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Sta a te a far saltare i vecchi circuiti. -Hélène Cixous, “The Laugh of the Medusa”

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Academic year: 2021

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Sta a te a far saltare i vecchi circuiti. -Hélène Cixous, “The Laugh of the Medusa”

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2015. Almeria. A sud della Spagna. Agosto.

Oggi ho lasciato cadere il portatile sul pavimento di cemento di un bar sulla spiaggia. Era sotto al mio braccio ed è scivolato dalla fodera di plastica (fatta a forma di busta), cadendo a terra dalla parte dello schermo. La pagina digitale è ora incrinata ma, perlomeno, funziona ancora. Il portatile contiene tutta la mia vita e mi conosce più di chiunque altro.

Quindi, quello che sto dicendo è: se è rotto, lo sono anch’io.

Lo screen saver è l’immagine di un cielo notturno color viola, pieno di stelle, e di costellazioni e della Via Lattea che prende il nome dalla parola latina classica « Lactea». Anni fa mia madre mi disse che dovevo scrivere Via Lattea così «Γαλαξίας κύκλος» e che Aristotele fissava lo sguardo sul circolo latteo in Calcidica, 34 miglia a est dall’odierna Salonicco dove è nato mio padre. La stella più vecchia ha circa 13 miliardi di anni, ma le stelle sul mio schermo ne hanno due e sono state fatte in Cina. Tutto questo universo è ora distrutto.

Non c’è niente che io possa fare. A quanto pare c’è un internet cafè nella città vicina, infestata di mosche, e a volte il proprietario aggiusta computer con piccoli guasti, ma ha dovuto ordinare uno schermo nuovo che impiegherà un mese ad arrivare. Sarò ancora qui tra un mese? Non lo so. Dipende da mia madre, malata, che sta dormendo sotto una zanzariera nella stanza accanto. Si sveglierà e griderà “Portami dell’acqua, Sofia”, e io le porterò dell’acqua e sarà sempre il tipo di acqua sbagliato. Non sono più sicura di cosa significhi acqua ma le porterò dell’acqua come la intendo io: da una bottiglia nel frigorifero, da una bottiglia che non è in frigo, dal bollitore in cui è stata bollita ed è stata lasciata a raffreddare. Quando osservo la distesa di stelle sul mio schermo, spesso fluttuo fuori tempo nella maniera più insolita.

Sono solo le undici di sera e potrei stare in mare a fare il morticino, guardando il vero cielo notturno e la vera Via Lattea, ma sono nervosa a causa delle meduse. Ieri pomeriggio sono stata punta e mi hanno lasciato il segno di una bruciatura intensa e

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viola sulla parte più alta del braccio sinistro. Sono dovuta correre sulla sabbia rovente verso la capanna degli infortuni, alla fine della spiaggia, per avere un po’ di pomata dal ragazzo (con la barba lunga), il cui lavoro è stare lì seduto tutto il giorno ad aspettare i turisti con le bruciature. Mi ha detto che in Spagna le meduse sono chiamate “medusas”. Pensavo che Medusa fosse una dea greca diventata un mostro dopo una maledizione e che il suo sguardo potente trasformasse in pietra chiunque la guardava negli occhi. Quindi, perché una medusa sarebbe stata chiamata come lei? Lui si disse d’accordo, ma riteneva che i tentacoli delle meduse somigliassero ai capelli di Medusa che, nelle raffigurazioni, sono sempre un disordine ingarbugliato di serpenti che si agitano.

Avevo visto l’immagine del cartone animato di Medusa stampata sulla bandiera di “pericolo”, color gialla, fuori dalla capanna degli infortuni. Medusa ha zanne al posto dei denti e occhi da pazza.

«Quando sventola la bandiera di Medusa è bene non nuotare. In realtà, è a tua discrezione».

Ha tamponato la ferita con del cotone idrofilo che aveva immerso in acqua di mare riscaldata e poi mi ha chiesto di firmare un modulo che sembrava una petizione. Era una lista di tutte le persone in spiaggia, che erano state colpite quel giorno. Il modulo mi chiedeva il nome, l’età, l’occupazione e il paese di origine. Molte informazioni a cui pensare quando il tuo braccio è gonfio e brucia. Mi spiegava che doveva chiedermi di riempire il foglio lì dentro per mantenere la capanna degli infortuni aperta durante la recessione della Spagna. Se i turisti non avessero grandi ragione per usare questo servizio, lui sarebbe disoccupato, perciò era chiaramente soddisfatto riguardo alle meduse. Danno pane alla sua bocca e benzina per il suo motorino.

Sbirciando il modulo vedevo che l’età delle persone colpite dalle meduse variava da 7 a 14 anni e la maggior parte di loro proveniva dalla Spagna, ma c’erano anche alcuni turisti dal Regno Unito e altri da Trieste. Ho sempre voluto andare a Trieste perché suona come “tristesse”, che è una parola spiritosa anche se in Francia significa tristezza.

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In spagnolo si dice “tristeza”, che suona più forte di “tristezza” in francese, più un lamento che un bisbiglio.

Non avevo visto meduse mentre nuotavo, ma lo studente mi spiegò che i loro tentacoli sono tanto lunghi da riuscire a pizzicare a distanza. Il suo indice era appiccicoso per la pomata che mi stava strofinando sul braccio. Sembrava ben informato sulle meduse. Le meduse sono trasparenti perché sono fatte al 95% di acqua, così possono mimetizzarsi facilmente. Inoltre, una delle ragioni per cui ce ne sono così tante in tutti gli oceani del mondo è l’eccessiva attività di pesca. La cosa principale era assicurarsi che io non dovevo strofinare o grattare i segni sulla pelle. Potevano esserci ancora cellule di medusa sul braccio e grattare la ferita le incoraggia a rilasciare più veleno. Mentre lui parlava potevo vedere le sue labbra, rosee e morbide, pulsare come una medusa in mezzo alla barba. Mi dette un moncherino e mi chiese il piacere di riempire la scheda.

Nome: Sofia Papastergiadis Età: 25

Luogo di origine: Regno Unito Occupazione:

Alle meduse non importa la mia occupazione, quindi, qual è il punto? È un punto dolente, più doloroso della mia bruciatura e più di un problema del fatto che nessuno sappia dire o pronunciare il mio cognome. Gli ho detto di avere una laurea in antropologia ma, per il momento, lavoro in una caffetteria a West London –si chiama Coffee House e ha wi-fi gratuito e panche di Chiesa ristrutturate. Maciniamo i nostri chicchi di caffè e facciamo tre tipi di espresso artigianale … perciò non so cosa mettere sotto “occupazione.” Lo studente strattonò la barba. «Così voi antropologi studiate i primitivi?»

«Sì, ma l’unico primitivo che non ho mai studiato sono io stessa».

All’improvviso provai nostalgia per il popolo britannico, per i parchi umidi. Volevo distendere completamente il mio corpo primitivo sul prato verde dove non c’erano

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meduse galleggianti tra i fili d’erba. Non c’è nessun prato in Almeria eccetto nei campi da golf. Le colline secche e polverose sono così aride che qui erano soliti girare Spaghetti Western, uno persino interpretato da Clint Eastwood. I veri cowboy devono aver avuto labbra screpolate per tutto il tempo, perché le mie hanno iniziato a spaccarsi dal sole e ogni giorno metto il balsamo. Forse i cowboy utilizzavano grasso animale? Guardavano verso il cielo infinito e mancavano loro baci e carezze? E i loro problemi scomparivano nel mistero dello spazio, come fanno qualche volta quando mi metto a guardare le galassie sul mio schermo in frantumi? Lo studente sembrava informato sull’antropologia quanto sulle meduse. Vuole darmi un’idea per “un’originale osservazione sul campo”, mentre sono in Spagna. «Hai visto le strutture bianche di plastica che ricoprono tutto il territorio di Almeria?»

Io avevo visto la spettrale plastica bianca. Si distende per quanto l’occhio riesca a vedere attraverso le pianure e le valli.

«Sono serre», disse lui. «Nel deserto, la temperatura dentro a queste colture può raggiungere i 40°C. Impiegano immigrati illegali per raccogliere i pomodori e i peperoni per i supermercati, ma più o meno è schiavitù».

Così pensavo. Qualsiasi cosa coperta è sempre interessante. Non c’è mai niente sotto a qualcosa che è coperto. Da bambina ero solita coprirmi la faccia con le mani in modo che nessuno avrebbe saputo che io fossi lì. E dopo scoprii che il coprirmi il viso mi rendeva più visibile perché chiunque era curioso di vedere cosa io volevo nascondere per prima cosa.

Guardò il mio cognome sulla scheda e poi il pollice della sua mano sinistra che iniziò a piegare come se stesse controllando che l’articolazione lavorasse ancora.

«Sei greca, vero?»

La sua attenzione è così sfuocata da essere preoccupante. A dire il vero non mi ha mai guardato in modo diretto. Recito il solito: mio padre è greco, mia madre inglese, io sono nata in Gran Bretagna.

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«La Grecia è uno stato più piccolo della Spagna, ma non riesce a pagare i suoi conti. Il sogno è finito».

Gli chiesi se si stava riferendo all’economia. Disse di sì, stava studiando per una laurea specialistica alla Scuola di Filosofia dell’Università di Granada, ma si considerava fortunato ad avere un lavoro estivo sulla spiaggia, alla capanna degli infortuni. Se la Coffee House avesse fatto assunzioni una volta laureato, lui sarebbe andato a Londra. Non sapeva perché aveva detto che il sogno era finito, in quanto non ci credeva neanche lui. Probabilmente lo aveva letto da qualche parte e se l’era fatto proprio. Ma una frase come “il sogno è finito” non era una sua opinione. Per cominciare, chi è il sognatore? L’unico e ulteriore sogno pubblico che poteva ricordare era quello del discorso di M. Luther King “Io avevo un sogno …”, ma la frase riguardo al sogno finito implicava che qualcosa fosse iniziato e fosse ora finito. Stava al sognatore dire che era finito, nessun altro poteva dirlo per conto loro.

E dopo mi pronunciò un’intera frase in greco e sembrò sorpreso quando gli dissi di non parlare greco.

È un imbarazzo continuo avere un cognome come Papastergiadis e non parlare la lingua di mio padre.

«Mia madre è inglese».

«Sì» disse nel suo inglese perfetto. «In Grecia sono stato solamente a Scìato, ma non sono riuscito a imparare che qualche frase».

Era come se mi stesse leggermente insultando per non essere greca abbastanza. Mio padre lasciò mia madre quando io avevo 5 anni e lei è inglese e mi parla perlopiù in inglese. Che cosa aveva a che fare questo con lui? E comunque, ciò di cui lui avrebbe dovuto occuparsi era la lesione causata dalla medusa.

«Ti ho vista in piazza con tua madre». «Sì».

«Ha difficoltà a camminare?»

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7 «Il nome di tua madre è Rose?»

«Sì».

«La chiami per nome?» «Sì».

«Non dici mamma?» «No».

Il mormorio del piccolo frigorifero, che stava nella capanna degli infortuni, era come qualcosa di morto e freddo ma con un battito. Mi stupivo se là dentro si trovavano delle bottiglie di acqua. Acqua con gas, acqua senza gas. Continuo sempre a pensare ai modi, più giusti che sbagliati, con cui portare l’acqua a mia madre.

Lo studente guardò l’orologio. «La regola per chiunque sia stato ferito è stare qui per cinque minuti. È così che posso controllare che tu non abbia un attacco di cuore o un’altra reazione».

Puntò di nuovo su “occupazione” sulla scheda che io avevo lasciato in bianco. Sarà stato il dolore della ferita, ma mi trovai con tutta me stessa a raccontargli della mia vita patetica in miniatura. «Più che un’occupazione, ho una preoccupazione, che è mia madre Rose».

«Siamo qui in Spagna per visitare la Goméz Clinic per scoprire cosa c’è che non va realmente nelle sue gambe. Il nostro primo appuntamento è tra tre giorni».

«Tua madre ha una paralisi agli arti?»

«Non lo sappiamo. È un mistero. Va avanti da un po’ di tempo».

Iniziò a scartare un pezzo di pane bianco avvolto nella pellicola trasparente. Pensavo che potesse essere la parte due della cura per le lesioni da medusa, ma risultò essere un panino al burro di arachidi, che lui considerava il suo pranzo preferito. Dette un piccolo morso e, mentre masticava, la sua barba nera e lucida si muoveva. Evidentemente conosceva la Goméz Clinic. È altamente considerata e lui conosce la donna che ci ha affittato il piccolo appartamento rettangolare sulla spiaggia. Abbiamo scelto quello perché non aveva scale. Tutto è al piano terra, le due camere da letto sono vicine tra loro, appena distante la cucina, ed è vicino alla piazza principale e a tutti i bar e al supermercato locale Spar. Ha anche la porta accanto alla scuola immersioni, Escuela de

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Buceo y Náutica, un cubo bianco su due piani con finestre a forma di oblò. L’area di accettazione è stata dipinta da poco. Due messicani ci lavorano ogni mattina con barattoli enormi di vernice bianca. Un pastore tedesco magro, che abbaia, è incatenato tutto il giorno a una sbarra di ferro sul tetto a terrazza della scuola immersioni. Appartiene a Pablo, che ne è il direttore, ma Pablo se ne sta tutto il tempo al computer a giocare a Infinite Scuba. Il cane impazzito strappa le catene e di solito cerca di lanciarsi dal terrazzo.

«A nessuno piace Pablo», disse lo studente. «È il tipo di uomo che strapperebbe le piume a un pollo mentre è ancora vivo».

«Questo è un buon argomento per una ricerca in campo antropologico», dissi. «Che cosa?»

«Perché a nessuno piace Pablo».

Lo studente mostrò tre dita. Supposi che volesse dirmi di stare altri tre minuti nella capanna infortuni.

La mattina, il personale maschile alla scuola immersioni dà ai sommozzatori studenti una spiegazione su come indossare le mute subacquee. Erano a disagio per il cane che sta incatenato tutto il giorno, ma portano avanti le cose che hanno da fare. Il loro secondo compito è di versare la benzina in taniche di plastica attraverso un imbuto e trascinarle fuori su un dispositivo elettrico, sulla sabbia per caricarle sulla barca. Questa è una tecnologia abbastanza complicata paragonata al massaggiatore svedese, Ingmar, che di solito monta la tenda tutta insieme. Ingmar trasporta sulla spiaggia il lettino da massaggi attaccandogli alle gambe delle palline da ping-pong e facendolo scorrere sulla sabbia. Si è lamentato con me di persona del cane di Pablo, come se la coincidenza che la porta del mio appartamento fosse accanto alla scuola immersioni significasse che io, in qualche modo, fossi comproprietaria del miserabile pastore tedesco. I clienti di Ingmar non possono mai rilassarsi perché il cane guaisce, ulula, abbaia e cerca di uccidersi per l’intera durata del loro massaggio di aromaterapia.

Lo studente nella capanna infortuni mi chiese se stessi ancora respirando. Inizio a pensare che vuole tenermi qui.

Sollevò un dito. «Devi stare con me ancora un minuto e dopo dovrò chiederti di nuovo come ti senti».

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9 Voglio una vita migliore.

La mia sensazione più profonda è essere un fallimento, ma lavorerei piuttosto nella Coffee House che essere assunta per condurre ricerche sul perché i clienti preferiscono una lavatrice a un’altra. La maggior parte degli studenti con cui ho studiato sono diventati etnografi aziendali. Se etnografia significa la scrittura della cultura, la ricerca del mercato è un tipo di cultura (dove vivono le persone, il tipo di ambiente in cui abitano, come è diviso il compito di lavare i vestiti tra i membri della comunità …) ma alla fine, ciò riguarda la vendita di lavatrici. Non sono sicura di voler fare addirittura un lavoro originale sul campo che implichi di stare su un’amaca a guardare bufali sacri che pascolano nell’ombra.

Non stavo scherzando quando ho detto che l’argomento “perché tutti odiano Pablo” sarebbe un buon motivo di ricerca.

Il sogno per me è finito. È iniziato quando lasciai da sola mia madre debole a raccogliere pere dall’albero nel nostro giardino a Londra Est, quell’autunno in cui feci le valigie per l’università. Feci una laurea di primo livello. Continuò mentre studiavo per il dottorato di ricerca. La tesi incompiuta, che scrissi per il mio dottorato, si nasconde ancora in un file digitale dietro al mio schermo frantumato, come un suicidio non richiesto.

Sì, alcune cose si stanno ingrandendo (la mancanza di una direzione nella mia vita), ma non le cose giuste. I biscotti nella Coffee House stanno aumentando (ci sono molte informazioni su una ricetta, è quasi un campo di ricerca di per sé), e anche le mie cosce (una dieta a base di panini, pasticcini …). Il mio conto in banca sta diminuendo e così il frutto della passione (sebbene le melagrane stiano aumentando e così l’inquinamento atmosferico, come la mia vergogna di dormire cinque notti a settimana nel magazzino sopra la Coffee House). La maggior parte delle notti a Londra precipito in stato confusionale su un letto singolo per bambini. Non ho mai una scusa per essere in ritardo a lavoro.

La parte peggiore del mio lavoro sono i clienti che mi chiedono di sistemare i loro mouse senza fili usati in viaggio e di caricare i dispositivi. Vanno da qualsiasi altra parte mentre io colleziono le loro tazze e scrivo etichette per la cheesecake.

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Puntai i piedi per distrarre me stessa dal dolore pulsante nel braccio. E dopo notai che la fascia del mio bikini, scollata sul retro, si era rotta e il mio seno nudo stava sobbalzando su e giù appena battevo i piedi. Il laccio deve essersi strappato quando stavo nuotando, il che vuol dire che quando sono corsa per la spiaggia e nella capanna infortuni ero in topless. Forse è per questo che lo studente non sapeva dove soffermare lo sguardo durante la nostra conversazione. Mi girai con la schiena verso di lui, mentre mi gingillavo con la fascia.

«Come ti senti?» «Sto bene».

«Sei libera di andare».

Quando mi voltai, i suoi occhi brillavano sul mio seno appena coperto. «Non hai riempito “Occupazione!”»

Presi la matita e scrissi CAMERIERA.

Mia madre mi aveva insegnato a lavare il suo vestito giallo con stampato il girasole, perché lo voleva indossare al primo appuntamento alla Goméz Clinic. Mi va bene. Mi piace lavare a mano i vestiti e stenderli fuori per farli asciugare al sole. Il bruciore della ferita ricominciò a pulsare, nonostante la pomata che lo studente ci aveva spalmato completamente sopra. La mia faccia stava scottando ma penso che fosse dovuto alla difficoltà avuta riempiendo “Occupazione” sulla scheda. Era come se il veleno della ferita della medusa avesse a sua volta rilasciato un po’ di veleno che si stava nascondendo dentro di me. Lunedì mia madre esporrà i suoi vari sintomi al consulente come un assortimento di canapè misteriosi. Io sarò lì a tenere il vassoio.

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Eccola là. La bellissima ragazza greca cammina per la spiaggia in bikini. C’è un’ombra tra il suo corpo e me stessa. A volte trascina i piedi nella sabbia. Non ha nessuno che le spalmi la crema sulle spalle e le dica qui sì no sì lì.

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Il dottor Gómez

Avevamo cominciato il nostro lungo viaggio per trovare un guaritore. Il tassista ingaggiato per portarci alla Gómez Clinic non aveva motivo di capire quanto fossimo nervose o cosa ci fosse in ballo.

Avevamo cominciato un capitolo nuovo nella storia delle gambe di mia madre e ci aveva portato al semi-deserto del Sud della Spagna.

Non è un problema piccolo. Abbiamo dovuto ipotecare la casa di Rose per pagare le sue cure alla Gómez Clinic. Il costo totale era di venticinquemila euro, una somma considerevole da perdere, considerando che sono stata investigatrice dei sintomi di mia madre per quanto io possa ricordare.

La mia investigazione è in corso da circa venti dei miei venticinque anni di età. Forse di più. Quando avevo quattro anni le chiesi cosa volesse dire mal di testa. Mi disse che era come una porta che le sbatteva contro. Sono diventata una brava lettrice del pensiero, il che significa che la sua testa è la mia testa. Ci sono un sacco di porte che sbattono per tutto il tempo e io sono la vittima principale.

Se vedo me stessa come un’investigatrice non mossa da un desiderio di giustizia, ciò rende la sua malattia un crimine irrisolto? Se così, chi è il cattivo e chi è la vittima? Cercando di decifrare i suoi mali e i suoi dolori, le loro cause scatenanti e le motivazioni, è un buon allenamento per un’antropologa. Ci sono state volte in cui ho pensato di essere sull’orlo di un’importante rivelazione e di sapere dove erano seppelliti i cadaveri, solo per essere fermata un’altra volta. Rose presenta solamente un sintomo nuovo e completamente misterioso per il quale le è stata prescritta una medicazione nuova e completamente misteriosa. I dottori del Regno Unito hanno prescritto di recente antidepressivi per i piedi. Questo è ciò che lei mi ha raccontato – sono per le terminazioni nervose dei piedi.

La clinica era vicino alla città di Carbonera, famosa per le fabbriche di cemento. Sarebbe un viaggio di 30 minuti. Io e mia madre eravamo sedute dietro nel taxi, tremanti perché l’aria condizionata aveva trasformato il caldo del deserto in qualcosa di

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più simile all’inverno russo. Il tassista ci raccontava che “carboneras” significa carbonaie, e le montagne un tempo erano ricoperte da una foresta, che è stata abbattuta per il carbone. Ogni cosa è stata smantellata per “la fornace”. Gli chiesi se gli dispiaceva abbassare l’aria condizionata.

Insisteva che era automatica e fuori controllo, ma ci consigliò su dove trovare spiagge con acqua trasparente e pulita.

«La spiaggia migliore è Playa de los Muertos, che significa “Spaggia dei Morti”. È a soli cinque chilometri a sud della città. Dovrete camminare lungo la montagna per venti minuti. Non c’è accesso dalla strada.»

Rose si piegò in avanti e gli dette un colpetto sulla spalla. «Siamo qui perché ho una malattia alle ossa e non riesco a camminare». Aggrottò le sopracciglia verso il rosario di plastica che pendeva dallo specchio. Rose era un’atea convinta, tanto più da quando suo padre ebbe una conversione religiosa.

Le labbra erano diventate blu a causa del clima estremo in macchina. «Come per la “Spiaggia dei Morti”» - Rabbrividiva mentre parlava- «Non ci sono ancora arrivata, anche se posso immaginare che sarebbe più interessante nuotare nell’acqua trasparente che bruciare nella fornace dell’inferno, per cui tutti gli alberi del mondo dovranno essere abbattuti e ogni montagna disboscata per il carbone». Il suo accento dello Yorkshire era diventato improvvisamente violento, cosa che lei fa sempre quando le piace un argomento.

L’attenzione del tassista era su una mosca atterrata sul volante. «Forse devi prenotare il mio taxi per il viaggio di ritorno?»

«Dipende dalla temperatura nella tua automobile». Le sue labbra fini e blu si allungarono in qualcosa di somigliante a un sorriso come se il taxi fosse divenuto più caldo.

Non eravamo più bloccate in un inverno russo quanto in uno svedese.

Aprii il finestrino. La valle era ricoperta di plastica, proprio come aveva descritto lo studente nella capanna infortuni. Le fattorie deserte stavano divorando il paesaggio come una pelle spenta e malaticcia. Il vento caldo mi soffiava sui capelli e sugli occhi mentre Rose mi appoggiava la testa sulla spalla, che mi faceva sempre male per la bruciatura della medusa. Non osavo muovermi in una posizione meno dolorosa perché

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sapevo che lei era spaventata e io che io dovevo far finta di non esserlo. Non aveva un Dio da pregare per pietà o fortuna. Sarebbe vero dire che dipendeva, invece, dalla gentilezza umana e dagli antidolorifici.

Non appena il tassista condusse il taxi nel campo a frange di palma della Gómez Clinic, noi vedemmo di sfuggita i giardini che erano stati descritti nel volantino come “una mini oasi di grande importanza ecologica”. Due piccioni selvaggi stavano ripiegati su loro stessi sotto gli alberi di mimosa.

La clinica stessa era intagliata nelle montagne bruciate dal fuoco. Fatta di un marmo color crema a forma di una cupola, somiglia a una tazza enorme capovolta. L’avevo studiato su Google più volte, ma la pagina digitale non comunicava l’impressione calmante e rassicurante che si provava a stargli vicino in tempo reale. L’entrata, in contrasto, era fatta completamente di vetro. Cespugli spinosi con fiori viola in fioritura e cactus bassi, di color argento e aggrovigliati erano piantati abbondantemente intorno alla curva della cupola, lasciando l’entrata in ghiaia libera per il taxi per parcheggiare vicino a un piccolo bus navetta fermo.

Ci vollero quattordici minuti a piedi con Rose, dalla macchina alle porte di vetro. Sembravano anticipare il nostro arrivo, mentre si aprivano silenziosamente per noi, come per gratificare il nostro desiderio di entrare senza che nessuna delle due avesse da fare una richiesta.

Fissai lo sguardo verso il profondo Mediteranno color azzurro, al di sotto della montagna ed ero in pace.

Quando l’addetta al ricevimento chiamò signora Papastergiadis, presi il braccio di Rose e zoppicammo insieme sul pavimento di marmo verso l’accettazione. Sì, stiamo zoppicando insieme. Ho venticinque anni e sto zoppicando con mia madre per stare al passo con lei. Le mie gambe sono le sue gambe. È così che noi troviamo una pace conviviale per andare in avanti. È come gli adulti quando camminano con i bambini piccoli, che passano all’andatura da uomo e come i ragazzi camminano con i loro genitori quando hanno bisogno di un braccio su cui appoggiarsi. Nelle prime ore mattutine, mia madre aveva camminato fino allo Spar locale per comprarsi delle

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forcine. Non aveva preso neanche un bastone da passeggio su cui appoggiarsi. Io non volevo più pensarci.

L’addetta all’accoglienza mi guidò verso un’infermiera che stava aspettando con una sedia a rotelle. Era un sollievo passare Rose a qualcun altro, camminare dietro l’infermiera mentre spingeva la sedia e ammirare il modo in cui oscillava i fianchi mentre camminava a tempo, i capelli lunghi e brillanti legati con un nastro satinato bianco. Era un altro stile di andatura, completamente libera dal dolore, dal legame di parentela, dal compromesso. I tacchi delle scarpe dell’infermiera, grigie e di pelle scamosciata sembravano un uovo che si rompeva quando si faceva strada lungo i corridoi marmorei. Fermandosi fuori da una porta con le parole Mr Gómez scritte in lettere color oro, sopra un pannello di legno lucido, bussò e aspettò.

Le unghie erano colorate di un rosso super scintillante.

Avevamo percorso un lungo viaggio lontano da casa. Per essere qui, finalmente, in questo corridoio ricurvo con le venature ambrate che si inserivano attraverso le pareti, sentito come un pellegrinaggio di generi, un’ultima possibilità. Per anni, un gran numero di medici professionisti del Regno Unito sono andati a tastoni in cerca di una diagnosi, confusi, persi, umiliati, rassegnati. Questo doveva essere il viaggio finale e penso che anche mia madre lo sapesse. Una voce maschile gridò qualcosa in spagnolo. L’infermiera aprì la porta pesante e poi mi fece cenno di spingere Rose nella stanza, come per dire, Lei è tutta tua. Il dottor Gómez. Il consulente ortopedico che ho ricercato così meticolosamente per mesi senza fine. Sembrava avere sessant’anni o poco più, i capelli erano per la maggior parte grigi ma con una punta iniziale di bianco puro, che scorrevano lungo la parte sinistra della testa. Indossava un abito gessato, le mani abbronzate, gli occhi azzurri e vigili.

«Grazie, infermiera Luce del Sole» disse all’infermiera come se fosse normale per un dottore eminente, specializzato in problemi muscolo-scheletrici, chiamare il suo staff in base al tempo. Lei stava tenendo ancora la porta aperta, come se i suoi pensieri si fossero allontanati per vagare sulla Sierra Nevada.

Alzò la voce e ripeté in spagnolo, «Grazie, Infermiera Luce del Sole».

Questa volta chiuse la porta. Potevo sentire il suono scricchiolante dei suoi tacchi sul pavimento, prima a un’andatura costante e poi all’improvviso più veloce. Aveva iniziato

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a correre. L’eco dei suoi tacchi rimase nella mia testa per molto tempo dopo che lei aveva lasciato la stanza.

Il dottor Gómez sorrise, i due denti anteriori erano completamente ricoperti di oro. Mi ricordavano i denti di un teschio umano maschile che studiammo il primo anno del mio corso universitario di antropologia, il compito fu quello di indovinare la sua dieta. I denti erano pieni di carie, dunque era probabile che avesse masticato chicchi duri. Con un ulteriore esame del teschio, scoprii che un piccolo quadretto di lino era stato infilato nella carie più grande. Era stato immerso in olio di cedro per calmare il dolore e fermare l’infezione.

Il tono del dottor Gómez era un pochino amichevole e formale. «Ho dato un’occhiata alle sue note signora Papastergiadis. È stata bibliotecaria per qualche anno?»

«Sì. Sono andata presto in pensione a causa della salute». «Voleva smettere di lavorare?»

“Sì».

«Dunque non è andata in pensione per la salute?» «Fu una combinazione di circostanze».

«Capisco».

Non sembrava né annoiato, né interessato.

«I miei doveri erano catalogare, indicizzare e classificare i libri», disse.

Fece un cenno con la testa e girò lo sguardo verso lo schermo del computer. Mentre noi aspettavamo la sua attenzione, detti un’occhiata alla sala visite. Era arredata in modo scarno. Un lavandino, un letto su ruote che poteva essere abbassato o alzato, una lampada color argento messa lì vicino.

Un armadietto riempito con libri rilegati in pelle stava dietro alla sua scrivania. E poi vidi qualcosa che mi stava guardando. I suoi occhi erano brillanti e curiosi. Una piccola scimmia di peluche grigia stava accovacciata in una scatola di vetro su uno scaffale a metà parete. I suoi occhi erano concentrati sui suoi fratelli e sorelle umani in un eterno sguardo pietrificato.

«Signora Papastergiadis, vedo che il suo nome è Rose». «Sì».

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«Da questo momento posso rivolgermi a lei con Rose?»

«Sì, può. È il mio nome, dopotutto. Mia figlia mi chiama Rose e non vedo ragioni per cui lei non debba fare lo stesso».

Il dottor Gómez mi sorrise. «Chiama sua madre “Rose”?»

Era la seconda volta che mi facevano questa domanda in tre giorni. «Sì», dissi velocemente come se non fosse importante. «Possiamo chiedere come dovremmo rivolgerci a lei, dottor Gómez?»

«Certamente. Sono un primario, quindi sono il Signor Gómez. Ma è troppo formale, quindi non mi sentirò offeso se vi riferite a me con Gómez».

«Ah. Questo è utile a sapersi». Mia madre alzò il braccio per controllare se la forcina nel suo chignon fosse ancora a posto.

«E lei ha solo sessantaquattro anni, Signora Papastergiadis?»

Si era dimenticato che gli era stato concesso il permesso di chiamare la sua nuova paziente con il nome?

«Sessantaquattro e si sentono tutti».

«Quindi aveva trentanove anni quando ha partorito sua figlia?»

Rose tossì come per schiarirsi la gola e poi fece cenno con la testa e tossì di nuovo. Anche Gómez iniziò a tossire. Si schiarì la gola e si passò le dita tra la sfumatura bianca nei capelli. Rose mosse la gamba destra e poi e si lamentò. Gómez mosse la gamba sinistra e dopo si lamentò.

Non ero sicura se la stesse imitando o prendendo in giro. Se stavano portando avanti una conversazione fatta di lamenti, colpi di tosse e sospiri, mi sarei meravigliata se si capissero l’un l’altro.

«È un piacere darle il benvenuto nella mia clinica, Rose.»

Le porse la mano. Mia madre si piegò in avanti come per stringergliela ma poi decise improvvisamente di non farlo. La mano le era rimasta per aria. Evidentemente, la loro conversazione non verbale non aveva suscitato la fiducia in mia madre.

«Sofia, dammi un fazzoletto», disse.

Le passai un fazzoletto e strinsi la mano di Gómez per conto di mia madre. Il suo braccio è il mio.

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«E lei è la signorina Papastergiadis?» Dette enfasi al “signorina” che suonò come «Ssssssignorina».

«Sofia è la mia unica figlia». «Ha figli?»

«Come ho detto, lei è l’unica».

«Rose». Sorrise. «Penso che lei a breve abbia intenzione di starnutire. C’è del polline oggi nell’aria? O qualcosa?»

«Polline?» Rose sembrò offesa. «Ci troviamo nel deserto. Non ci sono fiori per quanto ne sappia».

Gómez imitò il fatto di sembrare offeso anche lui. «Più tardi la porterò a fare un giro per i nostri giardini cosicché lei possa vedere i fiori che non conosce. Lavanda di mare viola, arbusti di giuggiole con i loro splendidi rami spinosi, ginepro fenicio e varie piante di macchia importate per la sua gioia dal vicino deserto di Taberna».

Camminò verso la sedia a rotelle, inginocchiandosi ai suoi piedi e fissandola negli occhi. Iniziò a starnutire. «Dammi un altro fazzoletto, Sofia».

La assecondai. Ora aveva due fazzoletti, uno per mano.

«Sento sempre un dolore nel braccio sinistro dopo che starnutisco», disse. «È un dolore forte, violento. Devo tenermi il braccio finché lo starnuto non è finito».

«Dove è il dolore?»

«Sulla parte interna del gomito».

«Grazie. Effettueremo un esame neurologico completo, incluso un esame nervo cranico».

«E ho un dolore cronico alle nocche della mano sinistra».

Come risposta, egli mosse le dita della sua mano sinistra avanti e indietro nella direzione della scimmia, come per incoraggiare a fare lo stesso.

Dopo un po’ si volse verso di me. «Riesco appena a vedere la somiglianza. Ma lei, ssignorina Papastergiadis, è più scura. La sua pelle è giallastra. I suoi capelli sono quasi neri. I capelli di sua madre sono castano chiaro. Il suo naso è più lungo di quello di sua madre. I suoi occhi sono castani. Gli occhi di sua madre sono azzurri, come i miei». «Mio padre è greco, ma io sono nata in Gran Bretagna».

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«Allora è come me», disse lui. «Mio padre è spagnolo, mia madre è americana. Sono cresciuto a Boston».

«Come il mio portatile. Progettato in America e fatto in Cina». «Sì, è sempre difficile garantire l’identità, ssignorina Papastergiadis».

«Vengo da una città vicino Hull, nello Yorkshire», dichiarò improvvisamente Rose, come se si sentisse tagliata fuori.

Quando Gómez toccò il piede destro di mia madre, lei glielo dette come se fosse un regalo. Iniziò a premerle le dita con il pollice e l’indice, sotto lo sguardo della scimmia nel barattolo di vetro e del mio.

Il pollice si mosse fino alle caviglie. «Questo osso è l’astragalo. E prima stavo facendo pressione sulle falangi. Riesce a sentire le mie dita?»

Rose scosse la testa. «Non sento niente. I miei piedi sono insensibili».

Gómez fece cenno con la testa come se sapesse già che era vero. «Come è il suo morale?» chiese, come se chiedesse informazioni su un osso chiamato La Morale. «Per niente male».

Mi piegai e le presi le scarpe.

«Per favore», disse Gómez. «Le lasci dove sono». Stava ora sentendo la pianta del piede destro di mia madre. «Ha un’ulcera qui, e qui. Si è fatta analizzare il diabete?»

«Oh, sì», disse.

«È una piccola zona sulla superficie della pelle, ma è leggermente infetta. Dobbiamo occuparci di questo immediatamente».

Rose annuì gravemente, ma sembrava soddisfatta. «Diabete», esclamò. «Forse è la risposta».

Non sembrava voler continuare questa conversazione perché il dottore si alzò in piedi e andò verso il lavandino per lavarsi le mani. Si girò verso di me mentre ricorreva a un asciugamano. «Probabilmente sarà interessata all’architettura della mia clinica?»

Ero interessata. Gli dissi che, per quanto io ne sapessi, la prima cupola fu costruita dalle zanne e dalle ossa dei mammut.

«S-ì. E il vostro appartamento sulla spiaggia è un rettangolo. Ma almeno ha la vista sull’oceano».

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«È sgradevole», interruppe Rose. «Quando ci penso, mi pare un rettangolo costruito sui rumori. Ha una terrazza di cemento che dicono sia privata ma non lo è, perché è sulla spiaggia. A mia figlia piace stare lì seduta tutta il tempo a guardare il computer, per stare lontana da me».

Rose era in pieno flusso mentre faceva una lista delle sue lamentele. «Di notte, in spiaggia, ci sono spettacoli magici per bambini. Quanto rumore. L’acciottolio dei piatti dai ristoranti, i turisti che urlano, i motorini, i bambini che gridano, i fuochi d’artificio. Non vado mai al mare a meno che non mi spinga Sofia sulla spiaggia e, comunque, è sempre troppo caldo».

«In quel caso dovrò portare io il mare a lei, signora Papastergiadis».

Rose si risucchiò il labbro inferiore con i denti anteriori e lo tenne piegato per un po’. Poi lo rilasciò. «Qui, nel sud della Spagna, ho trovato tutto il cibo molto difficile da digerire».

«Mi dispiace sentire questo». Il suo sguardo blu e fisso si posò sullo stomaco come una farfalla che atterra su un fiore.

Mia madre aveva perso peso in questi ultimi anni. Stava peggiorando e sembrava fosse diventata più piccola, perché i suoi vestiti, una volta lunghi fino al ginocchio, ora le cadevano appena sopra le caviglie. Dovevo ricordare a me stessa che era una donna attraente nella prima vecchiaia. I capelli, sempre pettinati in uno chignon e tenuti a posto con una singola forcina, erano la sua unica spesa. Ogni tre mesi quando spuntava il grigio, era avvolto nella stagnola e schiarito da un esperto di colori alla moda che le aveva tagliato tutti i capelli molto corti. Le fu suggerito che dovevo fare lo stesso ai miei ciuffi neri e crespi che si arricciavano tutti ogni volta che pioveva, cioè spesso. Ritenevo che tagliarsi i capelli dal parrucchiere fosse un rituale a cui non potevo partecipare. A quel tempo, mi sarei stupita se avesse ritenuto i suoi capelli come un peso del passato e perderli come un movimento verso il futuro, come nella tradizione indù, ma mi disse (con un quadrato di stagnola in bocca) che si era tagliata i capelli corti perché si risparmiava fatica. Il peso dei capelli è il minimo dei miei problemi.

«Sofia Irina, si sieda qui». Gómez dette un colpo alla sedia dalla parte opposta al suo computer. Mi aveva casualmente chiamato con il nome completo scritto nel mio passaporto. Quando mi misi a sedere come ordinato, girò lo schermo per mostrarmi

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un’immagine bianca e nera, con il nome di mia madre scritto lì sopra: R. B. PAPASTERGIADIS (F).

Ora mi stava dietro. Riuscii a sentire un’erba amara nel sapone che aveva usato per lavarsi le mani, forse salvia. «Sta guardando una radiografia ad alta definizione della spina dorsale di tua madre. Questa è la veduta posteriore».

«Sì», dissi. «Ho chiesto ai dottori della Gran Bretagna di mandarli a lei. Ormai sono obsolete».

«Certo. Prenderemo le nostre e le metteremo a confronto. Stiamo cercando delle anomalie, qualcosa fuori dal comune». Il suo dito si mosse dallo schermo per premere il bottone su una piccola radio grigia posta sulla sua scrivania. «Mi scusi», disse. «Voglio sentire che cosa succederà con il programma di austerità».

Ascoltavamo un notiziario in spagnolo, interrotte di tanto in tanto da Gómez che ci disse il nome dell’analista finanziario spagnolo per la stazione radio. Quando Rose si imbronciò, come se per chiedere cosa stesse succedendo –è seriamente un dottore?- Gómez ci abbagliò con i suoi denti d’oro.

«Sì, sono senza dubbio un dottore, signora Papastergiadis. Desidero trascorrere questo pomeriggio con lei per completare il suo trattamento. Naturalmente ho delle informazioni, ma voglio che lei mi dica a quale medicazione è più attaccata e quale può lasciar andare. A proposito, sarebbe soddisfatta nel sapere che le previsioni meteorologiche dicono che sarà asciutto e soleggiato nella maggior parte della Spagna». Rose si ricompose nella sedia a rotelle. «Ho bisogno di un bicchiere d’acqua, per favore». «Molto bene». Andò verso il lavandino, riempì una tazza di plastica e gliela portò.

«È sicuro bere dal rubinetto?» «Oh, sì».

Guardai mia madre bere a sorsi l’acqua torbida. Era il tipo giusto di acqua? Gómez le chiese di tirar fuori la lingua.

«La lingua? Perché?»

«La lingua presenta forti indicatori visivi della salute in generale». Rose obbedì.

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Gómez, che mi era di schiena, sembrò intuire che stavo guardando la scimmia imbalsamata sullo scaffale.

«È un cercopiteco verde della Tanzania. Lo ha ucciso un traliccio dell’elettricità, poi è stato portato dall’imbalsamatore da uno dei miei pazienti. Dopo averci pensato un po’, ho accettato il regalo perché i cercopitechi verdi hanno molte caratteristiche umane, inclusa l’ipertensione e l’ansia». Stava ancora fissando con attenzione la lingua di mia madre. «Ciò che non si vede è il suo scroto blu e il pene rosso. Penso che l’imbalsamatore li abbia rimossi. Dobbiamo immaginare il maschio che gioca tra gli alberi con fratelli e sorelle». Dette un colpetto al ginocchio di mia madre e la lingua le scivolò dentro la bocca. «Grazie, Rose. È giusto che lei chieda dell’acqua. La sua lingua mi dice che è disidratata».

«Sì, ho sempre sete. Sofia fa la sfaticata quando capita che la notte debba mettere un bicchiere d’acqua vicino al mio letto».

«Da che parte dello Yorkshire proviene, signora Papastargiadis?» «Da Warter. È un villaggio a 5 miglia a est di Pocklington».

«Waerte», ripeté. I suoi denti color d’oro erano in piena mostra. Si girò verso di me. «Penso, Sofia Irina, che a lei piacerebbe liberare il nostro piccolo primato castrato così che egli possa scorrazzare per la stanza e possa leggere le mie prime edizioni di Cervantes. Ma prima lei deve liberare se stessa». I suoi occhi erano così azzurri che potevano tagliare una roccia come un laser. «Devo parlare con la signora Papastergiadis e fare un piano di terapia. È qualcosa che dobbiamo discutere da soli».

«No. Lei deve restare». Rose batté le nocche su un braccio della sedia a rotelle. «Non voglio abbandonare la mia terapia in un paese straniero. Sofia è l’unica persona che sa tutto a riguardo».

Gómez agitò il dito verso di me. «Perché aspettare nella sala d’attesa per due ore? No, ciò che deve fare è prendere il bus piccolo che parte dall’entrata della mia clinica. La lascerà vicino alla spiaggia di Carboneras. Sono solo venti minuti di viaggio dalla città all’ospedale».

Rose sembrò offesa ma Gómez la ignorò. «Sofia Irina, le suggerisco di andare ora. È mezzogiorno, quindi, ci vedremo alle due».

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«È sempre bello desiderare un divertimento maggiore, signora Papastergiadis». «Se solo». Sospirò Rose.

«Se solo cosa?» Gómez si inginocchiò sul pavimento e mise lo stetoscopio sul suo cuore.

«Se solo potessi nuotare e starmene al sole». «Ah, quanto sarebbe magnifico».

Di nuovo, non ero certa di capirlo. Il suo tono era vago. Vagamente derisorio e vagamente amabile. Ovvero piuttosto determinato. Toccai la mano di Rose e gliela strinsi. Volevo salutarla ma in quel momento Gómez le stava ascoltando il cuore. Invece le baciai la fronte.

Mia madre disse, «Ahi!» Chiuse gli occhi e piegò indietro la testa come se fosse in agonia –o può essere stata estasi. Era difficile a dirsi.

Il sole era intenso quando arrivai alla spiaggia deserta opposta alla fabbrica di cemento. Mi feci strada verso un piccolo bar vicino a una fila di bombole di gas e ordinai un gin e tonica al cameriere socievole. Indicò il mare e mi avvertì di non nuotare, perché tre persone erano state colpite dalle meduse quella mattina. Aveva visto i segni sulla pelle, sui loro fianchi, diventare bianchi e poi viola. Fece una smorfia e poi chiuse gli occhi e agitò le mani come per spingere via l’oceano e tutte le meduse che ci vivono. Le bombole di gas sembravano strane piante del deserto che crescevano dalla sabbia. Una grande nave merci industriale galleggiava vicino all’orizzonte. Sventolava una bandiera greca. Guardai altrove e fissai, invece, il dimenarsi faticoso di un bambino, che era stato piantato nella sabbia granulosa. Il posto a sedere era fatto di una gomma presa da una macchina demolita e stava oscillando gentilmente, come se un bambino spettrale fosse saltato giù da lì di recente. Dall’impianto di desalinizzazione le gru si divisero nel cielo. Dune mosse e alte di polvere di cemento grigio, che dà sul verde, giacevano in un deposito a destra della spiaggia, dove hotel e appartamenti incompiuti inseriti violentemente nelle montagne come un omicidio.

Detti un’occhiata al cellulare. C’era un vecchio messaggio da parte di Dan che lavorava con me alla Coffee House. Voleva sapere dove avevo messo l’evidenziatore che usiamo per contrassegnare i panini e i pasticcini. Dan da Denver mandava messaggi a me, in Spagna, per un pennarello? Mentre prendevo un sorso dal mio enorme gin tonic e

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facevo cenno di ringraziamento al cameriere, mi domandavo se avevo messo il pennarello da qualche parte nascosta.

Aprii la cerniera del vestito in modo che il sole potesse raggiungere le mie spalle. Il bruciore dato dalla medusa si era calmato, ma ogni tanto sentivo una fitta. Non era tra il peggiore dei dolori. In un certo senso, era un sollievo.

Un altro messaggio più recente da parte di Dan. Aveva trovato il pennarello. È andata a finire che mentre io sono in Spagna, lui sta dormendo nella mia stanza sopra la Coffee House perché il proprietario del suo appartamento ha alzato l’affitto la scorsa settimana. Il pennarello era nel mio letto. Senza coperchio. Di conseguenza, le lenzuola e il piumone sono ora macchiate di inchiostro nero. Infatti, lo ha descritto come un’emorragia di inchiostro.

Non può più scrivere cose come questa:

La cheesecake di Amaretto fondente di Sofia – mangiata qui 3.90 sterline, da asporto 3.20 sterline. La torta di polenta e arancia servita calda di Dan (senza farina di grano e senza glutine) –mangiata qui 3.70 sterline, fuori 3 sterline.

Io sono fondente. Lui è caldo.

Dan non è sicuramente caldo.

Non cuciniamo noi stessi queste torte, ma il nostro capo ci dice che è molto più probabile che i clienti le comprino se pensano che le facciamo noi. Mettiamo i nostri nomi a cose che non facciamo. Sono contenta che l’inchiostro della penna bugiarda sia finito.

Ricordo ora di aver lasciato il pennarello nel letto, quando l’ho usato per copiare una citazione di Margaret Mead, l’antropologa culturale. L’ho scritta dritta dritta sul muro.

Alle mie classi ero solita dire che i modi per avere intuizioni sono: studiare i bambini; studiare gli animali; studiare gli uomini primitivi; essere psicanalizzati; avere una conversione religiosa e superarla; avere un episodio psicotico e superarlo.

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Ci sono cinque punto e virgola in quella citazione. Ricordo di aver scritto ;;;;; sulla parete con il pennarello. Avevo sottolineato “conversione religiosa” due volte. Mio padre ha sofferto di una conversione religiosa, ma per quanto ne sappia non ci è mai passato sopra. Infatti, ha sposato una donna di quattro anni più grande di me e ora hanno un nuovo bambino. Lei ha ventinove anni. Lui ne ha sessantanove. Pochi anni prima di incontrare sua moglie, lui ereditò una fortuna dall’azienda di spedizioni marittime di suo nonno ad Atene. Lo deve aver visto come una conferma di essere sulla pista giusta. Dio gli ha mandato dei soldi prima che il suo Stato andasse in bancarotta. E amore. E una bambina. Non vedo mio padre da quando ho quattordici anni. Non ha sentito ragioni quanto a sborsare un solo euro della ricchezza da poco acquisita, così io sono il peso di mia madre. Lei è il mio creditore e io la ripago con le mie gambe. Le corrono sempre intorno.

Per ottenere il prestito per pagare la clinica di Gómez, dovemmo andare insieme dal gestore del mutuo di Rose per un colloquio.

Mi misi in malattia per la mattinata, il che voleva dire perdere diciotto sterline e trenta penny per tre ore. Stava piovendo e il tappeto rosso dell’azienda era umido. C’erano da ogni parte lettere su manifesti che ci dicevano quanto valesse il nostro benessere per la banca, come se i diritti umani fossero il loro interesse maggiore. L’uomo che stava seduto dietro al computer aveva l’ordine di essere allegro e socievole; di mostrare empatia quando comprendeva; di essere cordiale e attivo quando intendeva esserlo; di amare la sua terribile cravatta rossa con il logo della banca. Il tesserino rosso esibiva il suo nome e la natura del suo lavoro, ma non diceva l’entità del suo salario – probabilmente da collocarsi ora in qualche parte nella sfera della povertà dignitosa. Cercava di essere discreto; di essere giusto nell’ approccio alla nostra situazione; di parlarci in un linguaggio semplice che potevamo capire. Un manifesto con tre impiegati brutti ci fissava dalla parete, tutti sorridevano. La donna vestiva un abito formale (giacca e gonna), gli uomini abiti formali (giacca e pantaloni), il loro messaggio comunicava la somiglianza con noi e cancellava le nostre differenze; siamo sognatori di buon senso con denti brutti proprio come i vostri; noi tutti vogliamo un posto tutto nostro per discutere con la famiglia il giorno di Natale.

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Riuscii a capire che questi manifesti erano un rito di iniziazione (alla proprietà, agli investimenti, ai debiti) e che la divisa aziendale segnalava un sacrificio della complessità delle distinzioni di genere. Un altro manifesto mostrava una fotografia di una casa bifamiliare ben curata con un giardino davanti, della misura di una tomba. Non vi erano fiori, solo erba piantata da poco. Sembrava disabitata. I quadrati di manto non erano ancora cresciuti. Forse una personalità paranoica si nascondeva a sinistra della storia che stavano costruendo per noi. Aveva tagliato tutti i fiori e assassinato gli animali domestici.

Il nostro uomo parlò in un tono animato ma da robot. All’inizio disse, «Salve gente», perlomeno non disse «Salve signore», prima che ripetesse velocemente i prodotti disponibili per togliermi il patrimonio. A un certo punto chiese a mia madre se mangiava bistecche. Fu una domanda inaspettata, ma riuscimmo a capire dove stesse andando a parare (stile di vita sfarzoso), così Rose gli disse di essere vegana perché voleva promuovere un mondo più attento e più umano. Sebbene si sentisse esagerata, disse di aver aggiunto un cucchiaio di yogurt al dahl indiano di lenticchie e riso. Non sapeva che i vegani non mangiano latticini, altrimenti Rose sarebbe caduta dalla sedia rossa dell’azienda al primo ostacolo. Le chiese se le piacevano vestiti firmati. Disse che le piacevano solo vestiti economici e brutti. Apparteneva a una palestra? Una domanda strana, dato che mia madre stava tenendo stretto un bastone da passeggio e aveva una fasciatura a entrambe le caviglie gonfie nonostante gli antidolorifici e gli anti-infiammatori, tutte le mattine si scolava un bicchiere di acqua sbagliato.

Le chiese di procurare la valutazione dell’agente immobiliare per la nostra proprietà e ci informò che l’ispettore della banca ci avrebbe fatto visita. Al computer piacevano le informazioni che gli avevamo presentato fino a ora, perché mia madre aveva saldato l’ipoteca. Mattoni e malta valgono qualcosa a Londra, anche se i mattoni vittoriani sono tenuti insieme con saliva, urina e nastro adesivo. Ci disse che era incaricato ad autorizzare il prestito. Mia madre era eccitata ad avere un’avventura che includeva un’esperienza medica: per lei la Gómez Clinic era come l’osservazione delle balene. Tornai a lavoro per fare tre tipi di caffè espresso e Rose tornò a casa per fare una lista nuova di malori e dolori. Non riesco a negare che i suoi sintomi per me sono di interesse

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culturale, anche se mi “tirano giù” con lei. I sintomi le fanno da portavoce. Chiacchierano per tutto il tempo. Persino io lo so.

Camminavo tra la sabbia rovente per andare a rinfrescare i piedi in acqua.

A volte mi ritrovo zoppicante. È come se il mio corpo ricordi il modo in cui cammino con mia madre. La memoria non è sempre affidabile. Non è la completa verità. Persino io lo so.

Quanto tornai alla clinica erano le 14.15, Rose aveva scambiato la sedia a rotella con una sedia e stava leggendo l’oroscopo in un giornale per espatriati inglesi.

«Ciao Sofia. Vedo che ti sei divertita molto in spiaggia».

Le dissi che la spiaggia era deserta e che ero stata due ore a fissare un mucchio di bombole di gas. Rendere il giorno più piccolo era la mia speciale abilità in modo da farlo diventare più grande.

«Guarda le mie braccia», disse. «Sono tutta un livido per le analisi del sangue». «Oh, poverina».

«Io sono disgraziata. Il dottore mi ha tolto tre pasticche. Tre!»

Agitò la bocca per fare un’espressione tra urlo e pianto e poi sventolò il giornale a Gómez, che non stava tanto camminando quanto passeggiando verso di noi sul pavimento di marmo bianco.

Mi disse che mia madre ha una carenza di ferro cronica, che potrebbe essere la causa della sua mancanza di energia. Tra le altre cose, come per esempio una fasciatura con righe d’argento per migliorare la guarigione delle ulcere ai piedi, le aveva prescritto vitamina B12.

Una ricetta per le vitamine. È peggio di venticinquemila euro?

Rose cominciò a fare la lista dei nomi delle pasticche cancellate dal suo rituale medico. Parlava di loro come se stesse piangendo per degli amici assenti. Gómez alzò la mano per rivolgersi all’ Infermiera Luce del Sole, che si stava dirigendo verso di lui nei suoi tacchi di pelle color grigio. Quando se ne stava al suo fianco, senza vergogna le mise il braccio sulle spalle mentre lei trafficava con l’orologio puntato sopra al seno destro. Un’ambulanza si era appena fermata nel parcheggio. Gli disse in inglese che il conducente aveva bisogno di una pausa pranzo. Fece cenno con la testa e le tolse il braccio dalle spalle così che lei potesse afferrare meglio l’orologio.

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«L’infermiera Luce del Sole è mia figlia», disse. «Il suo vero nome è Julieta Gómez. Vi prego di sentirvi libere di chiamarla come preferite. Oggi è il suo compleanno».

Julieta Gómez sorrise per la prima volta. I suoi denti erano di un bianco accecante. «Adesso ho trentatré anni. La mia infanzia è ufficialmente finita. Per favore chiamatemi Julieta».

Gómez guardò sua figlia con occhi che erano di varie sfumature di blu. «Saprete che qui in Spagna c’è un alto tasso di disoccupazione», disse, «qualcosa come il 29,6% al momento. Quindi, sono fortunato che mia figlia abbia avuto una buona formazione medica a Barcellona e che sia la fisioterapista più stimata di Spagna. Ciò significa che posso farmi un tantino corrompere e usare la mia posizione per darle un lavoro nel mio palazzo di marmo».

Aprì le braccia a strisce in un movimento ampio e regale, come per incorporare in se stesso le mura curve e i cactus in fiore, la splendida ambulanza nuova, le addette all’accoglienza, altre infermiere e una coppia di dottori che a differenza di Gómez indossava un’uniforme con maglie blu a mezze maniche e pantaloni nuovi di pacca. «Questo marmo viene dalla terra di Cobdar. Il suo colore somiglia alla pelle pallida di mia moglie deceduta. Sì, ho costruito la mia clinica in omaggio alla madre di mia figlia. Nei mesi primaverili ci incanta dall’abbondanza di farfalle attratte dalla mia cupola. Sollevano sempre le anime degli afflitti. A proposito Rose, potrebbe piacerti visitare la statua della Vergine del Rosario. È scolpita nel marmo più puro delle montagne Macael».

«Sono atea, signor Gómez», disse Rose severamente. «E non credo che le donne che partoriscano siano vergini».

«Ma Rose, la vergine è fatta di un marmo delicato che è del colore del latte materno. È bianco, ma leggermente giallo. Così forse lo scultore stava semplicemente mostrando il suo rispetto per l’atto del nutrimento. Mi chiedo, il figlio unico della vergine chiamava sua madre per nome?»

«Non importa», disse Rose. «Sono tutte bugie, comunque. E, a proposito, Gesù chiamava sua madre “donna”. In ebraico è tradotto come “Madam”».

L’addetta all’accoglienza apparve all’improvviso e iniziò a parlare in spagnolo a Gómez, velocemente. Teneva in braccio un gatto grasso e bianco, lo mise sul pavimento

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vicino alle scarpe nere lucide di Gómez. Quando iniziò a girargli intorno alle gambe, lui si inginocchiò e distese la mano. «Jodo è il mio vero amore», disse. Il gatto strofinò il muso sul palmo della mano aperta. «È molto gentile. Mi dispiace che non abbiamo topi, perché non ha niente da fare per l’intera giornata eccetto che amare me».

Rose iniziò a starnutire. Dopo il quarto starnuto batté le mani sugli occhi. «Sono allergica ai gatti.»

Gómez fece scivolare il mignolo nella bocca di Jodo. «Le gengive dovrebbero essere dure e rosa, e in questo senso Jodo sta bene. Ma lo stomaco si sta sgonfiando in modo insolito. Sono preoccupato che possa avere una malattia ai reni».

Si mise le mani in tasca, tirò fuori una bottiglia di disinfettante e lo spruzzò sulle mani, mentre Julieta chiese a Rose se voleva delle gocce per il prurito agli occhi.

«Oh sì, per favore».

Non è frequente che mia madre dica “per favore”. Parlò come se le fosse appena stata offerta una scatola di cioccolata.

Julieta Gómez tirò fuori una piccola bottiglia di plastica bianca dal taschino. «Sono antistaminici. Ho già aiutato qualcun altro con questo tipo di problema». Camminò verso Rose, le inclinò il mento all’indietro e spruzzò due gocce in ogni occhio.

Sembrava che mia madre fosse sul punto di piangere, con aria di disappunto, come se le lacrime stessero sgorgando ma non le fossero ancora cadute sulle guance.

Jodo, il gatto, era scomparso nelle braccia di uno dei paramedici.

L’infermiera Luce del Sole, in realtà Julieta, non era né amichevole né ostile. Era pratica, efficiente, serena. Non aveva niente dell’esuberanza del padre, nonostante l’avessi notata ad ascoltare Rose molto attentamente, senza sembrare che facesse così. Stavo iniziando a ripensare al modo in cui si era trattenuta alla porta quando eravamo entrate nella stanza della consulenza. Forse non era stata così lontana nei suoi pensieri quanto io avevo immaginato. Faceva attenzione a delle cose perché chiese se avesse potuto aiutarmi a chiudere il vestito. Mi ero dimenticata di averlo allentato in spiaggia. Julieta armeggiò con discrezione la cerniera, poi mise le mani sulla vita sottile e ci informò che il taxi era arrivato.

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«Arrivederci Rose». Gómez le strinse la mano con forza. «A proposito, dovrebbe guidare la macchina a noleggio che le abbiamo preparato. È inclusa nella mia commissione».

«Ma come faccio a guidare? Non ho sensibilità alle gambe». Rose sembrò di nuovo offesa.

«Ha il mio permesso per guidare la macchina. La prenda alla sua prossima visita. Ci sono alcune scartoffie da fare, ma è pronta per lei nel parcheggio».

Julieta mise la mano sulle spalle di mia madre. «Se ha problemi con la guida, Sofia può chiamarci e venire a prenderla. Ha tutti i nostri recapiti telefonici». La Gómez Clinic era senza dubbio un’azienda di famiglia.

Non solo saremmo state dotate di una macchina, ma Gómez informò mia madre che avrebbe anche avuto il piacere di portarla fuori per pranzo. Chiese a Julieta di fissare un appuntamento nella sua agenda di lì a giorni, chinò la testa argentata e girò i tacchi per parlare con uno dei giovani dottori che lo stavano aspettando vicino a un pilastro di marmo.

Mentro zoppicavo con Rose verso il taxi, le chiesi che tipo di esercizi le aveva dato da fare Gómez.

«Non è un esercizio fisico. Mi ha chiesto di scrivere una lettera nella quale nomino tutti i miei nemici». Aprì di scatto la borsa e litigò con un fazzoletto incastrato nella fibbia. «Sai Sofia, quando l’infermiera Luce del Sole – o Julieta Gómez, o chiunque sia – mi ha spremuto quelle gocce negli occhi, sono sicura che puzzava di alcol. In realtà, puzzava di vodka..».

«Beh, è il suo compleanno», dissi. Il mare sotto le montagne era calmo.

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Cacciare e raccogliere

«Perché vuoi uccidere una lucertola?»

Ingrid si era accovacciata in un vicolo vicino alla pizzeria di cui è proprietario un tassista rumeno. All’inizio non riuscivo a capire cosa stesse facendo e dopo vidi che teneva un mini arco con una freccia. Era così piccolo che poteva stare nel palmo di una sua mano. Stava puntando l’arco verso una lucertola che era appena sbucata fuori da una crepa nel muro. La freccia colpì il muro e la lucertola cadde a terra.

«Sofia! La tua ombra mi ha distratta. La mia mira di solito è sempre dritta verso l’obiettivo». Raccolse la freccia, che era appuntita nella misura di una matita, e mi mostrò il piccolo arco ricurvo con la sua corda di nylon tesa.

«L’ho fatto io dal bambù.»

«Ma perché vuoi uccidere una lucertola?»

Spinse la scatola di cartone bianca che avevo lasciato vicino al muro.

«Sembra che ti faccio uscire sempre fuori di testa Sofia. Cosa c’è nella tua scatola?» «Una pizza».

«A che gusto?»

«Margherita con doppio formaggio». «Dovresti mangiare più insalata».

I capelli lunghi di Ingrid erano tirati su in cima alla testa. Sembrava una statua, forte e tonica nel suo vestito di cotone bianco con le spalline incrociate. Anche le scarpe da ginnastica in tela sono bianche. Quando la lucertola sbucò di nuovo fuori dalla crepa, lei mi fece cenno di togliermi di mezzo. Aveva una coda verde e dei cerchi blu sulla schiena.

«Muoviti! Va’ via Sofia, sto lavorando. Hai già liberato il cane di Pablo?»

«No. Stamattina ha licenziato uno degli imbianchini messicani. Pablo gli deve ancora dei soldi».

«Non sarà mai pagato, Sofia. Ottieni una pelle più spessa, come la nostra amica lucertola».

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32 «Vai avanti».

Presi l’iPhone e glielo puntai alla testa. Chi è Ingrid Bauer?

Quali sono le sue credenze e le sue cerimonie sacre? È autonoma economicamente? Quali sono i suoi rituali con il sangue mestruale? Come reagisce alla stagione invernale? Quale è il suo atteggiamento verso i mendicanti? Crede di avere un’anima? Se sì, è incarnata in qualcos’altro? Un uccello o una tigre? Ha un’applicazione per Uber sullo smartphone? Le sue labbra sono così morbide.

Digitai l’icona del time-lapse, poi quella Slo-mo e poi solo foto. Attraverso la lente potevo vederla aprire la scatola e tirar fuori la pizza. Guardò con espressione accigliata il formaggio color arancione rappreso e lo gettò a terra.

«Piuttosto mangerei la lucertola. Hai finito di fare la foto?» «Sì».

«Che cosa hai intenzione di fare con quella?» «Ricorderò agosto ad Almeria con te». «Il ricordo è una bomba».

«Davvero?» «Sì».

«Che cosa hai intenzione di fare con la lucertola quando la prenderai?»

«Studiare le geometria del suo corpo- mi danno idee per il ricamo. Uscirà fuori dal muro presto. Muoviti! Muoviti!»

Quando non mi muovevo, lei correva verso di me nelle sue scarpe da ginnastica, in tela bianche, come se avesse intenzione di attaccarmi. Le sue braccia mi avvolgevano i fianchi, mentre mi alzava al di sopra della sua testa e poi mi lasciava cadere giù e la sua mano mi teneva i bordi del vestito. La sentivo oscillare come il fiore che dall’albero di jacaranda scende giù dietro il muro.

«Sei un mostro, Sofia!» Si allontanò da me e dette un calcio alla scatola della pizza per togliersela di torno. «Vai e studia un insediamento di età della pietra, o qualcos’altro. Non hai da lavorare?»

Io ho un lavoro da fare. Sto studiando l’arco e la freccia di Ingrid Bauer. Si amplificherà nella mia mente fin quando non diventerà un’arma che potrà ferire la sua preda. L’arco

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ha la forma delle labbra. La punta dell’arco è tagliente. Perché sono un mostro per Ingrid? Mi pensa come un qualche genere di creatura. La punta della freccia è in direzione del mio cuore.

Mi sentivo davvero leggera. Come una freccia in volo.

Era tardo pomeriggio e la spiaggia era vuota. Attraversai a guardo il caldo mare oleoso, senza essere colmo per una volta di materassini gonfiabili e di barche di plastica. Dissi a me stessa che stavo andando a nuoto verso l’Africa del nord, che riuscivo a scorgere all’orizzonte in linea generale e poco chiara. Andare verso tutto un altro Paese era il mio modo di nuotare a stile libero per un lungo tratto, puntando qualche posto impossibile da raggiungere. L’acqua diventava tanto più pulita quanto più lontano andavo a nuoto. Dopo circa trenta minuti mi voltai e galleggiai sotto il sole, con le labbra che si screpolavano tutte ancora una volta a causa del sale e del calore.

Sono molto lontana dalla spiaggia, ma non abbastanza persa. Devo ritornare a casa ma non ho nessun posto in cui andare che mi appartiene, nessun lavoro, niente soldi, nessun amante che mi dia il “bentornata”. Quando mi misi in posizione supina le vidi nell’acqua, le meduse, lente e calme come una navicella spaziale, delicate e pericolose. Sentii un dolore bruciante e sferzante sotto la spalla sinistra e iniziai a nuotare verso riva. Era come essere spellata viva mentre venivo colpita ripetutamente. Mentre zoppicavo tra la sabbia in direzione della capanna infortuni in spiaggia, lo studente barbuto sembrava che mi stesse aspettando perché mi stava aspettando con in mano il tubetto di pomata speciale. Mi girai intorno per mostrargli la spalla e lo sentii dire, «Questa è brutta, moooolto brutta.» Stava dietro di me e aveva le dita sulle ferite. Era un’agonia ma mi stava toccando con molta dolcezza, mi stava mettendo la pomata a cerchio, e parlava in una voce che cominciava a rassicurarmi, come una madre, forse, non lo so.

«Ti ho vista andar via a nuoto. Non hai visto la bandiera?» La sua voce diventò più forte. «Ti stavo chiamando, Sofia».

Si ricordava il mio nome.

«Sofia Papastergiadis. Stai respirando?» «No».

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Stava gridando, come un fratello, forse come un amante, non lo so. Stava accadendo qualcosa di strano perché volevo buttarlo sul pavimento e farci l’amore. Ero colta dal desiderio. Un gran desiderio. Stavo cambiando in qualcuno che non riconoscevo. Mi stavo spaventando.

Mi prese la mano e mi aiutò a salire su un tavolino. Stavo sul fianco destro –non c’era verso di stare sdraiata sulla schiena- e mi dette un cuscino sottile per la testa. Quando prese una sedia e mi si sedette vicino, mi eccitai per il modo in cui si toccava la barba. La ferita mi stava elettrizzando. Sentii un fruscio. Ora se ne stava ritto a lavarmi via la sabbia dai piedi con un secchio d’acqua. Volevo che saltasse sul tavolo e coprisse il mio corpo con il suo, e gli volevo avvolgere le gambe intorno alla vita come un amante, e volevo dargli così tanto piacere da farlo urlare e buttare giù la capanna degli infortuni. Invece, mi dette la scheda da riempire.

Nome: Età:

Paese di origine: Occupazione:

Questa volta lasciai tutto in bianco, a eccezione che sotto Occupazione scrissi Mostro. Guardò il modulo e poi guardò me. «Ma tu sei una donna bellissima», disse.

La notte era umida e senza vento. Non riuscivo a dormire. Non c’era posizione che non desse fastidio alle lievi ferite sulle spalle e dietro e alle cosce. Avevo gettato a terra il foglio. Debole e assetata, devo aver avuto delle allucinazioni perché vidi mia madre accanto al mio letto. Sembrava molto alta. Una voce maschile vicina iniziò a sussurrarmi all’orecchio in spagnolo, a dirmi di visitare la città dell’attività mineraria di sale, Almadraba de Moltelva, le palme in Las Presillas Bajas e le montagne nere nel Cerro Negro. Sarà stato lo studente della capanna infortuni. Due ore dopo, nel mio delirio, riuscivo a sentire l’odore dell’acqua di colonia di Matthew. È entrato nei miei pensieri da quando ho visto i graffiti sulla parete della clinica. C’era qualcun altro nella mia stanza, che respirava, si nascondeva. Mi addormentai e quando mi risvegliai vidi una donna con i capelli arricciati alle punte come una stella del cinema all’antica. Indossava un abito da sera rosso, che lasciava scoperta la schiena, e teneva un barattolo nelle mani inguantate.

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