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Proposte concrete per salvare l’appello civile - Judicium

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Academic year: 2022

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GIROLAMO MONTELEONE

Proposte concrete per salvare l’appello civile (*)

(*) Il testo riproduce l’intervento svolto nell’incontro di studio,organizzato dall’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile e dal Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Firenze, tenutosi il 12-4-2013 in Firenze.

Scopo del mio intervento programmato in questo Convegno, dedicato dalla nostra Associazione all’esame delle recentissime leggi sulle impugnazioni civili, è quello di avanzare alcune proposte operative, realizzabili immediatamente e senza aggravio di costi, per risollevare l’appello civile dal baratro in cui è stato spinto. Ovviamente, tutto ciò nel presupposto che lo si voglia salvare, perché non si è a mio parere lontani dal vero nel pensare che la progressiva sterilizzazione ed emarginazio ne del gravame (con la scusa che non è assistito da garanzia costituzionale) mirino in definitiva alla sua soppressione adducendo che mantenerlo in vita, nei termini angusti e costosi in cui è stato ridot to, sarebbe ormai inutile. Del resto questo concetto è stato espresso a chiare note proprio in questa sede nell’intervento del Presidente del Tribunale di Firenze.

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Prima di proporre rimedi e riforme di qualsiasi tipo, comprese quelle da ultimo introdotte con il D.L. 22-6-2012 n. 83 convertito in L. 7-8-2012 n. 187, occorre individuare con precisione le reali cause del male che si vuole curare. Nel caso dell’appello civile è molto facile scoprirle.

L’abisso in cui sono cadute le omonime corti non è stato determinato né dalla (oggi) soppressa facoltà di proporre in esso nuove eccezioni, o da quella di introdurre nuove prove, di depositare nuovi documenti o dalla mancata previsione di motivi più o meno specifici di gravame.Tutti questi aspetti, sui quali ha insistito ossessivamente il nostro legislatore con la continua manipolazione de gli artt. 342-345 c.p.c. e dintorni, sono al nostro attuale fine del tutto irrilevanti, così come lo sono state le varie modifiche legislative susseguitesi dal 1990 ad oggi, che non hanno minimamente evitato i ben noti e sopravvenuti inconvenienti: lentezza, inefficienza, approssimazione.

La causa del gravissimo male è stata, invece, l’introduzione generalizzata del giudice unico di primo grado: riforma che, se ha peggiorato in tutti i sensi lo stato della giustizia civile, sia nei tempi che nei modi, si è rivelata particolarmente perniciosa per i suoi nocivi e ben prevedibili effetti nel secondo grado di giudizio. Infatti, a parte le pronunce del giudice di pace, dal 2000 in poi gli appelli contro le sentenze di primo grado confluiscono tutti nelle omonime corti, rimaste, però, immutate nelle sedi, nel numero dei magistrati addetti e nel personale ausiliario. Prima, invece,si distribuiva no tra una pluralità di organi giudiziari secondo il giudice a quo.

Le statistiche giudiziarie provano all’evidenza tale assunto.

Anzitutto il loro esame serve a sfatare una leggenda, sovente ripetuta per dare una spiegazione di comodo del malfunzionamento della giustizia civile: l’eccessiva litigiosità del popolo italiano, che si tradurrebbe in un continuo aumento delle controversie. In realtà almeno a partire dal 2000 si nota una chiara tendenza alla diminuizione delle cause e/o affari sopravvenuti innanzi al tribunale, motivo per cui l’aumento del numero degli appelli contro le sentenze emesse dal detto organo non è dovuto alla pretesa litigiosità degli italiani, né ad un aumento in assoluto del contenzioso 1.

1 Da fonti ISTAT si ricava che i nuovi procedimenti sopravvenuti in tribunale dall’anno 2000 in poi variano

da 800.000 circa a 870.000 circa l’anno con punte di 750.000 circa, quindi ben al di sotto degli 1.065.551 procedimenti di primo grado che nel 1998 si contavano cumulativamente tra pretura e tribunale.

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La causa, come dicevasi, la si rinviene nel fatto che oggi tutti i gravami devono proporsi innanzi ad un solo organo giudiziario, la corte di appello, nella quale confluiscono tutte le sentenze impugnate provenienti dai tribunali del distretto, sia giudice unico che collegio. Prima della eliminazione delle preture e della introduzione del giudice unico di primo grado esistevano ben tre giudici di appello: il pretore rispetto al conciliatore (poi giudice di pace); il tribunale rispetto al pretore; la corte rispetto al tribunale; dal 2000 ne esiste in sostanza solo uno (a parte il caso del giudice di pace). Di conse guenza, come le statistiche giudiziarie dimostrano, si è passati da una sopravvenienza media innan zi alle corti di 25.000/30.000 nuovi appelli per anno negli anni novanta del secolo scorso, ad una di circa 100.000 appelli per anno nel contenzioso ordinario e di circa 70.000 in quello di lavoro a parti re dall’anno 2000 in poi. Nelle varie corti di appello arrivano, quindi, circa 170.000 nuove cause l’anno.

Parimenti, l’arretrato, che prima del giudice unico di primo grado si attestava in appello a circa 80.000 controversie, oggi supera le 500.000 unità 2.

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A questo punto è chiaro che per alleviare il carico delle corti e tentare di riportarlo a livelli fisiologi ci in proporzione al loro numero ed alla loro composizione, occorre cercare di abbattere sostanziosa mente e con effetto immediato ed automatico l’elevato contenzioso che le affligge. Sono a tal fine del tutto inutili le riforme recentemente introdotte sui motivi di appello, sulla rapida dichiarazione di inammissibilità, ec. ec., perché, se tutto andrà bene, i loro effetti cominceranno ad avvertirsi tra alcuni anni, mentre nell’immediato aggravano, e di molto, il lavoro dei giudici creando anche com plicazioni pressoché inestricabili dovute alla scadente qualità tecnica delle nuove norme.

La migliore e più radicale soluzione sarebbe quella di sopprimere il giudice unico di primo grado e reintrodurre il sistema precedente; ma ciò creerebbe problemi organizzativi di vasta portata e di difficile risoluzione, anche se occorrerebbe seriamente porsi il problema in prospettiva di un adegua to ripensamento sull’opportunità di conservare l’attuale assetto giudiziario di prima istanza.

Bisogna, invece, cercare di utilizzare in modo più razionale le strutture oggi disponibili.

Propongo in questa ottica di impiegare più proficuamente i collegi in tribunale, incidendo con oppor tune modifiche sull’art. 50 bis c.p.c.

L’idea è quella di giungere ad una diversa ripartizione degli affari tra giudice unico e collegio nello ambito del medesimo tribunale – ciò che non da luogo a questioni di competenza in senso proprio – in modo di giungere ad una suddivisione al 50% degli affari tra l’uno e l’altro attraverso un criterio composito di materia e valore. Ciò fatto, occorre stabilire che l’appello contro le sentenze pronuncia te dal giudice unico sia rivolto al collegio, di cui non può far parte il magistrato che ha emesso la sentenza. Stesso criterio può ben adottarsi per le controversie di lavoro.

L’appello contro le sentenze emesse dal tribunale collegiale continuerebbe a proporsi, invece, alla omonima corte.

Con questo sistema il carico delle corti d’appello verrebbe immediatamente dimezzato, mentre i collegi di tribunale, allo stato esistenti ma praticamente inoperosi e/o sottoutilizzati, verrebbero chiamati a svolgere una utile funzione senza che vi sia necessità di particolari sforzi organizzativi, né di assunzione di nuovo personale.

Le norme regolatrici del giudizio di appello resterebbero immutate in entrambi i casi.

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2 Tutti i dati sommariamente riferiti sono tratti da fonti ISTAT-

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La soluzione prospettata non costituirebbe, per altro, una novità in assoluto, poiché esistono già vari indici normativi e precedenti in questo senso.

Anzitutto l’esperienza positiva del reclamo cautelare, il quale opera proprio secondo il meccanismo sopra descritto: il provvedimento cautelare emesso in prima battuta dal giudice unico di tribunale può essere reclamato al collegio, di cui costui non può far parte.

La recente legge 28-6-2012 n. 92 in materia di impugnazione dei licenziamenti individuali prevede una opposizione interna al primo grado di giudizio contro l’ordinanza emessa in prima battuta dal giudice adito, ed infine contro la sentenza pronunciata sull’opposizione è previsto un reclamo alla corte d’appello.

Ricordo ancora che all’epoca dell’introduzione del giudice unico di primo grado per le controversie di lavoro fu previsto un regime transitorio, per il quale l’appello contro le sentenze di primo grado continuava a proporsi al tribunale collegiale, anziché alla corte d’appello. Il sistema funzionò benis simo e l’arretrato fu smaltito in tempi ragionevoli.

Ancora più risalente è l’art. 28 della legge 20-5-1970 n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), il quale in materia di repressione della condotta antisindacale prevede anch’esso una opposizione entro il grado avverso il decreto che ordina in via di urgenza la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione dei suoi effetti.

In conclusione, con un minimo di buona volontà e di accortezza si può restituire dignità ed efficacia all’appello civile senza vessare parti, avvocati e giudici con formule e sistemi astrusi di dubbia effi cacia e con esose imposizioni fiscali.

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