu’elle vient s’asseoir là, à la même table, dans l’attente.39
Si ha l’impressione che la scrittrice ritagli dei frammenti di quotidianità procedendo per scene successive, di volta in volta interrotte e ricomposte nel capitolo successivo. In tal modo, il lettore si ritrova all’interno del testo, testimone sulla scena di uno spettacolo che si rivela, battuta dopo battuta, davanti ai suoi occhi. Ad acuire il taglio cinematografico contribuiscono le descrizioni dettagliate e vive dei posti e degli ambienti in cui la scena si svolge.
Le vieux quartier arabe est relié au centre de la ville par une rue encombrée le matin d’étalages de légumes, de charrettes; les cafés maures qui bordent la rue de chaque côté déploient ensuite leurs tables et leurs chaises sur les trottoirs, si bien qu’à la fin des matinées et les après-‐midi, on doit passer entre deux haies de consommateurs bruyants ou au contraire assoupis, soit qu’ils jouent aux cartes, aux dominos, au jeu de dames ou qu’ils rêvent devant le seul café turc qu’ils peuvent se payer de la journée, à leur temps vierge de chômeurs perpétuels.40
Il lettore può passeggiare tra le vie della città, scorgere il bianco delle case, i colori della piazza e delle bancarelle, il rumoreggiare dei caffè. Si attiva un genere di percezione estremamente intima e coinvolgente, quella dei particolari. Sembra quasi che l’autrice proponga uno zoom – in ogni caso estremamente graduale, per niente violento – sui dettagli che compongono il mosaico della piazza. Ci si ritrova immersi nella storia, del tutto parte della narrazione, quasi interni alla descrizione stessa. Il dramma del personaggio, allora, ci tocca da vicino, si fa universale. Lettore e personaggio dividono la stessa camera, la stessa piazza, la stessa corte, quindi, lo stesso punto di vista, gli stessi stupori, le stesse preoccupazioni, persino le stesse speranze. Il lettore è chiamato a ricoprire un punto di vista attivo, a essere parte del processo di creazione dell’opera. Si tratta certamente di un lettore
39 Ivi, pp. 128 – 129.
inteso alla maniera di Wolfgang Iser e di Hans Robert Jauß, principali esponenti della nota teoria dell’“estetica della ricezione”: Jauß afferma che la storia della letteratura si fonda in primo luogo sul continuo dialogo tra l’opera letteraria e il pubblico dei lettori, e che il rapporto dialogico tra la letteratura e il lettore condiziona in maniera decisiva l’opera nel suo carattere artistico e nella sua storicità41, mentre Iser approfondisce lo studio sul ruolo del lettore nell’interazione tra quest’ultimo e il testo. A partire dal proprio punto di vista, secondo Iser42, il lettore coordina le molteplici prospettive presenti nel testo e compone una totalità che è il prodotto del condizionamento esercitato dalle strutture testuali e della sua immaginazione. È esattamente questo il processo a cui è chiamato a prendere parte il lettore di Les enfants du nouveau monde: le strutture testuali del romanzo costituiscono, infatti, aspetti di una totalità alla quale è proprio il lettore a dare forma, tramite un processo di costruzione di immagini, di interazione profonda con le descrizioni, i personaggi e gli avvenimenti narrati. Ben lungi dall’avere un ruolo passivo, il lettore è artefice del significato dell’opera letteraria, che non può essere ricavato semplicemente dall’analisi dei singoli elementi testuali che la costituiscono, ma viene prodotto della facoltà immaginativa del lettore, che rielabora quegli elementi e stabilisce sempre nuove connessioni tra questi ultimi. L’interazione tra il testo e il lettore nel processo della lettura costituisce dunque il presupposto indispensabile affinché il significato testuale possa emergere: il romanzo “parla”, “risponde”43, fornisce gli elementi per la costruzione della specifica percezione di ciascun lettore. Gli atti della finzione fanno allora da tramite tra gli elementi della realtà e la facoltà immaginativa del lettore, definita da Iser con il termine
41 Hans Robert Jauß, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, vol.1,
Bologna, Il Mulino, 1982, pp.339 – 349.
42 Wolfgang Iser, L’atto della lettura: Una teoria della risposta estetica, Bologna, Il
Mulino, 1987.
43 Hans Robert Jauß, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, vol. 2,
«immaginario»44: essi da una parte, rendono irreale nel testo ciò che è reale, dall’altra rendono reale l’immaginario. In tal modo si verifica nel testo una riformulazione del mondo: il testo letterario fa riferimento alla realtà del mondo e ne utilizza gli elementi, che seleziona e rielabora, fino a creare un mondo proprio. Si tratta di un mondo “nuovo”, fittizio ma plausibile, che fa da palcoscenico al lettore e alla sua immaginazione: analogamente all’attore, che si cala nei panni di un personaggio per rappresentarlo, il lettore tenta di richiamare alla mente la realtà rappresentata nel testo con l’ausilio dei propri pensieri e sentimenti.
Lo spettacolo nello spettacolo: la guerra
La guerra di Indipendenza algerina fa da sfondo al romanzo, intervenendo di tanto in tanto con la veemenza e l’irruenza tipica dei conflitti, finendo per assorbire i personaggi in questo spettacolo cruento, cucendo loro addosso dei ruoli ben precisi. Comprendiamo, fianco a fianco con i personaggi maschili del romanzo, cosa viene richiesto all’uomo nella vita pubblica, cosa invece deve rimanere tra le mura di casa, e se, tra quelle mura, sia concesso o no di aver paura, di aspirare a un “nuovo mondo”, di avere voglia di autoaffermazione:
un métier besogneux mais qui fait vivre, le mariage, les enfants puis, la cinquantaine venue, une façon plus douce enfin, moins raidie dans l’effort d’humilité, de s’agenouiller dans la prière et de s’engloutir dans les heures plates de la méditation qui suit ; cependant, tout au long de ce parcours à la frange de la misère mais qui parvient, pour l’approche de la sérénité finale, à niveler tout de l’âme, ambitions, amertumes, fatigues – griffures anciennes – subsiste, continuité plus fort que le temps, la sensation froide de se savoir toujours un ennemi. Un ennemi dont on ne déteste pas tellement les excès, les incessants empiétements et le libre arbitre, même pas la familiarité qui se veut paternelle et le tutoiement, protecteur, mais la présence. Une présence
44 Wolfgang Iser, op. cit., pp. 56 – 60.
sans face, sans yeux, anonyme comme lui, la victime, mais qu’il tente, tout en se péchant chaque jour sur son œuvre, au fond de son échoppe, de renier.
[…] [L’épuse n.d.r.] soupire ; la journée a été dure. L’époux, pres d’elle, se retourne, n’oublie pas la « chahâda » pour faire face au sommeil, le cœur vide, de ce vide paisible que donne une foi, comme la lumière, simple. Et lui, dans cet éclair dernier où lui parvient le grincement du berceau au-‐ dessous, le chuchotement des enfants tout près, le soupir de gorge de l’épouse qui s’en va, forme lourde dans le flux du sommeil comme dans le cours d’une rivière sans retour, le voici inexplicablement délivré. Seul. 45
L’uomo rimane in ogni caso solo nella sua lotta: nonostante l’aggregazione sociale, i compagni di partito, la vita pubblica, l’uomo è isolato dalla sua stessa immagine pubblica nell’elaborazione delle sue percezioni. Nei gesti delle donne, invece, nel loro tendere l’orecchio alla strada, ora per sentire le guardie che si avvicinano, ora per sobbalzare all’esplosione del bombardamento, è racchiusa l’intimità di una condivisione che è negata al sesso maschile: i medesimi sentimenti di paura, tensione, impotenza pervadono tutte le donne e, in un attimo, anche il lettore. La comunità femminile, allora, può unirsi, sospirare all’unisono, scambiarsi storie, tradizioni, voci, preghiere, dicerie e in qualche modo costruire su quest’oralità un patrimonio inestimabile: una memoria collettiva.
De temps en temps, une voix:
– Cette fois, cela a duré trois jours ! Trois jours, Dieu tout-‐puissant !
Une autre :
– Mon époux me racontait hier qu’il avait rencontré, au marché, un vieux paysan échappé d’un de ces malheureux douars. Il était couché dans sa maison, une ferme avec sa réserve de blé, ses deux vaches, son âne, d’autres richesses. A son lever, les soldats étaient là. Une heure plus tard, il n’avait rien : tout brulait. Mon époux me racontait que cet homme parlait de ses malheurs comme s’ils étaient arrivés à quelqu’un d’autre…
– Le temps maintant ne compte plus ! Il m’arrive de me dire quelquefois : la fin viendra-‐t-‐elle un jour ?
45 ENM, pp. 16 – 18.
J’hésite, je doute… (un soupir) mais tout est dans la main de Dieu
– La fin chuchote une autre et elle récite des citations du Coran pour conjurer le malheur ce sera un merveilleux réveil, une délivrance…46
Elle entend de sa place le bruit de la jeep arrêtée, dont le moteur continue à tourner. Et, Chèrifa l’imagine fort bien, toutes les femmes des maisons voisines ont dû en même temps tressaillir : à cet instant, dehors, leurs hommes doivent être immobilisés, la plupart terrés dans leurs magasins, d’autres parqués dans les rues, d’autres… Hakim, lui, possède l’habite de l’autorité ; il peut aller et venir sans crainte. L’une des vieilles a dû déjà se mettre à réciter entre ses dents creuses des versets du Coran, parce qu’elle n’ose songer à ce que peut voir, entendre, faire un homme en uniforme, en ces temps de violence.47
È solo quando si entra in questo circolo intimo e chiuso al mondo esterno, relegato alla vita privata, che si comprende il sottile equilibrio dello “spettacolo nello spettacolo”: la guerra. Essa è descritta sempre come spettacolo, sul palcoscenico rovente della montagna, in qualche modo lontana eppure sempre presente.
Ces jours de grande opération passent vite dans ces demeures qu’on croit toujours aveugles mais qui baillent désormais à la guerre sous son masque de jeu immense dessiné dans l’espace. Les avions, points noirs dont on distingue de là les courbes et le sillage blanc du vol, arabesques éphémères que le hasard semble tracer, comme une écriture mystérieuse mais qui tue. – « Ah Dieu ! » crie une femme quand l’un d’entre eux plonge droit au milieu d’étincelles et de balles qu’on imagine, puis, jaillissant d’une fumée qui court au sol (« La mort, il a apporté la mort, le maudit ! »), le voici dans une nouvelle volute longue, haut dans le ciel ; intervient ensuite la canonnade proche, si proche que les murs en son secoués.
Le spectacle peut durer une journée entière, toute une journée où les femmes ayant complètement délaissé leurs travaux ménagers, leurs enfants accrochés à leurs jupes, à leurs pantalons, s’enhardissent jusqu’à faire des commentaires, la voix excitée, d’une chambre à l’autre. Dans chaque maison où vivent ordinairement quatre à cinq
46 Ivi, p. 22.