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Sciascia e il cinema

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Academic year: 2021

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Prima Parte

Sciascia e il cinema

I. Introduzione

I. Introduzione

I. Introduzione

I. Introduzione

L’analisi del rapporto di Sciascia con il cinema è stata effettuata dal punto di vista della scrittura, attraverso uno sguardo d’insieme alla sua saggistica imperniata sul medium, con qualche incursione anche nell’ambito delle pubblicazioni, suggerite a Elvira Sellerio e alla sua casa editrice in veste di amico più ancora che consulente, e delle letture sull’argomento, allo scopo di definire meglio i suoi interessi e le sue opinioni al riguardo.

Lo spazio maggiore, tuttavia, è stato assegnato ai tre saggi più ampi, nei quali meglio si dispiega il suo pensiero, affrontati non già sulla base di un criterio cronologico di pubblicazione (che è stato rovesciato), ma dell’argomento di volta in volta trattato. È per questo motivo che il primo saggio in esame è, in realtà, l’ultimo scritto da Sciascia, ma è anche quello che, con un lungo

flashback, retrocede nel tempo fino all’infanzia e consente, quindi, di ricostruire la storia del suo

rapporto con il cinema, oltre a restituire intatta la fascinazione subita da quel ragazzo del profondo Sud, così restio a parlare e così prodigo di pensieri che la scrittura avrebbe poi immortalato:

l’articolo memoriale1 del 1989, C’era una volta il cinema, permette, infatti, di seguire la nascita,

l’evoluzione e le dinamiche di una passione precoce. Il secondo saggio preso in considerazione, Il

volto sulla maschera2 (1978) espone invece la riflessione matura e, in più, come è stato detto (credo senza esagerazione) «oggi appare fondamentale per comprendere quella che è, per eccellenza, l’arte

del Novecento e gli effetti che essa ebbe sulla società nella prima metà del secolo»3. Il terzo, La

Sicilia nel cinema4 (1963), è all’apparenza meno collegato alla storia individuale dell’autore, ma, in compenso, mettendo a fuoco la tematica del rapporto del cinema con la sua terra, è importante ai

1 L’articolo era destinato ai quotidiani, ma venne presto inserito nella raccolta Fatti diversi di storia civile e letteraria

(1989) e, insieme con questa, è infine confluito nel terzo tomo delle Opere complete curate da Claude Ambroise per la Bompiani. L’edizione che si userà come riferimento è: L.SCIASCIA, C’era una volta il cinema, in ID., Fatti diversi di storia civile e letteraria, Palermo, Sellerio, 1989, pp. 118-123.

2 Redatto per Il corriere della sera nel 1978, il saggio fu poi ripubblicato dalla Mondadori in un volumetto che ampliava

il titolo in Il volto sulla maschera. Mosjoukine-Mattia Pascal (1980); quindi, con l’aggiunta di una postilla, fu compreso nella raccolta di saggi intitolata Cruciverba (1983) e, infine, insieme con questa, confluì nel secondo tomo delle Opere complete curate da Ambroise. L’edizione che si userà come riferimento è:L.SCIASCIA, Il volto sulla maschera, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 182-201.

3 L’espressione, che parrà meno enfatica dopo la lettura, è di Matteo Collura. Cfr. M. C

OLLURA, Alfabeto eretico, Milano, Longanesi, 2002, pp. 48-49.

4 Uscito prima nell’annuario Film 1963, a cura di Vittorio Spinazzola per la casa editrice Feltrinelli, e in un secondo

tempo inserito nella raccolta di scritti intitolata La corda pazza (1970), confluì poi nel primo tomo delle Opere complete (1956/1971). L’edizione che si userà come riferimento è: L.SCIASCIA, La Sicilia nel cinema, in ID., La corda pazza, Milano, Adelphi, 1991, pp. 265-287.

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fini della nostra indagine, profilandosi come «una mappa acuminata, personale, vivissima»5, ovvero

una spazializzazione filmica del pensiero di critico cinematografico assai selettivo qual era lo scrittore.

IIIIIIII. I

. I

. Il cinema e la formazione

. I

l cinema e la formazione

l cinema e la formazione

l cinema e la formazione

II.1 Il cinema della memoria

La passione per il cinema, si è detto, si manifestò in uno Sciascia ancora adolescente, ma già precocemente alla ricerca di stimoli culturali e di fonti di apprendimento. Forse ad indirizzarla, oltre all’esiguità di alternative che la vita condotta in un paese della provincia di Agrigento negli anni ’30 poteva prospettare, intervenne la predilezione per le immagini: l’iniziazione avvenne con le immancabili figurine dei calciatori contenute nelle tavolette di cioccolata, che ingolosivano i piccoli collezionisti, per proseguire poi con le cartoline dei divi del grande schermo, raccolte con religiosa premura. Le une e le altre contribuirono a sviluppare una cura e un’attenzione per le immagini, in questo caso statiche, che partoriranno la passione mai affievolita per la fotografia, per la pittura e, perfino, per quell’arte di nicchia che è l’incisione, ma anche per coniugarvi il sorgente trasporto per il cinema «silenzioso», intessuto di “quadri”, di tableaux vivants.

A raccontarlo è lo stesso Sciascia, in C’era una volta il cinema, che scrive nel 1989, mentre combatte la sua ultima e più distruttiva battaglia contro la malattia. Nella saletta del cinema Odeon, a Milano, città dove si era temporaneamente trasferito per curarsi, aveva assistito al film di Giuseppe Tornatore, quel Nuovo cinema Paradiso (1988) che ottenne l’Oscar come miglior film straniero nel 1989. L’amico Vincenzo Consolo si era adoperato per farlo tornare al cinema, intuendo che le atmosfere di quel film gli avrebbero evocato memorie lontane:

Nelle poltrone azzurre, al centro della vasta sala deserta di quell’elegante cinema in uno stile assiro-babilonese e liberty, lo scrittore, la moglie e un gruppetto d’amici assistemmo dunque a quella proiezione. Alla fine della quale, riaccesesi le luci, restammo muti e fermi ai nostri posti, per la commozione che il film ci aveva dato, ma ancor più per l’imbarazzo di fronte alla più profonda, e più evidente, commozione di Sciascia. Per il quale quella mattutina e privata proiezione era stata apparecchiata perché egli del film potesse scrivere. E ne scrisse, magistralmente, memorialmente e poeticamente su un quotidiano6.

5 Così F. G

IOVIALE, Sciascia e il cinema, in Z.PECORARO,E.SCRIVANO (a cura di), Omaggio a Sciascia, Atti del convegno Agrigento, 6-7-8 aprile 1990, Agrigento, Sarcuto, 1991, p. 108.

6 V.C

ONSOLO, Dal buio, la vita, in ID., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999, pp. 203-204. Quanto all’avverbio “poeticamente”, bastino a legittimarne l’uso espressioni quali «sugli steli di ghisa dei lampioni sbocciarono le lampadine elettriche» o «la volta notturna, la tristezza, il silenzio» a proposito delle dive del muto, mentre, a risvegliare lo Sciascia pungente e ironico, non possono trascurarsi battute quali quella relativa agli amministratori onesti locali post

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Sull’onda emozionale risvegliata dal racconto filmico, tuttavia, la sua scrittura aveva travalicato i limiti di un semplice commento critico per diventare memoria generazionale, collettiva e universalizzante, testimonianza di una società in cui il cinema era stato mito ed epos.

Gli intellettuali contemporanei di Sciascia, infatti, si erano formati al cinema e ne erano

diventati in qualche modo dipendenti, con un approccio diverso dai loro predecessori7: basti

ricordare Gesualdo Bufalino8, per la sintonia a distanza con Sciascia, specie nell’abitudine di

compilare schede critiche con una precorritrice valutazione ad asterischi, o l’amico Vincenzo

Consolo9, con i suoi ricordi mescolati di cinema e di guerra, o ancora Pasolini o Moravia, che hanno

scritto per il cinema e vi hanno lavorato.

Nell’amarcord sciasciano, ritroviamo, dunque, un mondo lontano, di provincia, di povertà, a suo modo di primordiale innocenza, e uno Sciascia ragazzo che vive il cinema come un magico

sogno10, un po’ come Salvatore, il ragazzino protagonista del film di Tornatore, che vorrebbe –

come Sciascia – diventare regista, un “creatore di sogni”.

1860, «fatto allora non infrequente anche altrove, e che oggi ha del leggendario» o alla distribuzione indiscriminata di percosse da parte delle Forze dell’Ordine ai ragazzi praticanti dal loggione lo sport dello sputo pluridirezionale in platea (p. 121).

7 Alcuni intellettuali, come Gramsci, Gozzano e ancor più Verga, avevano esibito un atteggiamento di snobistico

distacco, a metà strada «tra il dispregio e l’ironia» per quella «forma d’intrattenimento per palati grossolani», mentre altri, come Pirandello, erano stati ambigui, incerti. Entusiastici solo D’Annunzio e i Futuristi, sia pure con posizioni assolutamente diverse. Lo stesso Sciascia riferisce, senza commentarla, la nota corrispondenza intrattenuta da Giovanni Verga con la contessa Dina di Sordevolo, in cui lo stesso le chiedeva di mantenere il segreto circa la propria paternità della sceneggiatura per il cinema di Storia di una capinera, e, con funebre rassegnazione, le annunciava: «Io ve l’abbandono ac cadaver», a proposito di altri manoscritti. Egli precisa anche che la reticenza del grande scrittore verista derivava dalla convinzione che nel cinema «l’ingrossamento del quadro e della sintesi è necessario e necessariamente brutale» e che il suo cedere scaturisce dai proventi sostanziosi. Cfr. L.SCIASCIA, La Sicilia nel cinema, cit., p. 269 e ss.

7 Cfr. G. F

INOCCHIARO CHIMIRRI, Al cinema con Sciascia, in S. GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, Catania, Maimone, 1992, p. 48.

8

È Sciascia stesso a ricordare questa coincidenza di comportamenti, rivendicando la primogenitura degli asterischi, «prima che lo facessero i giornali», ma Bufalino, dal canto suo, gli fa eco, in un passo del piacevolissimo Quei «ragazzi del loggione», tanti anni fa: «Comune era stata l’abitudine di trascrivere su un quaderno scolastico i titoli e i cast d’ogni film, come per prenderne in qualche modo possesso e comporre una collezione di larve che resistessero all’usura degli anni. Magari col sussidio delle figurine di attori e di attrici che frattanto venivamo comprando, scambiando, rubando dalla cartella del compagno di banco. Ci parve d’essere tornati ragazzi, il giorno che in una libreria antiquaria, a due passi da Montecitorio, ci avvenne di scoprire fra tanti tomi polverosi un album di quelle immagini mitologiche: Carmen Boni, Pola Negri, Diana Karenne...». Così G.BUFALINO, Quei «ragazzi del loggione», tanti anni fa..., in S.GESÙ (a cura di), Le maschere e i sogni: scritti di Leonardo Sciascia sul cinema,Catania, Maimone, 1992, p. 9.

9 Curioso il filo conduttore costituito dall’olfatto di cui scrive Consolo, narrando le sue prime esperienze al

cinematografo, con l’odore degli spezzoni di film bruciati per gioco che si sostituisce e assomma a quello delle cartucce, della polvere da sparo degli americani arrivati nel suo paese. Cfr. V.CONSOLO, Dal buio, la vita, cit., pp. 205- 206.

10 Scrive ancora Vincenzo Consolo: «E pur rischiando di scivolare in facili psicologismi e sociologismi, non possiamo

non dire quanto sia stato sociologicamente o psicologicamente salutare, più che nelle grandi città, in piccoli paesi come quelli siciliani, dalla vita sociale difficile, accidentata, un sogno vissuto collettivamente come il cinema (il cinema che subentrava così all’opera dei pupi o al cantastorie); in paesi in cui le uniche occasioni di comunicazione sociale erano le feste religiose o le elezioni politiche (quando si celebravano)». Lamenta poi l’incapacità dei tempi moderni di «sognare collettivamente, di ricreare, con l’immaginazione, capire e riscattare, attraverso quelle ombre che si muovono sopra il lenzuolo bianco, la vita». V.CONSOLO, Dal buio, la vita, cit., rispettivamente p. 206 e pp. 207-208.

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L’incipit del saggio mostra una sorta di orgoglio d’appartenenza al microcosmo del piccolo paese della Sicilia, «isola nell’isola», con la rivendicazione poetica dell’unicità di ricordi (impensabili per un lettore memore di un’assolata aridità di stampo verghiano), fatti di neve che i

carretti portavano giù «dalle neviere di montagna»11 (p. 118). E a quell’impalpabile neve lo scrittore

associa, «per una sorta di riflesso condizionato», l’universo di ghiacci del Polo Nord e il dirigibile di Umberto Nobile che, «drammatico mito», per due volte lo sorvolò; a quest’impresa collega l’arrivo a Racalmuto del primo documentario proiettato su di un lenzuolo-telone issato su supporti di fortuna nella piazza principale, a meravigliare doppiamente la gente, con l’avventura esotica di una spedizione ai confini del mondo e con il prodigio delle immagini che la riproducevano.

Sciascia rievoca il momento del passaggio dall’illuminazione a petrolio all’elettricità, che

consente di superare retaggi del passato12 e di infliggere un colpo alla criminalità notturna, anche

se, ironicamente, precisa che non si registrarono più uccisioni «a scangiu», ovvero per errore di persona, favorite dal buio, mentre non subirono flessioni quelle che centravano il bersaglio prescelto.

«E venne il cinematografo. [...] Si era, credo, nel 1929. [...] Ne venne a tutto il paese una passione, una febbre» (p. 119): comincia l’avventura della scoperta del mondo, dell’amore e dell’«umana tenerezza»; il piccolo Leonardo comprende l’antifascismo e introietta un senso di

giustizia, che non l’abbandonerà. E, in questa prima fase, soprattutto sogna13.

Sciascia non ricorda più quale fosse stato il film che inaugurò il cinema, trasformazione del

bel teatro14 comunale (vanto di Racalmuto sia per l’architettura che per le illustri compagnie che vi

si erano esibite), ora in «lenta devastazione»15, ma racconta che «vago e intermittente come nei

sogni» (p. 119), gli affiora il volto dell’attore Jack Holt (a quale film avrà assistito? Femmine del

mare di Frank Capra del 1928, oppure Diavoli volanti o L’affare Donovan, ancora di Capra, tutti e

due del 1929?).

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Era «la neve di Cammarata», spiegherà alla Padovani, nella celebre intervista, aggiungendo dettagli sulle granite e sulla fine dell’era dei carretti che con paglia e sale portavano in paese la soffice neve, all’avvento della «fabbrica del ghiaccio», nuova occasione per i bambini di osservazione estasiata. L.SCIASCIA,La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, pp. 16-17.

12 Lo scrittore descrive forme di arretratezza da cui il paese si emancipò: il prelievo manuale dell’acqua dai pozzi, il

trasporto di salgemma e zolfo con i muli, il lavoro minorile nelle zolfare.

13 A testimoniarlo, il saggio di Nino Genovese, nel quale si dice: «È chiaro che dei due elementi presenti nel cinema fin

dalle origini, quello documentaristico, realistico (la cosiddetta ‘linea Lumière’) e quello fantastico ed immaginifico (la ‘linea Meliès’), è soprattutto il secondo a colpire la fantasia e l’immaginazione dei ragazzi di tutti i tempi, che pensano, magari, di poter diventare loro stessi autori di queste ‘belle favole’, con la stessa facilità con cui, quando si spegneva la luce, esse magicamente e miracolosamente si materializzavano [...]». Cfr. N.GENOVESE,Sciascia e il cinema, in L. FAVA GUZZETTA,C.AMBROISE (a cura di), Nelle regioni dell’intelligenza – Omaggio a Leonardo Sciascia, Marina di Patti, Pungitopo, 1992, p. 105.

14 Dell’iter di trasformazione dei teatri in sale cinematografiche scrive ancora N.G

ENOVESE,Sciascia e il cinema, cit., p. 103, che spiega come questo ne avesse costituito «un rilancio grazie al successo sempre più incondizionato che il nuovo spettacolo stava riscuotendo, nell’ambito di tutti i ceti sociali».

15 La devastazione a cui allude lo scrittore non si riferisce al teatro come costruzione architettonica, bensì

estensivamente al teatro come forma d’arte, secondo un pregiudizio diffuso che apocalitticamente identificava nell’avvento dell’industria del cinema la fine della ben più nobile drammaturgia. In verità il teatro era già in crisi e il cinema costituì un rilancio delle sue sale, altrimenti deserte.

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Le proiezioni avvenivano solo nei fine-settimana, e perciò per tutti gli altri giorni si parlava del film già visto o si vagheggiava quello futuro.

Sciascia viveva la sua condizione di spettatore privilegiato, in quanto nipote del gestore del cinema, grazie al quale poteva godere del palco centrale, destinato al podestà (che per fortuna disertava sempre gli appuntamenti col medium), e di numerosi privilegi accessori: uno sguardo diretto sul grande schermo; la vicinanza alla cabina di proiezione, nella quale sgaiattolare negli intervalli, «per fare razzia di frantumi di pellicola» (p. 121) e fare opera di persuasione presso l’operatore perché gli tagliasse «un paio di fotogrammi dei più suggestivi», da collezionare come cimeli; la garanzia di potersi sottrarre all’insulso lancio di sputi o «di bucce d’arance o di noccioli di pesche (secondo stagione)» sulla sottostante platea da parte dei ragazzi del loggione, segno «non di pura e semplice “vastaseria” (cioè di maleducazione), ma reazione di indignazione, di disprezzo verso i personaggi vili, traditori e crudeli che in nessun film mancavano» (p. 121). Scene analoghe a quelle del film di Tornatore, di cui Sciascia si dice testimone oculare, per averle vissute da piccolo e narrate da grande già nel lontano1958, quando, ne La zia d’America, aveva descritto la vita di ragazzini siciliani, che al cinema si formavano e si divertivano, protagonisti di uno «spettacolo nello

spettacolo»16. Lo scrittore, nei panni di un narratore in prima persona, esponente e interprete

dell’universo plebeo, rissoso e variopinto, che descrive, aveva rievocato con fare scherzoso le intemperanze di questi ragazzi, cecchini a suon di sputi, le reazioni dei malcapitati spettatori di platea, offensori “per legittima difesa” delle loro ignare genitrici, le minacce feroci e mai realizzate della guardia municipale. E poi la disgustosa reazione ai baci sullo schermo, provocatrice delle

nuove proteste degli spettatori di platea, «baccalà che guardavano allocchiti»17:

Quando nel film c’erano scene d’amore, cominciavamo a soffiar forte, come in preda a un desiderio incontenibile, o facevamo quel rumore di succhiare lumache, che voleva essere il suono dei baci; era una cosa che in loggione anche i grandi facevano18.

16 Per meglio comprendere l’idea di un pubblico che, dando forte rappresentazione di sé, si tramutava per il piccolo

Sciascia in film con persone-personaggi e personaggi-maschere, si veda il suggestivo saggio di Liborio Termine, Il cinema con difficoltà, nel quale l’autore sviluppa lo spunto offerto da Sciascia, facendo ricorso alla lettera XXVIII da Parigi di Montesquieu, in cui è descritta la recita animata dalla gente nei palchi del teatro, interpretata dal Persiano come lo spettacolo vero. L.TERMINE, Il cinema, con difficoltà, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., p. 36.

17

L.SCIASCIA, La zia d’America, in ID., Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1958, p. 14.

18 Ibidem. Curiosamente, nel racconto di Bufalino, contenuto in Museo d’ombre (Palermo, Sellerio, 1982), ambientato

nella sua Comiso, e imperniato su memorie sempre vive del passato, differisce la reazione del pubblico al bacio della protagonista Greta Garbo al suo partner: un «silenzio di tomba», in contrasto con l’irrispettosa accoglienza delle filmiche effusioni nel cinema di Racalmuto. Cfr. G.FINOCCHIARO CHIMIRRI, Al cinema con Sciascia, cit., p. 51. La sintonia tra i due scrittori si manifesta, tuttavia, anche attraverso la scelta di pubblicare lo stesso anno, in dittico, Museo d’ombre e Kermesse, a sua volta un glossario di lemmi della lingua di Racalmuto raccolti da Sciascia, il quale poi amplierà il testo con proverbi, soprannomi e altro ancora, nell’edizione per la Einaudi intitolata Occhio di capra (1984).

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Malizia, dunque, e impertinenze, in questo ragazzino che somiglia a tanti altri dell’epoca, ai quali lo scrittore non lesina umana comprensione e tolleranza, estesa persino al linguaggio tessuto di bestemmie e oscenità, con la giustificazione del non aver essi chiara la corrispondenza tra il significante e il significato reale delle parole, mentre condanna senza mezzi termini il malcostume imperante dello sfruttamento minorile.

Sciascia insiste nel valorizzare il ruolo pedagogico, la funzione del cinema nel rivelar loro il

mondo e perciò il suo costituire un «fattore di crescita, una scuola di vita»19; ne rimarca, inoltre, la

valenza sociale, in quanto l’unificazione del prezzo del biglietto, diversamente da quanto accadeva per il teatro, rappresentava un elemento di omologazione.

E che il cinema fosse muto si deduce anche dall’intervento della «vecchia, mascolina, irascibile pianista che il Comune miseramente stipendiava» (p. 121), una rivisitazione della vecchia del Castello di manzoniana memoria, la quale si produceva in un crescendo musicale di valzer di Strauss e romanze, per coprire le chiassose proteste dei ragazzi puniti con una sommaria distribuzione di percosse dalle Forze dell’Ordine, chiamate a quietarne le intemperanze.

È il film di Tornatore, con il suo lirico canto per la morte del cinema, «una specie di requiem» (p. 123) del cinema com’era, che ha il potere di riportare Sciascia indietro nel tempo, anche se la storia che si svolge sullo schermo è collocata in un’epoca posteriore a quella della sua infanzia: «Il film di Tornatore [...] mi ha toccato e commosso nella memoria di anni più lontani: quelli del mio cinema, del mio vero cinema: il cinema che direi silenzioso piuttosto che muto» (p. 121), laddove l’aggettivo “silenzioso” suona amorevole e riguardoso, un riscatto dal penalizzante e riduttivo attributo corrente.

II.2 Il silenzio è d’oro

Arriva il trasferimento a Caltanissetta, dove il padre è chiamato a fare l’amministratore di una miniera ad Assoro: Sciascia considererà questo trasferimento una «fatalità» che incise sul suo destino, deviando la traiettoria del suo futuro possibile (non più sarto potenziale, come lo zio presso il quale faceva un apprendistato estivo, bensì scrittore di fama internazionale). Il capoluogo di provincia significò, infatti, le scuole superiori e l’opportunità di assistere ad almeno una proiezione al giorno, a volte due, escluso il giorno della settimana in cui acquistava in edicola l’Omnibus di Longanesi, la rivista su cui scriveva Brancati, docente della sua scuola e già noto intellettuale.

L’ubriacatura di film era qui di differente categoria: diversamente che in paese, in città era

arrivato il cinema «parlato» e in questo egli travasò tutta la passione nutrita per il muto20, senza

rinnegare quest’ultimo, anzi accordandogli sempre la sua preferenza e non perdendosi mai le

19 G.F

INOCCHIARO CHIMIRRI, Al cinema con Sciascia, cit., p. 48.

20«Il cinema, il cinema muto specialmente, ha avuto parte grandissima nella mia infanzia, nella mia adolescenza»: cfr.

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proiezioni “silenziose” a ogni ritorno a Racalmuto, dove, grazie a un “benefico” ritardo nel progresso, poteva ancora goderne.

Il primo film sonoro dell’interminabile lista fu il monumentale colossal Il segno della croce (1932), di Cecil B. De Mille, con Elissa Landi, nel ruolo di una fanciulla cristiana, Claudette Colbert che, nella parte di Poppea, si immergeva in vasche colme di latte, consegnandosi all’immaginario maschile come vestale di un erotismo conturbante, e un memorabile Charles Laughton nei panni di Nerone. Il film, intriso di misticismo, si ambientava all’epoca della decadenza dell’impero romano e valorizzava l’eroismo dei martiri cristiani: a Sciascia dodicenne piacque moltissimo, anche se fu costretto a vederlo una seconda volta, perché frastornato, la prima, dal corredo di suoni, rumori, musiche, parole, che ne ottundeva le capacità di comprensione.

L’influenza esercitata dal cinema sulla sua immaginazione può dedursi anche da un’aneddotica più intimista: per esempio, il vezzo di assegnare a professori e compagni un

soprannome parafrasato o testualmente adottato da titoli di film, come racconta Matteo Collura21

che ne stila una lista, rivelatrice di un insospettabile Sciascia, lusingatore o fustigatore specie del gentil sesso (Tutta la città ne parla, o Tutto per un bacio, Una donna vivace, L’adorabile nemica e così via, indirizzati alle ragazze della quarta A femminile, ovvero «il paradiso proibito per gli

studenti di sesso maschile»22, stante la rigorosa suddivisione per genere delle classi di allora).

Anche il primo invaghimento reale può leggersi attraverso il condizionamento del cinema: l’adolescente che popolava i suoi sogni aveva le trecce bionde e il viso dolce di Simone Simon, la giovane attrice che conquistò appena ventenne il pubblico francese e italiano con il ruolo da protagonista nel film sentimentale di Marc Allegret del 1934, Le lac aux Dames (nella versione

italiana nel più allusivo e dannunziano Il lago delle vergini23). Sciascia accenna ancora a questa

ragazzina e alla somiglianza con l’attrice nell’intervista alla Padovani del 1979, dove racconta che per tutta l’adolescenza l’amò moltissimo, «con una timidezza pari solo alla violenza della [...]

passione»24, espressione che aggiunge credito al racconto che ne fa Collura, in quella biografia che

sembra un romanzo, quando narra che fu allora che prese a fumare, «la sigaretta sempre tra le dita, il fumo a velargli il volto, come l’attore americano in cui la sua generazione si sarebbe identificata,

Humphrey Bogart»25, per darsi un contegno indifferente, forse per nascondere qualche trasalimento.

Cinema, dunque, meglio se “silenzioso”: non solo il fascino del muto rimane per lui incomparabile, ma anche le sue icone, come Francesca Bertini, Pina Menichelli, Diana Karenne e

21 M.C

OLLURA, Il maestro di Regalpetra, Milano, Tea, 2000, pp. 91-92.

22 Ibidem.

23 Simone Simon aveva recitato ancora bambina ne La piccola cioccolataia (1931) e sarà poi protagonista di una serie

di pellicole minori che puntavano sulla sua fresca bellezza, come Occhi neri (1935), Ragazze innamorate (1936), Collegio femminile (1936). Cfr. P.FARINOTTI, voce Simon, Simone, in ID. Dizionario degli attori – Tutti gli attori e i loro film, Gallarate, Esedra, 2000, p. 278; LA.MORANDINI,LU.MORANDINI,M.MORANDINI, voce Il lago delle vergini, in ID., Il Morandini – Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini 2005, Bologna, Zanichelli, 2004, p. 727.

24 L.S

CIASCIA,La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, cit., pp. 15-16. Lo scrittore aggiunge di non voler rivedere il primo amore, che non ha più incontrato, perché «il contatto con la realtà sarebbe ora terribile». Ibidem.

25 M.C

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Lupe Velez26, sono a suo avviso creature idolatriche più desiderabili di Elissa Landi27 & company,

quasi fossero sirene dal richiamo irresistibile.

Lo scrittore trova significativo che quasi contemporaneamente due diversi registi28,

Giuseppe Tornatore ed Ettore Scola (Splendor29, 1988), abbiano sentito la necessità di raccontare il

cinema qual era e di rivelare quanto esso abbia inciso sulla loro adolescenza: non si pronuncia su quest’ultimo, non avendolo visto, mentre si diffonde sullo stato d’animo che ha generato la pellicola di Tornatore, a suo avviso lo stesso che ha ispirato la bella autobiografia di Frank Capra, Il nome

sopra il titolo, di cui vorrebbe preparare una recensione che non farà in tempo a realizzare30.

Perfino da una breve riflessione come quella che segue, si può evincere l’ampio spettro di letture cinematografiche di Sciascia e la sua approfondita conoscenza del cinema americano dell’«età dell’oro» (p. 123), ma anche i suoi gusti: dopo aver riportato una lunga lista di nomi di cineasti di Hollywood degli anni ’30 e ’40 che figurano nel libro di Capra, da John Ford a George Cukor, da Billy Wilder ad Alfred Hitchcock e Howard Hawks, ne aggiunge ancora un paio, per ovviare alla dimenticanza del regista americano, e precisando, in quella «chiosa che equivale a una

preziosa confessione»31, che gli sono particolarmente cari Joseph von Sternberg e Rouben

Mamoulian, i due pigmalioni della Dietrich, menzionati anche nel saggio D’Annunzio alla Piacente. Ma, pur affermando di apprezzare i «due registi preziosi votati a turgidi melodrammi

estetizzanti»32, come efficacemente li definisce Giuseppe Traina, lo scrittore non motiva il proprio

giudizio. Si può solo avanzare l’ipotesi che il suo apprezzamento sia dovuto soprattutto all’operazione di divinizzazione di Marlene Dietrich, cui entrambi cooperarono. Sternberg, infatti, il genio dall’«immaginario onirico e claustrofobico, ricreato sulla base di compiaciuti espedienti

26 Curiosamente, attrici divine nella concezione di Sciascia, come la Menichelli e la Karenne, non trovano alcun

riconoscimento nel dizionario degli attori di Farinotti, mentre la Bertini, resa, comunque, immortale dal ruolo di Signora delle camelie (1915), viene ricordata per sole tre interpretazioni e la Vélez, dal canto suo, a cavallo del sonoro, per un numero più elevato, tra cui figurano titoli, anticipatori di un filone italiano osé degli anni ’80, quale La verità seminuda (1932), Rumba dell’amore (1932), Tutta pepe (1933), Caramba, Carmelita (1942), Rita la rossa (1943).

27 Il primo ruolo di respiro veramente internazionale della Landi fu quello interpretato nel film statunitense Maschera

(1933), di Richard Wallace. Il precedente film del 1931 di Alfred Santell, Anima e corpo, che avrebbe dovuto lanciarla come una nuova Garbo e Dietrich insieme, accanto a Humphrey Bogart, non riuscì a consacrarla come tale, malgrado il battage della Fox. L’attrice era inglese, figlia di un ufficiale austriaco e della contessa Zanardi-Landi. La Garbo era per Sciascia, e tanti altri della sua generazione, inimitabile.

28 In realtà pare che i registi siano stati tre, compreso Luciano Odorisio, autore di Via Paradiso. 29

Il film di Scola era «fiacco come amarcord, inattendibile sul piano rievocativo, moscio nell’intreccio degli affetti privati, lamentoso e contraddittorio» e, pertanto, se pure lo avesse visto, con molte probabilità Sciascia non ne sarebbe rimasto soddisfatto. Cfr. LA.MORANDINI, LU. MORANDINI,M. MORANDINI, voce Splendor, in ID., Il Morandini – Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini 2005, cit., p. 1313.

30

Nel saggio E come il cielo avrebbe potuto non essere..., Sciascia cita nuovamente questa biografia di Frank Capra che gli ha riattivato memorie lontane, di emigrazione di siciliani in America e di sbarco in Sicilia di americani che parlavano un siciliano cristallizzato di cinquant’anni prima, descrivendole come scene da cinema. Cfr. L.SCIASCIA, E come il cielo avrebbe potuto non essere..., in ID., Fatti diversi di storia civile e letteraria, Palermo, Sellerio, 1989, p. 127.

31 A.D

I GRADO, Bianco e nero su nero, in S.GESÙ (a cura di), Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema, cit., p. 16.

32 G.T

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15

visivi»33, malgrado il kitsch esibito e l’esasperato gusto per l’esotico, seppe usare la macchina da

presa in modo da esaltare la bellezza ambigua dell’attrice34; Mamoulian, innovatore del ritmo,

provò a proporre un’immagine alternativa della fascinosa diva, quando il sodalizio con Sternberg

sembrava finito35, ma non dimenticò di rivolgere le sue attenzioni registiche anche all’altra divina

per eccellenza, Greta Garbo, che figura sulla copertina del libro di Marco Ramperti (su cui si tornerà), voluto da Sciascia.

II.3 Il cinema fucina di miti e modelli in trasformazione

Che Sciascia si compiacesse di ricordare i divi di un tempo e i loro miti è dimostrato dalla proposta fatta alla casa editrice Sellerio, come consulente, di ripubblicare negli anni ’80 vecchi libri che, scoperti magari per caso e amati in età giovanile, ormai costituivano oggetti deliziosamente

démodé, come L’alfabeto delle stelle di Marco Ramperti, una galleria di ritratti di una cinquantina

di dive degli anni ’30, che il «geniale critico cinematografico dall’estro dannunziano»36 (più

severamente giudicato da Sciascia come uno «scrittore tra l’estrema scapigliatura e il

dannunzianesimo [...], di una estravagante genialità e di un non solido gusto»37) aveva pubblicato

nel 1936, rifiutandosi di acconsentire a una seconda edizione nel 1943, in tempo di guerra, per non risultare «sfacciato» e inopportuno.

Sciascia aveva scritto del libro di Ramperti già in un articolo apparso su “L’Ora” nel 1965,

in occasione della morte di Clara Bow38, in cui ricorda l’«oscenità che vuol essere preziosa o la

preziosità che vuole essere oscena»39 dei commenti alle foto da parte dell’autore, il quale, tuttavia, a

suo avviso centra il bersaglio quando, a proposito appunto della Bow, afferma impudicamente che

«quando levava le palpebre era come se alzasse la veste»40. Da qui una digressione su un’altra

interminabile raccolta di fotografie del firmamento del muto (settemila, pare), quell’A pictorial

history of the silent screen, di Daniel Blum, in cui si aveva la prova degli effetti erotici raggiunti dal

33 S.A

RECCO, voce von Sternberg, Josef, in G.P.BRUNETTA (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, Torino, Einaudi, 2006, p. 406.

34

Sternberg diresse la Dietrich in numerose pellicole, determinandone il mito, ed ella si lasciò plasmare, presentandosi al pubblico adorante ora come l’intrigante Lola-Lola de L’angelo azzurro (primo film sonoro tedesco,1930) ora, già perfettamente plasmata dal regista, nei panni di Amy Jolly in Marocco (1930), ora cortigiana in Disonorata (1931) o Shangai Express (1932), solo per fare qualche esempio. Ibidem.

35 Mamoulian diresse la Dietrich in una pellicola leggendaria, Il cantico dei cantici (1933), ma nello stesso anno girava

un altro film, La regina Cristina, valorizzando la fotogenia di Greta Garbo. Ibidem.

36 La definizione è contenuta in N.G

ENOVESE,S.GESÙ, Uno scrittore con la macchina da presa, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., p. 12.

37 L.S

CIASCIA, Nota a M.RAMPERTI, L’alfabeto delle stelle, Palermo, Sellerio, 1981 (I edizione 1936), p. 208.

38

L’attrice era divenuta nota già dal 1927 per Alì, di William A. Wilman, spettacolare film di guerra, che ricevette due Oscar (per la miglior pellicola e per gli effetti speciali) e che passò alla storia per i virtuosistici duelli acrobatici degli aerei. LA.MORANDINI,LU.MORANDINI,M.MORANDINI, voce Alì (1927), in ID., Il Morandini – Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini 2005, cit., p. 40.

39 L.S

CIASCIA,Quando il cinema non parlava, in “L’ora”, 2 ottobre 1965, ora in S.GESÙ (a cura di) Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema, cit., p. 95; l’articolo figura anche in L.SCIASCIA,Quaderno, Palermo, Nuova Editrice Meridionale, 1991, pp. 114-115, ma mi riferirò all’edizione curata da Sebastiano Gesù.

40 L.S

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16

vecchio cinema, «senza dubbio più intensi di quelli ottenuti [...] da un Vadim»41. Sciascia non si

limita, dunque, a rivangare il passato con nostalgia, ma stabilisce raffronti con il presente, prende posizione ed esprime osservazioni di carattere estetico-psicologico, sostenendo che il codice Hays e la censura puritana e cattolica fungevano da catalizzatore per l’erotismo: nel confronto, appare surclassato quello contemporaneo del regista Roger Vadim, che riempiva le sale con il «voyeurismo

libertino [... della sua] caméra dal famelico obiettivo»42, esaltante la provocante bellezza della

nuova diva, Brigitte Bardot, da lui lanciata già dal 1956 con il fruttuosissimo Et... Dieu créa la

femme (nella versione italiana tradotto con il più prosaico Piace a troppi). Sciascia fa capire di non

amare l’esibizione del corpo femminile, la gioiosa amoralità del nuovo sex-symbol: sembra prediligere il sofisticato vagheggiamento di una sensualità distillata, più insinuante, nel complesso più complice, anche se poi aggiunge che «la carica erotica di una Clara Bow è, in un certo senso, retrospettiva: proviene da un che di casalingo, come di un vampismo fatto in casa con qualche

ingenuo apporto “parigino”»43. Ben diceva Emilio Cecchi – dichiara in conclusione dell’articolo –

che, guardando una foto di ballerine della vecchia Cines, ne sottolineava la diversità l’una dall’altra, mentre le “nuove” bellezze gli apparivano come anelli di un ingranaggio, tutte uguali, omologate da

diete e cure di bellezza44.

Nel 1965, quindi, già scriveva di Ramperti45, forse morto di recente e ben vivo nel ricordo

dello scrittore, che, con la riedizione dell’Alfabeto, intende rinverdirne la memoria, contribuendo allo sdoganamento degli autori fascisti meritevoli di attenzione. In questa «enfatica astrologia dei

miti erotici»46, una specie di inventario del divismo degli anni Trenta, le star del cinema c’erano

quasi tutte e a ognuna l’autore dedicava effusioni, di cui Sciascia forse non condivide la forma passionale, pur ritenendo l’opera degna di essere ripubblicata, e, non a caso, nella collana intitolata

“La memoria”47, da lui ideata e diretta. A corredo dei testi una cinquantina di fotografie48, tra cui

41

Ibidem.

42 Cfr. L.C

ODELLI, voce Vadim, Roger, in G.P.BRUNETTA (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, cit., p. 529. In realtà, come racconta Lorenzo Codelli nel citato dizionario, Vadim cercò di non rimanere intrappolato nel cliché di “regista erotico”, ma non sempre gli riuscì e, prima osannato per l’innovatività della sua poetica, successivamente si vide piovere addosso numerose critiche, anche quando firmò opere di maggior impegno, come Les liaisons dangereuses del 1959, con Annette Stroyberg, sua nuova musa.

43 L.S

CIASCIA,Quando il cinema non parlava, cit., p. 95.

44 Nel risvolto di copertina del libro di Ramperti che ripubblicherà, Sciascia precisa che i «due tipi di “stars” sono

destinati a coesistere lungamente: la “vamp”, la casalinga». Cfr. S.S.NIGRO (a cura di),Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, Palermo, Sellerio, 2003, p. 92.

45

Ne parla ancora ne La povera Rosetta, una delle sette storie che compongono le Cronachette (1985), nel corso della quale consiglia garbatamente la rilettura del Nuovo alfabeto delle stelle, prendendo spunto da una di quelle «concatenazioni di caso, destino e necessità degli universi minimi», che tanto lo intrigano: Ramperti, che si professava futurista, «con atteggiamenti da scapigliato in ritardo, da poeta maledetto», era l’autore del testo in dialetto milanese che Rosetta recitava in teatro con un certo successo. L.SCIASCIA,La povera Rosetta, in ID., Cronachette, Palermo, Sellerio, 1985, p. 51.

46 Ibidem, p. 52. 47

Nella scheda a suo pugno per illustrare la collana “La memoria”, Sciascia spiega gli intenti che si prefigge: una esortazione a non dimenticare certi scrittori, certi testi, certi fatti. Cfr. S.S. NIGRO (a cura di), Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, cit., p. 183.

48 A proposito di queste fotografie, Collura azzarda che furono attinte dalla collezione che Sciascia custodiva fin da

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17

una di Ramperti stesso a braccetto della platinata Jean Harlow, in cui allo scrittore pare di cogliere, a dimostrazione dell’entelechia della fotografia, un segno dello «sciagurato» e «macabro» destino

dell’autore49, oltre che quello doloroso e oscuro dell’attrice famosa e della poco nota Rosetta.

La Nota di chiusura a sua firma non è tanto una proposta esegetica del testo di Ramperti

quanto un’occasione per rispolverare il passato, nel quale rifulgevano quelle stelle «allo zenith»50

del divismo, «fatte della stessa sostanza – direbbe Shakespeare – dei sogni»51, che simboleggiano

emozioni, e forse ingenuità, accomunanti un’epoca: emblematica la celebrazione dei funerali di Rodolfo Valentino, che Sciascia racconta ricorrendo a una lunga citazione tratta da Tango lento di Dos Passos, in The big money (Un mucchio di quattrini, 1938). A proposito delle manifestazioni di delirio collettivo per la morte di un mito che non ebbe successori (Sciascia non ritiene adeguati a raccoglierne l’eredità né Ramon Novarro né Robert Taylor), lo scrittore esprime un giudizio che sconfina in ambito sociologico:

I funerali di Valentino diedero insomma la misura e di quel che era stato il fenomeno Valentino e della disponibilità delle masse a divizzare, a divinizzare, attori-personaggi (più personaggi che attori) offerti dal cinema: sicché la creazione di dive e divi diventò quasi una scienza. Fenomeni di divismo aveva prodotto, ma in un’area che approssimativamente possiamo delimitare ai lettori di D’Annunzio, il cinema muto italiano (Lyda Borelli, Francesca Bertini); il francese con Mosjoukine, l’americano con Mary Pickford (la fidanzatina d’America) [...]; ma dopo Valentino nasce uno “star system” che trabocca dagli uffici pubblicitari dell’industria cinematografica, dagli schermi, dalle riviste dedicate al cinema e invade la vita sociale americana ed europea52.

Sciascia accosta opportunamente il nome di D’Annunzio al cinema muto e alla nascita del divismo in Italia, poiché il Vate non solo collaborò attivamente con il cinema (anche se bisogna ridimensionare il tanto sbandierato ruolo da lui svolto nella realizzazione del film Cabiria del 1914, di Giovanni Pastrone, film storico trasudante decadentismo e archetipo del kolossal, di cui preparò

di incontrare Fellini che stava girando a Roma, dove anch’egli si trovava in quei giorni, La città delle donne (1978). Subito esaudito, aveva trascorso l’intera giornata con il celebre regista e, durante la conversazione, gli aveva confidato il proprio culto per le dive del passato e la raccolta di foto, da cui la sua stessa previsione: «Se ne potrebbe fare un libro». Il libro sarebbe stato poi la riedizione dell’Alfabeto di Marco Ramperti. Per quanto suggestiva, la tesi non trova conferma né nel testo né nel peritesto ed anzi appare smentita dall’articolo di Sciascia de “L’ora” del 2 ottobre 1965, precedentemente citato, in cui Sciascia parla esplicitamente delle «belle fotografie di una cinquantina di dive» già contenute nell’edizione del libro del 1937. M.COLLURA, Il maestro di Regalpetra, cit., pp. 294-295.

49 Della biografia di Marco Ramperti non si conosce molto: una vita condotta tra passioni ardenti, un orgoglio senza

pari che lo portò a non accettare un contratto, a suo avviso vincolante delle sue libertà, con la Rizzoli, una fine miserevole alla stazione Termini. R.GUATTA CALDINI, Marco Ramperti. Una penna rossa per il fascio, in “Il fondo – magazine di Miro Renzaglia”, in www.mirorenzaglia.org. Quanto a Jean Harlow, si conoscono meglio, invece, i sofferti matrimoni, il complicato rapporto con la madre e il patrigno, e la morte ad appena trentasei anni per una malattia dai confini incerti. Riguardo, infine, alla cantante e attrice Elvira Andressi, in arte Rosetta, è Sciascia stesso che investiga, con la sua ossessione per i misteri irrisolti e le microstorie individuali su cui gravano ingiustizie invendicate.

50 L.S

CIASCIA,Nota a M.RAMPERTI, L’alfabeto delle stelle, cit., p. 207.

51 Ibidem, p. 203. 52 Ibidem, p. 205.

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solo le didascalie letterarie), nel quale intravide inesplorate possibilità espressive53, ma, alimentando

la mitologia pubblicitaria e desiderando informare a sé l’umanità circostante, contribuì alla diffusione del modello divistico.

Di dive e di D’Annunzio Sciascia tratta anche in un altro testo, D’Annunzio alla Piacente, dedicato a Elena Di Sangro, nel quale affronta l’aspetto del «pigmalionismo» divampato insieme alla nascita del firmamento cinematografico, con lo scopo di trasformare in «stelle di prima grandezza» quelle che erano state «giovanette di piccola o infima borghesia, impacciate, maldestre, le più ignoranti, alcune un po’ stupide (ma, si capisce, belle puramente o con qualche imperfezione

“interessante”; e flessuose senza esser magre)»54:

bastava entrassero nell’occhio un po’saltellante della macchina da presa per ascendere alle costellazioni di quella volta notturna che era il cinema. Se poi dagli studi cinematografici europei passavano a quelli americani, era la perfezione: stelle di prima grandezza55.

Sciascia, dunque, da attento osservatore e acuto critico, mostra di essere consapevole che le tante stelle e stelline erano il risultato di un’accorta strategia industriale («l’industria del cinema –

nel ruolo di Pigmalione appunto»56) di trasformazione di un materiale umano non necessariamente

di prima qualità, che, tuttavia, veniva plasmato e rivenduto (a volte contrabbandato) come un prodotto esportabile, nei casi più riusciti, in tutto il mondo. Ciò non toglie che ammetta anche di esserne stato sedotto senza opporre resistenza, come ripeterà in C’era una volta il cinema e in tante altre occasioni. La ragione e i sensi, nel loro contraddirsi. Il rovello “illuministico” dell’intellettuale perfino austero e l’attrazione incontrollabile dell’uomo per

il genere passionale, del film d’amore, alla maniera dannunziana, che oppose ai movimenti delle masse biancheggianti di toghe romane [del filone del peplum] il passo languoroso e fatale delle grandi ammaliatrici e che affidava la sua forza di suggestione al divismo imperante in quell’epoca aurea57.

Attrazione ritenuta così intensa dai suoi critici ed estimatori da far dire ad Antonio di Grado che Sciascia, ammiratore, come si è detto, di Mamoulian e Sternberg, «non arretra sulla trincea del più torbido, esotico, affatturato mélo, apparentemente così remoto dal suo pudore espressivo, dalla

53 D’Annunzio si entusiasma al cinema per le sue straordinarie possibilità di rappresentazione del “meraviglioso”, del

prodigio e del sogno: rinnegando addirittura la fabbrica del teatro cui pure aveva dato tanto, invita a «sperare nella virtù serpentina della pellicola». G.D’ANNUNZIO, Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione, in “Corriere della Sera”, 28 novembre 1914. Ne scrive F. IVALDI, Effetto Rebound. Modelli cinematografici in letteratura, in corso di pubblicazione.

54 L.S

CIASCIA,D’Annunzio alla Piacente, in ID., Fatti diversi di storia civile e letteraria, cit., p. 74.

55 Ibidem.

56

Ibidem.

57 S.G

ESÙ, Sciascia al/e il cinema, in S.LANDI (a cura di), Leonardo Sciascia, Cinema e Letteratura, Atti del corso di aggiornamento Cinema e Letteratura – Leonardo Sciascia, Pordenone 2-30 marzo 1993, Pordenone, Cinemazero, 1995, p. 39.

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sua leggendaria diffidenza»58. Uno Sciascia dimezzato, duplice, come tanti suoi antieroi. Potere del

cinema.

Tornando a D’Annunzio59 e alla sua storia d’amore voluttuoso con l’attrice Elena Di Sangro,

spunto per la digressione di Sciascia nel saggio citato, è chiaro che il Pigmalione per antonomasia della letteratura è lui e che il “dannunzianesimo” si riverbera sul fenomeno del divismo.

Opportunamente Sciascia, la cui scrittura segue spesso il filo del pensiero, non come anarchico flusso di coscienza, ma come catena di associazioni logico-erudite, necessariamente condizionate da un mondo delle idee forgiato sull’immagine (e, perciò, in gran parte di natura cinematografica), allarga il suo discorso sul “pigmalionismo” tornando al cinema e ricordando il rapporto tra Joseph von Sternberg e Marlene Dietrich, per poi concludere la digressione cinematografica con un riferimento all’altro elemento del binomio registico per lui inscindibile, Rouben Mamoulian, che ne Il Cantico dei Cantici assegna alla Dietrich il ruolo di modella per uno scultore di nudo. E il cerchio si chiude con un riferimento a Pirandello e a una sua novella incentrata su una statua, Diana e la Tuda, del 1927: letteratura – cinema – e di nuovo letteratura.

III.

III.

III.

III. Ancora

Ancora

Ancora il cinema

Ancora

il cinema

il cinema come materiale

il cinema

come materiale

come materiale

come materiale editoriale

editoriale

editoriale

editoriale

Sciascia, dunque, scrive di cinema e favorisce la pubblicazione di scritti altrui sull’argomento, contribuendo alla comprensione degli effetti del medium, che non solo scatena l’immaginazione e il desiderio, ma funziona anche come una sorta di reagente chimico che impregna la società, influenzandone i costumi.

Nel 1985, per esempio, fa ripubblicare un libretto di Mario Soldati, intitolato 24 ore in uno

studio cinematografico, del 1935, in cui, pur essendo l’ambiente cinematografico quello italiano,

«gli unici nomi che circolano tra le pagine del libro sono quelli dei divi hollywoodiani, che,

d’altronde, regnavano sovrani nell’immaginario collettivo»60, perché testimonia la penetrazione del

cinema americano nel tessuto sociale e il condizionamento esercitato anche sui gusti del pubblico italiano.

Soldati aveva cominciato a collaborare con la più grande industria italiana di film, la Cines, già dal 1932, diventando soggettista, sceneggiatore e poi a lungo regista, firmando oltre quaranta pellicole. Agli inizi, tuttavia, quando aveva scritto Ventiquattro ore in uno studio cinematografico, si era prudentemente avvalso di uno pseudonimo, Franco Pallavera (si legge nel risvolto di

58

A.DI GRADO, Bianco e nero su nero, cit., p. 16.

59 Sciascia non ama D’Annunzio e, in questo saggio, lo dice espressamente: «a parte la mia vecchia e quasi istintiva

avversione» e ironizza sull’«afrodisiaca bellezza del Carmen votivum».L.SCIASCIA,D’Annunzio alla Piacente, cit., p. 73.

60 S.G

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20

copertina), ragion per cui il detective Sciascia deve applicare le sue tecniche deduttivo-investigative

per scoprire «il gioco mistificatorio»61 dietro il quale si cela l’identità vera dell’autore, attraverso la

lettura di un altro testo di Soldati, il surreale racconto La verità sul caso Motta62. La posizione

sostenuta da Soldati a proposito del cinema, che cioè fosse sempre industria e solo talvolta arte, dovette intrigare il nostro “consigliere editoriale”, che potrebbe aver condiviso anche altre idee

espresse nel libro, come una possibile indipendenza del medium dal regno della letteratura63; ed è

anche possibile che si sia lasciato conquistare da quell’«aria di deliziosa ironia, di sarcasmo e

tenerezza»64 che si respira tra le righe.

Nel 1982 aveva promosso, invece, la pubblicazione del romanzo di Anita Loos, I signori

preferiscono le bionde (1982), da cui fu tratto un musical e poi il pregevolissimo film di Howard

Hawks del 1953, con Marilyn Monroe e Jean Russell, dal titolo Gli uomini preferiscono le bionde. Nell’anno successivo, la Sellerio pubblicò anche il seguito: Ma...i signori sposano le brune! Stessa autrice, stesso intento di propagazione di miti. Con la consueta ironia, ne scrisse il risvolto di copertina, raccontando come i due libri volessero essere «satira di un tipo umano e di un costume; e finivano invece col creare e diffondere quel tipo umano, quel costume, quella commedia. Il tipo era

quello della donna “svampita”»65 al meglio rappresentato da Marilyn Monroe, che «calamitava a sé

una maschilità che si potrebbe dire d’apparenza»66, carica di complessi. Demolitore il finale che,

riprendendo il giudizio sulle due opere espresso da Santayana, «oggi, con più accentuata celia, si

può forse sottoscrivere: il miglior libro di filosofia scritto da un americano»67.

Ancora, nel 1982 la pubblicazione di Que viva Villa, di Martín Luis Guzmán non può non essere stata caldeggiata da Sciascia, che, ancora una volta nel risvolto di copertina, lo definisce un

«piccolo fosco capolavoro»68, divenuto tale dopo che ha trascelto i «capitoli “forti”». Ma lo

scrittore, che fa riferimento alla rivista cinematografica “Bianco e nero” per la quale Mario Praz ha tradotto uno dei capitoli del libro, mostra il tramite del cinema per arrivare alla letteratura anche in questo caso: è certo memore del film Viva Villa! di Howard Hawks del 1934, considerato da

qualche critico una specie di western rutilante e girato con grande dispendio di mezzi»69, mentre per

lui degno di memoria per l’interpretazione di Wallace Beery – Pancho Villa. Abbiamo già visto, infatti, come il volto intenso di Beery venga evocato nelle pagine de Il cavaliere e la morte (1988),

61S.S.N

IGRO (a cura di),Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, cit., p. 135.

62 Il libro è stato ripubblicato dalla Sellerio nel 2004, grazie a Salvatore Silvano Nigro, direttore editoriale della

pregevole casa editrice palermitana e continuatore dell’opera intrapresa dallo scrittore siciliano.

63 Cfr. G.B

ARBERI SQUAROTTI,P.BERTETTO,M.GUGLIELMINETTI (a cura di),Mario Soldati, la scrittura e lo sguardo, Torino, Lindau, 1991.

64 S.G

ESÙ, Sciascia al/e il cinema, cit., p. 41.

65

S.S.NIGRO (a cura di),Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, cit., p. 124.

66 Ibidem. 67 Ibidem, p. 125. 68

Ibidem, p. 105.

69 Cfr. P.M

EREGHETTI, voce Viva Villa! (1934), in ID., Il Mereghetti – Dizionario dei film 2006, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005, p. 2906. Le curiosità maggiori sono costituite dalla firma dello sceneggiatore, John Steinbeck, e da quella dei registi, ancora Hawks e poi Jack Conway, che completò il film, dopo l’allontanamento di Hawks voluto dal protagonista Beery, tanto caro a Sciascia.

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nelle quali il narratore esalta la capacità dell’attore di impersonare eroi, imprimendo loro per sempre le sue fattezze; quel passo fu notato da un critico, come Tullio Kezich, che ne scrisse all’indomani della morte di Sciascia in un bell’articolo, in cui, ricordando lo scambio di lettere

intercorso tra lui e lo scrittore, manifesta la sua riconoscenza70:

Non mi trattenni dallo scrivere a Sciascia, che conoscevo appena, per dirgli quanto mi avesse toccato, fra le altre singolarità del libro, il richiamo a un caratterista oggi ignoto ai più: forse perché, aggiungevo, i cronisti descrissero sempre Beery come l’uomo più cattivo di Hollywood. Sciascia mi rispose a giro di posta, in una sintonia da cinefili provinciali d’altri tempi: e ancora una volta gli fui grato di confermarsi uno dei pochi grandi scrittori del Novecento italiano che hanno saputo guardare al cinema come a un fenomeno importante71.

A conferma dell’importanza che il cinema riveste nel pensiero di Sciascia.

IV

IV

IV

IV. . . . Dissolvenze incrociate:

Dissolvenze incrociate:

Dissolvenze incrociate: Car Je

Dissolvenze incrociate:

Car Je

Car Je est un autre

Car Je

est un autre

est un autre

est un autre

Torniamo alla formazione di Sciascia legata all’inscindibile binomio letteratura-cinema, come quello che lo porta a cercare «disperatamente» il romanzo di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, solo dopo aver visto il film omonimo di Marcel L’Herbier (1925), a cui assistette tra il 1933 e il

193472, e a leggerlo per scoprirvi le sue stesse radici, come confida alla Padovani, durante

l’intervista più citata tra quelle da lui rilasciate:

ne ebbi una rivelazione. La rivelazione che dentro il mondo pirandelliano io ci vivevo, che il dramma pirandelliano – l’identità, la relatività – era il mio di ogni giorno. Me ne venne una specie di mania, di follia. Chi sono – come sono – come mi vedono gli altri – chi sono e come sono gli altri [...]73.

L’esperienza fatta come spettatore, quindi, lo conduce a diventare lettore, suggestionato dalla scoperta, attraverso il cinema, del problema dell’identità e dello sdoppiamento, che lo avvicina obbligatoriamente al pensiero di Pirandello, verso il quale dapprima nutre una sorta di rancore, perché un po’ gli imputava di non potersi esimere dall’avere il suo stesso approccio alla vita, e col quale poi si riconcilierà, tributandogli onori di “padre”.

Quel film visto a dodici anni rappresenta un rito di iniziazione al “pirandellismo”.

70

Cfr. A.B.SAPONARI, Il cinema di Leonardo Sciascia: luci e immagini di una vita, Bari, Progedit, 2009, p. 8.

71 T.K

EZICH, Il cinema silenzioso, in “Corriere della Sera”, 21 novembre 1989, ora in “Nuove effemeridi”, n. 9, 1990/I, Numero speciale dedicato a Leonardo Sciascia, pp. 134-135.

72 N.G

ENOVESE,Sciascia e il cinema, cit., p. 105.

73 L.S

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22

Alla stessa giornalista italo-francese Sciascia parla del suo desiderio, poi realizzato, di rivedere quel film così condizionante per la sua formazione. Dell’attore protagonista aveva trovato per caso delle fotografie in rue de la Seine, appena un anno prima dell’intervista, e ne aveva fatto incetta: un indicibile piacere, se si tiene conto della sua passione per la fotografia e dell’ammirazione per Mosjoukine, la cui immagine nei panni di Mattia Pascal che si muove come al rallentatore, nel casinò di Montecarlo, compare anche nella scena più cinematografica di A ciascuno

il suo (1966), quando Laurana scopre l’identità del killer, vedendo in una tabaccheria il colore dei

sigari Branca e ha uno sguardo “spiritato” come Pascal-Mosjoukine quando vince alla roulette. Ma il primo “panegirico” dell’attore risale al 1965.

Mosjoukine era un attore straordinario: col suo viso affilato, spiritato, di nevrotica malinconia: uno di quei rari attori – come sarà poi Louis Jouvet74 – che riescono, volta per volta, a essere interamente “quel” personaggio, senza portarsi appresso l’ombra di altri personaggi, di altre interpretazioni; mentre nel cinema di solito avviene il contrario [...]. Mosjoukine invece passava da Casanova a Mattia Pascal: ed io, che l’ho visto da ragazzo, prima di sapere chi fosse Casanova e di aver letto il libro di Pirandello, lo ricordo come Casanova e come Mattia Pascal, senza che l’immagine dell’uno abbia interferenza su quella dell’altro. [...] Mosjoukine era Mattia Pascal. Mosjoukine era Casanova. Chi fosse poi effettivamente questo attore, indubbiamente di origine russa, quale la sua vita, la sua carriera, la sua fine, non sono mai riuscito a sapere: aveva troppa qualità, una grande misura, uno stile, perché riuscisse a essere un divo. E se gli avessero dato da interpretare un personaggio come il commissario Maigret, forse sarebbe riuscito ad essere Maigret75: nonostante il suo fisico non si confacesse in nulla a quello del personaggio di Simenon76.

In un secondo tempo Sciascia tornerà sull’argomento e, dopo essersi opportunamente documentato, dissiperà molti suoi dubbi su Mosjoukine, nella complessa riflessione contenuta nel saggio a lui dedicato, Il volto sulla maschera (1978), mentre era ancora sovreccitato per aver rivisto, grazie all’interessamento dell’amico Scianna, il film di L’Herbier, come auspicava.

Sciascia racconta, emozionandosi, l’esperienza vissuta nella saletta degli archives du

cinéma.

74 Di Louis Jouvet si ritiene opportuno riportare, tra i tanti film che interpretò nella sua carriera, come La Marsigliese di

Jean Renoir del 1937, o l’eccellente noir Legittima difesa di Henry George Clouzot del 1947, quel Lo strano dramma del dottor Molineaux di Marcel Carné del 1937, che, forte anche della sceneggiatura di Jacques Prévert, prende «di mira le colonne dell’ordine costituito: borghesia, polizia, clero». Cfr. LA.MORANDINI,LU.MORANDINI,M.MORANDINI, voce Lo strano dramma del dottor Molineux, in ID., Il Morandini – Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini 2005, cit., p. 1340. Dati gli ingredienti e l’interpretazione di Jouvet, che Sciascia pone tra i grandi dello schermo, il film avrà avuto buone chances per piacergli.

75 Lo scrittore racalmutese predilige, tra gli investigatori letterari, Maigret, del quale scrive che «è un personaggio e non

un tipo» e che, nel corso degli anni è diventato «sempre più vivo, più umano, più reale». L.SCIASCIA, Breve storia del romanzo poliziesco, in ID., Cruciverba, cit., p. 230. Reputa tuttavia inadeguati gli interpreti scelti per impersonare il commissario Maigret, sia Jean Gabin che Gino Cervi. Forse per questo azzarda altri candidati virtuali.

76 L.S

CIASCIA, Personaggi e interpreti, in “L’ora”, 16 gennaio 1965, ora in S.GESÙ (a cura di), Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema, cit., p. 93. Il medesimo testo figura anche in L.SCIASCIA,Quaderno, cit., pp. 27-28.

(17)

23

Già le parole incipitarie trasmettono la solennità dell’evento che egli attribuisce a questa

occasione: «Rivedo, dopo circa quarantacinque anni, Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier»77 (p.

182). E subito percepisce una sorta di vertigine all’idea che nelle migliaia e migliaia di pellicole custodite nelle strutture futuristiche («ermetici parallelepipedi di alluminio») possa essere racchiusa «la materializzazione – rischiosamente accessibile – dei più ardui problemi che il pensiero umano da secoli declina, delle più ardue fantasie» (p. 182). Il cinema è uno scrigno colmo di tesori, ma, al pari di questi, può dimostrarsi pericoloso, come il pensiero. Sciascia dispiega una lunga teoria di filosofi, pensatori, menti illustri, da Platone a Einstein, da Agostino a Shakespeare, a Borges. E a Pirandello. Nomina una serie di nuclei di pensiero intorno ai quali si tormenta il genere umano dalla notte dei tempi: «il divenire e l’essere, il tempo, la libertà, la predestinazione, l’identità, il potere. [...] L’uomo uno, nessuno e centomila. La vita soltanto un sogno, un archivio di ombre» (p. 182). Al cinema, dunque, pare assegnare questa straordinaria facoltà di trattare, o anche solo di evocare, tematiche di grande profondità, interrogativi esistenziali. E, procedendo in questo scavo, negli abissi del pensiero, arriva a Platone e al mito della caverna (La Repubblica, libroVII), confessando di aver ripensato tante e tante volte, fin da ragazzo, al significato recondito di quella storia, anche se soltanto davanti agli archivi del cinema di Bois-d’Arcy (che curiosamente ribattezza Bercy) sente di trovare una realizzazione concreta, una risposta al quesito non posto ma presupposto: la caverna come prefigurazione del cinema.

Platone raccontava di alcuni uomini relegati fin dall’infanzia in una caverna, incatenati le gambe e il collo, così da riuscire a vedere solo davanti a sé. Alle loro spalle, la luce di una fiamma proiettata da una certa distanza: e, tra la luce e i prigionieri, una strada, lungo la quale «c’è un muretto, come uno di quegli schermi che i burattinai mettono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini» (p. 183). Proiettate dalla luce sulla parete della caverna che hanno di fronte, gli uomini della caverna vedono, oltre alle loro stesse ombre, quelle delle «persone che passano accosto al muretto portando oggetti di ogni sorta, e statue e figure di pietra e di legno in tanti modi lavorate» (p. 183). Tutto, dunque, si riduce a ombra per effetto dell’espediente utilizzato: le ombre si muovono, e, se la caverna avesse un’eco interna, parlerebbero.

«Una prefigurazione o profezia del cinema – e di una estetica e di una sociologia del cinema» – afferma Sciascia, sulla scia di Paul Valery che già l’aveva intuito, e, subito dopo, rovescia la prospettiva dalla proiezione alla percezione di chi guarda:

Che cos’è, lo spettatore cinematografico, se non un’ombra che guarda altre ombre, che confonde la propria ombra – e cioè la propria esistenza – con quella delle altre ombre che la luce proietta dietro le sue spalle? E non sta come incatenato alla sua poltrona? E non è oggi, tra cinema e televisione, quello che Platone dice “il mondo conoscibile” ridotto alle ombre che passano sul grande o piccolo schermo, sulla parete della caverna? (p. 183)

77 Come ho anticipato, le future citazioni virgolettate, senza nota di riferimento, devono intendersi tratte dal saggioL.

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