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modernità liquida architettura società e tempo

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Academic year: 2021

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modernità liquida

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Introduzione

Prima di addentrarci nel caso specifico di via Gola, occorre fare alcuni discorsi generali riguardanti i cambiamenti avvenuti nel mondo nel corso dell’ultimo cinquantennio, perché solo alla luce di questo nuovo tipo di società liquida, completamente diversa da quella solida ben strutturata del passato, è possibile intervenire nelle aree degradate. Bi-sogna cioè avere una visione più ampia, che oltrepassi l’interpretazio-ne classica e analizzi le motivazioni per le quali certe aree non hanno superato una chiusura ambientale che le ha portate a una forma di entropia e a un collasso.

Oggi è ormai distante quel lungo periodo di tempo che va dalla Rivo-luzione francese alla fine del XX secolo, stagione di grandi ideologie, alimentate sempre da energie di trasformazioni estreme e irreversibili, proprie di una società che ha cercato progetti e soluzioni definitive. L’Europa è uscita dal suo secolo forte costatando il declino dei suoi principali teoremi culturali e politici: dal fallimento dei programmi politici di destra e di sinistra, alla fine del primato etico del vecchio continente, alla crisi delle speranze della modernità razionalista euro-pea.

Il codice della modernità classica si presenta oggi come un concetto rigido, sopraffatto dalla fluidità dei commerci, dall’invasione delle innovazioni, dall’ingovernabilità dell’economia mondiale e da un am-biente in continua crisi di inquinamento.

Il neo-capitalismo, vincente in tutto il mondo dal 1989, può sopravvi-vere a costo di potersi riformare, modificare, quotidianamente mettere in discussione.

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Si è aperta una nuova epoca, sperimentale, attenta ai valori della nor-malità, con le sue eccezioni, in un contesto dove operano laboratori diffusi di avanguardie permanenti, alla ricerca di innovazione. Mentre però in passato la ricerca del nuovo era sempre rivolta alla scoperta del vero, dell’autentico, del nascosto sotto le sovrastrutture della storia, una ricerca che quindi di fatto ampliava il repertorio delle certezze a disposizione, oggi le avanguardie non solo non fanno riferimento ai modelli globali, ma soprattutto non dispongono di certezze stabili. Quali sono le energie intercettate?

Le energie deboli e diffuse della nuova politica, della natura, delle reti informatiche.

Siamo in un’ epoca non più di terremoti e traumi, ma di bradisismi sociali:

“non più le cattedrali forti e concentrate della vecchia modernità… ma piuttosto forze simili a quelle sviluppate dalle stelle, dalla luna e dai piane-ti, capaci di sollevare ogni notte tutti gli oceani del mondo, senza produrre un solo rumore.” Andrea Branzi1.

Cerchiamo dunque di chiarire questo concetto di debolezza.

François Kollar, Saint-Etienne, 1930, fotomontaggio

Esso non sottintende dunque nessun valore negativo di inefficienza o di incapacità, ma fa riferimento a processi di conoscenza e di trasfor-mazione che seguono le logiche naturali, processi diffusi, non concen-trati, strategie reversibili e auto-equilibranti.

Il concetto di pensiero debole fu introdotto per la prima volta da Gianni Vattimo2 che lo oppone al “pensiero forte” e totalitario del moderno. La crisi dei suoi fondamenti ha ormai messo in discussione la stessa idea di verità: non più una sintesi, ma una modalità di cono-scenza incompleta, imperfetta, disarticolata, ma duttile e, per questo, capace di recepire il nuovo e di confrontarsi con l’imprevisto e con la complessità che esso produce.

La parola debole, per di più, oggi viene usata in riferimento alle tec-nologie informatiche, alimentate dalle basse energie dell’elettronica. Si tratta di una tecnologia meno traumatica rispetto alla vecchia meccanica, ma in grado di modificare le dinamiche del lavoro (vedi la possibilità di svolgere attività lavorative da casa) dell’economia, della cultura e i rapporti stessi tra le persone (oggi basta una piattaforma internet per sviluppare relazioni sociali).

In questa nuova realtà urbana dove il soggetto coincide con il sistema, l’architettura non costituisce che un debole sistema connettivo di un coacervo di presenze umane, di relazioni, d’interessi, di scambi che riempiono totalmente lo spazio.

Oggi ciò che fa la differenza tra una città e un’altra, tra un quartiere e un altro non è più l’architettura, le sue forme, i suoi simboli, ma le presenze umane, i gesti, l’abbigliamento, la loro fisionomia.

Compren-Scheda elettronica Arrduino, l’hardware open source, distribuito nei termini della licenza Creative Commons che sfrutta basse energie.

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dere un quartiere significa intercettare la forza vitale dei suoi abitanti e dei flussi che lo attraversano.

Così la società e la sua energia liquida invadono ogni infrastruttura e dilagano fuori da ogni possibile forma, progettata per il loro conteni-mento.

Con questa logica, qualsiasi paradigma o modello organizzato è sem-pre da considerarsi transitorio, in attesa di un livello migliore. Gli architectural link corrispondono all’idea di un sistema reversibile e attraversabile, incompleto e imperfetto, adatto a contenere uno spazio fatto di reti, servizi, relazioni, e quindi sempre in grado di potersi ag-giornare cambiando nel tempo. L’imperfezione, il fatto di non sentirsi mai pienamente e definitivamente omogenei con l’ambiente fisico e storico, funziona positivamente, come motore stesso della progetta-zione perché spinge il sistema alla sperimentaprogetta-zione.

La città sperimenta nei suoi stessi spazi interni: nuove attività non previste trovano ospitalità dentro a un patrimonio altrimenti destina-to all’abbandono o al degrado. Le fabbriche ospitano università, i ga-sometri musei o residenze, si lavora in casa, si abita in ufficio, si fanno banche nelle chiese, gallerie nei garage, palestre nei laboratori. Inoltre la città, usata in maniera così indifferenziata, sembra funzionare me-glio e, anzi, è sintomo di una positiva reazione.

“Un sistema progettuale fuzzy3, quindi relativo e possibilistico, che

rea-lizza eventuali equilibri locali ma non presuppone sintesi più estese. […]

Particolare di un insieme di Mandelbrot

Dunque un progetto sereno debole e diffuso, dove si collocano singole ar-chitetture-logo di grande carica comunicativa. Oggetti di architettura che non rimandano a un’idea di città o a un’unità di scenario, ma a un nuovo medioevo senza cattedrali. Un medioevo connesso in rete..” 4

Questa architettura immersa nel tempo naturale, ciclico, il tempo degli uomini, dove si ha un inizio e una fine, si contrappone all’idea classica dove il monumento è il massimo testimone della storia, ma non appartiene alla storia, anzi si deve separare per rimanere eterno. I monumenti dell’architettura moderna non vengono demoliti, ma diventano flessibili, mutevoli, ibridi. Ibridi nella tipologia e nelle fun-zioni ospitate.

Così il tempo non è più un concetto lineare, perché in un’epoca di incertezza permanente il futuro non è che un insieme di possibilità, come fosse una nebulosa dispersa in tanti punti, non più una meta, ma una realtà che lavora nello stesso presente.

Non cambia solo la percezione del tempo, ma dello stesso spazio. Nell’epoca dell’informazione la storia e la geografia con i loro confini e limiti sono state abolite, sviluppando uno spazio virtuale, senza peri-metri, dove è possibile accedere a ogni portale distributore d’informa-zione.

Cosa significa oggi progettare e come questa nuova percezione dello spazio e del tempo influisce?

Cosa producono quindi le logiche deboli, le tecnologie informatiche sul mondo contemporaneo? Come muta la società, la città e l’architet-tura?

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ArchizoomAssociati, No-stop City, 1969-1972

A. BRANZI, Modernità debole e diffusa, Edizioni Skira, Milano 2006, pag.14

La logica fuzzy o logica sfumata è una logica in cui si può attribuire un grado di verità compreso tra 0 e 1.

A. BRANZI, Modernità debole e diffusa, Edizioni Skira, Milano 2006,pag.18 Gianteresio Vattimo detto Gianni (Torino 1936) è un filosofo e politico italiano. Tra i massimi esponenti della corrente postmoderna, ha teorizzato, insieme a Pier Aldo Rovatti, il pensiero debole, concetto che descrive un importante mutamento nel modo di concepire la filosofia, basata sull’idea di una crisi irreversibile delle tradizionali basi razionalistiche.

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Nel 2000 il sociologo polacco Zygmut Bauman ha pubblicato per le università di Oxford e di Cambridge il saggio Liquid Mo-dernity, nel quale si analizza il concetto di modernità all’inizio del XXI secolo.

Che cos’è la modernità e quali sono i tratti caratterizzanti che la contraddistinguono, come epoca storica, dalle precedenti?

Le risposte a questi due quesiti date da Bauman sono da rintrac-ciarsi nel mutato rapporto tra lo spazio e il tempo.

“Il tempo acquisisce una storia allorché la velocità di movimento nello spazio diventa una questione

di ingegno” 1

Nel rapporto tra lo spazio ed il tempo, lo spazio rappresenta il lato solido e stolido, e dunque pesante della medaglia, mentre il tempo rappresenta il lato fluido, dinamico e sempre cangiante di tale rapporto.

Il tempo diventa, nella nostra epoca liquida, l’aspetto più im-portate dei cambiamenti in corso. La seconda domanda, ovvero l’analisi dei tratti peculiari della modernità, ci porta direttamente al cuore delle tematiche trattate in questo libro, e dunque la que-stione posta da Z.Bauman suona così:

Società liquida

schema di un rizoma

Zygmunt Bauman, sociologo e filoso-fo polacco, pubblica nel 2000 il libro Modernità liquida

“la modernità non fu forse fin dall’inizio un processo di liquefa-zione?” 2

Partendo da questo quesito è possibile considerare la storia della modernità come un lungo processo di liquefazione continua di tutti quei corpi solidi che le società avevano precedentemente costruito.

Il termine liquido indica posi-tivamente per Bauman l’idea di uno stato della materia che non possiede forma propria, ma quel-la del suo contenitore e tende a seguire un flusso temporale di trasformazioni.

Il concetto di liquefazione appar-tiene ai processi primitivi della modernità come movimento di liberazione, come atto di fusione dei corpi solidi per costruire una società più stabile e duratura; i primi corpi solidi ad essere lique-fatti furono in generale gli obbli-ghi etici e religiosi che caratteriz-zavano e tenevano unite le società premoderne. In questa fase di liquefazione l’unico rapporto sociale, che resistette al cambia-mento, fu il rapporto di classe e dunque, da questo momento in poi, un nuovo tipo di razionalità prese la guida della società, e ciò lo possiamo descrivere marxia-namente come il primato dell’e-conomia intesa come razionalità

che governa tutte le altre vicende umane e sociali.

L’immagine che più di ogni altra esemplifica questa prima fase della modernità è, secondo l’autore, il Panopticon, questo luogo inventato da J. Bentham e ripreso da M.Foucault, nel quale le persone vivono costantemente controllate e sorvegliate dal pote-re, potere che poteva contare sulla sua velocità e facilità di sposta-mento per tenere sotto controllo i propri sudditi: “Il dominio del

tempo era l’arma segreta del potere dei leader” 3. Un’altra immagine può chiarire, tra le tante, cosa abbia significato il potere di con-trollo sul tempo: la fabbrica for-dista con la sua standardizzazione del tempo di lavoro nella catena di montaggio.

Questo modello di relazione tra controllori e controllati compor-tava il reciproco coinvolgimento tra gli attori in campo e di fatto inchiodava il potere allo stesso suolo dove i controllati svolgeva-no le proprie attività.

La liquefazione, che la prima modernità si proponeva, non pre-supponeva quindi la formazione di uno stato liquido permanen-te, ma rappresentava una fase transitoria per la formazione di nuovi e più resistenti corpi solidi. Questa ricerca di fondamenta fu

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per Bauman senza successo per la cultura e per la politica, ma alla base del formarsi dello spirito imprenditoriale del capitalismo moderno e della sua capacità di costruire grandi e stabili imperi economici.

Nella nostra fase di modernità, che l’autore definisce liquida, il modello panottico e tutte le strutture sociali ad esso collegate sono definitivamente entrate in crisi: questi contenitori, questi corpi solidi sono diventati nelle attuali società ad alta complessità degli organismi estremamente rigidi, a causa dell’enorme sforzo normativo che essi devono com-piere per coordinare la moltepli-cità del reale.

Il vuoto operativo che ne risulta è per Bauman riempito dalla fles-sibilità del sistema: spontaneismo dei comportamenti individuali e delle iniziative locali, dalla ri-forma costante delle normative e dall’azzeramento dei vincoli. Deregulation, liberalizzazione delle imprese, flessibilità, fluidità sindacale, libero accesso ai mer-cati rappresentano il processo in-verso a ciò che il moderno solido aveva realizzato come contenitore dello stato liquido del moderno. Così si assiste all’identificazione tra imprenditorialità e società, tra economia e sovrastruttura, tra

spontaneismo e politica. Tra flui-dità delle istituzioni e fluiflui-dità del mercato.

La fusione dei corpi solidi ha aperto una nuova fase della storia umana, che da molti è stata in-terpretata come fine della storia o come fine della modernità, ma che l’autore definisce preliminar-mente come post-panottica; essa tuttavia esibisce ancora il tratto caratteristico della modernità, ossia la sempre inarrestabile spin-ta alla modernizzazione. Quesspin-ta fase di liquidità attraversa aspetti importanti della nostra vita so-ciale come ad esempio il lavoro, la comunità, l’individuo, il rapporto tra lo spazio e il tempo, e infine, ma non ultimo in ordine di im-portanza, l’idea di libertà e quella ad essa collegata di emancipazio-ne.

Emancipazione

L’idea di libertà che il concetto di emancipazione tiene legata a sé, viene analizzato da Bauman par-tendo da un pensatore, H.Mar-cuse4, e da una scuola di pensiero, quella di Francoforte, che nel dopoguerra europeo misero al centro delle loro ricerche critiche il rapporto tra il cittadino e la società, e dunque il rapporto tra

libertà e oppressione.

L’obiettivo, che tale filosofia cri-tica si poneva, era la liberazione dell’individuo da tutte quelle routine e forme standard di vita che la società industriale poneva come base del contratto sociale; l’emancipazione individuale, se-condo la teoria critica, passa at-traverso un radicale ripensamento del rapporto tra individuo, società e stato, quest’ultimo considera-to quale guida del percorso di emancipazione. Una concezione del genere era, però, esposta al rischio, attuato, del totalitarismo, questo spettro della modernità solida, che viene ben esemplifica-to, secondo l’autore, dal Panopti-con di Bentham/ Foucault o dal libro 1984 di G.Orwell.

L’idea di Bauman in merito al valore e all’attualità della teoria critica così esposta è che questa concezione, nella modernità li-quida, assomigli alla metafora del “modello camping”: nei camping, infatti il visitatore, qualora qual-cosa non funzioni, può lamentarsi con la direzione e al limite estre-mo può andar via dal camping. Ma assolutamente non avverrà mai che il visitatore sostituisca la direzione stessa nella gestione del campeggio.

La metafora del camping esem-plifica, secondo l’autore, la fine

della teoria critica così come l’abbiamo conosciuta attraverso la scuola di Francoforte: nella mo-dernità solida la società era con-siderata come una casa comune, nella quale bisognava solamente istituzionalizzare le norme ed i comportamenti dei cittadini; la metafora del camping chiarisce invece che la società, intesa come casa comune, è ormai tramontata all’orizzonte nella modernità li-quida. Scrive l’autore:

“Le cause del cambiamento sono più profonde, radicate nella profonda trasformazione dello spazio pubbli-co” 5.

Questi cambiamenti, uniti, inol-tre, alle fine delle paure legate agli spettri orwelliani, hanno por-tato molti autorevoli pensatori a sostenere la fine della modernità e della storia della modernità. Sostenendo una posizione molto originale, Bauman scrive della nostra modernità “il massimo

che si può dire è che è moderna in modo diverso” 6 ; la nostra società, secondo il sociologo polacco, si distingue dalla modernità appena trascorsa, principalmente per il grado di fluidità delle struttu-re che la animano, ma è ancora moderna in quanto la sua spinta verso la modernizzazione non si è ancora esaurita.

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distin-guono questo periodo fluido da quello solido precedente: in primo luogo, la fine dell’idea di progresso come risultato della modernizzazione e, in seconda istanza, i processi di privatizza-zione e deregolamentaprivatizza-zione dello stato mettono fine al progetto moderno di individuo-cittadino. La contraddizione tutta fluido moderna tra le aspettative dell’in-dividuo e quelle del cittadino, è ben esemplificata dalla differen-za tra individuo de jure (dirit-ti-doveri) e l’individuo de facto (capacità di autoaffermazione). Questo divario, secondo Bauman, sta lentamente distruggendo lo spazio pubblico, il luogo principe della politica, intesa come ridefi-nizione costante dei diritti e dei doveri del cittadino.

Se la teoria critica classica è mor-ta e sepolmor-ta in quanto, i soggetti a cui era rivolta, come il cittadino, lo stato, si sono ormai sciolti nella fluidità della nostra epoca, il pro-cesso di emancipazione non si è disciolto, e dunque, per rilanciar-lo, abbiamo bisogno di una nuo-va prospettinuo-va, all’interno della quale inserire la teoria critica: tale prospettiva è, in epoca fluida, col-mare il più possibile il divario tra l’individuo de jure e l’individuo de facto: “Oggi è la sfera pubblica

a dover essere difesa dall’invasione

del privato, e ciò paradossalmente, al fine di accrescere, non di ridurre, la libertà individuale” 7 .

Individualità

Il passaggio dalla modernità soli-da a quella fluisoli-da indica che tutte le certezze su cui si è costruita la modernizzazione fino ad oggi stanno venendo meno, sostituite da una fase di sfrenata deregola-mentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali; non sorpren-de, allora, che questa nuova fase veda al centro del suo sviluppo proprio l’individuo.

Gli uomini e le donne che po-polano le società avanzate sono sempre più convinti che il loro successo/insuccesso dipenda esclusivamente dalle loro proprie capacità, senza nessun soccorso da parte della società (intesa in modo ampio); ci troviamo, in-somma, nella situazione in cui, tramontato il sogno di una auto-rità centrale, sia essa lo stato o il capitale, che garantisca la strada per il progresso, il mondo si tra-sforma in una distesa di opportu-nità pronte ad esser colte dai sog-getti, per guadagnare il maggior numero di soddisfazioni possibili:

“Il mondo pieno di possibilità è come

Diagrammi con distribuzioni gerar-chiche centralizzate, policentriche, distribuite.

un buffet ricolmo di prelibatezze che fanno venire l’acquolina in bocca” 8 Chi può aiutarmi a raggiungere gli obbiettivi giusti? Questa sem-bra essere la domanda più impor-tante che si pone il soggetto nella modernità fluida, e le risposte a questi quesiti fondamentali per ogni individuo vengono portate direttamente a casa dai talk-show televisivi, il cui scopo è appunto quello di risolvere i problemi pri-vati portandoli al pubblico dibat-tito. Secondo l’autore, ci troviamo dinanzi a una vera e propria colo-nizzazione della sfera pubblica da parte di problematiche che fino a poco tempo fa erano di pertinen-za esclusiva della sfera privata. Attraverso questi esempi, il so-ciologo polacco ridefinisce il confine tra la sfera pubblica e quella privata; il fatto che i pro-blemi privati invadano lo spazio pubblico della discussione, non traduce queste problematiche in questioni pubbliche ma, ed è l’aspetto più importante, toglie lo spazio a tutti gli argomenti perti-nenti alla sfera pubblica. Il primo risultato di tale condotta è la fine della Politica come argomento di dibattito pubblico, e di conse-guenza la fine dell’agire politico del cittadino.

Nella modernità liquida è il consumo la priorità di ogni

indi-viduo, e principalmente il consu-mo/acquisto di identità personali attraverso l’identificazione. Que-sto genere di mercato delle iden-tità ben si combina con i processi di flessibilità propri della moder-nità liquida, ma, avverte l’autore, il genere di consumismo che riguarda le società di oggi è ben diverso dal fenomeno del consu-mismo dell’epoca solido moder-na; in questa, infatti, il consumo era inserito nella dialettica del bisogno/mancanza, mentre, nella modernità liquida, il consumo è rivolto unicamente verso l’appa-gamento dei desideri. La natura autoreferenziale del desiderio, che ha per oggetto se stesso, chiarisce bene come il fenomeno consumo divenga così una compulsiva ri-cerca di soddisfazione che non si esaurisce mai e dunque infinita. Spazio e tempo

L’incontro tra le persone nei luo-ghi e nei non luoluo-ghi pubblici è innanzitutto l’incontro tra estra-nei. Il fenomeno principale che si può riscontrare in questi incontri è definito dall’autore come buona creanza, attività che garantisce la reciproca compagnia tra le per-sone, e al contempo una giusta distanza tre le stesse, che mette al

riparo da un loro possibile coin-volgimento più stretto.

I luoghi pubblici sono classificati dall’autore in due categorie di-stinte.

La prima è rappresentata dalla piazza, descritta non più come un luogo di incontro tra persone, ma come spazio atto a ospitare sola-mente il passaggio degli indivi-dui. Questo luogo è, dunque, uno spazio pubblico, ma non civile. La seconda categoria di spazio pubblico (ma non civile) è iden-tificata dall’autore con i luoghi di consumo, i quali “stimolano

l’a-zione ma non l’interal’a-zione” 9. L’in-terazione tra i soggetti in questi luoghi è resa difficoltosa dal fatto che, il consumo che qui si produ-ce è un’attività che si espleta solo individualmente.

Se la prima categoria di spazio pubblico segue fedelmente la strategia emica, tendendo alla rapida espulsione delle persone, i luoghi del consumo invece ri-specchiano la strategia fagica, in quanto spingono ad una rapida omologazione/digestione dei consumatori.

Alle caratteristiche descritte, l’au-tore aggiunge una terza classifi-cazione dei luoghi pubblici, uti-lizzando il concetto di non-luogo descritto dal sociologo francese

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M. Augé10; i non-luoghi hanno la caratteristica di essere al contem-po dei luoghi emici e dei luoghi fagici, come dimostrano ad esem-pio gli aeroporti. I non-luoghi rappresentano degli spazi vuoti di significato, proprio perché in essi non si sviluppa nessuna inte-razione tra le persone che dia un senso al luogo di passaggio. Insomma, nei luoghi pubblici non civili è mancante il confronto e l’interazione tra le persone che vi transitano. Se l’incontro tra persone comunque non può esse-re impedito, se ne sterilizzano le conseguenze.

L’autore sembra quindi denun-ciare la perdita della capacità da parte delle persone, ritrovatesi estranee le une alle altre, di defi-nire un progetto di vita in comu-ne: “Il progetto di sfuggire

all’im-patto della multitonalità urbana e trovare rifugio nell’uniformità co-munitaria, è autolesionistico quanto autoperpetuantesi” 11. Il progetto comunitario è inteso dall’auto-re come la risposta più ovvia e prevedibile alla fluidità dei rap-porti sociali che caratterizzano la nostra modernità liquida, ma questa prevedibilità della risposta comunitaria non cancella, secon-do Bauman, il circolo vizioso che genera il comunitarismo: l’incon-tro tra estranei, nonostante “le comunità” , è sempre possibile e

appartiene agli accadimenti ine-liminabili della nostra vita, seb-bene il comunitarismo percepisca l’altro-estraneo come pericolo fondamentale della comunità. Anche questo aspetto della nostra vita pubblica indica chiaramente la crisi profonda della politica, intesa come negoziazione e reci-proco contrasto tra individui. L’analisi del tempo è compiuta partendo dall’importanza che questo ha rivestito a partire dagli albori della modernità pesante:

“La modernità è il tempo nell’epoca in cui il tempo ha una storia.” 12. Nella sua storia moderna, il tem-po è stato inizialmente identi-ficato con il tempo che occorre per attraversare uno spazio; al contrario, nella modernità fluida il tempo, come approssimazione all’istantaneità, garantisce l’e-quivalenza di qualsiasi luogo in rapporto al tempo per raggiun-gerlo, e dunque ciò sancisce la predominanza del tempo come fattore di dominio sullo spazio. Questo passaggio è così cruciale da essere paragonato dall’auto-re al passaggio dal capitalismo hardware (modernità pesante) a quello software. Nel capitalismo software, il tempo considerato come istantaneità è un fattore così importante da essere para-gonato allo stesso avvento del capitalismo: l’istantaneità

trasfor-ma ogni momento (di tempo) in un momento infinito, ne deriva l’idea dell’immortalità, l’illusorio sogno dell’uomo, che viene ad identificarsi con l’infinità di ogni momento.

La predominanza del tempo, considerato come istantaneo-im-mortale, rappresenta un cam-biamento epocale, in quanto sia il passato che il futuro, in una società in cui ha valore solo l’i-stante, perdono di senso come coordinate della vita di ogni in-dividuo, sostituite dalla filosofia del carpe diem. L’autore conclude domandandosi sarcasticamente quale tipo di mondo potrà mai derivare da questa concezione della vita intesa come istantanei-tà.

La casa e l’abitare

Ma cosa significa oggi vivere? Se vivere è lasciare dei segni, stabilire legami tra presente passato e futuro, come è possi-bile vivere in una società in cui i cambiamenti si verificano in modo così rapido e simultaneo, dove si producono nuove strut-ture familiari, sempre provvisorie perché esse stesse mutevoli. Non esiste ad oggi nessun contenitore,

involucro, modello associato a strutture familiari o meno. Non esiste un modello che risponda a stili di vita eterogenei, con diversi modelli di comportamento e stili tempi di vita.

Esistono solo contenitori etero-genei e flessibili.

Il tempo perde la sua relazione con il passato e con il patrimonio culturale. Diventa discontinuo, pieno di episodi controllati. Le connotazioni di vicino e lontano si trasformano, da una perce-zione fisica concepita come un controllo dello spazio. Vicino è lo spazio dove ci sentiamo a nostro agio. La casa diventa un supporto digitale, un nodo in una rete che interagisce socialmente con gli altri, mettendo in atto un nuovo sistema domestico. Come è possibile recuperare quel rap-porto con lo spazio esperienza, con il tempo per poter godere delle nostre azioni quotidiane? Al giorno d’oggi non c’è differenza tra il privato e il pubblico in un “vivente ibrido” che assume il carattere comune della casa resa allo stesso tempo pubblica. Vive-re inteso come “staVive-re in un posto per molto tempo”, ha ridotto il tempo a disposizione nelle abita-zioni, estendendolo ad altre aree di permanenza. La vita scorre in modo fluido, fuoriesce da un luogo all’altro e la casa

tradizio-nale si trasforma in uno spazio di passaggio. L’abitante, che assume un nomadismo ciclico, può però indentificare come casa quei luo-ghi dove sono presenti i propri effetti personali. In una società in cui il tempo si trasforma in spa-zio produttivo, la casa può essere stabilita come spazio per l’immu-nità, uno spazio di coscienza e di apprendimento individuale, e allo stesso tempo collettivo, per co-struire un nuovo immaginario so-ciale che lega la nostra esperienza all’ordinario.

La casa diventa uno spazio con scale multiple dal micro (espe-rienze, costumi, movimenti del corpo, oggetti, relazioni ...) alla macro (uno spazio utilizzato per il collegamento di ogni angolo del pianeta). Abitare diventa un dispositivo complesso che com-prende non solo strutture archi-tettoniche, ma anche regolamenti, leggi, provvedimenti ammini-strativi, affermazioni scientifiche, filosofiche e filantropiche.

Le famiglie si evolvono e questo è il motivo per cui trasformazio-ne, adattamento e flessibilità sono elementi innegabili dell’abitare. Un abitante tende sempre a per-sonalizzare il proprio ambiente e allo stesso tempo a cambiare il proprio stile di vita nel corso del tempo. Questo si può riflet-tere nella non definizione di uno

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spazio, nella definizione di un terreno di cambiamento, di pos-sibilità, di espansione, costruibile, modificabile, in grado di adattarsi ai tempi del corpo e della mente. L’utente è noto, ma le sue esigen-ze future non sono progettabili e le trasformazioni prodotte dagli utenti possono generare interfe-renze negative nello spazio do-mestico.

Josep Quetglas13 dice: “the home of our time does not exist yet. There is a house that is not ours, the house from other time that is not ours, and it does exist our home, from us, inhabitants, who we have no time. Who is out of time does not live, or live a fictio-nal life.”

E se tra spazio privato, spazio pubblico, ovvero i due spazi in dissoluzione, si inserisse un tem-po collettivo?

Lavoro

Altro pilastro della moderni-tà solida è l’idea di progresso. Questo concetto che concepisce il tempo presente come un pe-riodo di trasformazione verso il futuro, ha rappresentato per più di un secolo la spinta che ha

per-messo il definitivo slancio della società moderna verso il mondo. Questa idea si è sviluppata in sistemi sociali quanto mai stabili e impermeabili a qualsivoglia variabile casuale che ostacolasse quest’opera di immensa costru-zione; per Bauman nella nostra epoca fluido-moderna non c’è più spazio per l’idea di progresso proprio perché tutta la nostra vita è rivolta a cogliere solo gli aspetti gratificanti del carpe diem. A conti fatti, oggi l’idea di progresso non è sparita del tutto dall’orizzonte delle nostre società, ma semplicemente, come gli altri aspetti che abbiamo analizzato, si è modificata radicalmente; il progresso, nelle società liquido moderne, non è più governato da autorità centrali, come lo stato, che ne guidano lo sviluppo, ma è al contrario lasciato al servizio di tutti i soggetti privati che ne vo-gliano far parte.

In quest’ottica il lavoro è stato, nella modernità pesante, l’attività fondamentale di quest’opera di trasformazione, corollario dell’i-dea di progresso.

Proprio questa attività, ci ram-menta l’autore, sta subendo, sotto i colpi della modernità liquida, le trasformazioni più radicali nella sua lunga storia: l’analisi parte dagli albori della modernità, quando il lavoro fu scisso

dall’at-tività dello scambio, trasforman-do così il lavoro (ed il lavoratore) in una merce come le altre nelle mani del capitale, ed arriva ad oggi in cui lo storico rapporto tra lavoro e capitale si è modificato con “l’avvento del capitalismo leggero e fluttuante, caratterizza-to dal disimpegno e dall’allenta-mento dei legami che uniscono capitale e lavoro.” .

Allentamento e disimpegno stan-no a significare che il capitale ha rotto definitivamente il suo ma-gico rapporto con il lavoro, non volendo più essere incatenato con esso al suolo; chiara indicazione di ciò è la crescente flessibilità (precarietà) che investe il mondo del lavoro e che sta trasformando milioni di lavoratori in liberi pro-fessionisti della flessibilità. Il lavoro oggi si acquista, al pari di altre merci, in negozi appositi, acquisendo in questo modo la precarietà e l’instabilità della vita di ogni individuo.

I cambiamenti che il sociologo polacco ha individuato nel mon-do del lavoro hanno delle riper-cussioni profonde nei rapporti tra individui in quanto queste tra-sformazioni inducono le persone a riconsiderare la propria esi-stenza secondo i valori della so-cietà dei consumi. Dunque, ogni rapporto, da quello lavorativo a

quello sociale, viene considerato alla stregua di un prodotto da consumare; tutti i rapporti umani insomma, avverte Bauman, non sono più costruiti collettivamen-te, ma consumati individualmen-te.

In un’epoca così fluida nei cam-biamenti, non ci si stupisce più della difficoltà che incontrano gli individui a costruire collettiva-mente un’alternativa a questo si-stema di cose, proprio perché tali trasformazioni hanno reso la vita così piena di possibili errori che ognuno tenta, individualmente, di porvi rimedio.

Comunità

La flessibilità dei legami sociali che abbiamo descritto fino ad ora, ha come risultato paradossale quello di aumentare il fascino dell’idea comunitarista dei rap-porti interumani. Paradossale perché la società fluido-moderna spinge senza sosta verso l’indivi-dualizzazione di tutti i legami so-ciali, mentre la proposta comuni-tarista spinge a creare una nuova solidarietà tra gli individui della comunità, che sappia controbi-lanciare la crescente insicurezza del mondo fluido moderno.

L’aspetto paradossale che viene messo in luce riguarda il fatto che l’idea di comunità è divenuta imprescindibile dalla nozione di identità, sebbene l’una rappresen-ti il limite dell’altra; la nozione di identità è per definizione una concezione esclusiva, mentre il concetto di comunità, avendo alla sua base eros come forza unifi-cante, tende ad unire più membri possibili.

La comunità delle identità sem-bra allora essere utile per sanare il divario crescente tra l’individuo de jure e l’individuo de facto, che si può considerare come uno degli aspetti più particolari della modernità liquida, in quanto è all’interno delle comunità - iden-tità che l’individuo è recuperato come unicità non divisibile. Dopo aver descritto le varie for-me di comunità, distinguendo tra quelle che ritrovano l’unità attra-verso la similitudine delle proprie identità (nazionalismo), e quelle che, al contrario, si costituiscono sulla base di una negoziazione costante delle differenze (mo-dello repubblicano), l’autore ci avverte che quest’ultima è “la sola

variante di unità che le condizioni di modernità liquida rendono com-patibile, plausibile e realistica.” 14 . La novità che il neo-comuni-tarismo ha portato alla ribalta

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deriva dunque dal fatto che, l’ap-partenenza ad una comunità (di identità), non rappresenta più un fattore rigido di appartenenza, ma è un processo di autoprodu-zione individuale che può sempre essere messo in discussione e ri-negoziato; la comunità, insomma, è oggi l’unico luogo nel quale si trova riparo dalle crescenti insi-curezze fluido-moderne, sebbene essa possa anche essere il maggior ostacolo all’integrazione tra in-dividui di culture diverse, come dimostra il melting pot della so-cietà statunitense.

Un ultimo aspetto viene infine analizzato dall’autore all’interno della sua analisi sulla comunità, ed è il rapporto tra lo stato e la nazione; nella modernità solida, l’idea di nazione era strettamen-te legata all’idea di stato, o più precisamente, ne rappresentava il senso e l’unità stessa. Nella nostra epoca fluida assistiamo invece al crescente divario di queste due linee una volta parallele, in quan-to l’idea di nazione si sta sempre più frammentando nelle diverse comunità e lo stato, come potere costituzionale, sta lentamente e inesorabilmente abdicando le sue funzioni primarie, come dimo-strano bene i processi di privatiz-zazione dei suoi servizi, sotto la spinta dei poteri globali, primo tra tutti il capitale, che

impon-gono le proprie regole all’intero mondo.

A dimostrazione della validità di questo ragionamento, Z.Bauman cita la triste vicenda della guer-ra jugoslava, una guerguer-ra che ha dimostrato bene qual è il prezzo che si paga dinanzi al rifiuto di adesione alle nuove regoli globali, e di come uno stato possa essere disintegrato in comunità fuse in lotta tra loro.

In conclusione, il lavoro di Bauman, utilizzando le analisi sociologiche sulla società con-temporanea, ha come compito principale quello di indicare alla ricerca sociologica una nuova strada che sappia coniugare la ricerca oggettiva sul campo con le aspettative di comprensione che la società, come unione degli individui, le richiede, al fine di costruire una società che si riap-propri della capacità di analizza-re, pensare e valutare criticamente tutte le scelte che essa si impone, diminuendo il più possibile gli argomenti su cui non sia possibile esprimere un’opinione. Si tratta di una sociologia che ha come punto di riferimento l’individuo, inteso come depositario della li-bertà di scelta e opinione, ma che tuttavia, nella società dei media e dell’informazione, sta perdendo la sua capacità di analisi critica e di interazione con gli altri

indivi-dui. Occorre allora che gli uomini indirizzino i processi di moder-nizzazione verso le loro esigenze, non abdicando questo potere nel-le mani dei cosiddetti esperti che si propongono come i soli depo-sitari della facoltà di scegliere.

ZYGMUNT BAUMAN, Modernità liquida, Edizioni Laterza, Bari, 2002, pag. XV

ibidem pag XV ibidem pag XVI

Z. BAUMAN, Modernità liquida, Edizioni Laterza, Bari, 2002, pag. 14

Z. BAUMAN, Modernità liquida, Edizioni Laterza, Bari, 2002, pag. 118

Z. BAUMAN, Modernità liquida, Edizioni Laterza, Bari, 2002, pag. 209 Ibidem, pag. 18

Ibidem, pag. 124

Josep Quetglas (Palma 1946) architetto spagnolo vivente è professore al Politecnico universitario della Catalogna.

Ibidem, pag. 48 Ibidem, pag. 62 Ibidem, pag. 107

Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935) è un etnologo e antropologo francese. È noto per aver introdotto il neologismo nonluogo, utilizzato per indicare tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici.

Herbert Marcuse (1898-1979) filosofo, politologo tedesco è stato tra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte, nata nel 1922. Negli Stati Uniti comparvero le sue due opere principali: Triebstruktur und Gesellschaft 1955 (dt. 1965) e Der eindimensionale Mensch 1964 (dt. 1967). Entrambe sono annoverate tra le opere più importanti della teoria critica (Kritische Theorie) e sono tra le opere centrali del Movimento Studentesco degli anni sessanta in tutto il mondo.

1 2 3 5 11 14 6 12 13 7 8 9 10 4

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Il disfacimento della città:

confronto tra due libri

I due libri rispettivamente di Leonardo Benevolo e di Stefano Boeri affrontano il problema del disfacimento della città, da due punti diversi: il primo secondo positivismo razionalista, il secondo proponendo un rinnovamento nei modi stessi di lettura.

La fine della città di Leonar-do Benevolo1 e L’Anticittà di Stefano Boeri2, sono due libri, entrambi pubblicati nel 2011, che affrontano il problema del disfacimento della città, da due punti diversi, il primo, da quello del pensiero “modernista” e, il secondo, da quello “post-moder-nista”. Da un lato abbiamo, con Benevolo, un libro-intervista, che racconta le vicende dell’urbanisti-ca nazionale attraverso lo sguardo di uno dei più noti storici dell’ar-chitettura. Dall’altro, con Boeri, una raccolta di scritti rielaborati a partire da testi pubblicati per lo più sul “Sole 24 ore”, del noto architetto-urbanista.

Di fronte alla realtà urbana e alla sua disgregazione, Benevolo pone un’istanza generale di ricerca di possibili soluzioni, bisognosa quindi di premesse, di analisi cri-tica e di proposte, articolate

chia-ramente in una sequenza logica riconoscibile.

Boeri invece assume il problema come dato interiorizzato e non critica le sue disfunzioni mate-riali, ma ricerca un rinnovamento dei modi di lettura dei problemi, in una proposta generale di ana-lisi.

Nel primo caso si respira ancora quella tensione al “progresso”, che oggi però sembra perdere forza, essendo il processo di crescita non più lineare, ma disperdendosi in una galassia di molteplici pos-sibilità.

Nel secondo caso non c’è tensio-ne salvifica, ma identificaziotensio-ne con lo stato delle cose «Perché

l’anti-città, ci piaccia o no, siamo noi» 3, e l’assunzione del carattere

anti-urbano della città contem-poranea a stato definitivo della nostra evoluzione.

La fine della città

Il presupposto della fine della città è individuato da Benevolo nell’assenza di un limite leggibile degli insediamenti contempo-ranei, contrapposti all’idea tra-dizionale, che per millenni ha trovato corrispondenza fra teoria e pratica del concetto di città, di un dentro ed un fuori della stessa, cioè di una sua dimensione chia-ramente misurabile e di una sua delimitazione netta. Le città sono state sempre alla portata di una loro percorribilità pedonale e di una correlata percezione come di un insieme compatto e unitario da parte dei suoi abitanti. Oggi non è più così, l’unità dell’inse-diamento urbano è messa in crisi da una miriade di insediamenti puntuali tra loro sconnessi e non conformi a nessun disegno orga-nico, le distanze sono colmabili solo per mezzo delle automobili e i riferimenti sono impossibili senza la mediazione di appendici satellitari informatizzati. La città contemporanea sembra apparire come il risultato spaziale dello sviluppo capitalistico fondato sul presupposto dell’illimitatezza delle risorse e su un’idea lineare di crescita infinita che si oppone all’idea storica di centro urbano. Più esplicite risultano invece le considerazioni sulle possibilità,

non frequentate in Italia da parte dell’intervento pubblico, di in-taccare i meccanismi di mercato delle aree e le rendite derivate. Il principio politico osservato fin dall’immediato dopoguerra nell’urbanistica italiana resta il compromesso, fra amministrazio-ni comunali e possessori dei suoli, al quale si subordina l’intervento pubblico. La rendita fondiaria non è stata intaccata dall’lna-Ca-sa, che quasi sempre ha compera-to i terreni a prezzo di mercacompera-to e quando ha ottenuto di risparmia-re, perché acquistava fuori città, ha comunque fatto un favore ai proprietari valorizzando i suoli circostanti. Uno degli effetti di queste politiche, quello che più interessava milioni di cittadini, è stato che i prezzi delle case non sono stati affatto calmierati. Il caso di Brescia è uno dei pochi casi in cui l’intervento pubblico è stato capace di volgere a proprio favore i meccanismi della rendi-ta. I terreni venivano acquistati dal Comune nelle zone in cui si riteneva che la città dovesse espandersi. Venivano realizzate le opere pubbliche e le infrastruttu-re e poi i terinfrastruttu-reni erano rivenduti ai costruttori privati che avreb-bero edificato, ad un prezzo che non solo consentiva di ottenere il pareggio di tutta l’iniziativa, e dunque di non gravare sui bilanci

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urbana

naturale

rurale

Le tre partizioni omogenee, le grandi campiture della sfera urbana, rura-le e naturarura-le, presenti nel territorio tradizionale, oggi subiscono processi di estensione e ritrazione dell’urbano, ritrazione del rurale, riduzione della sfera naturale.

comunali, ma che era al tempo stesso, di molto inferiore a quello normalmente pagato per le aree fabbricabili private.

Anticittà

Oggi la città fatta di case, strade, piazze, rete di relazioni, scambi, vita comunitaria va dissolvendosi nell’Anticittà, ovvero la forma postmoderna di ogni spazio abi-tato. In quest’ultima prevale l’in-dividualismo, la frammentazione, e la frustrazione proprie di una anti-società illegale e senza sboc-chi, che scopre che la mobilità sociale è un miraggio. Dall’altra prevale l’omologazione di miglia-ia di concittadini, resi simili nelle credenze, nelle aspettative e negli stili di vita. Sono loro gli abitanti dell’anticittà: sono, ad esempio, le diciassettemila famiglie che a Napoli dichiarano reddito zero

o i diecimila senza fissa dimora delle fabbriche dismesse di Mila-no, parenti stretti dei bambini che abitano i sotterranei di Bucarest, delle famiglie che vivono nel ci-mitero del Cairo o delle migliaia di immigrati di Dubai.

Se l’idea più importante alla base della città è che più persone diverse vivano vicino, quindi l’u-nione di persone diverse in modo che vivano insieme, nell’anticittà invece si verifica il fenomeno op-posto. Persone simili vivono per proprio conto, non dialogando, ma nello stesso territorio. Sono le nuove forme di urbanizza-zione che Stefano Boeri chiama le “unità minime di territorio”4: edilizia solitaria, frammentata, ammassata senza ordinaria ripe-tizioni di forme, totalmente fun-zionante al proprio interno, ma nella totale assenza di relazioni e di dialogo con l’esterno.

Si origina un tessuto caleidoscopico che rappresenta i territori ibridi in tran-sizione, perchè ancora incerti. Macchie di leopardo che occupano il territorio europeo.

Quartieri di villette, capannoni, palazzine, nuove forme di ghetto stanno nascendo sul territorio non solo a Milano, ma anche a Roma, Napoli, Firenze e in altre città europee con migliaia di edifici, uffici vuoti dove chi si incrocia non si vede. Trionfa l’in-dividualismo solitario e lo spazio privo di storia che vede nel centro commerciale il maggior punto di aggregazione per i giovani e non solo.

La città contemporanea è il

ri-sultato di fenomeni contingenti, si conforma effettivamente come somma di «villette, capannoni,

centri commerciali, palazzine, box, officine. [...] espressione di piccoli frammenti della nostra società (la famiglia, la piccola impresa, l’a-zienda, volutamente isolati dallo spazio pubblico e indifferenti alle sue regole»5.

Essa è infatti costruita dai privati e in qualche modo determinata dalle loro possibilità economiche, in relazione ai propri bisogni, dalla localizzazione diffusa e non concentrata delle loro proprietà e dal livello della loro personale

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cultura architettonica. In definiti-va si può dire che è il risultato di una società antropologicamente strutturata dalla proprietà privata, cosa che nega all’origine l’esisten-za di una “regola pubblica” dello spazio costruito. Il quadro che viene fuori da questo insieme, prende la forma di “monadi

edi-lizie” 6(il lotto di terreno con un

edificio al centro) utilizzate come piccoli bunker domestici in cui la privazione di relazioni con l’ester-no è sostanzialmente surrogata dall’irruzione delle tecnologie informatiche, che ci mettono in connessione pur stando fermi. Se Benevolo ancora ripone fidu-cia negli strumenti dell’urbanista, come deus ex machina della tra-gedia urbana, Boeri dà invece una lettura diversa. La città contem-poranea con le sue disfunzioni è assunta come dato di fatto, pro-dotto della stessa società. Emerge comunque una nuova chiave di lettura, e una proposta generale. Boeri parla di rinnovamento de-gli strumenti di lettura della città nell’ottica di auto-limitazione, ovvero di una «forma di sospen-sione dell’agire, del costruire, dell’occupare», come necessario espediente per il «cambiamen-to di prospettiva delle politiche urbane prodotto da un’etica non antropocentrica, cercando di passare a un’etica fondata sui

bi-sogni dell’uomo, piuttosto che su quelli del mercato e sulla struttu-ra territoriale. In questa visione gli interventi del pubblico e del privato devono tenere conto di tre parametri: l’urbano, il rurale e la natura. L’urbano, ovvero lo spazio costruito, per tradizione risponde a una visione antropo-centrica, contrapposta alla natura, che è a sua volta lo spazio al di fuori, non controllato dalle leggi dell’uomo, esso in un’auspicabile ottica non antropocentrica deve dissolversi, liquefarsi per lasciare invece entrare la natura. Il rinno-vamento deve svolgersi partendo dall’ascolto dei bisogni e delle esigenze dei singoli individui, ma deve far in modo che la natura stessa penetri nella città: la natura potrà mostrarsi nel suo aspetto privo di regole, come teorizzato nel manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément, o nella sua forma di dialogo e connessione con l’uomo, rappresentato dagli spazi coltivati. In questo contesto si inseriscono gli orti urbani e i corridoi verdi, che rendono i luo-ghi abitati più vivibili.

Quei territori ibridi, in transi-zione, descritti nel libro, possono evolversi verso un confuso amal-gama di paesaggi sovrapposti, oppure verso una nuova geografia per un ambiente più ricco, perché diversificato e sfaccettato.

Ciò può avvenire non più come hanno creduto gli architetti, dise-gnando piazze, viali, centri civici, perché questi esistono già, ma non sono frequentati e non crea-no coinvolgimento. Serve invece pensare prima alla vita vera, alla vita pulsante, alle funzioni, per ri-creare comunicazione e scambi. Vediamo ancora il concetto di Anticittà nel suo rapporto con la società e come questi due aspetti vadano a coincidere.

Per Boeri i due cardini della con-dizione umana, la coesione e la varietà sociologica, sono colpiti l’uno dalla frammentazione e l’al-tro dalla specializzazione.

Da una parte infatti la frammen-tazione e il distanziamento in unità minime è il frutto di una ricerca identitaria da parte della società nello spazio minuto, un’e-nergia dissipativa che ha libero sfogo nei territori periurbani, o agisce sotto traccia con barriere, cancellate nella città consolidata.

Dall’altra la specializzazione fa sì che lo spazio urbano venga scan-dito in aree commerciali, centri finanziari, quartieri mono-etnici, zone di lusso, accentuando sem-pre di più la frammentazione sociale.

Quali sono in conclusione le re-sponsabilità dell’architetto? Se Benevolo rintraccia nel pub-blico l’ente adatto alla risoluzione dei problemi, in Anticità emerge l’idea di una politica forte che, dopo una collettiva presa di co-scienza della situazione, ridefini-sca i tre ambiti d’azione, ovvero l’urbano, il rurale e il naturale, ponendo l’uno ad argine dell’al-tro.

Nasce una nuova etica urbana, non antropocentrica, che con nuove forme d’azione cambi le prospettive nelle politiche urba-ne: demineralizzazione e rinatu-ralizzazione.

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Leonardo Benevolo (Orta San Giulio, 25 settembre 1923) è un architetto, urbanista e storico dell’architettura italiano. Tra le sue opere si ricarda “Le origini dell’urbanistica moderna”, Bari, Edizione Laterza, 1963

Figlio dell’architetto e designer Cini Boeri e del neurologo Renato Boeri, è fratello di Tito, economista, e Sandro, giornalista.Nel 1980 si laurea in Architettura al Politecnico di Milano e consegue nel 1989 il dottorato di ricerca in Urbanistica all’Università IUAV di Venezia[1]. Professore ordinario di Progettazione Urbanistica al Politecnico di Milano[2], è visi-ting professor in varie università tra cui il Berlage Institute di Rotterdam, il Politecnico di Losanna, lo Strelka Institute di Mosca. Ha partecipato attivamente alla politica nell’area del Partito democratico ed è stato asses-sore alla cultura nella giunta del Comune di Milano con sindaco Pisapia. Tra i suoi principali progetti si ricorda Bosco verticale - torri residenziali, 80 e 110 m, complesso residenziale sulla biodiversità, Milano, Italia, 2014 1 3 4 5 6 2

S. BOERI, Anticittà, Edizioni Laterza, Bari, 2011, pag. 23 Ibidem, pag XVI

Ibidem, pag 30 Ibidem, pag 9

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Immagine della città oggi

a un’opera musicale o a un libro, essa non appartiene invece alla città, che difficilmente presenta un carattere unitario.

Così Giandomenico Amendola3 nel suo libro Tra Dedalo e Icaro esamina dieci modelli di città tra cui la città sostenibile, la città spettacolo, la città impresa e così via. Nessuna tipologia descrive in maniera definitiva le nostre me-tropoli reali, ma ciascuna ne rac-conta una faccia, una sfumatura. Sembra quindi utopistico pensare a una scala XL dell’architettura funzionante a livello estetico. E forse la via è proprio questa: la bellezza delle singole parti della Come si forma l’immagine di una

città contemporanea?

Kevin Lynch1 scrive nel suo libro più famoso:

“Nessuna meraviglia quindi se l’arte di dare alla città una forma che possa essere goduta è un’arte del tutto distinta dall’architettura, o dalla musica, o dalla letteratura. Da queste altre arti essa può muta-re molto, ma non le può imitamuta-re… Non v’è alcuna città americana più ampia di un villaggio, che esibisca un carattere coerentemente estetico, benché alcune città presentino parti piacevoli.” 2

Se la coerenza quindi appartiene

città, che riprendono vita e si ricuciono al tessuto, senza però perdere la propria specificità. Un grande meccanismo, tante piccole suggestioni.

Nel cercare di individuare e di costruire l’immagine di una me-tropoli così ampia come Milano, partendo dalle immagini stesse che si formano nelle menti dei suoi cittadini, è bene tener conto che è impossibile tracciare un’im-magine unitaria, sia della città, sia dei suoi stessi quartieri.

La chiarezza apparente o la leggi-bilità del paesaggio urbano si di-sgrega e si liquefà in una miriade di immagini. Si formano non più un’immagine, ma più immagini, nella frammentazione. Si può parlare oggi di mappe eclettiche, sempre cangianti che si rinno-vano a seconda della prospettiva e del soggetto: fatti di cronaca, carta delle vocazioni, mappe dei bisogni, assenze, vuoti, chiacchie-rate informali, suoni, rumori, luci. Lynch prosegue:

“La chiarezza apparente o la leg-gibilità del paesaggio urbano… con questi termini intendiamo la facili-tà con cui le parti della citfacili-tà possono venire riconosciute e organizzate in un sistema di simboli riconoscibili. Così sarà leggibile quella città, in quartieri riferimenti, o percorsi che

risultino chiaramente identificabili e siano facilmente raggruppabili in un sistema unitario.” 4

“c’è ovviamente qualche pregio nell’illusorietà, nel labirinto, nella sorpresa di un ambiente… a due condizioni… di non smarrire la forma fondamentale o l’orienta-mento, o di non riuscire ad uscirne. La sorpresa deve capitare in seno ad uno schema generale: lo sconcerta-mento deve essere limitato a piccole parti di un sistema leggibile… il caos completo senza alcuna traccia di connessione non è mai piacevole.”

5

“Smarrirsi nella città moderna” è un fatto che, se anche può ap-parire paradossale, può con fre-quenza succedere.

Quindi cosa succede se da un ambiente ordinato, dalla città borghese con i suoi palazzi im-provvisamente ci ritroviamo in quella che può essere considerata a pieno diritto una periferia de-gradata, come catapultati in un film di mafia e spaccio? Avremo bisogno di elementi che ci ten-gano per mano, una bussola che ci mostri in ogni istante la via d’uscita. Bussola e al contempo traccia della città vicina.

Il quartiere oggetto della tesi, per i problemi di degrado sociale e di degrado fisico, ha impressa

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su di sé un’immagine negativa e slegata completamente dal con-testo cittadino in cui si trova. Ciò da una parte risponde alla dinamica contemporanea della frammentazione e a pieno diritto fa del quartiere un frammento di Anticittà, in estrema sintesi per i seguenti motivi:

- Si inserisce in un tessu-to frammentatessu-to, dove la zona di lusso è giustappo-sta all’area di spaccio e ad aree di degrado estremo. - L’insediamento si

specia-lizza, essendo presenti in-dividui simili nei costumi e nella posizione sociale

- Mancano relazioni e scambi con il contesto. - La ricerca identitaria è

interiorizzata, cioè interna al gruppo di appartenenza (appartenenza religiosa e al gruppo sociale)

- Desertificazione immo-biliare

D’altra parte si pone il problema del superamento di questa imma-gine negativa attraverso gli stru-menti dell’architettura, e quelli della sociologia.

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A Milano da sempre la città nuova si innesta su quella antica stabilendo nuove visioni. Così i nuovi palazzi legandosi a immagini passate sembrano acquisire un’anima. I nuovi grattacieli parlano ai campanili, dietro Bosco Ver-ticale sorge un vecchio palazzo coperto d’edera. Quartieri popalari degli anni cinquanta si riappropriano dello spazio di una vecchia cascina. Il grattacielo Velasca si impone sulla milano storica, con la stessa scala urbana del Duomo.

Kevin Andrew Lynch (Chicago, 1918 – Martha’s Vineyard, 1984) è stato un urbanista e architetto statunitense. Il libro più famoso di Lynch, L’immagine della città, pubblicato nel 1960, è il risultato di una indagine durata cinque anni sul modo in cui i frequentatori delle città percepiscono lo spazio urbano e organizzano le informazioni spaziali che ricevono ed elaborano durante le loro esperienze.

K. LYNCH, L’immagine della città, Edizioni Marsilio, Venezia, 2008, pag. 24

K. LYNCH, L’immagine della città, Edizioni Marsilio, Venezia, 2008, pag. 24

K. LYNCH, L’immagine della città, Edizioni Marsilio, Venezia, 2008, pag. 27

Giandomenico Amendola è professore ordinario di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, dove è anche re-sponsabile del CITYLAB, il Laboratorio Interdisciplinare sulla Vulnera-bilità Sociale e la Sicurezza Urbana.

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Vediamo ora casi di inversione di tendenza, di rottura del tessuto individualistico, dove vengono promosse condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni, dove si supera l’impoverimento dei rapporti e si riprende il con-trollo sociale del territorio e il senso di appartenenza.

Questo avviene o in maniera spontanea con in iniziative a par-tire dal basso, come nel caso delle social street, o in forma guidata seguendo un disegno architetto-nico e politico.

Social street

Social street nasce dall’idea di Federico Bastiani, un residente di via Fondazza a Bologna, che nel settembre del 2013 fonda il gruppo Facebook “Residenti in via Fondazza”

“Mi sono accorto che non conoscevo nessuno dei miei vicini nonostante da qualche anno abitassi in questa strada. Ho deciso di aprire un grup-po su Facebook e di stampare una cinquantina di volantini per coin-volgere anche chi non fa uso della tecnologia”.1

L’obiettivo del Social Street è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza

Casi di inversione

di tendenza

Social Street sono gruppi facebook nati a partire dal 2013 con l’intento di recuperare scambi e relazioni tra vicini di casa, o abitanti della stessa strada.

economy, rete di solidarietà: dalla cassetta degli attrezzi messa in comune, alla lavatrice, ai cinefo-rum, i social dinner, le serate di musica, i saggi di pianoforte e di danza per strada e così via. L’esperienza messa in rete si è diffusa e ha contagiato non solo Bologna, ma molte altre città italiane e ad oggi si contano circa 400 social streets.

Edi Rama, Tirana, Albania L’artista Edi Rama2 dopo la caduta del regime comunista decide di tornare nella sua città d’origine. Tirana era infatti una città allo sbando. Senza piani ur-al fine di instaurare un legame,

condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, por-tare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo a costi zero, ovvero senza aprire nuovi siti, o piattaforme, Social Street utilizza la creazione dei gruppi chiusi di Facebook. Nasce sul virtuale, perché inizial-mente le persone non si cono-scono, per poi passare al reale, e come dicono i suoi membri “dal virtuale, al reale al virtuoso”, per-ché virtuosi sono i rapporti che si instaurano, una sorta di sharing

Condizioni di urbanità promosse dal sindaco di Tirana: i cittadini si rim-possessano della città colorando gli edifici, e superando la situazione di caos e di speculazione edilizia dopo la fine del regime.

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banistici, i cittadini erano spinti ad accaparrarsi suoli pubblici, costruendo edifici abusivi e can-cellando parchi e giardini. Divenuto sindaco nel 2000, dà una svolta imprevista al governo della città. Di fronte all’immagi-ne stravolta della città dove però scorreva un’energia di rivalsa da parte dei cittadini, decide dap-prima di colorare le facciate degli edifici, con colori scelti da lui stesso, poi comincia a chiamare artisti di fama internazionale e architetti per fare altrettanto. Capovolgendo l’apatia e la diffi-denza nei confronti dello spazio pubblico, scatena la partecipazio-ne dei cittadini partecipazio-nel rinnovamento

del volto della città.

Con questa performance urbana in poche settimane viene supera-to il grigio universale della città ex comunista, causato da decenni di regime.

Sergio Fajardo, Medellin, Colombia

A Medellin divenuta capitale del narcotraffico, il neo sindaco, il matematico Sergio Fajardo, decide di potenziare e diffondere la cultura a partire dalle zone più degradate della città, affidando ai migliori architetti i progetti di

A Medellin, incastonata in mezzo alle favelasa, la biblioteca disegnata da Giancarlo Mazzanti nel 2008, di-venta simbolo della rinascita culturale della città.

scuole e biblioteche. Così il pro-getto della biblioteca disegnata da Giancarlo Mazzanti3 nel 2008, incastonata in mezzo alle favelas è divenuta il simbolo di questa rinascita.

Renato Soru4, Sardegna

La stessa logica del “meglio nel posto peggiore” viene seguita an-che da Renato Soru, imprendito-re italiano divenuto governatoimprendito-re della Sardegna. Capisce che il turismo è una risorsa da sfruttare accostata alle risorse vitali della regione, cioè artigianato

agricol-tura viticolagricol-tura. In coerenza con questa scelta, a Cagliari realizza un museo che ospita reperti della cultura nuragica e opere d’arte contemporanea. E non solo, nella scelta del sito, va controcorren-te evitando il centro cittadino, zona di maggiori flussi turistici, e sceglie il quartiere popolare di Sant’Elia, insediamento di edili-zia economica e popolare isolato dal resto della città, noto per il suo degrado e per gli atti di vio-lenza.

Serpentone Reload è un progetto di coinvolgimento dei cittadini nella rige-nerazione di una porzione del Cocuz-zo, un quartiere della periferia storica di Potenza caratterizzato da un’elevata densità abitativa, forti conflitti sociali e percepito nell’immaginario cittadino come simbolo del degrado urbano.

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F.BASTIANI, da intervista

Edi Rama (Tirana, 4 luglio 1964) è un politico albanese, attuale Primo ministro dell’Albania in carica dal 15 settembre 2013.

Giancarlo Mazzanti, nato nel 1963 a Barranquilla in Colombia, è un architetto che lavora a Bogotà

Renato Soru (Sanluri, 6 agosto 1957) è un imprenditore, politico e dirigente d’azienda italiano, fondatore di Tiscali e della disciolta Andala UMTS, ex Presidente della Regione sarda, carica che ha ricoperto dal 2004 al 2008, quando nel novembre ha rassegnato le dimissioni. 1

2 3 4

Gentrificazione è un termine poco usato nel linguaggio po-litico, soprattutto italiano, ma rappresenta un aspetto molto importante delle dinamiche so-cio-economiche urbane e, come sostiene Giovanni Semi, socio-logo dell’Università di Torino, estremamente attuale e attuato dalla politica nostrana.

Per gentrificazione s’intende un fenomeno di ‘sostituzione sociale’ dei residenti di un quartiere, un tempo popolare, che avviene per effetto di ristrutturazioni, con il conseguente aumento dei prezzi. Problematica su cui bisogna porre attenzione in riferimento al caso oggetto della tesi che si occupa di

riqualificazione di case popolari inserite nel centro cittadino mi-lanese.

Il termine, coniato dalla sociolo-ga Ruth Glass1 nel 1964, deriva dalla parola inglese gentry che identifica la piccola nobiltà che andava a sostituire, nei quartieri rinnovati della Londra di quegli anni, la classe operaia che aveva abitato in quelle zone quando erano degradate.

«Le città – spiega l’autore – sono una metafora urbana della violenza economica che regola il mondo post-fordista. Le amministrazioni cittadine operano come soggetti economici, quindi rispondono a logiche di mercato e col mercato

Casi di gentrificazione

Gentrification è la definizione scienti-fica e sociologica (coniato nel 1964 dal-la sociologa Ruth Gdal-lass) che indica il progressivo cambiamento dei quartieri urbani e l’innalzamento dei valori im-mobiliari dovuto all’arrivo delle classi medie al posto di quelle popolari, con la relativa espulsione di queste ultime.

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hanno più prossimità che coi cittadini». «Gli organi di governo nazionali e sovranazionali –

con-tinua Semi- hanno creato un

si-stema di competizione tra le grandi città per il reperimento di capitali che vanno a comporre il budget am-ministrativo. I Giochi olimpici ne sono un esempio»2.

Quando un quartiere operaio si popola di nuovi abitanti borghesi, cambia il tipo di negozi, il tipo di vita notturna, la qualità degli spazi pubblici e soprattutto sale il prezzo delle case. Gentrificazione è un fenomeno troppo importan-te per dover ancora combatimportan-tere contro i negazionisti, cioè quelli che sostengono che la gentrifi-cation non esiste, che è solo la dura legge del mercato, o che in Italia non succede, o che non si può comparare con l’America o l’Inghilterra. Negli Stati Uniti il dibattito è molto acceso, la paro-la viene usata regoparo-larmente sui giornali, e anche se ci si scontra tra chi è a favore e chi è contrario, difficilmente si nega l’esistenza del fenomeno; anche perché or-mai da mezzo secolo gruppi di cittadini lottano contro la gentri-fication dei loro quartieri.

Oltre ai negazionisti, ci sono poi i giustificazionisti: quelli che, magari in buona fede, sostengono che i pregi della gentrification sono maggiori dei difetti, che i

quartieri gentrificati un tempo erano troppo degradati, e che tutti i giovani o gli studenti che ci sono andati a vivere in realtà hanno portato un gran beneficio. La proliferazione di queste tesi è stata descritta in un articolo di Tom Slater, intitolato Mis-sing Marcuse3, in cui si evocava la figura dello studioso Peter Marcuse4, che per tutta la vita ha insistito che non si può parlare di gentrification senza parlare di displacement, cioè di espulsioni. Se in un quartiere entra gente nuova, c’è sempre qualcuno che se è dovuto andare via; i quartieri migliorano, sì, ma non per i vec-chi abitanti, che sono spinti in periferia, dove magari hanno case più salubri, ma perdono lo spazio, le reti di relazioni, il privilegio di vivere in centro.

Chi studia la gentrification, an-che nei casi migliori (come nel libro Evicted from Eternity di Michael Herzfeld5 sul quartiere Monti a Roma), tende a concen-trarsi su quelli che sono rimasti, non su quelli che sono andati via. Ripescare chi da Monti è dovuto andare a vivere nel “serpentone” di Corviale, o in borgata, è molto difficile, e spesso è ancora più dif-ficile fare le domande giuste per capire veramente com’è stato quel passaggio, e che conseguenze ha avuto.

le posizioni che ammettono che la “scoperta” (o conquista?) di territori isolati da parte di giovani che vogliono recuperare una di-mensione di quartiere porta gio-vamento anche agli abitanti locali – forse proprio Torpignattara a Roma è un caso di questo tipo – credo però che ci sia una chiave di volta di tutta la questione. Il punto è questo: quando cer-chiamo di capire come si passa da un quartiere degradato a un quar-tiere gentrificato, ci stiamo inte-ressando solo alla seconda parte di un fenomeno. La domanda più importante è quella che non si pone: perché questi quartieri era-no degradati? Come è avvenuto In Italia le tesi giustificazioniste

emergono dove meno lo si aspet-ta. Un’intervista di qualche anno fa alle attiviste romane di Tuba Bazar6 al Pigneto si concludeva proprio con una tesi giustifica-zionista sulla gentrification del quartiere, un tempo attraversato da costanti conflitti, in cui razzi-smo e classirazzi-smo si confondono, mentre oggi è capoluogo della classe creativa.

A partire dal libro di Semi, pos-siamo dire che il fenomeno in Italia esiste, ed è riconosciuto. Ora si tratta però di riscattarlo dall’ambivalenza che avvolge tutti i discorsi che lo riguardano. Per quanto siano interessanti anche

Scena dal film Accattone, di Pier Paolo Pasolini.

Pasolini amava Torpignattara, la Marranella, il Pigneto, e nella realtà dura e violenta della periferia degli anni ‘60 aveva saputo cogliere una dimensione poetica inattesa. Per questo, inconsciamente, avendo messo in luce e reso di moda questi quartieri, si rende “colpevole” di gentrification.

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